Non mi sono mai considerato un fotografo per l'ovvia ragione di non esserlo, non avendone né l'abito né i modi, né gli interessi o la competenza tecnica specifica. Eppure in questi dieci anni di lavoro la fotografia é stata da me frequentata variamente ed usata come veicolo essenziale della comunicazione artistica secondo molteplici declinazioni espressive: concettuale filosofica analitica (L'identità/Il tempo, 1976), poetica intimistica narrativa (Alice, 1977), soggettiva lirica emotiva (Norwid, 1979), magica archetipica alchemica (Archetipi della notte, 1980; Stelle, 1981; Cuori veneziani, 1982). In tutti questi casi non mi sono mai posto il problema della fotografia in sé, tanto meno quello della fotografia cosiddetta artistica, ma ho semplicemente usato uno strumento che sentivo congeniale per le sue qualità ai bisogni della mia fantasia, secondo un rapporto che, in assenza di tecnicismi, é stato costantemente caratterizzato dall'anomalia e dall'arbitrarietà, insomma dalla massima libertà formale, allo scopo di dar vita ad una immagine che, nell'assolutezza del proprio valore, fosse riconducibile ad una precisa area di significazioni e riconoscibile per la sua appartenenza ad una specifica poetica, così come io credo debba essere per un quadro. Dunque ho sempre e solo cercato di fare dei quadri partendo dal presupposto di una possibile estensione dei linguaggi dell'arte, oltre che di una loro interferenza. La fotografia mi consente di operare con immediatezza sulle forme della realtà, adeguandole al filtro del soggetto che percepisce, così come la pittura mi consente di travestirle di ulteriori significati. (L. Viola, 1982) |
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Luigi Viola
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