Prefazione


Curioso il titolo di questa raccolta. Suona come un gioco di parole: Momenti di versi. Sono le poesie momenti di versi, e diversi al tempo stesso? Ma, prima ancora di tentare una risposta, soffermiamoci un poco sull’effetto visivo, più che sonoro, di questa paroletta: di versi; diversi. Grande dono della parola scritta! Basta uno spazio in più, o uno in meno, e subito si aprono nuovi orizzonti di senso, nuove possibilità di riflessione. Siamo certi che questo aspetto della scrittura non è sfuggito a Luciano Somma, navigato poeta napoletano forse abituato, in virtù dell’assidua produzione in vernacolo, a scoprire i tesori nascosti dentro i circuiti che segretamente si creano all’interno di una cosa solo apparentemente esplicita e arida come il vocabolario. È anche questo a rendere le poesie momenti diversi, a dare loro la caratteristica inconfondibile della scoperta.

             Come rendere l’idea di questo processo? Fuori c’è un mondo sempre piatto, sempre uguale; dentro c’è un uomo con il suo occhio, il suo orecchio, la sua sensibilità. A lui sta interpretare il mondo, trovare parole vecchie e nuove grazie alle quali rielaborare situazioni e persone conferendo loro spessore, originalità, senso; disegnando così un mondo nuovo, pazientemente e intelligentemente depurato di tutto ciò che non è essenziale. Perché, in fondo, la poesia altro non è che la ricerca dell’essenzialità; e la storia della letteratura ci insegna che nessun’altra forma espressiva sa arrivare diritta al cuore delle cose con tanta potenza e lucidità.

                  Certo non è facile dirsi poeta. Non è un titolo che si possa acquistare frequentando scuole o svolgendo professioni particolari. Possiamo osare di chiamarlo dono? Ma sì, osiamo. La poesia è un’esigenza, una specie di febbre, una cosa che ce l’hai oppure no. Senza vie di mezzo. Poi, è ovvio, la lunga frequentazione  del verso, la lettura, lo studio dei grandi sono tutti strumenti che affinano la sensibilità e di conseguenza la tecnica. Ma la vera poesia, anche se può imitare le forme, non potrà mai ripetere un solo contenuto. Questa è la sua ardua e incomparabile bellezza. Questo fa di ogni singolo verso una sfida al tempo che passa: i versi restano lì, eterne pietre, a incastonare per sempre il tormento e la gioia dell’essere uomo.

                       I poeti sanno di essere, a volte, voci scomode. Succede sempre a chi guarda le cose con troppa lucidità, scavalcando d’un balzo tabù e convenzioni sociali. Non a caso la raccolta di Somma si apre con una lirica dal significativo titolo Perdonateci. Perdonateci –scrive l’autore – se rifiutiamo limiti e frontiere / e trasformiamo / fili spinati in palpiti d’amore / non ci è concesso forse d’impazzire? Poesia è dunque sinonimo di pazzia? Anche, perché no? Già i greci lo sapevano. Non dobbiamo avere paura delle parole. La pazzia, come la poesia, può essere una condizione drammatica e privilegiata al tempo stesso, che conferisce nuove ali al pensiero. A queste ali, con sensibilità e intelligenza, Somma si affida. Per volare a ritroso nella propria vita, come la farfalla di Ti sembrò, e ritrovare antiche emozioni, antiche speranze. Il filo della memoria corre attraverso tutte le poesie della raccolta, legandole tra loro come tanti anelli di una catena che poco a poco, forse all’insaputa e certo con stupore del poeta stesso, si ricompongono disegnando il profilo di una vita già per metà vissuta. Si intravede un’infanzia contadina in cui lo splendore del sole e della giovinezza temperano solo in parte l’asprezza di un lavoro ingrato, la fatica del vivere quotidiano (Quasi al tramonto / lasciavo i campi / con le spalle curve / e un senso indefinibile / di rabbia / per il magro raccolto ereditato / da una lunga fatica / e lei in attesa / ricca di pazienza / sull’uscio della casa intonacata / rafforzava radici / di una speranza / quasi affievolita); ed ecco poi svelarsi un presente ricco di agi ma, forse, ormai vuoto di attese; un presente fatto di libri e lenzuola pulite che non servono a colmare assenze irreparabili. Ma il pessimismo che esplode, ad esempio in Ora (ora che è sera / non ci saranno palchi in prima fila / per vedere le stelle), non si fa mai lamento. Somma non versa lacrime sul tempo che fu, né si culla in morbosi stati d’animo fatti di autocommiserazione per la giovinezza trascorsa: si legga in tal senso, di nuovo, la lirica intitolata Ora, dove compare l’albero maschio in cui è forse possibile ravvisare il poeta stesso e la trasformazione che egli ravvisa in sé (in quel giardino / dove ogni fiore / aveva sempre un nome femminile / mentre l’albero maschio / la pretesa / di vivere la sua virilità / incurante del vento di libeccio / che con la sua salsedine piegava / di giorno in giorno i rami / indebolendo le radici e il tronco… Quell’albero  in giardino / è diventato un blocco di cemento). La maturità, acquisita e accettata nonostante tutto, comporta una certa dose di sopportazione del dolore proprio e altrui. Dolore e sofferenza esistono, si possano spiegare o no. Questo Somma lo sa. E per questo, senza timori, li guarda in faccia, fissandoli nelle tenere spalle di un bambino costretto a portare una croce che lo spezza (Mirko) o, ancora, nella scheggia d’una mina portata in volo da un passero con le ali insanguinate (Waterloo). Esiste una certezza in questa assurda Waterloo? Nessuna risposta è possibile. Solo il passero, chissà, ha sfiorato Dio, prima di spiccare il suo volo. Noi, è la coraggiosa conclusione del poeta, si resta qui / a contare il trascorrere dell’ora / volta sicuramente all’imbrunire / in lenta attesa d’una lunga notte.

 OLIVIA TRIOSCHI


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