Perdonateci
questa
dannata voglia
di
vivere in un mondo
a
forma di colomba
e
non tra fiori finti
perdonateci
se
rifiutiamo limiti e frontiere
e
trasformiamo
fili
spinati in palpiti d’amore
non
ci è concesso forse d’impazzire?
Che
razza strana
siamo
noi poeti
specie
che spesso va
controcorrente
volando
verso cieli tersi
liberi
perdonateci
per
questo nostro osare.
Torna su
ha
fuochi accesi
che
bruciano le ali d’un gabbiano
nell’indifferenza
quotidiana
dei
silenzi
nasce
il desiderio
di
cambiare il mondo
coi
sognanti programmi
d’infinito
Signore
scansaci
dai
falsi miti
dai
colossi d’argilla
dai
presagi barattati
degli
alberi
di
mele marce
dai
Giuda e dai Pilato
dall’odio
delle razze
Signore
scansaci
da
chi ci chiama fratello
nella
sala d’attesa del patibolo
per
consegnarci al boia
senza
uno scrupolo
è
meglio che restiamo figli unici
incatenati
nella solitudine
nutrendo
nel profondo delle anime
l’immenso
seme dell’umano credere
Signore
scansaci
da
quest’incendio
di
parole al vento.
Torna su
quella
farfalla
che
toccò il tuo fiore
allo
sbocciar dell’alba
ne
vedesti il colore
rosso
vivo
pietra
di lava
d’un
vulcano acceso
ne
godesti
i
lapilli d’un amore
che
sembrava
promessa
d’infinito.
E
ti sembrò l’azzurro
senza
limite umano
sempre
eterno
non
ci fu il tempo
di
pensare al volo
della
farfalla
verso
un altro fiore
e
quando avvenne
non
furono rugiada
le
tue lacrime
ma
la spina pungente
d’un
dolore
che
ti sembrò
un
macigno insopportabile
che
oggi si scioglie
con
il primo sole.
Torna su
io
e te
due
voci nel silenzio
un
volo di gabbiani
ali
nel vento
l’urlo
dell’alba
il
sorriso caldissimo
del
sole
sotto
le coperte
ci
saremmo scambiati
il
desiderio
dei
nostri corpi stanchi
ma
il gelo dell’inverno
le
sue notti
ci
hanno divisi
ed
oggi siamo di ghiaccio.
Torna su
ha
spento il fuoco
che
circolava
ardendo
nelle vene
e
il tempo
lascia
il suo segno
nella
nostra carne
e
nello specchio
sui
nostri volti già
le
prime rughe
trovami
oggi
le
parole giuste
dall’enciclopedia
della
tua mente
per
colmare i lunghissimi
silenzi
dei
nostri inverni
sotto
le lenzuola
mentre
il camino brucia
fino
all’ultima pagina
il
nostro vecchio libro
di
memorie.
Torna su
VAGHEGGIANDO
NUOVE ALBE D'AMORE
emergono
dal mare dei ricordi
oceani
di pensieri vagabondi
che
cercano un approdo d’infinito
emerge
il primo bacio a labbra chiuse
coi
primi passi incerti e mille strade
boschi
d’abeti favole d’estate
le
neonate speranze ormai deluse
eppure
nonostante tutto io credo
ed
urlo tra bufere vento e neve
questa
mia rabbia in ultimo virile
desiderio
d’un sogno realizzato
se
resta ancora un poco di salute
nasce
la forza di ricominciare
inediti
programmi di futuro
itinerari
immensi da scoprire
a
volte mi sorprendo a immaginare
l’incendio
dei miei palpiti le ore
le
voci del silenzio ad ascoltare
per
vagheggiare nuove albe d’amore.
Torna su
un
cielo chiaro
e
il sole oppure un fiore
o
il mare
a
dare a questa vita
nostra
vita
tra
mille pianti
gocce
di sereno
e
basterà l’amore
questo
amore
a
dare un senso nuovo
del
domani
per
approdare
uniti
all’altra riva
avvolta
dal mistero
oggi
non è così
se
la tempesta
dei
sentimenti
inchioda
le promesse
mettendo
in croce
l’ultima
speranza
per
qualche brivido di luce
che
resta.
Torna su
spaziano
in
lontane memorie
per
fermarsi
ad
una notte
di
San Lorenzo
quando
per te
rubavo
le stelle
regalandoti
collane
di luci
oggi
rosari
freddi
di tristezza.
Torna su
colmava
il vuoto
della
mia oziosa solitudine
spesso
mi contrariava
il
tuo lungo abbaiare
che
mi manca
mostravi
tutta la tua gratitudine
stendendoti
ai miei piedi
mi
contemplavi
percependo
a volte le mie azioni
ci
capivamo
nell’incrociarsi
dei nostri sguardi
e
ci ritrovavamo
nel
nostro mondo
pieno
d’abitudini
forse
non
ero solamente il tuo padrone
ma
il vero amore
oggi
non ci sei più
la
tua specie meticcia
si
è dissolta
uguale
agli altri
nella
terra nuda
per
me
sei
una ferita aperta
nel
ricordo
dentro
al mio vuoto
nel
ripiombato abisso
d’un’altra
e più profonda
solitudine.
Torna su
lasciavo
i campi
con
le spalle curve
e
un senso indefinibile
di
rabbia
per
il magro raccolto ereditato
da
una lunga fatica
e
lei in attesa
ricca
di pazienza
sull’uscio
della casa intonacata
rafforzava
radici
di
una speranza
quasi
affievolita.
E
su quell’uscio oggi
guardo
il vuoto
nei
miei giorni che passano
lenti
ed
urla nel ricordo
il
suo silenzio.
Torna su
Ricordo
quegli
amplessi contadini
consumati
nel pagliaio
la
scoperta del contatto
profumava
di fieno
e
l’aria intorno
aveva
il gusto della gioia
la
zappa eretta
passiva
complice
attendeva
le mani
per
sprofondare nella nuda terra
i
miei giorni
rosari
di fatica
sgranellati
troppo
lunghi e monotoni
io
non li paragono
a
questo mio vissuto quotidiano
tra
carte e libri
o
i raffinati amplessi
coi
pigiama di seta
e
le lenzuola fresche di bucato
oggi
tutto è diverso
la
mia memoria
è
ferma a quei momenti
solida
come
la mia radice
ad
una quercia.
Torna su
violenta
la
pace dei campi
l’umiltà
contadina
è
derisa
da
beffe di pioggia
su
pannocchie spezzate
negli
artigli del tempo
soltanto
speranze
ingabbiate
la
ruota del mulino
si
è fermata
in
un gioco di luci
che
illumina
lo
stupore del silenzio.
Torna su
le
mie certezze
oggi
ferite
sanguinanti del mio ieri
vissuto
nell’infanzia
in
quel giardino
dove
ogni fiore
aveva
sempre un nome femminile
mentre
l’albero maschio
la
pretesa
di
vivere la sua virilità
incurante
del vento di libeccio
che
con la sua salsedine piegava
di
giorno in giorno i rami
indebolendo
le radici e il tronco.
Ora
che il dubbio
è
il pane quotidiano del pensiero
che
nutre l’ansia
e
accresce la paura
ora
che affondo
in
grumi di memoria
i
desideri volti all’imbrunire
ora
che è sera
non
ci saranno palchi in prima fila
per
vedere le stelle.
Quell’albero
in giardino
è
diventato un blocco di cemento.
Torna su
laceri
e macilenti
ombre
negli occhi stanchi
su
facce senza età,
le
mani tremolanti
tese
verso i passanti
cercano
carità,
fermati
se lo vuoi
forse
così potresti
leggere
nel passato
vite
vissute ai margini
di
questa società.
Ancora
li ritrovi alla stazione
tra
i binari dei treni
o
nelle sale d’attesa
seduti
sotto la biglietteria
ad
aspettar probabili monete
date
da viaggiatori frettolosi
che
osservano nervosi e preoccupati
tutti
gli orari della ferrovia…
Loro
non hanno fretta
e
li ritrovi
a
scartocciare pasti sempre più asciutti
tra
una bottiglia e l’altra
la
cicca tra le labbra screpolate
nell’incomunicabile
silenzio…
se
resti indifferente,
fingendo
d’ignorarli,
guardati
per un attimo allo specchio
e
ti ritrovi.
Torna su
il
palpito d’un poeta
in
questo Bronx
non
può sintonizzarsi
nell’etere
dove
i suoni
hanno
ritmi di rabbia
tra
uragani criminali
su
tangenziali di camorra
la
voce del mare è lontana
anni
luce
come
distante, fin troppo,
il
volo d’un gabbiano
non
parlate mai d’amore
in
questo Bronx
tra
orge di sensi in delirio
sareste
derisi
qui
Cristo è il Giuda del momento
Dio
un padre snaturato
la
Madonna un quadro oleografico
come
punto di riferimento
da
invocare nel momento del bisogno
in
questa giungla
dove
l’urlo di Tartan
diventa
legge
l’uomo
è
solo un nome da dimenticare.
Torna su
Abbandonata
nel tuo lebbrosario,
inchiodata
alla croce
d’un
lungo calvario,
larva
d’un fasto lezioso
avvolta
da un tenue sudario,
reietta
città.
Con
i tuoi occhi di tenebra
eppure
respiri
il
tuo cuore aritmico
pulsa
mentre
intorno le case di latta,
scenario
di beffa,
testimoniano,
ossario di storia,
l’ignavia
di tanti.
Eppure
sospiri
e
soffri, e non sei masochista,
ed
ancora tu canti,
lavori
e rattoppi
gli
stracci, impregnati di pianto,
di
teneri idilli
tessuti
tra notti di attese
d’un’alba
diversa.
Torna su
nella
terra di fichi d’india e zàgare
anche
gli agrumi piangono
lacrime
di tritolo
tra
sguardi freddi rassegnati e stanchi
e
bocche mute nonostante tutto
amara
è l’isola
sotto
il sole beffardo e un cielo terso
il
Cristo Siciliano
è
stato crocifisso col suo credo
e
la speranza naviga in un mare
da
forza sette tempestoso ed infido.
Risorgere?
Ma dove come quando
la
nave è ferma là nel continente
evocando
fantasmi di promesse
echi nel tempo senza più memoria
Torna su
diritto
di giocare a Sarajevo
il
suo dovere è quello di soffrire
le
pene d’un inferno prematuro
e
l’acqua santa non potrà bastare
a
spegnere l’incendio del dolore.
Mirko
non ha più l’angelo custode
che
lo protegge – non conosce Dio –
pur
portando la croce d’un calvario
che
fa spezzar le spalle d’un bambino.
Oggi
ha incrociato gli occhi della morte
sul
corpicino ne ha sentito il fiato
ha
lasciato l’inferno per il limbo
su
quei tre anni il tempo si è fermato.
Torna su
dove
non c’è rintocco di campana
che
suona ad ogni attimo
rabbiosamente
musica di morte
voglio
il respiro
della
dimenticata primavera
con
la sua aurora e il canto d’usignolo
coi
prati che profumano di viole
il
mio non è un pensiero ergastolano
se
cerca di volare ancora libero
stagliato
in alto verso un cielo limpido
nella
speranza dell’umano credere
datemi
una certezza nelle lacrime
d’un
bimbo slavo mutilato ed orfano.
Torna su
ad
un fuoco incrociato
di
cecchini
dall’inferno
d’un odio
fratricida
un
passero impazzito
ha
trovato rifugio
in
una chiesa
ormai
semidistrutta
chissà
se ha visto Dio
se
l’ha sfiorato
l’attimo
prima
di
spiccare il volo
con
le sue ali
ancora
insanguinate
nel
beccuccio
le
schegge d’una mina
rubata
in
quest’assurda
Waterloo.
Torna su
mi
porto addosso
un
nome
dentro
le
mie ansie
una
poesia mai scritta
fuori
tutto
il resto
è
soltanto
routine.
Torna su
potrà
mai darti, figlio,
l’esatta
dimensione
del
dramma esistenziale
d’un’infanzia
rubata
all’innocenza
del
mio girovagare
col
nonno tra i cipressi
e
gli occhi sui volti delle madri
sembravano
di ghiaccio.
Tutti
i dubbi e le ansie
e
le speranze
bruciavano
nel fuoco di un braciere
ed
i carboni ardenti
sembravano
ferite
nella
memoria oggi ancora accese
non
chiedermi il perché
di
quei momenti
io
non saprei risponderti
e
non cercare nel mio sguardo
un
cenno di quel tempo
scandito
con le raffiche di mitra
ora
tutto è diverso
e
la tua infanzia
è
un’alba nuova
per
il tuo domani.
Torna su
fermare
la tua storia
col
mandorlo fiorito
chiudere
gli occhi
senza
aspettare
il
gelo dell’inverno
lasciando
nei tuoi figli
l’eredità
di vivere.
Avevi
già provato a masticare
come
un boccone il pane reso duro
dalle
battaglie quotidiane
stanco.
La
sofferenza del tuo immenso vuoto
noi
la sentiamo come un fuoco vivo
perché
è diverso il sangue
quando
sta uscendo dalle tue ferite
ha
un altro suono l’urlo
quando
è parte di te della tua carne.
Per
te fu cielo terso
ed
al tuo sguardo
ti
sembrò un miracolo
il
non dover portare sul calvario
la
croce di un’amara solitudine.
Forse
fu un bene padre.
Torna su
a
guardare gli uragani
una
ruota girare all’incontrario
i
treni fermi oziare sui binari
seduti
su una comoda poltrona
si
resta qui
tra
oggetti inanimati indifferenti
disassociati
ormai dal divenire
d’un
altro giorno che sarà diverso
solo
per chi lo vive in prima linea
si
resta qui
nel
guscio d’una squallida conchiglia
fieri
d’un egoismo ch’è sovrano
che
regna dentro al corpo e nella mente
che
forse non ha più nulla di umano
si
resta qui
a
contare il trascorrere dell’ora
volta
sicuramente all’imbrunire
in
lenta attesa d’una lunga notte
si
resta qui e restando è un po’ morire.
Torna su
Ritorna all'indice di:
Il sito delle Grandi Emozioni!