OBSCURE METAL UNDERGROUND & VULTURE CULTURE
I, VOIDHANGER MAGAZINE - ARGOMENTI

 

IL SEME DELLA FOLLIA:
GLI "IRREGOLARI" DEL BLACK METAL
PARTE I

di Voidhanger


Secondo l'opinione di molti, il black metal si è barricato dietro ad una trincea di cliché e formule predefinite che ne fanno un genere quasi del tutto impermeabile alle novità, incapace di venire fuori dalle secche dell'ispirazione. Sembrerebbe girare a vuoto intorno alle solite idee, ai soliti concetti, senza trovare la strada del rinnovamento e dell'originalità, o comunque nuovi sbocchi espressivi. Le cose non stanno esattamente così. Se è vero che la stragrande maggioranza dei gruppi underground percorre sentieri già ampiamente battuti dai grandi del passato (ma spesso è scelta consapevole, in conflitto con certo nuovo black metal: moderno, sì, ma snaturato e senz'anima), esistono comunque numerose realtà a cui piace mischiare le carte in tavola, tutt'altro che rassegnate alla routine e alla linearità espressiva dei colleghi.
La nostra vuole essere una rassegna, ovviamente incompleta e parziale, di band "irregolari". Non gruppi prettamente avanguardisti (la maggior parte di quelli citati non lo sono affatto) e non soltanto band con una cifra stilistica riconoscibile e originale, ma gente davvero fuori dagli schemi e a cui piace lanciare a briglie sciolte il cavallo imbizzarrito dell'ispirazione. Non sempre i loro possono dirsi album irrinunciabili o fondamentali. Anzi, sono spesso immaturi, imperfetti quasi per necessità, e hanno ricevuto lodi sperticate così come stroncature impietose. Alle orecchie di alcuni possono suonare eccessivi, sopra le righe, ripiegati su stessi, auto-indulgenti, pretenziosi e sin troppo fieri della propria diversità. Ma oggi sono certamente queste "schegge impazzite" a lasciare il segno, a procurare i tagli più profondi su una materia, il black metal, a torto considerata in avanzato stato di decomposizione e che invece sanguina ancora.

 


Epistemic Terrorism and Bibliophilistic Atavism

Spiegare una band come L'Acephale significa mettersi in pasticci linguistici. In Francese, 'acephale' vuol dire 'senza testa', mentre in Tedesco il titolo del disco, "Mord Und Totschlag", è traducibile con un letterale e ridondante 'assassinio e omicidio' (ma in copertina avrete notato una 'h' di meno in 'totsclag'). In Italiano, il titolo potrebbe essere liberamente adattato con un 'morte e distruzione' che sicuramente piacerebbe molto all'uomo dietro a L'Acephale, Set Sothis Nox La. Che non è tedesco, né francese, ma un americano di Portland, Oregon. Il debutto de L'Acephale per l'inglese Aurora Borealis consiste in una registrazione demo del 2005 (quasi 80 minuti!) realizzata dal solo Set Sothis Nox La, che oggi ha raggruppato intorno a sé un bel manipolo di musicisti, tra cui Markus Wolff dei neo-folksters Waldteufel. Quello che sarà capace di combinare questa nuova incarnazione della band riguarda il futuro, ma se ne è avuto anticipazione nel 7" "The Book Of Lies", che rielabora un pezzo del demo aggiungendo una coda firmata Waldteufel e un fantastico pezzo inedito. Intanto, Set Sothis Nox La così presenta il progetto: "L'Acephale si basa sulle idee e i ragionamenti di una omonima società segreta esoterica di artisti e filosofi dell'inizio del XX secolo, e su un giornale così chiamato. Tra i membri del circolo spiccava Georges Bataille, i cui scritti costituirono il fulcro di quel progetto e del mio. Etimologicamente 'Acephale' viene dal latino 'a-cephalus', che significa senza testa, ma anche senza un capo. Le motivazioni? Religione, sociologia, filosofia e la Sacra Congiura (titolo di un articolo di Bataille apparso sul primo numero della rivista - nda). Era un circolo fieramente religioso, ma in maniera nietzschiana, ora resuscitato in questa incarnazione che fonde in eguale misura terrorismo epistemologico e atavismo letterario, basato sulla combinazione di black metal ed elementi folk, incluse le loro derive più sperimentali e ambient."
Attiva tra il 1936 e il 1939 (parallelamente alla sua versione essoterica, vale a dire il Collegio di Sociologia che avrebbe avuto tra i suoi lettori anche Adorno, Sartre e Levi-Strauss), della società segreta di Bataille si sa solo che voleva restituire al mondo moderno un afflato "ferocemente religioso" e che si riuniva in un luogo sacro. Forse un boschetto colpito da un fulmine, oppure presso le rovine della fortezza di Montjoie e corrispondente al Mons Jovis dove, nel 272, aveva subito il martirio il primo vescovo di Parigi, Dionigi (il cui nome rimanda evidentemente alla figura di Dioniso).
L'acefalo che campeggia sulla copertina della rivista in un bel disegno di André Masson (ispirato all'uomo vitruviano di Leonardo Da Vinci) è invece tratta da una pietra intagliata di origine gnostico-manichea ritrovata da Bataille nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Per il filosofo starebbe ad indicare che "La vita umana non ne può più di servire da testa e da ragione all'universo. Nella misura in cui diventa questa testa e questa ragione, nella misura in cui diventa necessaria all'universo, essa accetta un asservimento. (...) La fascinazione della libertà si è offuscata quando la terra ha prodotto un essere che impone la necessità come una legge al di sopra dell'universo. Ciò nonostante, l'uomo è rimasto libero di non rispondere più ad alcuna necessità: è libero di somigliare a tutto ciò che non è lui nell'universo."
I facenti parte dell'Acephale dovevano sottostare ad una serie di regole e rituali. Era proibito stringere la mano ad anti-semiti (nel secondo numero della rivista, Bataille scrisse un importante saggio per sottrarre il pensiero nietzschiano alla strumentalizzazione fascista, scagliandosi veementemente contro la sorella del filosofo tedesco, appellata come 'giuda' per avere sposato un noto anti-semita), e soprattutto bisognava celebrare la decapitazione di Luigi XVI, evento che in sé prefigurava la nascita di quella società senza capo che "segretamente o no," scriveva Bataille, "deve diventare altro da sé, o cessare di esistere."
Alla chiamata alle armi di Bataille risponde 70 anni dopo Set Sothis Nox La, con un album di black metal dalle tinte industrial e ipnotiche parentesi drone-folk. Confezionato in una custodia per DVD a sua volta fasciata da uno slipcase, "Mord Und Totsclag" è accompagnato da un mini-poster e da un libretto di 18 pagine con buona parte dei testi, il manifesto programmatico del circolo di Bataille e la riproduzione della copertina della rivista. Musicalmente, L'Acephale funzione per stratificazioni sonore. Con l'eccezione della splendida "Psalm Of Misery", ascrivibile alla corrente depressive del black metal e melodicamente costruita come una canzone, il resto è un flusso di note e parole senza fine, un potente coacervo di chitarre elettriche, drum-machine, samples e vocals filtrate che ad ogni giro si caricano di nuovi suoni e sovrapposizioni di riff e pattern ritmici, per poi collassare dentro il vuoto apocalittico creato dalle sei-corde acustiche.
La militaristica "Terror Is Our Tenderness", in apertura, si sviluppa attraverso 10 minuti sempre uguali a se stessi, un bombardamento di blast-beat e chitarre elettriche inarrestabile e stordente, reso ancora più feroce e intenso dalla voce scorticante e dalle liriche di Set Sothis Nox La. Nei ventuno minuti di "Against A Weeping Sea Of Sleep" (equamente divisi tra imponente black metal dal passo marziale e visionario neo-folk innalzato al cielo da un canto operistico femminile), il suo testo più bello: "Bramo odio, per assorbire questo confortevole silenzio, questa anestesia dei sensi, imbevendomi di un'infinita schiera di violenza che mi piaga; bramo odio per questi vermi soldati che combattono contro i miei sensi, per i putridi Dei dei nostri padroni...".
Bataille non è comunque l'unica fonte d'ispirazione de L'Acephale, che nel testo di "Book Of Lies" si rifà ad un Aleister Crowley in cui sembrano risuonare le parole del filosofo francese: "Sleep with reason and wake a corpse, slaves of reason, blind under the dominion of reason". "Heartless And Miserable" e "Immeasurably Dreary" si dividono le stesse liriche accorate, ma offerte in forme diverse: la prima è uno spoken-word con accompagnamento folk-drone mantrico e drogato; la seconda, un altro assalto black metal a testa bassa e a volumi spropositati. "E' il risultato di una dieta a base di Wolfthorn, Les Joyaux De La Princesse, Toroidh, Hate Forest, Drudkh, Krzysztof Penderecki, Veljo Tormis, Henryk Mikolaj Gorecki, Huun Huur Tu, A.V.A, musica tibetana e altro folk," ha dichiarato il musicista americano a proposito del suo stile, ma il Nostro si dice ispirato anche dai decadentisti francesi, dai film di Ingmar Bergman e dalle tele di Hans Bellmer, Suehiro Maruo, André Masson, Frantisek Kupka, Franz Von Stuck e Austin Osman Spare.
Anche con una 'h' di meno nel titolo, "Mord Und Totsclag" è un'opera prima di assoluto valore. Eccessivamente lunga, a tratti ancora acerba e non facilmente assimilabile, ha il grande merito di catturare l'attenzione grazie alla sua urgenza espressiva e ad un concept colto e sviluppato sotto ogni aspetto, da quello lirico a quello grafico, ma senza sacrificare un'oncia della violenza catartica del black metal, qui usato come arma intellettuale e caricato di nuovi significati. "Celebriamo credenze e idee che hanno preceduto quest'era moderna, sistemi di pensiero in cui la vita restava ancora in equilibrio con la terra: vita non separata da una dimensione spirituale, ma spiritualità che penetra una base materialistica," spiega Set Sothis Nox La. "Non il 'così in alto, così in basso' del pensiero filosofico ermetico, dove un'entità spirituale regna sopra di noi, ma una filosofia più vicina ad un Tradizionalismo radicale. Filosofia ben esemplificata in una frase di Bataille che abbiamo fatto nostra e che ci rappresenta come 'una macchina da guerra contro i concetti generalmente accettati'."

L'ACEPHALE - Mord Und Totsclag (Aurora Borealis, 2007)
L'ACEPHALE - The Book Of Lies (7") (Parasitic, 2005)

 

 

A N I M U S
LA MORTALITA' E L'ETERNO

In un momento in cui le frequenze ultra-ribassate e cacofoniche del drone si stanno insinuando sempre più prepotentemente nelle maglie del rock - e persino in quelle serrate del metal moderno - il debutto degli israeliani Animus raggiunge in quest'ambito vette espressive toccate da pochi, e probabilmente senza averne l'intenzione. Il programma di "Poems For The Aching, Swords For The Infuriated" è semplice e scarno: 6 brani privi di titoli che celebrano "la mortalità e l'eternità dell'essere," come scrivono cripticamente gli altrettanto misteriosi componenti del gruppo nelle note di copertina.
Una sorta di concept ascetico sull'atto creativo, che rilegge il Burzum più psichedelico e induttore di trance, ma spogliandolo di quell'oscurità di cui in troppi hanno abusato nella loro smania di atmosfere depressive.
Qui invece a farla da padrone sono composizioni illuminate da una luce rivelatrice, da melodie appena accennate e ariose, giocate su pochi accordi, ma che aprono squarci giganteschi nel subconscio, puntando dritte verso l'alto, piuttosto che verso i soliti abissi dell'anima. Le chitarre, dai suoni sgranati, ma ugualmente maestosi, si adagiano su tappeti di drum machine che a tratti scandisce i tempi di un sonno inquietante, e a tratti quelli di un mitragliatore. Ma la sensazione resta sempre quella di librarsi in volo, di lasciarsi dietro il mondo per addivenire ad un ulteriore stadio di coscienza e conoscenza.
Un percorso catartico che arriva alla meta nei tredici minuti della composizione finale. Introdotta dal suono profondo di un basso, che evidentemente mima quello dell'interiorità, si costruisce di passaggio in passaggio. Ogni tre minuti, un giro di boa. Musica come un serpente che si snoda lentamente sulle note di una melodia solenne e rilassante, che traduce la realtà in sogno e bonifica l'anima dalle sporcizie del vivere. Come salire una scala in cui ad ogni gradino ci si sente più leggeri, più prossimi alla beatitudine. Che infatti arriva nell'apoteosi finale, quando una musica abbagliante e trascendentale si arricchisce di un'incredibile quanto semplice chitarra in crescendo e di vocalizzi sospesi nel vuoto. Quasi un Om tibetano, infinito e liberatorio.

ANIMUS - Poems For The Aching, Swords For The Infuriated (Ars Magna, 2005)

 

 


CADAVERI-LANTERNA E FUOCHI FATUI

Tra tutte le band presentate in queste righe, i finnici Dead Reptile Shrine sono di sicuro i più ermetici e misteriosi, quelli che hanno scelto le traiettorie stilistiche più deviate e devianti. Dietro un logo praticamente indecifrabile, si celano tre individui senza identità che sembrano cresciuti col culto dei Dawnfall, campioni di black metal obliquo e inquietante in dischi come "Dominance Of Darkness" (Nazgul's Eyrie, 1994) e "Drei Raume" (Supernal Music, 2002).
Allo stesso modo dei cugini tedeschi, i Dead Reptile Shrine alternano tipiche partiture di black metal ultra-primitivo ad eruzioni di rumore incontrollato; scampoli di melodie oscuramente ipnotiche a digressioni dark-ambient; parentesi acustiche scarnificate a cori sempre in bilico tra poderosa maestosità e terribili stonature. Una musica all'apparenza fragile, che poggia su costruzioni armonico-strumentali precarie e prossime all'andare in pezzi, ma che in realtà cela una forza espressiva ed una coesione fuori dal comune.
La loro sembra essere l'esaltazione di una bruttezza insostenibile, che dapprima irrita e respinge, ma che poco a poco finisce per attrarre l'ascoltatore. Un magnetismo animale che ha dell'inspiegabile, dato che la band non concede appigli di alcun tipo a chi si avvicina alla sua musica, ed anzi si chiude a riccio nella propria poetica dell'assurdo, dietro suoni parecchio sgradevoli. Evidentemente, i Dead Reptile Shrine esercitano pressione su corde interiori che raramente vengono toccate, persino in un genere emozionale come il black.
Nella loro ultima fatica discografica sulla lunga distanza, "A Journey Through The Darkest Of Forests", l'idea di musica rituale è portata alle estreme conseguenze, ma seguendo regole diverse da quelle consolidate. Registrato tra il 2001 e il 2004, dedicato al black metal austriaco e al filosofo Schopenhauer, l'album è uno sbandare continuo tra visioni di morte ed esaltazione diabolica, tanto che la stessa foresta citata nel titolo e illustrata in copertina diventa luogo immaginario, dimensione insondabile d'orrore profondo. Sul retro, una figura di cui è impossibile stabilire il sesso sta a capo chino, con una lunga chioma bionda a coprirle il viso, mentre alle sue spalle si innalza un monumento di fango, cespugli e radici, da uno dei cui anfratti fa capolino una mano. Sembra sospesa nel vuoto, immobile, in un gesto che respinge chi guarda. L'ingresso è garantito solo a chi ha abbastanza fegato da seguire l'andamento schizzato di "A Cave Full Of Corpse Lanterns", l'ipnotismo macabro di "Fire And Flame" (con quella voce che ripete il titolo fino allo sfinimento, dilatando i tempi tra una parole e l'altra e aumentandone così l'effetto mesmerico) o la morbosa base elettronica di "Clouds Of Doom Gather...", che è un'invocazione satanica a base di dark ambient, come in "Transformation" prima e in "Dawnfires At The Lake" poi.
A "Song For The Deadwood" manca invece la voce di Kurt Cobain per assomigliare definitivamente ad una folk song dei Nirvana, una "Polly" ancor più strascicata e minimale, dove la protagonista finisce strangolata dai rami secchi di un bosco, animato da presenze maligne. "Our Feast Of Victory" e l'esplicita "Reversion To An Ancient Form" seguono percorsi black metal appena più lineari, ma non meno sinistri e inquietanti. "A Beastcult's Procession" appone invece il sigillo finale con otto minuti di vocalizzi ascendenti dal sapore vagamente liturgico, chiudendo il cerchio magico aperto 78 minuti prima.
Poco importa che "A Journey Through The Darkest Of Forests" sia tutt'altro che un album perfetto: gli avrebbe probabilmente giovato una durata più contenuta, una maggiore organizzazione di idee ed un carattere meno ermetico e frammentario. Ma in questo caso non sarebbe stata l'opera dell'eccesso che è. Un disco minore, ma intrigante, e i cui difetti sono la conseguenza necessaria di una totale ed ammirevole libertà espressiva.

DEAD REPTILE SHRINE - A Journey Through The Darkest Of Forests (Werewolf, 2005)

 

DEAD RAVEN CHOIR
LE CANZONi HANNO I CORVI DENTRO

Da dove cominciare per descrivere il folle mondo dei Dead Raven Choir? Magari dal fatto che la band sia in pratica un'orchestrina male assortita alle prese con basso, mandolino, banjo, violoncello, mandocello (qualunque cosa esso sia) e batteria, eppure capace di imbastire un sound estremo, rumoroso e non meno intransigente di quello marcato Ildjarn, pur senza fare uso alcuno di chitarre.
Oppure potremmo raccontare dell'assurdo campionario di cover con cui i Dead Raven Choir sono soliti riempire i loro dischi: canzoni di Townes Van Zandt, Leonard Cohen, Garnet Rogers ed altri eroi del country-folk, distanti eoni dal black metal. O almeno così ci sembrava che fosse fino al loro arrivo.
Di certo c'è che il misterioso D. Smolken, di cui vi raccontiamo la storia (ambientata tra la Polonia e il Texas) nel corso dell'intervista ai suoi Wolfmangler, si è costruito nel tempo la fama di abile manipolatore di entrambi i generi folk e black, che ha fatto ripetutamente incontrare e scontrare in modi inusuali su decine di release underground, solitamente in formato CD-R ed oggi costose e ricercate. Smolken vi gioca a suo piacimento, e comincia a farlo sin dai titoli degli album: i dischi in cui figura la parola "wolves" sono quelli in cui a prevalere è l'elemento folk, mentre tutti gli altri rientrano nel capitolo "harsh noise" della storia musicale dei Dead Raven Choir.
Lo trovate curioso? Aspettate di sentire "Cask Strength Black Metal", la compilation realizzata recentemente dalla Supernal e che raccoglie gli EP "Sheath And Knife", "Grand Ravishing Extravaganza", "Sevenfold Songs Of Death" e "Sturmfuckinglieder": urla belluine, noise da fare invidia a Merzbow e una parvenza di ritmica black a completare un quadro tanto orrido quanto attraente. Inoltre, per l'occasione Smolken usa con nonchalance poesie di Rainer Maria Rilke e Georg Trakl a mo' di testi, a coronamento della sua opera di demolizione e smitizzazione musical-letteraria.
Ce ne sarebbe abbastanza per metterlo al rogo, ma siamo certi che il Nostro riuscirebbe a spaventare anche il più spietato dei boia coi parti bizzarri della sua deviata fantasia bucolica. L'indole iconoclasta lo ha portato ad osare vie espressive coraggiose, che spesso hanno finito per rinchiuderlo in un mondo troppo auto-referenziale e impenetrabile al grosso pubblico, comprensibilmente scoraggiato da tanto eccesso sonoro. Le cose potrebbero cambiare con la pubblicazione per l'ottima Aurora Borealis dei 44 minuti di "My Firstborn Will Surely Be Blind": una nuova raccolta di cover country-folk interpretate coi suoni cacofonici del black, che però si avvale di un suono più ordinato e ragionato, nonché di tempi doom medio-lenti che permettono un filtraggio più generoso delle melodie ("Our Mother The Mountain", "Favorite"), come avviene in casa Wolfmangler. Nella splendida "Bluenose", Smolken addirittura s'inventa vocals a metà tra l'epic heavy metal e la canzone popolare, un nuovo ibrido folk-metal che suona più serio e convincente di quanto possa sembrare.
"Già sapevo, grazie all'esperienza maturata nei Wolfmangler, che il metal suona meglio senza chitarre," afferma Smolken disinvolto. "Ridurre all'essenziale gli arrangiamenti ha conferito maggiore chiarezza e pesantezza ai suoni." Ed è vero, nonostante la povertà dei mezzi utilizzati. "Il disco è stato interamente registrato usando un microfono polacco degli anni '70, insieme ad altre apparecchiature della stessa epoca e provenienza. Unica eccezione, un paio di speaker per PC che ho avuto gratis da un tizio, che a sua volta li aveva comprati per 6 dollari." Quanto ci sia di vero in questi racconti tra farsa e leggenda è tutto da verificare, conoscendo il bislacco senso dell'umorismo di Smolken. Il disco è avvolto in una stupefacente coltre di rumore acustico, e i Dead Raven Choir non lesinano le solite scudisciate metalliche inferte con le corde di basso e violoncello ("Genesis Hall"). Ma questa volta c'è un po' di miele insieme al veleno, e il risultato finale è persino più spaventoso e drammatico che in passato.

DEAD RAVEN CHOIR - My Firstborn Will Surely Be Blind (Aurora Borealis, 2007)

 


CAOS SANGUINANTE

Il percorso artistico di Mories, unico membro del progetto Gnaw Their Tongues, è costellato da una moltitudine di uscite underground su formato CD-R, infine culminato nella pubblicazione di "Reeking Pained And Shuddering" per Paradigms Recordings. Amante di tutto ciò che suona strano, atipico, folle e avanguardista, non abbiamo difficoltà ad immaginare la soddisfazione dell'ottima label inglese all'ascolto del materiale qui raccolto. Il suono di Gnaw Their Tongues si costruisce su un'impalcature prevalentemente black drone-doom di scuola Khanate, ma optando per un suono meno secco ed essenziale.
Al contrario, Mories è artista del caos totale, un pittore che aggredisce la tela sonora con colori audaci e claustrofobici, sperimentando con essi nuovi modi di dare forma e sostanza all'oscurità. Gli arrangiamenti orchestrali di "Utter Futility Of Creation", ad esempio, richiamano alla mente la musica da camera più alienata e sinistra che sia possibile immaginare, con stormi di archi in picchiata nel vano tentativo di afferrare, in un abbraccio mortale, un riff black-doom astratto e ormai prossimo al collasso, percosso violentemente dalla sezione ritmica. Tutt'intorno, Mories innalza muri di samples e rumori industriali, la messa in musica dei pensieri spezzati e dei deliri di un malato di mente. Le sue vocals vi si arrampicano sopra, strisciando su superfici acuminate, irte di spigoli taglienti, sotto una pioggia battente di vetri, ruggini e tetano.
Che si tratti del funeral black-doom dalle tinte industial fin qui descritto o dell'ambient catacombale e infetto di "The Evening Wolves" e "Transition" - con le loro atmosfere nebbiose e drogate, gli echi e i rimbombi lontani - la tensione resta altissima. A dominare la musica di Gnaw Their Tongues è un senso di inquietudine che atterrisce e che lascia inermi. S'insinua spavaldo nelle pieghe dell'animo, usandolo come bozzolo per incubare un malessere fisico e mentale pronto ad esplodere in qualunque momento.
Uno psichiatra si convincerebbe facilmente che le maestose impalcature soniche di Mories, così barocche e frastagliate, imprevedibili nel loro divenire eppure fluide e coerenti, rappresentino una barriera umorale, l'estremo tentativo dell'artista di proteggersi da se stesso o di purgarsi. Stronzate. Non c'è nessuna traccia di catarsi nelle note di "Destroying Is Creating", così come nell'esplicita "Blood Spills Out Of Everything I Touch". Nessun pentimento, nessun bisogno di espiazione, nessuna idea di speranza. Al contrario, qui domina un malcelato compiacimento nel ritrarre un mondo che è puro orrore; una visione allo stesso tempo nichilista ed estatica. Mories adora bagnarsi nel pozzo nero dei suoi pensieri perversi e disgustosi, gode nel raccontare le sue storie di violenza e sofferenza, facendone dei tour-de-force emozionali, colossali monumenti al dolore, alla sua bellezza trascendentale e metafisica. Il suo stile cannibale utilizza in modo magistrale spunti e idee appartenenti a generi diversi, cucendoli insieme in trame aperte e grandiose, quasi delle sinfonie wagneriane virate in nero. "Non pongo alcun limite alla musica, ai testi, all'artwork," dice l'artista, "è come penetrare in una zona franca dove mi posso esprimere senza barriere. A volte è puro metal, altre volte è un noise profondo e rombante. Anche il mio metodo di lavoro è in continua evoluzione."
Ermetico e di non immediata decifrazione, il sound di Gnaw Their Tongues raggiunge picchi di espressività in "Nihilism; Tied Up And Burning": dapprima introdotta da un coro di voci eteree ed operistiche, si lancia inaspettatamente in una scatenata corsa black metal propulsa da una drum-machine devastante. Non è l'unica occasione in cui Mories dà prova della sua passione per la musica della nera fiamma, essendo essa protagonista del parallelo progetto avantgarde denominato De Magia Veterum. Nei Gnaw Their Tongues è comunque un ingrediente determinante ed essenziale, per quanto estremamente trasfigurato nei suoi tratti più tipici. "Mi piaceva la sensazione che mi dava il black metal quand'ero un teenager," racconta Mories,"la sensazione di far parte di un mondo segreto, di condividerne potere e conoscenza. Ma adesso so che, musicalmente parlando, esiste roba ben più malvagia e malata. Sì, sono stanco del black metal. Ogni volta che leggo una recensione entusiastica di un gruppo black e vado ad ascoltarne la musica, mi trovo di fronte alle solite cose. C'e tanta musica mediocre in giro, io cerco di suonare in modo diverso."
Nonostante ciò, Gnaw Their Tongues ha da poco rilasciato su Universal Tongue uno sfizioso CD-R 3" a tiratura limitata (custodito in un mini-DVD case), dal titolo "Dawn Breaks Open Like A Wound That Bleeds Afresh" e "dedicated to the metal underground spirit of '88-'92", come recita il retro-copertina. Dentro, il suo personale omaggio al black metal che fu. Immerse nel consueto groviglio di samples e manipolazioni audio, le tre tracce capovolgono il concept musicale di Gnaw Their Tongues, in un tripudio di blast-beat che solo di tanto in tanto lascia spazio a emozionanti stacchi doom ("Knife.. Martyr... Despair"). "È il mio tributo ai tempi in cui facevo tapetrading, prima dei lussi di internet e degli mp3. Non dico che quelli fossero giorni migliori, ma per me furono speciali. La maggior parte dei gruppi avevano uno stile proprio, e io aspettavo con impazienza che il postino mi recapitasse un'altra oscura gemma dal Brasile, dal Messico o dalla Svezia. In quel periodo scoprii gruppi come Abhorrence, Beherit, Impeity, Sabbat, Abigail, Sigh, Rotting Christ, Darkthrone, Master's Hammer, Samael, Necromantia, Nihilist, Necrovore, Mayhem, Morbid, Burzum, Deathyell, Sarcofago, Morbid Angel, Incubus (con Mike Browning) e migliaia di altre band che ascoltavo su rumorose cassette di terza generazione!"
Quanto all'origine del nome scelto per il progetto, la risposta è dove ci aspettavamo che fosse, nella Bibbia: "Then the fifth angel poured out his bowl on the throne of the beast, and his kingdom became full of darkness; and they gnawed their tongues because of the pain. They blasphemed the God of heaven because of their pains and their sores, and did not repent of their deeds" (Revelation 16:10-11). Per l'ispirazione e i temi affrontati, invece, Mories non ha che da guardare fuori dalla finestra. "Ad influenzarmi sono soprattutto le notizie che leggo sui giornali e su internet. Nel mondo succedono tante di quelle cose terribili... una moglie che cucina il marito, un tizio che violenta una ragazza e poi vi passa sopra col suo camper... Mezzo mondo viene stuprato, ucciso, torturato, bruciato. Gnaw Their Tongues si occupa di una reale 'weltschmerz', di ciò di cui l'uomo è capace. Avrò ispirazione per anni e anni."

GNAW THEIR TONGUES - Reeking Pained And Shuddering (Paradigms, 2007)
GNAW THEIR TONGUES - Dawn Breaks Open Like A Wound That Bleeds Afresh (Universal Tongue, 2007)

 

 

REV. KRISS HADES
MEDITAZIONI DI MEZZANOTTE

Al misterioso Rev. Kriss Hades piace presentarsi così: "Questo nome mi è stato dato attraverso il culto dei Sadistik Exekution, essendo uno dei quattro alti sacerdoti del Tempio dell'Orgia Sanguinosa. Il significato originario di 'Hades' è 'non visto', 'invisibile'. Poi è gradualmente mutato sino ad indicare il regno dei morti e il suo dio, e più avanti è stato usato come nome per indicare l'Inferno. Il kriss è un pugnale sacrificale, mentre Rev. potrebbe stare per 'Revelation'. Quindi, Rev. Kriss Hades potrebbe significare 'Revelations of the sacrificial knife of Hell'. La mia musica e le immagini descrivono questa mia connessione con l'altro mondo. Non è facile introdurre la realtà di questo reame nel mondo cosciente degli uomini. Mi vedo come un ambasciatore dell'invisibile, uno strumento al servizio dell'Inferno."
Rev. Kriss Hades sa come calamitare l'attenzione. Di certo non è l'ultimo arrivato, avendo suonato prima nei blackster Nazxul e poi per lungo tempo nella band più schizzata, violenta e caotica che il mondo del metal estremo abbia mai conosciuto, gli australiani Sadistik Exekution. All'apparenza il più tranquillo del quartetto, sul palco si è però fatto ritrarre col corpo trafitto da innumerevoli spille da balia, come in una sorta di rituale voodoo "do it yourself". Hades ha un'anima avanguardista e occulta, e il nome che gli hanno cucito addosso, nella spiegazione che ne dà lui stesso, descrive perfettamente il black drone metal rituale, psichedelico e rumorista suonato in solitudine, spesso durante live show incredibili. Eventi multimediali in cui la musica si fonde alle immagini proiettate sullo sfondo, accompagnate da una gestualità accentuata e teatrale che si traduce nella demolizione seduta stante di numerose chitarre, nel colpirle in modo maniacale con un pugnale e nell'abbigliamento del Nostro, che si presenta sul palco mascherato e incappucciato. "Cerco di rendermi invisibile; tutto deve essere nero, ad esclusione delle immagini. Se chiudi gli occhi e ascolti la musica, puoi percepire una presenza vicina. Questa è la sensazione che cerco di ricreare in uno spettacolo dal vivo, la sensazione di presenziare ad una messa nera elettrica."
Se il concept proposto può in qualche modo essere immaginato, la musica di Rev. Kriss Hades è di più difficile descrizione. Il look dell'australiano e l'uso avanguardista della chitarra black metal in senso drone l'avvicina certamente all'arte dei Sunn 0))), che infatti ne tessono le lodi e progettano una collaborazione che si preannuncia sin da ora interessante. Ma se la band di Steve O'Malley e Greg Anderson gioca soltanto col black metal, tradendo spesso atteggiamenti di ironico distacco e di divertimento intellettuale nella rappresentazione di un certo immaginario metal, Rev. Kriss Hades sembra del tutto serio in ciò che fa e che dice. "Quand'ero giovane, ero solito contattare i morti ed evocare personalità invisibili, e dopo mi sono interessato al voodoo e ad altri riti che mi permettevano di richiamare luoghi e cose lontane. Inoltre, era normale per me ricevere strane visite...," ha avuto modo di raccontare. E ancora: "Il mio ruolo in tali cerimonie era quello di un amplificatore psichico che mette in comunicazione il medium con altre forze più potenti." 
Il talento visionario di Hades non si esprime soltanto attraverso la musica. Se Rok, voce dei Sad-Ex, ha disegnato le copertine di tutti i loro dischi (ispirandosi chiaramente all'opera di Away dei Voivod), Hades ha fatto altrettanto con le uniche due release a suo nome finora date alle stampe. "Sono stato un artista visionario per tutta la mia vita, la mia musica è un'estensione della mia arte, e i due mondi si intrecciano per sempre. Ad ispirarmi sono i grandi visionari del passato: Da Vinci, Dalì, Giger, Grunwald, Poe, Lovecraft, Paganini. Ho sempre gravitato attorno all'arte che mi ricorda l'Altromondo."
Contrariamente a quanto molti potrebbero pensare, quello di Rev. Kriss Hades non è un progetto di ripiego a fronte dello scioglimento dei Sadistik Exekution. Il primo demo, "Meditation Of The Midnight Candle", risale addirittura al 1991, e svariate sono state le occasioni di esibirsi dal vivo durante l'attività della band principale. Ma solo nel 2002, attraverso i canali della defunta Decius Records, Hades riesce a debuttare in proprio con "The Wind Of Orion", per poi stampare a sua spese il documento live "Paganini. Bloodlust. Static Age". Due album assolutamente unici, che piegano il black metal alle sperimentazioni avanguardiste del Nostro senza smarrirne il senso e le prerogative stilistiche più importanti.

Gli assolo di chitarra di Hades vorticano forsennatamente per creare un gorgo, un buco nero che tutto inghiotte, mentre i tempi solitamente lunghi attraverso cui si dipanano i brani non fa che acuire il senso di smarrimento mentale e di profonda ipnosi in cui si è destinati a sprofondare. Impossibile non riconoscere nella musica del Nostro anche proprietà cosmiche: sembra quasi di sentire il "vento di Orione" soffiare impetuoso, per spazzare via le debolezze umane e rivelare il vuoto totale che si cela dietro la crosta che vi abbiamo costruito sopra, a proteggerci e rassicurarci. Perché se davvero Hades dipinge uno scenario horror, è anche vero che non è quello più a ben mercato. Invece, è l'orrore del nulla, del vuoto assoluto. L'orrore di perdersi in qualcosa di troppo grande per essere concepito. Confrontarsi con esso significherebbe mettere a repentaglio la propria sanità mentale. Non per Hades, evidentemente, ché la sua l'ha già persa da tempo.

REV. KRISS HADES - The Wind Of Orion (Decius, 2002)
REV. KRISS HADES - Paganini. Bloodlust. Static Age (Magus, 2006)

 


IL RICHIAMO DELLA FORESTA

"Adesso è tempo di lasciare questo triste luogo; addio a tutte voi, anime morte ormai dimenticate; vi lascerò con l'essenza che è dentro al mio spirito, fino a quando non mi unirò ai morti nella pace." Con tale congedo teatrale, direttamente rivolto all'ascoltatore, si chiude "As Sad As A Cemetery In The Winter Darkness", una delle tracce cardine del capolavoro "Mysterious Semblance" firmato Striborg. Non solo un grande disco di black metal, ma soprattutto il manifesto più ardito di Sin Nanna, colui che si cela dietro la one-man band australiana.
Un personaggio a dir poco curioso sin dall'aspetto, dato che alcune foto lo ritraggono con una mantellina colorata e una calvizie incipiente davvero poco 'evil'. Questo suo modo di proporsi non va però scambiato per una critica all'iconografia black metal, che alcuni prendono troppo sul serio ed altri denigrano totalmente senza capirne certi presupposti. Di essa, Sin Nanna sembra piuttosto voler sottolineare l'aspetto di assoluto individualismo, della volontà di essere repellenti allo sguardo tanto quanto all'udito, quindi opponendosi ai gusti comuni. Soprattutto a quelli di chi si è ormai assuefatto ai modelli che - volente o nolente - anche un genere anti-trend per diritto di nascita come il black metal ha finito per recepire.
Striborg si pone dunque come il campione del cattivo gusto, di una musica talmente cruda, primitiva e senza grazia alcuna da risultare indigesta ai più.
La sua è pura mistica del rumore, un concentrato di elettricità grezza che ottunde i sensi per spalancare nuove porte della percezione... e che varca ripetutamente la soglia del dolore auditivo. Non è un caso che tale sorta di nera psichedelia piaccia tanto ad artisti abituati a sperimentare coi suoni, come ad esempio i nuovi sacerdoti del rumore drone, Sunn 0))), o il connazionale Oren Ambarchi, nome di spicco nel campo dell'elettronica d'ambiente più sperimentale e minimale che così descrive la proposta di Striborg: "Musica epica e trascendentale, atmosfera oscura e aliena".
Se certe melodie che fanno capolino qua e là ("The Ghostly Pallid Hand Of Fear") possono ricordare le sinfonie d'incubo di Xasthur (così come una certa poetica di malinconia e rassegnazione), i suoni sono incontestabilmente frutto d'una ricerca iniziata una decina d'anni fa sotto il moniker Kathaaria seguendo coordinate dark ambient e messa a punto oggi negli Striborg.
Difficile spiegare la magia dietro certe costruzioni soniche, ed appare in effetti troppo semplicistico liquidare il suo stile come black metal guardato da una prospettiva ambient, considerata l'osmosi sempre più evidente (e non sempre felice, quanto a risultati) tra i due generi. "Striborg compone con mentalità free", ha sentenziato Stephen O'Malley dei Sunn 0))), ed è forse questa la chiave di volta per comprendere un artista davvero sopra le righe. Quanto ci sia di programmato nelle partiture di Sin Nanna è infatti tutto da dimostrare. Brani mastodontici per durata come "Mysterious Semblance Of Spectral Trees" (19 minuti), "Wandering The Wilderness Of Eternal Misery" (19 minuti), "Black Desolate Winter" (22 minuti) o "Spiritual Catharsis" (13 minuti), sembrano piuttosto il frutto di una libera concezione della forma canzone, che si allunga o si ritrae seguendo soltanto le leggi dettate dagli stati d'animo dell'autore. Ma senza nulla del barocchismo tipico del prog rock.
Piuttosto, è una massa rumorosa e informe di suoni che si incastrano tra loro come in un puzzle composto da un insano di mente. Una stratificazione di effetti che comunque mantengono uno spirito minimalista, tanto che il risultato finale è tutt'altro che pomposo ed eccessivo. Al contrario, quell'unico flusso sonoro è sottile e tremolante, fragile come un coccio di cristallo, ma altrettanto tagliente. Una musica che è l'ectoplasma del black metal, più che black metal stesso. La medesima qualità "spettrale" informa le liriche di Sin Nanna, che ha una concezione animistica dei boschi di cui parla in ciascuno dei suoi dischi.
Essi sono intesi come luoghi che vivono di vita propria, come la personificazione di una Natura superiore ed eterna ("The Everlasting One Of The Forest") che fa da sfondo impassibile alle storie lugubri di anime perse e dannate solo per renderle ancora più angoscianti e senza speranza. Una concezione, dunque, del tutto diversa da quella pagana tipica della maggior parte del black, tesa a ricongiungere in matrimonio Uomo e Natura. Qui invece la Natura è aliena; respinge l'umanità e accetta solo gli spiriti affini: "Ho una connessione spirituale con queste foreste; nessun uomo o dio può compararsi a tale esistenza, ché la sua presenza mi colma l'anima." ("Lurking The Murky Damp Forest").

STRIBORG - Spiritual Catharsis (Finsternis, 2004)
STRIBORG - Mysterious Semblance (Finsternis, 2004)
STRIBORG - Ghostwoodlands (Displeased, 2007)

 

 

 


Ragnarok Mistiker

Quando, nel 2004, la piccola Goatowarex pubblicò il debutto degli Urfast, "Geist Ist Teufel", alcuni avevano letto di loro sul sito della Christcrusher Records, che poco prima aveva stampato il disco su vinile e con copertina leggermente diversa. Nessuna speranza d'ascolto, però, perché l'album aveva un tiratura di sole 100 copie. Agli occhi della label tedesca era un numero adeguato a soddisfare quei blacksters con sufficiente mente aperta e fegato per avventurarsi nel contenuto poco ortodosso di quei solchi. Black metal, sì, ma registrato malamente, con una batteria sgangherata che spesso perde il tempo e strane clean vocals, come il latrato di un animale ferito.
Eppure, quanta forza mesmerica in quei brani ripetitivi e circolari! Quanta disperazione e quanta notte in quella voce finto-operistica da alcolizzato all'ultimo stadio, da immaginare impegnato in un surreale dialogo con la luna! Solo in un secondo tempo avremmo scoperto che nei suoi minuti finali (le tracce 5 e 6, dapprima senza titolo, ora conosciute come "Verräterischer, Nichtswürdiger Geist" e "In Den Weiten, Öden Räumen") quell'album conteneva una registrazione demo dello stesso anno ("Urvaterlicher Sagen") che rifletteva gli iniziali propositi ambient del cantante/chitarrista Willem, qui con lo pseudonimo di IX. Lunghi droni di keyboards lasciati a galleggiare nell'etere come nuvole nere portatrici di sventura, ideale colonna sonora dei versi immortali di Goethe e dei dilemmi teologici del suo doppio letterario, il dottor Faust.
Non c'è dubbio alcuno che il capolavoro dello scrittore tedesco abbia influito nel determinare il concept del gruppo. Non c'è soltanto una rispondenza a livello lirico (la già citata "Verräterischer, Nichtswürdiger Geist" - espressione traducibile con "Miserabile spirito traditore" e destinata a far da titolo al secondo album - è tratta di peso dal testo di Goethe, come probabilmente molte altre), ma è ravvisabile un (inconsapevole?) tentativo di tradurne in musica lo spirito e addirittura le movenze, il suo dispiegarsi attraverso momenti comici e farseschi ed altri oscuri e drammatici. Le schermaglie tra Faust e Mefistofele utilizzano un registro teatrale che gli Urfaust replicano astutamente per il tramite delle vocals di IX, che più che cantare sembra recitare con furore epico. Persino l'alternanza con uno screaming di stampo burzumiamo va interpretato in tal senso: assomiglia molto ad un cambio di scena, un improvviso incupirsi degli stati d'animo e delle emozioni raccontate. Le canzoni degli Urfaust diventano così delle danze macabre (esplicito in tal senso il folk-metal di "Auszug Aller Todlich Seinen Krafte", con evidenti inflessioni celtiche), la rappresentazione ora divertita ora spaventosa di un teatrino del bizzarro e dell'inquietante, dove i personaggi di Goethe, intrappolati nelle macchinazioni del Diavolo, si smarriscono tra riflessioni sarcastiche e terribile disperazione.
Tenuto conto di tali prerogative stilistiche, sarebbe stata cosa facile catalogare gli Urfaust come un'ennesima variazione sul tema del depressive black metal, per quanto stramba e fuori dall'ordinario. Invece, già nel 2004 era chiaro ai più di trovarsi di fronte a qualcosa di ben diverso, che fa categoria a sé e che estrae dal black metal un'emozionalità ancor più profonda del solito. Se il merito è per gran parte delle vocals di IX, altrettanto importanti sono le melodie lunari, le strutture e i suoni primitivi dei brani. Gli Urfaust danno il meglio di sé nei mid-tempo, sostenuti da una batteria spartana e da chitarre fuzz di grana grossa, che dispensano elettricità allo stato solido. Un'impalcatura precaria che sembra crollare sotto il peso vocale di IX, ma che invece serve proprio a farne svettare le qualità melodiche, a risaltare l'imponenza. Sono suoni antichi, polverosi, notturni, su cui aleggia un senso di incompiutezza che rende tutto spontaneo e non edulcorato. D'altronde, lo stesso Urfaust da cui la band ha preso il nome era la stesura originaria della prima parte del Faust, che a 18 anni Goethe immaginò con un finale tragico (l'opera venne ultimata poco tempo prima della morte, a 76 anni, e su note di speranza).
Se "Geist Ist Teufel" è comunque espressione di una poetica musicale ancora in formazione, il suo seguito fotografa la band al massimo delle possibilità espressive. L'ingresso del drummer VRDRBR (alias Nachtraaf, già in Fuisterwoud, Galgeras e Planet AIDS) e di Dolen, impegnato alle orchestrazioni, è fatto ormai consolidato, e gli Urfaust agiscono come una band, perseguendo una visione comune. "Verräterischer, Nichtswürdiger Geist" è il disco della consacrazione underground, frutto di un lavoro di perfezionamento sulle dinamiche interne ai brani, che ora appaiono maggiormente convincenti e melodicamente più spigliati, e sulla produzione, ordinata e a fuoco.
I nuovi classici del repertorio Urfaust si chiamano "Ragnarok Mistiker", "Der Gottesverächter" e "Verflucht Das Blenden Der Erscheinung", stupendi inni notturni che stringono il cuore. Tutt'intorno, le lunghe elucubrazioni ambient orchestrali di Dolen, realizzate in modo assolutamente artigianale. "Dunkel, Still Von Ewigkeit" si muove indecisa, come pungolata da un violoncello molesto e insistente. L'ascoltatore abbocca od ogni falso crescendo, che però riporta beffardamente al punto di partenza. Un gioco di tensione sciolto solo nel gran finale, al sopraggiungere di un'esplosione orgasmica di archi e fiati. I Profanum avevano già immaginato una tale mistura di dark ambient e musica classica, prima incubandola nel seminale "Eminence Of Satanic Imperial Art", poi facendola sbocciare sull'affascinante "Museum Esotericum". Gli Urfaust sono meno preziosi ed eleganti dei polacchi (e di qualsiasi formazione dark ambient tout-court, s'intende), ma sicuramente efficaci nonostante la grossolanità. Il loro interesse si concentra sull'alternanza tra i pieni elettrici delle canzoni e i vuoti ambient degli strumentali, alla ricerca di un effetto straniante che puntualmente arriva. E con esso, in uno sbuffo di zolfo, anche un "miserabile spirito traditore"...

URFAUST - Geist Ist Teufel (Goatowarex, 2004)
URFAUST - Verraterischer, Nichtswurdiger Geist (Goatowarex, 2005)

 

 


NERI APOSTOLI DEL VUOTO

I francesi Wolok, progetto del chitarrista/compositore Eymeric Germain (il Lord Naggaroth dei Devilish Era) e a cui partecipa il singer Lhukkmer'thz (di fama Zarach 'Baal' Tharag), sono forse il vero e proprio paradigma del black metal più folle e oltraggiosamente deviato. Autori di due album particolari ed eversivi, "Universal Void" (2004) e "Servum Pecus" (2006), i Wolok sono l'ago sottile di una siringa infetta puntata contro l'umanità intera. Penetrano sottopelle apparentemente senza procurare dolore; scavano nella carne molle del mondo in cerca di una vena, e una volta trovata vi scaricano dentro l'immagine deforme di un'esistenza vuota e inutile, la consapevolezza della sua bruttezza. 
Le note di "Servum Pecus" sono fatte di ruggine, immondizia, putridume, decadenza fisica e mentale, tradotta in un linguaggio black metal de-costruito, dall'andamento schizzato, denso di armonie dissonanti e di suoni surreali. Mai un caotico blob di blast-beat e chitarre, piuttosto un'autopsia effettuata con precisione chirurgica, ma senza anestesia. In generale, gli intelligenti arrangiamenti che Lord Naggaroth applica alla batteria e che Cypher realizza in modo puntale, imprimono alla musica un andamento diabolico e vagamente industrial. Il respiro ritmico fratturato di "Mankind Euthanasia", ad esempio, crea un senso di attesa e disagio in chi ascolta. Il brano funziona come un interruttore di corrente elettrica: la dà e la toglie di continuo, come in una sessione di tortura senza fine. Il momento più alto del disco è però "Phallus Absconditus", tutta protesa all'inseguimento di un riff memorabile e dal taglio obliquo, non lontano da certe pulsioni sperimentali dei Deathspell Omega. Qui i Wolok riescono a fondere la realtà disumana e spersonalizzante tratteggiata nelle composizioni precedenti con una verve lirica fuori dal comune.
Lord Naggaroth non si sforza nemmeno di articolare delle frasi di senso compiuto. I suoi testi procedono per audaci accostamenti di parole che assomigliano molto alle farneticazioni di un pazzo, apparentemente slegate tra loro, ma che complessivamente disegnano un quadro fin troppo chiaro della visione esistenziale dell'artista. Sesso, violenza, malattia, religione, filosofia dell'assurdo e realtà in cancrena si fondono gli uni con gli altri, finendo per fornire un'analisi impietosa dell'umanità e che non lascia speranza alcuna. Espressioni come "cumshot of prayers", "deiphiliac urges", "religious AIDS" e "nihil vaginal discharge" non lasciano adito a dubbi:  l'atto sessuale, spogliato di ogni poesia e giudicato come un peccato immondo se guardato attraverso la lente deformante della religione  - che lo bandisce dalla propria mitologia, nascondendolo (absconditus), dunque mutilando l'uomo - diventa sinonimo della ricerca di un oblio. Eiaculare nell'oscura cavità vaginale, grande metafora sul mistero del vuoto, non è più atto fecondo, ma una violenta e disperata pulsione di morte, un desiderio latente di auto-annullamento, la necessità di rendere sterile la vita. Esplicativa l'immagine di copertina: una splendida tela di Beksinski, dove l'Umanità è una piaga, un mostro proteiforme che si avvia verso il nulla. I Wolok sono oltre quella porta, in attesa, come uno di quei vermi che alla fine ci divorerà.

WOLOK - Servum Pecus (Eerie Art, 2006)

 

 


...NEI BOSCHI DI SERA

Qualcuno potrebbe trovare ingiustificata la presenza dei Woods Of Infinity in una rassegna di artisti black metal fuori dall'ordinario. Evidentemente non hanno fatto bene attenzione al messaggio, lirico oltre che musicale, di cui il due svedese si è fatto portatore in una manciata di release interessanti, culminate nel bellissimo "Ljuset". 
E' vero, il solco stilistico su cui i Woods Of Infinity gettano i semi infetti del loro black metal è lo stesso tracciato parecchi anni fa da altri frequentatori di oscure foreste, vale a dire i Forgotten Woods. Stessa vena melodica e malinconica, d'altronde saccheggiata da chiunque si dedichi alle forme più "depressive" del black metal; e stessa dimensione pagana di una musica che trascende il reale ed immerge in un grigio mondo di spettri.
Diversamente dal seminale combo tedesco, però, i Woods Of Infinity si prendono meno sul serio. O forse no. Alcune foto li ritraggono abbracciati a raccapriccianti bambole coperte di sangue, forse persino una simbolica rappresentazione di istinti pedofili (repressi?); oppure chini su tombe adornate di giocattoli, crocifissi, lumicini mortuari, bottiglie di liquore e altri oggetti di una quotidianità banale che nel contesto fanno assumere a quella stessa dimensione ben altri toni. Quelli cupi e perversi di un'innocenza perduta nel modo più brutale e terribile; quelli di una normalità che se ne va per sempre, per lasciare il posto ad una lucida follia, ad una percezione distorta del reale, all'illuminante verità che tutto è senza senso, è malato, è mostruoso, è ridicolo. E' questo pescare nel torbido delle proprie emozioni con fare ironico, consapevole e allo stesso tempo dissociato, che rende unici e originali i Woods Of Infinity.
Che l'idea di un'infanzia traviata (e avviata verso un'età adulta problematica e di sofferenza) sia il fulcro della loro poetica traspare non solo dall'immaginario iconografico prescelto, ma anche dalle forme date alle composizioni. "Genever" e "Ett Forlorat Barn" girano intorno agli stessi accordi notturni e dolciastri, da ninna nanna del terrore. Fiabe crude e violente, inframmezzate da divertenti e imprevedibili inserti registrati in presa diretta, con innocenti risa di bimbi, stupide filastrocche o l'abbaiare di cagnolini, subito bissati da urla disumane e melodie decisamente tristi.
Si tocca il fondo con "A Love Story", una farsa folk-black che assume i ritmi di una tarantella drogata e dolente, per poi tornare a macinare riff arcigni, con un cantante sull'orlo di una crisi di nervi. Altrove, i toni si fanno epici e solenni, ma è il tipo di maestosità di quando ci si trova di fronte ad un burrone emozionale senza fondo, pronti a spiccare il salto.
Difficile capire se i Woods Of Infinity raccontino di esperienze vissute, se del dolore fisico e psichico che mettono in musica siano gli artefici o se lo abbiano vissuto in prima persona. Se cioè siano le vittime o i carnefici. O entrambe le cose. Ad ogni modo, "Ljuset" va interpretato come il diario di due vite irrisolte, di bambini troppo sensibili e troppo cresciuti, feriti dalla vita e definitivamente persi in "boschi infiniti" che appartengono alla dimensione dell'incubo, dove Alice e Cappuccetto Rosso aspettano per giocare, con bocche sorridenti... e grondanti sangue.

WOODS OF INFINITY - Ljuset (Total Holocaust, 2005)

 

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