OBSCURE METAL UNDERGROUND & VULTURE CULTURE
I, VOIDHANGER MAGAZINE - ASCOLTI
Recensioni a cura di Voidhanger

 

HIGHLIGHTS: I DISCHI DA NON PERDERE - 2005/2007

 

ALUK TODOLO
Descension (Public Guilt)
I francesi Aluk Todolo suonano krautrock occulto dagli accenti black metal e industrial. Lo diciamo subito, certi che un connubio del genere possa attirare l'attenzione. In realtà si tratta di una descrizione di comodo, essendo difficile penetrare nel cuore di una musica così misteriosa e sinistra. Eppure, il suo incidere psichedelico e la corposità delle note, così come le strutture aperte tipiche delle jam session, rimandano direttamente alla grande lezione di Can e Faust, qui re-interpretata col piglio luciferino di chi vanta una profonda conoscenza (più che una semplice passione) delle arti oscure e una sicura discendenza black metal (della band fanno parte membri dei Diamatregon). Una gita sul myspace della band vi condurrà attraverso strani simboli alchemici, formule magiche e immagini di oscuri rituali in odor di zolfo. Altrimenti affidatevi ai quattro brani di "Descension", che sin dal titolo promette un viaggio esoterico negli abissi del sé. Si parte con "Obedience", che subito mette all'erta il settimo senso di chi ascolta. E' un flusso improvvisato di note e rumori, che si muove come una marea, sommergendo l'ascoltatore inerme ed impossibilitato a resistere. La sua progressione induce ad una trance inquieta attraverso suoni minimali che nelle due tracce successive, "Burial Ground" e "Woodchurch", si fanno sempre più freddi, ghiacciati, sia nei momenti di stasi totale che in quelli di improvvisa accelerazione ritmica. Importante, in questo sondare abissi interiori, è il contributo di una produzione decisamente lo-fi, che costringe ad alzare il volume e, con esso, il grado di immersione mentale in una dimensione solitamente nascosta ai comuni sensi. In questo modo, l'ascoltatore diventa psiconauta, e la musica è solo una mappa psichedelica per giungere più facilmente alla meta. O per arrivarci il più tardi possibile... Difficile dire quanto la proposta di Aluk Todolo possa interessare chi il black metal non vuole nemmeno provare a immaginarlo vestito in modo diverso; figuriamoci se addirittura lo si imparenta con la psichedelia kraut. Ma come il gruppo ha ben detto in una recente intervista, "Sarebbe d'aiuto a molti blacksters rendersi conto che l'oscurità non è nata nel 1992... e che se un negro non avesse venduto la sua anima al diavolo per imparare il blues, il black metal non sarebbe neppure esistito."

 

BARONESS 
The Red Album (Relapse)
Tutto come da copione, per i Baroness. Prima un paio di EP molto promettenti, e adesso il debutto su Relapse, pronto a farne la “next big thing” del metallo più evoluto e moderno. “The Red Album” sfoggia la stessa visione ecumenica del rock di Neurosis, Isis e Mastodon, ma movendosi verso traguardi psichedelici che solo i Minsk hanno saputo tagliare con eguale estro creativo. Le iniziali “Rays On Pinion”, “The Birthing” e “Isak” chiariscono subito che, una volta saliti su quest’ottovolante emozionale, sarà difficile scenderne interi. Il loro programma prevede progressioni mozzafiato, torride jam session spinte sino ai confini con la fusion, e un bel gioco di tensioni elettriche, prima accumulate sotto la spinta dirompente della sezione ritmica, poi rilasciate sotto forma di magnifiche melodie heavy-psych. Tutto è concentrato nel giro di pochi minuti, ma sufficienti a immaginare maestosi panorami lisergici che in “Wailing Wintry Wind” e “Grad” si colorano di malinconia. Oltre che complessi e dinamici, i Baroness sanno anche essere pacati e riflessivi, come nello strumentale per chitarra acustica di “Cockroach En Fleur”, roba per patiti di Jack Rose e affini. Efficaci e coinvolgenti anche le vocals di John Baizley, autore della bella copertina floreale del disco, dove l'Art Noveau, i Preraffaelliti e la poster art psichedelica dei tardi ’60 si fondono in un amalgama elegante e originale. Proprio come la musica dei Baroness.

 

DEAD MAN
Dead Man (Crusher)
Il debutto eponimo degli svedesi Dead Man si fa annunciare da un’immagine di copertina tanto semplice quanto efficace: un contadino a petto nudo, curvo su un campo di fiori, con in mano una grossa falce. Una metafora di morte, come lascerebbero intendere i colori acidi e lividi, riconducibili alle tecniche usate da Keef per la cover del primo Black Sabbath? Oppure solo un modo per sottolineare la natura bucolica e lisergica del loro rock, suonato con semplicità e passione, ma anche grinta?
Comunque sia, “Dead Man” è tra i dischi più entusiasmanti e psyched-out degli ultimi anni, un piccolo capolavoro che si abbevera alla fonte dei gruppi della “summer of love”: Jefferson Airplane, Grateful Dead, Moby Grape, Mad River, Quicksilver Messenger Service, etc. Ma forse sarebbe più corretto accostarli ai Frumious Bandersnatch, ai Kak e ad altre formazioni anni ’60, semi-conosciute ma altrettanto seminali, che operarono lontano da San Francisco e dagli altri centri importanti del rock. A loro si deve una più genuina fusione tra le tipiche istanze psych dell’epoca e la dimensione folk-blues che ancora penetrava la loro quotidianità e la loro cultura.
Da questa prospettiva, è più facile calarsi nelle atmosfere di “Haunted Man”, un country-rock nervoso e chimicamente alterato, o di “Season Of The Dead”, ballata folk dai toni oscuri disciolta nell’acido. La musica dei Dead Man non è solo estasi psichedelica, ma anche cruda potenza rock, spesso dalle tinte Southern. “Highway”, ad esempio, ha il brutto muso degli Steppenwolf e non avrebbe sfigurato nella colonna sonora di “Easy Rider”, in mezzo alla polvere sollevata dalle motociclette di Capitan America e Billy. “Goin’ Over The Hills”, invece, vola alta con la stesso slancio emotivo dell’aeroplano Jefferson, quando a guidarlo era l’ugola tagliente di Grace Slick. In chiusura, i 14 minuti di “Deep Forest Green”, che rinuncia in parte alle ariose melodie degli episodi precedenti per farsi introversa, cupa e slabbrata. Come le improvvisazioni irrisolte dei Grateful Dead di “Anthem Of The Sun”, che sbandavano meravigliosamente sotto i colpi dell’acido.
Ben lontani dal revivalismo, i Dead Man sono, insieme agli amici Witchcraft, la punta di diamante di una nuova ondata psych-rock che continua a montare inarrestabile dalle terre del Nord.

 

DEATH AMBIENT
Drunken Forest (Tzadik)
Il terzo disco di Death Ambient arriva a svariati anni di distanza dal suo predecessore. Otto, a volere essere precisi. Forse per la paura di confrontarsi con un passato che - avverte John Zorn - ha fatto della band un best-seller della sua Tzadik? O forse per un calo d'ispirazione dei suoi autori? Macché. "Drunken Forest" è un lavoro coraggioso e che aggiunge ancora qualcosa ad uno stile consolidato. Con tutta probabilità si tratta del capolavoro definitivo di Fred Frith (chitarra elettrica), Kato Hideki (basso) e Ikue Mori (laptop), l'album per cui saranno ricordati in futuro. Sono 54 minuti di suoni arcani e avvolgenti, ramificati e spettrali come la foresta pluviale fotografata in copertina. Ambient sinistro e atonale, a tratti rumoroso, intervallato da episodi più melodici e di calma beatifica ("Thermohaline"). Suggestivo e  cinematgrafico, comunicativo nonostante l'astrattezza di fondo ben marcata e il carattere esplorativo che da sempre contraddistingue la cifra Death Ambient. Questa volta i Nostri hanno chiamato in formazione il drummer Jim Pugliese, che riesce comunque a rendersi invisibile, colorando le composizioni quel tanto che basta per far rimarcare la sua presenza. Che si fa evidente soprattutto quando posa le bacchette e tira fuori la tromba ("Qianwei Sky"). Di veramente nuovo, rispetto al passato, c'è infatti una strumentazione più ricca e prevalentemente acustica, quasi folk. Merito di Hideki, che ha portato nella band un po' dei suoi attrezzi da lavoro: chitarra classica, analog synth, violino, banjo, mandolino, accordion, ukulele, chitarra elettrica e lap steel. Nelle sue mani, persino ghiaccio, acqua e vetro si trasformano in prodigiosi generatori di suoni, perfettamente organici ed integrati nel tessuto, e non semplice contorno descrittivo ("Greenhouse")
. La musica è un intrecciarsi di trame e sottotrame minimali, con la chitarra distorta di Frith che sorvola gigantesca i brani, si staglia statica sullo sfondo o balbetta come una radio mal sintonizzata. Dietro di lui, la fantasiosa programmazione ritmica della Mori (geniali i suoi micro-pattern e gli effetti elettronici) e Hideki a fare inaspettatamente da regista occulto. Il suo violino straziante conferisce drammaticità a "Belarus", alla splendida "River Tigris" e alla title-track, mentre in "Dead Zone" si assiste alla putrefazione di un cadavere che si gonfia di aria e vermi. Il commiato avviene sulle note di "Coral Necropolis", un paesaggio notturno e solitario, dipinto con chitarre acustiche ed elettriche, banjo e synth che a stento trattengono la sua cupa, malinconica maestosità. La stessa di un cimitero di radici e arbusti, immobile e sonnolento, in cui il sole non scandisce il passare del tempo. Ma l'Ambient della Morte, a dispetto del nome, non potrebbe essere più vitale e rigoglioso di così.

 

DOWN 
III: Over The Under (Roadrunner)
Down: più duro li colpisci, più forti diventano. Le vicissitudini del singer Phil Anselmo (l’odissea personale di “junkie” redento, la recente operazione alla schiena) e la morte violenta dell’amico Dimebag Darrel non li hanno fermati. Non c'è riuscito neppure Katrina, l'uragano che ha messo in ginocchio l’amata New Orleans. Forse è per questa overdose di dolori ed emozioni che “Over The Under”, terzo lavoro in 15 anni di esistenza, è l'album che è. Invece di suonare più acustico e riflessivo, come ci si aspettava da una band matura e appagata dai traguardi raggiunti, brucia di una rabbia distruttrice mitigata unicamente dall'amarezza e da una grande voglia di rivalsa. Sentite “Never Try”: Southern rock di classe in cui Anselmo ruggisce a pieni polmoni un chorus torcibudello, di quelli così grandi che ti fanno venire voglia di dare un calcio a tutto, che ti fanno stare dritto e fiero contro il mondo. L’ex-Pantera offre una performance vocale emozionante e sofferta, sia quando si tratta di cantare i blues distorti e metallici di “Beneath The Tides” e “I Scream”, sia quando Keenan e Windstein iniettano potenti anabolizzanti sludge-doom nei muscoli sabbathiani dei Down, trasformandoli in una bestia elettrica di grande animosità (“In The Thrall Of It All”, Mourn”). I due chitarristi s'azzuffano di continuo con la poderosa sezione ritmica di Rex Brown e Jim Bower, siglando una tregua solo nei passaggi stoner-psych di “Nothing In Return (Walk Away)”, densi come le paludi e gli acquitrini della Louisiana. Il resto è un'antologia di brani che suonano classici e senza tempo, perché fatti di quella pasta buona e genuina che in giro non si trova quasi più. Ogni tanto sembra di sentire l'eco di vecchie canzoni, vecchi riff – quelli di “NOLA”, soprattutto – che risorgono a nuova vita (“Three Suns And One Star”). Ma non è mica un deja-vù… semmai un vudù, una meravigliosa stregoneria hard’n’heavy che vi conquisterà anche stavolta.

 

HARVEY MILK 
Special Wishes (Troubleman)
Il nome Harvey Milk, lo stesso di un noto sindaco gay di San Francisco assassinato nel ‘78, dirà poco alla maggior parte di voi. A meno che non vi siate già imbattuti nella ristampa Relapse del capolavoro “Courtesy And Good Will Toward Men” (1997), nelle altrettanto recenti raccolte di singoli e inediti, oppure nel magnifico DVD (quasi 4 ore!) dato alle stampe dalla piccola Chunklet Records. È un periodo di rivalutazione del lavoro del trio georgiano, che a fine ’90 era stato liquidato frettolosamente come l’ennesima grunge band fuori tempo massimo. Invece covava dentro l’amore per il rock di Led Zeppelin e ZZ Top, e su “Special Wishes” trova la cifra stilistica definitiva, sposando il doom noise degli esordi con certe velleità classic rock, in brani rispettosi della forma-canzone. Il risultato è uno incrocio tra Melvins e Lynyrd Skynyrd, tanto per semplificare. Ce n’è per tutti i gusti: blues iper-distorti e immersi nel feedback (“Crush Them All”, “Love Swing”); doom decadenti e paludosi (“War”, “I’ve Got A Love”); passionali ballate Southern elettro-acustiche (“Once In A While”, “Old Glory”) e persino qualche svisata prog nel crescendo di “Mother’s Day”, che è tutta un intreccio psichedelico di chitarre, organo e violini. La voce da animale ferito ce la mette Creston Spiers: un Mark Lanegan di campagna, di quelli che è facile immaginare stravaccati nella veranda di una tipica casa del Sud, un occhio ai figlioli che giocano vicino al trattore e l’altro sul sole che scompare all’orizzonte, dietro i campi di grano. Quella degli Harvey Milk è una versione doom moderna, violenta e disincantata del rock sudista, che parla di sentimenti e temi universali (guerra, amori impossibili, tradimento) senza mai uscire dal proprio microcosmo, dal backgarden di casa. È l’America gotica e rurale, l’America dolente dei romantici perdenti.

 

THE HIDDEN HAND 
The Resurrection Of Whiskey Foote (Southern Lord)
Vera e propria leggenda vivente, il chitarrista/cantante Scott “Wino” Weinrich sembra nel pieno di una seconda giovinezza nelle fila degli Hidden Hand, dopo avere scritto la Storia del doom in mitiche formazioni come Saint Vitus, The Obsessed e Spirit Caravan. Il passo pachidermico dell’iniziale “Someday Soon” risente ovviamente di quelle esperienze, ma l’amicizia col bassista Bruce Falkinburg, l’altra anima della Mano Nascosta, ha leggermente rammodernato la sua poetica rock in senso prog (“Slow Rain”), in linea con certe tendenze odierne. Non più solo e soltanto doom, dunque, ma un rock hard’n’heavy che sa abbeverarsi all’eterna e inestinguibile fonte dei Seventies senza per questo rinunciare ad un taglio moderno e ad interessanti contaminazioni. Non è un caso che gli Hidden Hand abbiamo spesso e volentieri diviso il palco con i lanciatissimi Mastodon, Om e High On Fire, sebbene l’età ed il retaggio musicale suggeriscano a Wino e soci melodie e strutture di stampo classico, invece delle evoluzioni pirotecniche e delle fantasie ritmico-chitarristiche di quei pesi massimi. “The Resurrection Of Whiskey Foote” riesce a rendere attuali formule rock di 40 anni fa che dovrebbero mostrare la corda, e che invece nelle mani degli Hidden Hand si caricano di nuove sfumature. Si tratta senza dubbio del migliore album finora partorito dalla band, quello più completo, potente e articolato; perfetto riassunto delle qualità artistiche di Black Sabbath, Lynyrd Skynyrd e King Crimson. Merito di Wino, che con la sua solista inarrestabile ammanta di nero “Dark Horizons” e fa rifulgere di luce stoner la massiccia “The Lesson”. Come intuibile dal titolo, la title track è un Southern blues ad alto tasso alcolico e con frequenti interventi di slide guitar “psichedelicizzata”: una rilettura dello Skynyrd-style che ci ha ricordato la stupenda collaborazione di Wino coi misconosciuti (ma eccezionali) Mistick Krewe Of Clearlight, ovvero il rock sudista più heavy e psych al di là dei Down. Il resto rimane su livelli stratosferici, dimostrando come il fuoco interiore dell’indomito Wino è ancora lungi dallo spegnersi, soprattutto se ben supportato da un bassista ingegnoso come Falkinburg e da un batterista versatile e potente come Evan Tanner. In bilico tra modernità e tradizione, gli Hidden Hand restano un ascolto imprescindibile per chiunque si dica amante del rock duro.

 

HIGH ON FIRE 
Death Is This Communion (Relapse)
Chi ha avuto la fortuna di assistere ad un concerto degli Sleep, la band stoner doom per eccellenza dei ’90, ricorda ancora le pose heavy metal del chitarrista Matt Pike, in netto contrasto con lo stato di trance in cui versavano i compagni. Mentre Al Cisneros e Chris Hakius venivano rapiti dai fumi (virtuali e non) della psichedelia heavy e si perdevano nei propri trip mentali, Pike non cessava di dimenarsi e di innalzare al cielo il suo strumento, come fosse il santo graal. Di quel baccanale pagano, Pike era l’anima metal, il lato selvaggio e bestiale, a stento trattenuto entro i recinti doom innalzati da basso e batteria. Sciogliere gli Sleep è stato come togliere museruola e catene ad una belva affamata, cresciuta in cattività e pronta a sbranare. Quel che è rimasto di noi dopo l’assalto violentissimo di “Blessed Black Wings”, precedente album degli High On Fire, oggi finisce nelle fauci spaventose di “Death Is This Communion”, un mostro cannibale che beve sangue e vomita fuoco. Il dipinto di copertina, opera del solito Arik Roper, cattura perfettamente la natura barbarica di una band immersa in una dimensione sospesa tra l’era hyboriana di Robert Howard e gli scenari horror di Lovecraft. Il disco è un monumento alla “old school” del metallo pesante, scuola che i Nostri hanno frequentato con grande profitto. Certe maniere da macellaio le hanno infatti imparate da Celtic Frost, Slayer, Black Sabbath e Motorhead, e le mettono in pratica in brani come “Turk”, “Rumors Of War”, “Waste Of Tiamat” e la title track, dove l’ascia di Pike e le sue vocals tonanti ingaggiano battaglia con una sezione ritmica la cui potenza si misura in Scala Richter! Il linguaggio della band è comunque ben poco revivalista, sebbene più ortodosso di quello dei Mastodon, a cui la devastante “Fury Whip” sembra gettare un guanto di sfida. Ancor più che nel precedente lavoro, “Death Is This Communion” mette in evidenza una bella vena melodica, fatta filtrare attraverso gli assolo e i chorus delle ultra-violente “Cyclopian Scape”, “Ethereal” e “Return To NOD”. Non manca neppure il contrappunto di brani strumentali destinati ad alleggerire la tensione, come l’acustica “Khanrad’s Wall”, sfizio zeppeliniano dal sapore orientale, e “DII”, che intreccia chitarre ed organo in una sinfonia epica. Poco arrosto dietro al fumo di una musica esageratamente brutale, commenteranno alcuni. Invece, questo è il metal così come dovrebbe sempre essere, e come piace a noi tutti.

 

JANVS
Fvlgvres (ATMF)
Considerato che il precedente “Nigredo” era stato stampato in meno di cento copie, probabilmente sono in pochi a conoscere Janvs. In ogni caso, “Fvlgvres” costituirà una sorpresa anche per chi avesse ascoltato quelle promettenti registrazioni embrionali, dato che in sette magnifiche tracce documenta un parziale cambiamento di registro in seno allo stile della band. In questo nuovo inizio, il black metal dalle connotazioni burzumiane dell’esordio si carica di nuove sfumature, trasformandosi in metallo nero evoluto, dall'indole heavy rock e dalla forte identità italica. È il risultato della definitiva emersione di una poetica che avvicina la creatura di Vinctor agli Spite Extreme Wing di Argento, ma con un taglio esistenziale tutto proprio. Lo stesso Argento è ospite in "Vrsa Major", e la sua presenza serve a testimoniare il valore assoluto di Janvs e il sodalizio artistico, culturale e ideologico tra queste e altre formazioni della "Black Metal Invitta Armata". In "Fvulgres" Vinctor è affiancato in pianta stabile da gente navigata: il bassista Malphas (Tronus Abyss) e il batterista Francesco La Rosa (Malombra, Il Segno del Comando, Ianva), che svolge un ottimo lavoro anche alle keyboards, ideale accompagnamento per le elucubrazioni folk-apocalittiche di “Vesper”. A sorprendere molto, memori del debutto isolazionista, è la partecipazione emotiva di ogni membro del gruppo, la coralità del narrato musicale. Che consiste in un black metal regale, fiero, animoso; teso come l’arco di un guerriero e preciso come la sua saetta; incrollabile nello spirito e nella fede (“Piume D’Arcangelo”). Janvs non rinuncia comunque a quella visionarietà che tanto era piaciuta in “Nigredo” e che torna prepotentemente nella meditazione notturna e a voce alta di “Melencolia”, quando Vinctor canta “E chi mai saprà di questi momenti, dove il tempo si spacca in un infinito abisso in cui i miei occhi si sciolgono...” Non la solita solfa suicidal black metal da perdenti, ma poesie struggenti, cantate col furore epico e intellettuale di chi ha una spina nel cuore e una guerra da combattere. E vincere.

 

KHLYST
Chaos Is My Name (Hydra Head)
Mollati i Khanate, James Plotkin continua nei Khlyst gli esperimenti di decostruzione del doom con l’ausilio di una voce eccellente, quella di Runhild Gammelsaeter, il bellissimo demone biondo norvegese che il gossip annovera tra le ex di Ihsahn (Emperor). Chi la ricorda nelle fila dei Thorr’s Hammer, storica band pre-Sunn O))), sa già dei growl profondi e delle urla scorticanti di cui è capace. Plotkin, sorta di John Zorn del doom, li sottopone ad un intenso trattamento alchemico per dilatarli, distorcerli e mutarli in un pericoloso strumento di tortura. Tutt’intorno ad essi, un background sonoro fatto di chitarre dalle frequenze ribassate, da una batteria schizzata e dal suono “spaced out” di un gong, per un impasto innovativo di dark ambient, drone, noise e (doom) metal da cui affiora con insistenza un tema vagamente melodico, secondo un copione tipico del free jazz. Concettualmente più avanti dei Sunn O))), i Khlyst non concedono nulla all’ascoltatore, e “Chaos Is My Name” si chiude a riccio sui suoi otto movimenti senza titolo, lasciando fuori coloro che hanno poca preparazione per capire fino in fondo, o voglia di sforzarsi di farlo. Eppure, la sua bellezza oscura e perversa è talmente assoluta da eclissare qualunque altra opera dark dei nostri giorni.

 

KLAGE
Dystopias Wiege (Fimbul)
C'è un manipolo di band, in Germania, che da qualche tempo tenta di riportare il black metal ai fasti del passato, suonandolo coi modi genuini, la carica emotiva e la purezza d'ispirazione propria dei gruppi che lo resero grande. Non una stantia operazione di revival (a cui già pensano gli innumerevoli cloni di Darkthrone, Satyricon e Mayhem), ma una vera e propria rifondazione. Un significativo "regressus ad uterum" scaturito da necessità di preservazione ed auto-difesa, se vogliamo. Evidentemente, dopo anni di mistificazioni e fraintendimenti, di impostori e voltagabbana, il black metal aveva bisogno di rigenerarsi, di ritrovare sulla sua strada le emozioni, i sentimenti, i concetti, le atmosfere, le melodie (e persino la distribuzione carbonara) da cui era nato. Oggi, il suo nuovo utero è nei dischi di Myrkwid, Kargvint, Interitus, Luror, Veineliis, Schattenheer... ma soprattutto Klage, il tedoforo del metallo nero più puro e incontaminato. L'intro e l'outro di "Dystopias Wiege", rispettivamente di Bach e Beethoven, reclamano a gran voce un ritorno al classico, ad antichi splendori. Klage attinge allora alle sorgenti dimenticate del black metal e tira fuori brani come "Jählings Naht Ein Schrecknis An", "Schwärze Krönt's Geschicke", "Unlebensbürde" e l'immensa
"Wurmestugend", talmente solenni, grandiosi e drammatici da lasciare col fiato mozzato. Ti afferrano il cuore in una morsa, ti torcono le budella, ti fanno sobbalzare per la maestosità delle melodie, per gli insostenibili crescendo che si susseguono ad ogni giro, che innalzano lo spirito offrendolo al cielo stellato, in segno di resa assoluta. La voce corvina di Nachtswehr è l'eco lontana di un abisso interiore portato finalmente in superficie. La notte è in questi solchi, col suo regale mantello nero, la sua malinconia struggente, i misteri infiniti, il tocco di seta su vette aspre e innevate. Un soffio d'eterno spirerà dentro di voi, colmandovi l'anima. Vi trascinerà in alto, sempre di più, dove non c'è bisogno di ossigeno o luce, e non vi farà cadere. Vi cullerà e rinfrancherà, vi spalancherà le profondità cosmiche e ve le metterà nel pugno di una mano e ci staranno tutte e piangerete di commozione... Quando sarete di ritorno, questo pezzo di vinile - magnifico monumento di black metal misantropico  - avrà appena smesso di girare.

 

LOCUS MORTIS
Voust (ATMF)
Una volta estratto dallo slipcase nero in cui è contenuto, il nuovo album dei blacksters Locus Mortis rivela una bellissima copertina dai toni verdastri. Sono i colori della ruggine e delle muffe, della putrefazione e della decadenza, della corruzione delle nostre spoglie mortali e dei nostri sogni. È un’immagine confusa e sfocata, come se ritraesse qualcosa che conosciamo, ma che non osiamo guardare fino in fondo. È la Morte, già protagonista del precedente “Inter Uterum Et Loculum” così come del parallelo progetto funeral doom degli Urna. Ma qui il monumento innalzato dai sardi RM e MZ in onore della signora con la falce si fa più alto e imponente, un “memento mori” di proporzioni colossali. Merito dell’apporto di un batterista in carne ed ossa (però feroce e disumano come la drum-machine del debutto!), ma soprattutto della severa bellezza dark di melodie svettanti, potentemente evocative e gonfie di emozioni, sospinte da una scrittura agile e precisa nell'alternare mid-tempo mortiferi e violente progressioni. La Morte, in tutto il suo arcano e gelido splendore, è ritratta in suoni magniloquenti, nebbiosi, avvolgenti. È altera e tirannica, ma mai una brutale assassina. Piuttosto, è pietosa e consolatrice quando monda l'animo dai peccati e dai pesi terreni ("Lasciate Che Vengano A Me"). Sentite l’enormità della coda di “Voust”, oppure il vuoto abissale che si spalanca in “Sonno Eterno” e “Resti”, in cui veniamo scagliati da assolo violenti e schizzati. O ancora il malinconico abbandono celato dietro al feroce blast-beat de “Il Respiro dei Morti”. Non è soltanto black metal: è rumore mistico, l’accesso ad una dimensione metafisica da oltretomba. Lì la grande mietitrice è in attesa di (ri)abbracciarci, come una madre generosa. Dopotutto, non ci offre forse l’eternità?

 

NADJA
Radiance Of Shadows (Alien8)
Incontenibili Nadja! Quest’anno le uscite del duo canadese di Aidan Baker e Leah Buckareff sono state tante, forse persino troppe, eppure tutte di grande spessore. Fasciato da una stupenda copertina che ritrae un paesaggio invernale gonfio d’oscurità e gelo, l’ambizioso “Radiance Of Shadows” non fa eccezione, candidandosi spavaldamente alle playlist di fine anno insieme al fratello “Thaumogenesis”, uscito ad inizio 2007. L’album consta di tre suite che si dividono democraticamente lo spazio contenuto nel dischetto argenteo, con una media di 26 minuti per brano. In “Now I Am Become Death The Destroyer Of Worlds” le chitarre ultra-heavy si abbandonano a melodie doom dolenti e funeree, tanto grandiose quanto decadenti. Un inno alle forze della Natura, alla potenza degli elementi, al vastità del creato, descritto coi colori di una psichedelia bella e visionaria, ma allo stesso tempo fredda e aliena. A metà del percorso ci si ritrova a galleggiare in uno spazio indefinibile, dove ambient, drone, noise e metal diventano un tutt’uno inscindibile. Poi si comincia a scendere, lentamente. Quando si tocca terra, l’ottovolante emozionale di “I Have Tasted The Fire Inside Your Mouth” è proto a raccoglierci per un nuovo giro nella stratosfera, cullandoci dolcemente sulle note di una melodia shoegaze affidata al vocals eteree. Infine la title-track, un’altra sbornia noise-psichedelia da cui si esce coi timpani maltrattati, ma anche con un grande senso di leggerezza interiore. La catarsi è compiuta, anche stavolta.

 

NECROS CHRISTOS
Triune Impurity Rites (Sepulchral Voice)
C'era proprio bisogno di questo disco. In un momento in cui le ristampe dei classici death-black metal (underground e overground) sembrano le uniche a potere soddisfare la fame di sonorità old style degli appassionati, i Necros Christos se ne vengono fuori con un album di blackened death-doom che ha tutti i crismi del capolavoro. Un concept sofisticato e complesso, ma scevro da inutili intellettualismi; atmosfere da messa nera; un suono necrotico e potente; growl vocals intelligibili, eseguite con trasporto e partecipazione; testi che sembrano scritti da un esperto satanista; canzoni come maligne invocazioni rituali; riff death-doom da antologia perfettamente incastonati dentro ritmiche rocciose e palpitanti, spesso ipnotiche e drogate quando  il loro incedere si fa lento e scopertamente doom. Inoltre, numerosi intermezzi dal flavour orientale ("Kischuf"), spesso eseguiti in punta di chitarra acustica con una maestria davvero fuori dal comune. Infine, una copertina all'altezza della musica, e titoli potentemente immaginifici come "Daemonomantic Fog Lay Upon The Tombs Of Succoth", "Tormented Flesh On The Mount Of Crucifixion" e "Nazarethical Ram Of Bethlehem". Senza dubbio i Necros Christos sanno il fatto loro, avendo studiato con profitto alla scuola di Goatlord, Hellammer, Celtic Frost, Samael, Asphyx e Mortuary Drape, tra gli altri. L'album non è comunque esente da pecche. Al di là del fatto che parte del materiale, sebbene registrato nuovamente, faceva già bella mostra di sé in precedenti release, il disco è esageratamente lungo, e dopo un incipit mozzafiato sconta la mancanza di ulteriori sorprese, soddisfatto com'è di ripetersi uguale a se stesso, traccia dopo traccia, per 60 minuti. Poco male, perché se "Triune Impurity Rites" aveva un compito, era proprio quello di fungere da manifesto d'intenti dei Necros Christos, offrendo un programma quanto più completo e ricco possibile. Così tanto che il batterista ha lasciato la band poco dopo la pubblicazione del disco, dicendosi appagato dal risultato. Noi, invece, speriamo di rivederli all'opera al più presto. "Triune Impurity Rites" è un sicuro must, e farà la felicità dello zozzo metallaro che c'è in voi.

 

NEGATIVE PLANE
Et In Saecula Saeculorum (Ajna)
Propiziato dai tipi della Ajna, etichetta che si sta facendo un nome di tutto rispetto in ambito black, il debutto dei Negative Plane può già definirsi un classico. Alcuni vi hanno ravvisato qualche peccato veniale, sostenendo che l'irruenza della band nel mostrare di cosa è capace ha portato al concepimento di brani eccessivamente lunghi e complessi, zeppi di riff e soluzioni che ad altri sarebbero bastati per riempire un paio di album. A ben guardare, però, le scelte dei Negative Plane appaiono del tutto deliberate. L'obiettivo è di ingigantire il senso di oscura grandeur e di caos opprimente che scaturisce da composizioni labirintiche, ma studiate nei minimi dettagli e accorgimenti. A questo proposito, è doveroso segnalare la splendida intro, ricavata dalla colonna sonora composta da Fabio Frizzi per il capolavoro di Lucio Fulci, "L'aldilà... e tu vivrai nel terrore". La strada battuta dai Negative Plane è quella tracciata da primi Samael e soprattutto dai Celtic Frost, ma il primitivismo di quelle band viene qui trasfigurato dalle inclinazioni progressive del duo americano, dove per "progressive" intendiamo l'inerpicarsi su strutture in continuo divenire, che a volte hanno per fondamenta i suoni di un vero organo chiesastico, usato per dare colore, tono e profondità ("Death Mass"). Non basterà un ascolto per esplorare le monumentali partiture concepite dalla band, tanto più che i Nostri non risparmiano alcuna sfumatura del lessico black metal, da quelle death a quelle doom (il sinfonismo macabro di "Unhallowed Ground" ha più di un punto di contatto coi primi Death SS), sino a quelle più malinconiche e meditative (la coda di "Staring Into The Abyss"). Se da un lato tutto ciò rende l'assimilazione lenta e difficoltosa, dall'altro evidenzia s'in d'ora nei Negative Plane una personalità schiacciante, se non addirittura tirannica. "Et In Saecula Saeculorum" non si ascolta, si subisce.

 

OM
Pilgrimage (Southern Lord)
Insieme ad una nuova casa (la Southern Lord di Greg Anderson e Steve O’Malley), gli Om hanno trovato anche la maturità espressiva che da loro ci si aspettava, sotto forma di brani dalle strutture più agili e dinamiche. Se il precedente “Conference Of The Birds”, per quanto affascinante, rischiava di annoiare nonostante l’esigua durata, la mezz’ora abbondante del nuovo “Pilgrimage” lascia l’ascoltatore con un grande appetito. Segno che qualcosa è finalmente cambiato, che i Nostri sono riusciti a dare maggiore senso e spessore al loro doom psichedelico per soli basso e batteria. I Pink Floyd di “Set The Controls For The Heart Of The Sun” restano l’influenza principale, insieme ovviamente agli Sleep più meditabondi e fumati. Ma anche stavolta niente chitarre. “Meno è meglio,” sembrano dire gli Om. Per le loro meditazioni cosmiche si fanno bastare i suoni crudi ed essenziali (ma ugualmente pesanti) registrati splendidamente dal grande Steve Albini, che ben sottolinea l'ipnosi generata dai portentosi groove ritmici di Chris Hakius e dai riff mantrici e circolari di Al Cisneros, che intona la sue preghiere con fare salmodiante. Non un capolavoro, ma senza dubbio il disco migliore della band.

 

ORNE
The Conjuration By The Fire (Black Widow)
S
correre la lista delle band che i finlandesi Orne indicano quali fonti d’ispirazione nelle note di “The Conjuration By The Fire”, equivale a passare in rassegno il gotha del rock e del prog settantiani: Black Sabbath, Pentagram, King Crimson, Van Der Graaf Generator, Uriah Heep, Pink Floyd… e ovviamente i mitici Black Widow, padrini del dark sound d’epoca. Gli Orne ne sono gli eredi indiscussi, il flauto nell’attacco di “Island Of Joy”, l’uso diffuso del sax o l’intreccio di organo e chitarre nel gran finale di “Frontline Dreams” non lasciano adito a dubbi, e difatti il gruppo ha trovato ospitalità presso la label genovese, che di quel nome glorioso ha fatto una bandiera. “The Conjuration By The Fire” è comunque molto più di un omaggio alla band di “Sacrifice”. Gli Orne ne replicano le suggestioni arcane, le tematiche esoteriche in odor di zolfo (“Anton”) e l’immensa forza evocativa, ma mettendola al servizio di quelle che hanno tutta l’aria di ballate malinconiche vestite di chitarre acustiche, da cui si irradiano spettrali melodie lunari o che preludono a improvvise impennate elettriche (“Opening By Wathctower”). Albert Witchfinder, la potentissima voce dei disciolti Reverend Bizzarre, offre una prova da brividi, soprattutto nella conclusiva “Lighthouse”, con tanto di misteriosa invocazione finale. Clive Jones dei Black Widow li adora: se non a noi, credete a lui.

 

ORTHODOX
Amanecer En Puerta Oscura (Alone)
Incensati da Julian Cope e subito accalappiati dalla Southern Lord una volta ascoltato lo stupefacente debutto di “Gran Poder”, gli Orthodox sono oggi chiamati a dimostrare che quelle aspettative erano ben riposte. Altroché! Spiazzando tutti, i Nostri hanno cambiato in parte registro, e al solito pesantissimo doom alternano partiture enormemente più raffinate e dichiaratamente jazz fusion. L’iniziale “Con Sangre De Quien Te Ofenda” è un’elegante fluire di batteria (anche in assolo) e di chitarre acustiche drone con contorno di fiati. Facile immaginare il senso di meraviglia quando la successiva “Mesto, Rigido E Ceremoniale” aggredisce con pachidermici riff sabbathiani, seppure trasfigurati in senso post-moderno. Lo voce, tremolante e arcana come se giungesse dal profondo di una grotta, arriva solo col terzo brano, la jam psichedelica di “Solemne Triduo”, e a questo punto la bocca spalancata di chi ascolta avrà raggiunto il massimo diametro d’apertura consentito da madre Natura. Eppure c’è ancora spazio per le sorprese nella title-track (un intermezzo acustico rarefatto e rilassante, solcato dal vibrare di uno scacciapensieri), in “Puerta Osario” (meditazione per solo piano) e soprattutto in “Templos” e “Apogeum”, i due monoliti doom posti in chiusura, dalle atmosfere dark e con melodie decise. Un incanto.

 

REVEREND BIZARRE
III: So Long Suckers (Spikefarm)
Il doom metal è morto. Lo dice uno sticker sul terzo e ultimo studio-album dei finlandesi Reverend Bizarre, alludendo alla loro decisione di sciogliersi. Lo suggerisce anche la copertina del disco, un bel dipinto di Jan Toorop, dai colori cimiteriali e affollata di spiriti lamentosi. Lo ribadisce persino il retro di copertina, lo stesso paesaggio che campeggiava sul debutto della band... ma senza i membri della band, a rimarcarne l'assenza in un bel gioco di rimandi e citazioni con chi li ha seguiti sin qui. Il doom è davvero morto? Al di là della sottile ironia di cui il trio fa uso da sempre, non sembra esserci niente di più tragicamente vero. I Reverend Bizarre erano tra i pochi depositari del suono doom più puro e perfetto di sempre, forse i suoi più grandi interpreti dai tempi d'oro di Saint Vitus e Candlemass. Togliete pure il 'forse'. Il loro è stato un costante lavoro di ricerca suoi suoni e sul linguaggio della musica del destino, con lo scopo di riportarne in superficie le radici più antiche, ripulite da certe muffe contaminanti (lo stoner e la psichedelia, innanzitutto) che a lungo andare la stavano facendo diventare altro da sé. "So Long Suckers" è un'opera ambiziosa e importante, degno suggello ad una carriera non avida di soddisfazioni, se è vero che i Nostri sono persino riusciti a piazzare un singolo (di 17 minuti!) nelle patrie classifiche. L'album si svolge lungo due dischi e una manciata di brani enormi, per suoni e durata. Tutto funziona a perfezione: la voce potente di Albert Witchfinder; il suo basso tonante, spesso e volentieri impegnato in assolo; la dirompente chitarra heavy-fuzz di Peter Vicar; i riff mortiferi e ribassati e gli assolo smisurati; la batteria ciclopica di Earl Of Void, col suo incedere lento e funereo, alternato a furiose sgroppate heavy rock come solo i Black Sabbath. E su tutto, una scrittura finalmente matura, epica, melodica il giusto, attenta ai contrasti e a dare risalto a liriche dai contenuti classici, capaci di raccontare in modo avvincente storie di guerra, amore, morte, stregoneria, depressione e destino avverso. Poco altro da aggiungere, se non che questo immane capolavoro doom contemporaneo merita un posto bene in vista sul podio solitamente occupato da chi il genere lo ha inventato venti o trenta anni fa.

 

DAX RIGGS 
We Sing Of Only Blood Or Love (Fat Possum)
Sbarazzatosi della batterista Tessie Brunet, con la quale suonava nel duo à la White Stripes di Deadboy And The Elephantmen, Dax Riggs ha deciso di proporre in solitudine il nuovo materiale composto negli ultimi due anni. D’altronde la sua voce è già leggenda nell’underground metal e non. Una voce cresciuta velocemente sui dischi degli Acid Bath prima e degli Agents Of Oblivion poi. Riggs è cresciuto insieme a lei: se prima ogni brano suonava come un’epica ballata notturna e dagli accenti gotici grazie al suo timbro potente e pulito, adesso l’artista preferisce farne uso in modo meno appariscente e melodrammatico, benché altrettanto espressivo. Blues sudista, psichedelia, hard e indie rock s’incontrano nei solchi di “We Sing Of Only Blood Or Love”, in brani che vanno dritti al punto, forti di una scrittura agile e di melodie avvincenti. Se “Radiation Blues” e “Night Is The Notion” ricordano il Mark Lanegan ammantato di scuro, “Truth In The Dark” usa le chitarre heavy dello stoner, rubando il mestiere ai Queens Of The Stone Age, coi quali Dax si è recentemente accompagnato dal vivo. Il resto di “We Sing…” oscilla tra queste due coordinate, elargendo grandi emozioni. Riggs ha una personalità schiacciante, e qualsiasi cosa tocchi con la sua voce si trasforma in oro. E quando tocca l’oro, esso si trasforma in “We Sing Of Only Blood Or Love”.

 

SILVESTER ANFANG 
Satanische Vrede LP (Kraak)
La copertina di “Satanische Vrede” è roba da incorniciare: un bosco, cinque figuri a petto nudo e incappucciati, armati di falci e accette, con al guinzaglio un paio di capre. Una processione scomposta di uomini e animali, un’immagine potentemente pagana e con chiari rimandi al black metal, citato anche nel moniker prescelto: Silvester Anfang, come l’intro del primo lavoro dei Mayhem. Musicalmente non potremmo però essere più lontani dal metallo nero, dato che i Nostri suonano un folk funereo, psichedelico e improntato a lunghi droni di chitarra. Krautrock satanico, lo ha già ribattezzato qualcuno, tirando in ballo gli Amon Düül bucolici di “Para Dieswarts Duul” e “Psychedelic Underground”, ma sostituendo alle loro atmosfere hippie una ritualità pagana che immaginiamo basata su sacrifici e cerimonie raccapriccianti, all’insegna del culto di Pan (“Verkracht Door Demonem”). Niente paura: il collettivo belga in realtà si prende molto poco sul serio, e ha scelto per sé l’appellativo di funeral folk, con la precisa volontà di distinguersi dal freak folk di stampo indie venuto fuori negli ultimi anni. Avvolta nei fumi psichedelici di chitarre acustiche, campanacci, tamburelli, melodiche, rumori assortiti e diavolerie elettroniche, la musica dei Silvester Anfang è misteriosa e inafferrabile, del tutto avulsa dalla forma canzone, ma in grado di regalare visioni e brividi prolungati.

 

UNEARTHLY TRANCE
Trident (Relapse)
Giunti alla prova del terzo album, gli Unearthly Trance non tradiscono le aspettative e sfornano il loro disco più completo e maturo. Avevano esordito su Rise Above con “Season Of Seance, Science Of Silence”, prodotto da Stephen O’Malley (Sunn 0))), Khanate) e da lui stesso descritto come “una versione sludge-doom dei Darkthrone”. Si sono poi stilisticamente evoluti in occasione del secondo “In The Red”, che smorzava i toni da tregenda delle loro oscure sinfonie doom, sottolineandone invece gli aspetti psycho-delici. “The Trident” completa l’opera e li affranca definitivamente dalle catene di una classificazione per generi che evidentemente gli stava stretta e che ne limitava l’ispirazione. Oggi, su Relapse gli Unearthly Trance sono finalmente liberi di perseguire il proprio disegno sonico, amalgamando le migliori espressioni del metal moderno. Costruiscono muri di feedback invalicabile dietro cui appostare chitarre pronte a sbranare. Riposano la mente seguendo grigie e lente onde ritmiche doom da cui far emergere emozionanti melodie, tanto maestose quanto malinconiche (“Decrepitude”, “Permanent Ice”). Arrivano persino ad intonare nenie dark da consumati crooner (“Scarlet”), e a lanciarsi in furibonde cavalcate thrash-black (“Wake Up And Smell The Corpses”) che li avvicinano ai Thralldom, band in cui il cantante/chitarrista Ryan Lipynsky sfoga la sua passione per la musica della fiamma nera. Altrove emergono anche aspetti ritualistici, come quando cadono in una vera e propria “trance ultraterrena” e trasformano le canzoni in occulte invocazioni di demoni interiori (“Where The Unbelievable Is Ordinary”). Quello degli Unearthly Trance è un proverbiale “terzo occhio” aperto sulle regioni inferiori della mente, sugli abissi di una psiche malata che agisce come una bestia ferita, cioè con spaventosa aggressività. Tanto che la foresta di copertina, immersa in un’inquietante nebbiolina bluastra che sa di oltretomba, sembra un luogo della mente, l’immagine delle sinapsi e delle terminazioni nervose del loro metal: una cosa viva e pulsante, schiumante sangue e totalmente fuori controllo.

 

URNA
Sepulcrum (ATMF)
Tra le band rivelazione dello scorso anno, non esitiamo ad includere i sardi Urna, al debutto per l'ottima Aeternitas Tenebrarum Music Foundation. Il loro “Sepulcrum”, cantato totalmente in Latino, è tra le più belle opere funeral doom che ci sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi. Peraltro, è anche una delle più innovative, tenuto conto del tentativo perfettamente riuscito di incrociare la visionarietà psichedelica degli Esoteric col rumore nero degli Abruptum e con accelerazioni ritmiche tipiche del black metal più ferale (che i Nostri ben conoscono, essendone validissimi interpreti sotto le insegne dei Locus Mortis). Le costruzioni degli Urna, avvolte in una coltre dark ambient che annebbia i sensi, sono imponenti, maestose, eppure mai sopra le righe. Il loro è un fascino magnetico, dovuto soprattutto alla grande abilità nell’alternare con sapienza vuoti catacombali (solitamente accompagnati da melodie sinistramente malinconiche e minimali) a pieni strabordanti di spropositata potenza elettrica, puro caos rumorista.  Non basterà un solo ascolto per venire a capo di una musica che, a passo di doom, sonda le profondità dell’animo attraverso suoni dilatati e ultra-heavy. In altre parole, un viaggio mistico attraverso una dimensione che si pone tra il sonno e la morte, e che vi lascerà dentro solo desolazione.

 

VERDUNKELN
Einblick In Den Qualenfall (Vàn)
Non sappiano quanti attendessero con impazienza l'uscita di "Einblick In Den Qualenfall", secondo album dei Verdunkeln, sta di fatto che il loro nome è circolato con crescente insistenza sulle bocche dei conoscitori del black metal più underground. Merito dell'eponimo debutto, che ha gettato nuova luce sulle capacità dei suoi autori, Gnarl e Ratatyske, già ammirati nei Graupel. I Verdunkeln fanno storia a sé, ed è una storia strana assai, dove ipnotici riff burzumiani e clean vocals dagli accenti liturgici ("In Die Irre") incontrano melodie di stampo gothic-dark, a tratti persino medievaleggianti ("Auf Freiem Felde"), ma sempre astutamente alla larga dagli stereotipi. Il sinfonismo epico e "primitivo" sprigionato dai 6 brani di "Einblick..." si deve alla scelta di una produzione grezza, ma ben definita, dai suoni rimbombanti e cavernosi. Quando i Verdunkeln spingono sull'acceleratore, le canzoni gonfiano le vele e cavalcano correnti gelide, onde marine grandi come montagne. L'impressione è di trovarsi di fronte a dei Sisters Of Mercy datisi al black, a dei Fields Of The Nephilim più neri ed essenziali. "Der Quell" potrebbe essere la "Dominion" dei Verdunkeln: batteria squadrata ed essenziale, partiture vocali maestose e teatrali (sebbene meno inclini alla melodia facile) e stessa coraggiosa baldanza nella reiterazione ipnotica di riff e ritmi oltre ogni misura. Ma più spesso a prevalere sono i tempi solenni di un doom metal da fine del mondo, dove il senso di tragedia è sottolineato da assolo mesmerici in grado di toccare corde profonde (il capolavoro "Im Zwiespalt"). Invidiabile la capacità comunicativa del duo tedesco, che riesce a trasmettere quel senso di smarrimento di fronte al grande spettacolo di un cielo notturno e stellato. Smarrimento che tante volte abbiamo provato ascoltando black metal, ma che qui si realizza in modi obliquamente affascinanti, evitando il compiacimento fine a se stesso di certo depressive black. Solo agli Urfaust era riuscito di fare altrettanto, e a tali livelli espressivi. Immensi.

 

WILDILDLIFE
Six (Crucial Blast)
Prima si chiamavano Wildlife, poi sono stati costretti ad allungarsi il nome per sfuggire alle minacce legali di chissà quale omonima e sfigatissima band. Del resto "selvaggi" lo sono a dismisura, questi tre californiani che di sé raccontano ben poco: soltanto le loro iniziali, a., w. e m. Il debutto per Crucial Blast invece s'intitola "Six", contiene sette tracce ed è una delle sorprese più eclatanti del 2007. Se ci riuscite, provate ad immaginare una lega noise-psichedelica forgiata pestando il metallo rugginoso di Jesus Lizard e Butthole Surfers ("Kross") sull'incudine doom di Melvins e primi Harvey Milk, con l'aggiunta finale di una colata di liquide melodie pop-grunge ("Things Will Grow", "Tuungsten Steel - Epilogue") e blues. A pensarci bene, sareste ancora lontani dal comprendere appieno la cifra stilistica dei Wildildlife, che si infilano con nonchalance anche dentro certo psych-folk drogato ("Magic Jordan") e a lunghe divagazioni tribali in salsa new-wave ("Feed" potrebbe ricordare i Chrome più martellanti), che irretiscono l'ascoltatore per tutta la durata del programma. Che è molto lunga, tenuto conto che alcuni dei brani citati superano addirittura i 15 minuti: apparentemente l'unico modo per dare sfogo alle pulsioni heavy psichedeliche della band. "Six" è un come un treno in perenne corsa. Quando sembra che stia per fermarsi, quando il paesaggio fuori dal finestrino si fa finalmente più dolce e piacevole alla vista, i Wildildlife frenano di colpo con uno stridore assordante che consuma i timpani, per poi ripartire a tutta birra, sferragliando su binari contorti che sembrano puntare verso lo spazio. Cacofonici, melodici, incontrollabili, sbandati e senza il minimo senso della misura. Geniali!

 

WOLFMANGLER
Dwelling In A Dead Raven For The Glory Of Crucified Wolves (Aurora Borealis)
In ogni genere rock c’è un’area grigia, un luogo abitato da sperimentatori e dove tutto è possibile. Persino in ambito doom, genere tra i più rigidi e codificati di sempre, c’è chi riesce ad esprimersi in modi sempre nuovi e interessanti. Dopo la rivoluzione drone degli ultimi tempi, i polacchi Wolfmangler propongono un doom cameristico basato su basso (più di uno!), contrabbasso, trombone e flauto. La batteria, privata del fragore dei piatti, punteggia l’andamento dei brani in modo solenne, mentre la voce allucinata del leader D. Smolken recita poesie di Chesterton e testi di Lovecraft, tra sussurri e singulti. Quella dei Wolfmangler è un’orchestrina folk-doom d’avanguardia, che indulge in suoni profondi, grevi, scheletrici, dal sapore antico e dal fascino quasi medievale. E' una musica oscenamente nuda, un ossario su cui strisciano melodie che sono il fantasma di se stesse. La lentezza funerea di brani come “Dirge For A Viking Asshole” (che rivisita un tema classico del noto compositore norvegese Grieg) e “Star-Winds” li avvicina ai Sunn 0))) più ritualistici, anche se ancora manca loro la capacità di sintesi e la fantasia del duo americano. Ma la cifra stilistica è indubbiamente unica e affascinante, e  “Dwelling In A Dead Raven...”, nonostante il suo essere acerbo e parzialmente irrisolto, è un disco illuminato e di culto.

 

XASTHUR
Subliminal Genocide (Hydra Head)

“La prigione di specchi… non possiamo vedere/eppure siamo intrappolati… dal suo riflesso.” Xasthur ha sempre avuto un’ossessione per gli specchi. Li immagina come strumenti di tortura che riflettono la sua anima per come la sente: mutilata e deforme. Se avete ascoltato la one-man band di Malefic prima di “Subliminal Genocide”, sapete già che è dotata di uno stile unico e auto-referenziale, totalmente ripiegato su se stesso in un supremo e misantropico atto di individualismo artistico. Quello che da molti è stato scambiato per depressive black metal, ha a che fare solo in parte con un sottogenere ormai codificato e abusato. Piuttosto, abbiamo davanti una sua versione avanguardista e psichedelica, dove ai colori accesi della musica lisergica si sostituiscono il nero della morte, il blue della malinconia e il grigio dell’alienazione. Una cifra stilistica che qui raggiunge il suo vertice espressivo e che negli anni si è sviluppata parallelamente al post-metal e annesse derive trance/drone, con risultati tali da giustificare l’approdo alla Hydra Head di Aaron “Isis” Turner. Nei suoi tremendi peana, Xasthur chiede sollievo da angosce esistenziali che lo dilaniano da dentro, fino a farlo impazzire. Ma in fondo sa di non potervi sfuggire, e allora cerca la forza per frantumare la sua prigione di specchi. Non un atto di coraggio, bensì di resa incondizionata, ché con quei cocci potrà porre termine ad ogni sofferenza. Se è vero che un artista è tale quando riesce a creare un proprio mondo, allora Xasthur è un artista dannato, perché ha dato vita al più terribile fra tutti: un purgatorio in cui il tempo è sospeso, una dimensione d’incubo, allucinata e surreale come un quadro di Dalì, che distorce le percezioni, anestetizza i sensi e dissolve ogni residuo di lucidità. I suoi anfratti celano paure inconfessabili, ricordi dolorosi e profonde umiliazioni, che Xasthur traduce nelle armonie dissonanti di “Beauty Is Only Razor Deep”, nei fluttuanti droni di chitarra e keyboards di “Trauma Will Always Linger”, nel valzer imperioso e decadente di “The Prison Of Mirrors”, nella dissociazione mentale suggerita da “Arcane And Misanthropic Projection”, nella melodia arrendevole di “Malice Hidden In Surrealism”. Su tutto, la voce spiritata di Malefic, un urlo di orrore e disperazione di fronte all’autopsia che egli stesso compie sulla sua serenità d’animo, andata per sempre. Eppure, per quanto faccia male, non smette di tagliare.

 

 

ACID MOTHERS TEMPLE AND THE COSMIC INFERNO
Starless And Bible Black Sabbath (Alien8)
“Starless And Bible Black Sabbath” (omaggio combinato ai dischi quasi omonimi di King Crimson e Black Sabbath) è il canto del cigno degli Acid Mothers Temple in versione “cosmic inferno”. Makoto Kawabata ha deciso di riesumare la vecchia configurazione del Melting Paraiso UFO per tornare a sonorità scopertamente kraut, mentre qui regnano sovrani i riff heavy di Iommi, ovviamente rivisitati alla luce della sensibilità space rock del combo giapponese. Che proprio non riesce a contenersi entro i limiti della decenza: anche questa volta la title-track oltrepassa i 30 minuti di durata, seguita dalla degna chiosa di “Woman From A Hell”. Questo il programma del disco, ma è più che abbastanza per gli ingordi di psichedelia heavy. La chitarra pirotecnica dello “speed guru” Kawabata eiacula un fiume di note super-acide, accompagnata da una sezione ritmica decisamente pesante e presente più del solito. Menzione speciale per la copertina, che ricalca i colori e il soggetto scelti da Keef per illustrare il primo album dei Sabbath.

ADAM WEST
Long Shot songs For Boke Players 2001-2004 (People Like You)
Jake Starr, Steve, Dan-o Deckelman e Jim Sciubba. Sono nomi che dicono poco, eppure la loro band è in giro da molto tempo. Gli Adam West (dal nome dell’attore che impersonava Batman nei mitici telefilm dei ’60) hanno all’attivo almeno otto album in studio, una trentina di 7” e altrettante apparizioni in compilation e raccolte varie. È da lì che saltano fuori le 24 tracce di “Long Shot Songs…”, in parte registrate anche dal vivo. Dentro c’è di tutto: una cover di Hellacopters (“Ferrytale”) che suona quasi meglio degli Hellacopters, una “Christmas With The Devil” che culmina nello stesso identico assolo di “Freebird” (Lynyrd Skynyrd)… e poi una tonnellata di hard rock e rock’n’roll ubriacanti, con chitarre dal tiro micidiale e una voce maschia, più volte premiata come la migliore del rock washingtoniano. Questo fantastico disco funziona come un piccolo abbecedario dell’hard’n’heavy: dalla “a” di AC/DC alla “z” di Zeke, passando per la “b” di Black Sabbath, la “e” di Electric Fankenstein, la “k” di Kiss e la “m” di MC5, Misfits e Motorhead. Non mancano neppure rimandi al garage psych di 40 anni fa, ma deformato sotto la spinta delle chitarre deraglianti di quattro sgherri che nessuno conosce per nome, ma che stanno scrivendo pagine rock davvero entusiasmanti.

AETHENOR
Deep In The Ocean Sunk The Lamp Of Light (VHF)
Gli Aethenor sono Steve O’Malley (Sunn O))), Khanate), Vincent De Roguin (Shora) e Daniel O’Sullivan (Guapo). Difficilmente sarebbe stato possibile immaginare line-up più “in”, dato che le band di appartenenza sono in testa alle preferenze degli appassionati di drone e post rock psichedelico, tra le musiche “alternative” del momento. “Deep In Ocean Sunk The Lamp Of Light” (dotta citazione dall’Iliade di Omero) non è però un amalgama di quanto proposto dai gruppi madre. Qui non troverete dunque l’audace prog-psych dei Guapo, e neppure l’enfasi post rock degli Shora. A dominare la scena sono lunghi drone ambientali in cui sembra di sentire scricchiolare le assi di un vecchio veliero che affonda lentamente e inesorabilmente negli abissi marini. La voce profonda dell’oceano si fa più nitida quando De Roguin e O’Malley ci danno sotto con le manipolazioni elettroniche o con secche linee di organo e moog, appena percepibili tra i clangori astrattamente percussivi di O’Sullivan. In chiusura, anche un memorabile inserto di piano, estremo saluto alla “lamp of light” del titolo. Registrato all’impronta e in modo artigianale, “Deep In Ocean…” va senza dubbio annoverato tra i più fantasiosi dischi drone degli ultimi anni.

AKRON/FAMILY
Meek Warrior (Young God)

Il ritorno discografico degli Akron/Family conferma la voglia della band di inglobare altri generi nel loro articolato linguaggio folk: innanzitutto, la psichedelia; e poi il rock duro (Led Zeppelin), sebbene suonato in maniera imprevedibile, come già evidenziava lo split con gli Angels Of Light di Michael Gira pubblicato l’anno scorso. “Meek Warrior” conferma tale vocazione attraverso 7 nuovi brani, in bilico tra psichedelia folk e free-rock spesso imparentato con la fusion. Lo dice l’iniziale “Blessing Force”, quasi 10 minuti di libera improvvisazione, con i fiati a sovrastare il braccio di ferro tra chitarre ruggenti e una sezione ritmica lanciata al galoppo. John Coltrane sorride soddisfatto, il suo “Ascension” continua a fare scuola. All’altro capo del disco gli risponde “The Rider”, un raga lisergico che tanto sarebbe piaciuto ai Flaming Lips mentalmente sconvolti dei tempi d’oro, mentre nel cuore del disco si trovano il country-folk à la Neil Young della title-track e la psichedelia agreste di “No Space In This Realm” e “The Lightning Bolt Of Compassion”, roba per patiti di Harvestman, Jackie-O Motherfucker e Alexander Tucker. Un altro centro, in attesa del secondo album.

ALABAMA THUNDERPUSSY
Open Fire (Relapse)

Di “Open Fire”, il nuovo album degli Alabama Thunderpussy, dice tutto la copertina: un dipinto in stile Frank Frazetta (per intenderci, lo stesso della cover dei Wolfmother), dove un guerriero a metà tra Conan il barbaro e il Thor dei fumetti si erge sulle sue vittime, agitando in aria armi insanguinate. Un’immagine fortemente metal, e che sembra citare apertamente le copertine dei mitici Molly Hatchet. D'altronde, quella tra heavy metal e hard rock sudista è esattamente l’unione sublimata negli 11 brani del disco, col nuovo singer Kyle Thomas (ex-Exhorder e Floodgate) a fare da cerimoniere. Questa volta, gli Alabama Thunderpussy hanno optato per canzoni più brevi del solito, veloci, rocciose e riccamente arrangiate, col loro tipico feeling Southern rock in bell’evidenza (“Whiskey War”, “The Beggar”) e un inedito impatto metal anni ‘80 (“Valor”, “Greed”) che rende tutto ancora più fresco e godibile. Thomas, dotato di un roco vocione da blues man, è anche capace di ottimi acuti, ed interagisce magnificamente col resto della band. Soprattutto col degno compare Ryan Lake, chitarrista versatile e ispirato che in ogni canzone non fa mancare la sua firma in forma di trascinanti assolo blues o di riff ultra-heavy (la title-track farebbe invidia agli ultimi High On Fire) a condurre cavalcate adrenaliniche. Grande band, grande conferma.

ANGELS OF LIGHT & AKRON/FAMILY
Akron/Family & Angels Of Light (Young God)
Scoperti dall’ex-Swans Michael Gira, gli Akron/Family sono un gruppo impossibile di eclettici musicisti barbuti. “Impossibile” per il modo in cui parla più linguaggi rock contemporaneamente, risultando intellettuale, fresco, geniale e comunque accessibile. Nei 7 brani che gli Akron/Family firmano per questo split incrocerete il country-folk psichedelico dei Byrds (“Awaken”), l’eccentricità pop dei Flaming Lips più beatlesiani (“Future Myth”), languide partiture acustiche (“Oceanside”) e scampoli di turgido prog rock anni ’70 opportunamente modernizzato (“Raising The Sparks”). Un pastiche di influenze tenute insieme da una classe cristallina e un songwriting emozionante. Nella seconda metà del disco gli Akron/Family assumono i panni degli Angels Of Light per accompagnare la voce da predicatore di Gira in almeno due pezzi memorabili: il folk apocalittico di “The Provider” (in stile Swans, ovviamente) e la conclusiva “Come For My Woman”, oscura ballata dai risvolti psych che nel finale si trasforma in un incubo ossessivo. C’è anche una cover di Dylan, “I Pity The Poor Immigrant”. Ma con tutto il rispetto per il quasi premio Nobel, stavolta gli applausi sono interamente per gli Akron/Family.

ARBOURETUM
Rites Of Ucovering (Thrill Jockey)
Il debutto degli Arbouretum, il discreto “Long Live The Well-Doer,” preannunciava una maturazione imminente, ed infatti il nuovo “Rites Of Uncovering” ci propone una band con una visione psych-blues finalmente sviluppata e coerente. A capitanarla è David Heumann, già collaboratore di Will Oldham, genio del country-folk alternativo degli ultimi 15 anni. Heumann ne segue le tracce, ma deviando verso territori rock decisamente più heavy. Tanto che, nonostante dolci melodie agresti crescano rigogliose in ogni brano, “Signposts And Instruments”, “Mohammed’s Hex And Bounty” e “Sleep Of Shiloam” suonano come un’inedita sintesi tra Crazy Horse e Dead Meadow. All’interno di un singolo brano, infatti, armonie vocali dalla bellezza romantica e pastorale cedono il passo a riff in odore di doom e a portentose jam session di stampo classico (“The Rise”, “Pale Rider Blues”). Più che il volo spaziale, gli Arbouretum prediligono escursioni naturalistiche alla ricerca dello spirito della “musica delle radici”, qui debitamente rammodernata, ma passionale come un tempo.

ARCANA COELESTIA
Ubi Secreta Colunt (ATMF)
I sardi Arcana Coelestia nascono da una costola dei bravissimi Urna, ed anch’essi armeggiano col funeral doom per convogliare le proprie visioni dark. Se a primo acchito la cifra stilistica che informa “Ubi Secreta Colunt” può sembrare non troppo diversa da quella degli Urna, in verità se ne discosta per una maggiore concretezza strutturale e un più ficcante uso di melodie celestiali, che vengono fuori all’improvviso da una muraglia inespugnabile di chitarre doom. Stilisticamente, siamo dalle parti di Esoteric, Tyranny e Torture Wheel, ma c’è in questi solchi la precisa volontà di trascendere il dolore terreno narrato dai colleghi, per accedere ad una consapevolezza portatrice di pace e serenità interiore (le due parti di “Arcane Knowledge Revealed”). Ogni brano di “Ubi Secreta Colunt” si trasforma dunque in un viaggio esoterico, emozionante e catartico, in cui gli Arcana Coelestia si sono lasciati ispirare dalle opere di August Strindberg, filosofo dannato e avversato come pochi. Una sua citazione riportata nel disco ben descrive l’intima essenza del disco: “…la terra è l’inferno, la prigione costruita con una intelligenza superiore in modo ch’io non possa fare un passo senza urtare la felicità altrui, e che gli altri non possano essere felici senza far soffrire me”.

AREKNAMES
Love Hate Round Trip (Black Widow)
Per i nostrani Areknames, “Love Hate Round Trip” è il disco della maturità espressiva, molto più che la naturale prosecuzione dell’omonimo debutto per Black Widow. È un disco a suo modo sperimentale, coraggioso, a tratti introverso e di non facile assimilazione, come solo le grandi opere. A tratti, però, ti spalanca davanti un forziere di melodie maestose, spesso venate di seducente malinconia e che saziano ogni brama (“The Web Of Years”, “Someone Lies Here”). L’intelaiatura è tipicamente prog anni ’70: da quello cerebrale e sofisticato di King Crimson e Van Der Graaf Generator, a quello tenebroso di High Tide e compagnia dark, fino a quello psichedelico dei Pink Floyd. Ma a volte la band assume le pose fusion della Mahavishnu Orchestra (“La Chambre”, “Pendulum Arc”), con keyboards che suonano come ruminazioni cosmiche e interessanti digressioni elettroniche. Negli Areknames si avverte peraltro lo stesso bisogno di interiorità, la stessa ricerca spirituale di quella band prodigiosa. La riprova è nei versi accorati di “Yet I Must Be Something”, una presa di coscienza del proprio ruolo nel mondo, della caducità della vita, ma anche del suo essere eterna. È questa la meta di un viaggio condotto attraverso il caos schizoide della nostra civiltà de-umanizzante (“Stray Thoughts From A Crossroad”), a cui gli Areknames oppongono partiture oblique e convulse (“Ignis Fatuus”, “Deceit”), che compiono giri immensi e imprevedibili per poi tornare alla partenza. Nel farlo, lasciano puntualmente senza fiato.

ATOMIC BITCHWAX
Boxriff (Meteorcity)

Oggi che lo stoner è acqua passata, il ritorno degli Atomic Bitchwax non fa quasi notizia, ma sarebbe ingiusto dimenticarsi di una formazione che sul finire dei ‘90 aveva risvegliato i sensi psych di molti ascoltatori sulla scorta di un rock stoogesiano in viaggio per lo spazio. Ai tempi Ed Mundell, chitarrista dei Monster Magnet, era ancora della partita, ora sostituito dall’ottimo Finn Ryan dalle fila dei mai dimenticati Core. “Boxriff”celebra la resurrezione del combo del New Jersey grazie ad una manciata di studio track e ad un intero concerto dal vivo, proposto anche in formato video nel DVD allegato. Prodotti dal solito Jack Endino, i nuovi brani confermano la buona capacità di scrittura della band, rivelando la bravura di Ryan nel maneggiare la sei-corde (meravigliose le svisate jazz di “So Come On”!). Per il resto, c’è tutto quello che i Bitchwax hanno sempre offerto: heavy rock psichedelico, dotato di groove impattanti (“STD”, la kyussiana “Kiss The Sun”), belle melodie (“Turn Me On”), una voce discreta (anche se non particolarmente originale e incisiva) e qualche colpo di genio (l’intro del live è un omaggio ai Pink Floyd che lasciamo alla vostra scoperta). I nuovi Atomic Bitchwax ci sono sembrati più convincenti degli ultimi Nebula, e se mai uscirà un full-length con Ryan, sarà sempre troppo tardi.

THE AUSTRASIAN GOAT
The Austrasian Goat (I Hate)

Decisamente convincente il debutto dei carneadi Austrasian Goat, totalmente devoti a sonorità funeral doom. C'è più di un riferimento a Nortt, soprattutto nell'uso sotterraneo dello screaming, che tenta disperatamente di far breccia nello spesso muro sonico eretto dai francesi. Ma a venire fuori è anche la lezione appresa da formazioni d'estrazione black come Xasthur ed Elysian Blaze, ovviamente colti nei loro momenti più doomy e "ambientali". Gli Austrasian Goat non fanno altro che perfezionare quei canovacci stilistici dosando per bene ogni componente sonora: vocals torturate, keyboards maestose, melodie di grande respiro, soffocate però nella morsa letale di chitarre enormi e dai suoni sgranati. I brani non mancano di trasmettere anche un certo senso di rilassatezza, che emerge puntuale durante pause dark ambient, preludio a nuove esplosioni funeral doom. Succede ad esempio durante il passaggio da "The Fall Of Everything" a "I Hate The Human Race", incredibile cover dei Grief; oppure nei lunghi droni di "Silence Is Weapon", che mesmerizza l'ascoltatore per poi precipitarlo negli abissi senza fine di "Black Is Not A Colour". A vantaggio degli Austrasian Goat gioca una certa parsimonia nel minutaggio dei brani, che raramente oltrepassano la soglia dei 5 minuti, pur risultando completi e soddisfacenti sotto ogni aspetto. Un bel disco di genere.

BEDEMON
Child Of Darkness (Black Widow)
Storia bella e triste, quella dei Bedemon. La band del chitarrista Randy Palmer prende forma quasi per caso nel 1973, prima del suo ingresso nei Pentagram, dei quali però utilizza l'ugola spiritata di Bobby Liebling e la batteria di Geof O'Keefe. Dalla loro combinazione nasce un album stupendo, "Child Of Darkness", pubblicato ufficialmente solo ora dagli specialisti della Black Widow Records in una curatissima edizione fedele all'idea originale di Palmer (a cominciare dall'illustrazione di copertina), dunque ben lontana dalla pochezza artistica dei pessimi bootleg finora circolati. I suoni sono quelli di una registrazione demo, ma basterà alzare il volume per venire rapiti dal proto-doom della title-track, di "Serpent Venom" o "Frozen Fear", che replicano le sinfonie nere di Black Sabbath e Pentagram quasi con maggiore impeto dark. E' anche il caso di "Skinned", "Into The Grave" e "Through The Gates Of Hell", in cui il pessimismo cosmico di Palmer raggiune vette inaudite attraverso testi amari, a tratti persino crudi e violenti. Ma a parlare  soprattutto la sua chitarra, ora elegantemente psichedelica, ora un concentrato di grezza elettricità rock. L'artista, morto nell'Agosto del 2002 in un incidente d'auto, non ha fatto in tempo a stringere tra le mani un disco che era il sogno della sua vita e che oggi è una reliquia doom da trattare con venerazione.

BEEHOOVER
The Sun Behind The Dustbin (Exile On Mainstream)

Beehoover è il progetto personale di Ingmar Petersen e Claus-Peter Hamisch, rispettivamente bassista e batterista dei doomster Voodooshock. Forse stanchi di fare da gregari in una band che non è riuscita ad emergere, provano a dire la loro in un ambito tra i più difficili e insidiosi, quello del rock d’avanguardia, ma senza rinunciare alle proprie radici. Il risultato è una versione jazz della musica dei Sabbath. Oppure, l’interessante incrocio tra il doom obliquo di scuola The Obsessed e l’inclinazione prog degli Stinking Lizaveta… ma senza utilizzo alcuno di chitarre, tranne quelle acustiche nelle parentesi folk di “Nice Romantic Evening” e “Spinster”. Quello che potrebbe sembrare un limite, è invece il punto di forza di un sound che per necessità deve tendere alla ricerca di nuove soluzioni tonali e armoniche. I Beehoover ci sanno fare anche con le melodie, spesso di stampo psichedelico (“Paraffin Oiler”, la title-track), e la voce spiritata di Petersen viene fuori più che bene. Unica pecca, la lunghezza eccessiva di alcuni pezzi, che essendo complessi e stratificati avrebbero meritato strutture più agili e snelle. Ma il rodaggio è finito, e la prossima volta i Beehoover raggiungeranno l’eccellenza.

THE BLACK ANGELS
Passover (In The Attic)
Il nome lo hanno rubato ad un brano dei Velvet Undergound, e calza loro a pennello, dato l’animo dark che si ritrovano. Sono texani, imbronciati, seri e concentrati. Probabile che abbiano cominciato ascoltando la musica dei 13th Floor Elevators di Roky Erickson, loro connazionale, per poi maturare lo stile raga psichedelico che li contraddistingue studiando le melodie severe dei citati Velvet (“Call To Arms”). Ma senza dimenticare di sbirciare dietro alle “porte” aperte da Jim Morrison (“Better Off Alone”) o di mandare a memorie le pepite garage-punk dei Sixties, che gli ispirano melodie semplici e ipnotiche (“The First Vietnamese War”). Sicuramente si sono lasciati tentare dalla new wave oscura e introversa dei Joy Division, hanno amato lo shoegaze rock di Jesus And Mary Chain e My Bloody Valentine, e ancora di più quello trance-inducing di Spacemen 3, Spiritualized e Lupine Howl (“Manipulation”, “Empire”, “The Prodigal Sun”). Se i Black Rebel Motorcycle Club hanno abbandonato il loro rock visionario in favore del recupero di radici country-folk, i Black Angels ne continuano la mirabile opera di sintesi, con maggiore enfasi sulle atmosfere dark e un più marcato carattere rock. Se ancora non fosse chiaro, sono tra le band rivelazione degli ultimi anni.

BLACK CAB
Jesus East (Stickman)
Dopo “Altamont Diary”, album che sembrava riepilogare le molteplici espressioni del genere psych nel corso dei decenni, i Black Cab pubblicano dieci nuove canzoni dalla sensibilità pop più sviluppata. I Nostri hanno sicuramente divorato le produzioni targate On Trial, così come quelle intitolate ai 35007, ai We e ai tardi shoegazer Lupine Howl (“Another Sun”), ma senza aggiungere alcun tocco personale in grado di caratterizzarne la proposta, come sarebbe giusto. Ascoltando “Hearts On Fire”, “Simple Plan” o “Underground Star” si viaggia che è un piacere… ma la vernice pesante degli arrangiamenti barocchi e dell’effettestica non riescono a nascondere la verità: i Black Cab masticano e rimasticano i soliti cliché psych, senza riuscire mandarli giù e a digerirli veramente. Persino i più voraci appassionati di musica lisergica li troveranno “carini” o poco più.

BLACK LIPS
Let It Bloom (In The Red/Goodfellas)
La copertina è già di per sé un tuffo nel passato: una foto della band contornata da un bordone colorato e con impresso bene in vista il marchio In The Red. Così si usava nei ’60, di cui i Black Lips incarnano il lato rock più sguaiato: quello del garage-punk del fatidico triennio 1965-68, quando ad imbracciare chitarre elettriche erano giovanotti che di note e pentagrammi sapevano molto poco. Quarant’anni dopo non è cambiato nulla e siamo qui ad entusiasmarci per l’irruenza di brani come “Feeling Gay”, “Everybody’s Doing It” o “Hippie, Hippie, Hoorah”, con cui gli scalcinati Black Lips si prendono gioco di tutto e di tutti. Il garage è il loro verbo, lo suonano secondo la lezione immortale di 13th Floor Elevators, Electric Prunes, Count Five e dei gruppi dissepolti dalle compilation “Back From The Grave”, divertendo e divertendosi. La possibilità di diventare adulti e maturi gli fa orrore, e la scacciano via facendo più casino possibile, suonando un rock’n’roll micidiale, prodotto grezzamente e dotato di ottimi spunti psichedelici.

BLOOD OF THE SUN
In Blood We Rock (Brainticket)
Il come-back dei Blood Of The Sun supera il pur buono esordio eponimo di qualche tempo fa. Il canovaccio è lo stesso di quella prima volta, lo stesso che ha reso grandi formazioni come Deep Purple, Mountain, Grand Funk Railroad, Buffalo e Cactus, ma l’idea che possa trattarsi di un revival fine a stesso non sfiorerà neppure i più accaniti detrattori della materia stoner. Qui c’è passione, talento, sensibilità ed una grande abilità esecutiva, e non vediamo come qualità del genere possano passare inosservate proprio oggi che il rock è sempre più un prodotto di fabbrica, invece che un’espressione d’arte. Certo, i Blood Of The Sun non sono gli Spiritual Beggars. Costruiscono brani di senso compiuto in cui far convergere l’amore per la melodia e per riff super-macho, limitandosi a ripetere la formula senza grossi sussulti. Ma nonostante il numero limitato di frecce al proprio arco, la band sa scagliarle lontano. A fare centro sono soprattutto “Burning”, “Wizard” e “99 1/2”, tripudi di keyboards e chitarre elettriche in preda ad un delirio di onnipotenza. Ultimamente, solo i Wicked Minds era stati capaci di battaglie così epiche. Gettatevi nella mischia senza timore.

BORIS
Pink (Southern Lord)
Stiamo ancora smaltendo il trip psichedelico di "Sun Baked Snow Cave", monumento alla musica drone firmato insieme a Merzbow, che i Boris sfornano un nuovo album per Southern Lord: s'intitola "Pink" ed è indirizzato verso altre vie. La presenza di vocals conferisce ai brani una parvenza di normalità, sebbene la forma canzone venga trasfigurata sotto i colpi acidi e l'indole schizoide del trio giapponese. Se le bellissime "Ketsubetsu" e "Ore Wo Setuta Tokoro" iniettano portentosi drone psichedelici nell'indie rock spaziale dei Motorpsycho, le successive "Pink", "Sekurun No Onna" e "Betsuni Nan Demo Nai" sono cavalcate punk-metal inarrestabili, con chitarre di granito, una sezione ritmica devastante e dosi massicce di noise che altera le percezioni. Come se si trattasse dell'anello mancante tra Hawkwind e Motorhead, insomma. Meritano la citazione anche lo space-doom maestoso di "Baraku Auto" e la rivisitazione del blues in chiave rumorista di "Nurvi Onoo", con tanto di clap hands a segnare il tempo. I Boris amano il rock a 360° e non possono fare a meno di suonarlo tutto.

BORIS with MICHIO KURIHARA
Rainbow (Drag City)
S
ulla carta doveva essere qualcosa di esplosivo, invece “Rainbow” è un normale disco di heavy rock dalle tinte psych. È vero, “normale” non è aggettivo che calza alle produzioni passate dei Boris e che ovviamente va preso per le pinze. Ma non c’è dubbio che in questa occasione i Nostri preferiscano non eccedere in stravaganze noise-drone, confezionando brani di pochi minuti e senza lo smalto di sempre. “Shine”, ad esempio, parte come una ballad minimale giocata sul contrasto tra chitarra acustica e bordoni drone, ma non riesce a sviluppare compiutamente la melodia su cui poggia, risolvendosi in un nulla di fatto. Lo stesso accade nell’anonima title-track e in “Starship Narrator”. Forse quello dei Boris è da intendersi come un rispettoso tirarsi indietro per far spazio all’ospite Michio Kurihara, straordinario chitarrista elettrico dei Ghost che in effetti si produce in meravigliose dissertazioni psych. “Rafflesia” (dal nome di un fiore gigantesco e maleodorante) è uno scintillante rock-drone, trattenuto e mai fatto esplodere; “You Laughed Like a Water Mark” è puro acid rock in stile  Sixties, con un magnifico intervento di Kurihara; “Fuzzy Reactor” è un raga orientale ultra-psych, mentre “Sweet N° 1” è un torrido hard rock che sul recente “Pink” non avrebbe sfigurato affatto. Questi i momenti salienti dell’album, ma il resto si lascia comunque ascoltare.  

BRANT BJORK AND THE BROS
Somera Sòl (Duna)
A parer nostro, la carriera solista di Brant Bjork non è stata finora delle più esaltanti. A differenza dei compagni, l’ex-batterista di Kyuss e Fu Manchu è rimasto fedele alle prerogative stilistiche del rock desertico che ha reso famoso quelle compagini, anche se è giusto riconoscergli una certa voglia di osare, quanto meno nei dischi totalmente acustici e in quelli di pura psichedelia. “Somera Sòl” segue invece le coordinate stilistiche dei lavori più rockeggianti, come d’altronde succede quando della partita è il drummer Alfredo Hernandez (Kyuss, Queens Of The Stone Age). “Somera Sòl” non difetta certo di groove (irresistibili quelli di “Shrine Communication” e “Ultimate Kickback”, quest’ultima memore del tardo Hendrix infatuato di black music), semmai sono le vocals un po’ anonime a non riuscire a conferire la giusta profondità a brani altrimenti piacevoli come “The Native Tongue” e “Lion Wings”. “Somera Sòl” resta uno tra i dischi più riusciti di Bjork e soci, e c’è da scommettere che dal vivo acquisterà punti.

THE BROUGHT LOW
Right On Time (Small Stone)
Dopo un debutto di rodaggio, i Brought Low di “Right On Time” centrano il bersaglio con un disco di Southern rock che sembra un omaggio alla band che l’ha reso grande, i Lynyrd Skynyrd. Del gruppo di Ronnie Van Zant hanno carpito talmente bene lo spirito da esserne diventati l’incarnazione moderna. Moderna solo per ragioni anagrafiche, considerato che il sound dei Brought Low di attuale ha solo la perfezione offerta dal digitale. Conserva invece lo stesso calore e la forza travolgente di “Second Helping” o “Pronounced…”, basato com’è su altrettanto memorabili battaglie di chitarre elettriche. Le forme scolpite sono quelle di boogie indiavolati, torrenziali hard rock e blues paludosi, con abbondanza di slide, armonica e pianoforte. I nuovi classici si chiamano “Hail Mary” (intrisa di soul come nei migliori Black Crowes), “Dear Ohio” (la loro “Sweet Home Alabama”?), “Vernon Jackson” e soprattutto “There’s A Light”, una ballata romantica per cowboy solitari, ascolto ideale durante ogni tramonto degno di questo nome.

BURIED AT SEA
Migration (Original Sound)
Ci sono voluti tre anni perché arrivasse fino a noi, ma alla fine ce l’ha fatta, complice la distribuzione su suolo italico per i tipi di Vinyl Magic3. Si tratta del primo ed unico album sulla lunga distanza dato alle stampe dai Buried At Sea per la minuscola Original Sound Recordings, ed è un disco entusiasmante per il modo in cui riassume alcune tra le più importanti tendenze degli ultimi anni in ambito doom. D’altronde era della partita Sanford Parker, che oggi milita nei Minsk e che si sta facendo un nome come produttore di extreme doom (suo il lavoro alla consolle per l’ultimo Unearthly Trance). Il primo brano in scaletta, senza titolo come gli altri due che lo seguono, è la cartina di tornasole dell’intero lavoro. Coniuga l’andamento ritmico poderoso e stordente di Sleep ed Electric Wizard con le vocals maligne e rugginose dei Khanate. Ma la struttura dei brani evidenzia anche l’importante influenza dei vecchi Isis, che edificavano imperiosi wall of sound su una medesima sequenza di riff, caricandola e scaricandola di feedback. Così, ad ogni svuotamento del suono l’ascoltatore tira il fiato e si rassegna al crescendo che verrà. Riscoprite una formazione a cui è bastato un solo album per guadagnarsi il titolo di cult band.

CAUSA SUI
Free Ride (Electrohasch)
Quasi in concomitanza con un’esibizione incendiaria al Roadburn Festival, i danesi Causa Sui pubblicano il proprio secondo album, quello della conferma. E la conferma arriva. I Nostri esibiscono con orgoglio tutta la loro passione per il rock duro anni ’70 e per il sound desertico dei Kyuss, ma il contenuto di “Free Ride” brilla di luce propria. È un bell’amalgama di lussureggiante psichedelia heavy in stile Monster Magnet e di blues iper-distorto alla maniera di Josefus e Blue Cheer (“Lotus”, “Passing Breeze”), con qualche puntatina nei territori acustici della musica lisergica. L’occasione è ad esempio quella della title-track, che fa sfoggio delle stesse chitarre pigolanti dei Grateful Dead, o del sereno interludio strumentale di “Flowers Of Eventide”. Straordinario il finale di “Newborn Road”, un tour de force di potenza strabordante che rivernicia con colori stoner il “Voodoo Chile” di hendrixiana memoria, con divagazioni da grande sballo acido. Una stupenda prova di vitalità dello stoner, se così vogliamo ancora chiamarlo.

RHYS CHATHAM
A Crimson Grail (Table Of The Elements)
Rhys Chatham, per chi non lo sapesse, è il padre di tutta la scena noise newyorchese e sotto l’ala della sua ispirazione hanno mosso i primi passi sia i Sonic Youth che Glenn Branca. Ma non aspettatevi il solito dottorino occhialuto che si gingilla con musica d’avanguardia incomprensibile. Nel 1975, il Nostro rimase fulminato da uno show dei Ramones, e da allora si è applicato allo studio della chitarra rock per ricavarne suoni nuovi, ipnotici e, come si usa dire oggi, drone. Dopo il capolavoro “An Angel Moves Too Fast To See” (registrato dal vivo a Milano e Palermo nel ‘97) in cui coinvolgeva 100 chitarre, nel 2005 Chatham realizza l’impossibile: eseguire una sinfonia di nuova composizione utilizzando 400 chitarristi, il tutto nella splendida cornice della basilica del Sacro Cuore, a Parigi. Il suono finale, per quanto possa sembrare strano, è leggero quanto una nuvola. Rinunciando quasi del tutto all’apporto di una sezione ritmica, Chatham gioca su toni e accordature per produrre musica angelica ed estatica, quasi si trattasse di una preghiera. Si alza e s’abbassa come un’onda, dolce e spumeggiante, accarezzando i sensi e stimolando la mente. Se “Black One” dei Sunn O))) è forse il punto di non ritorno in fatto di oscurità heavy drone, “A Crimson Grail” potrebbe dirsi la sua nemesi di luce e calore.

CHURCH OF MISERY
Early Works Compilation (Leaf Hound)
La mastodontica compilation in oggetto è in realtà la ristampa di vecchio materiale a firma Church Of Misery, apparso soprattutto in EP e split-CD (qui ci sono per intero quelli con sHEAVY e Iron Monkey) realizzati negli anni d’oro dello stoner per etichette come Man’s Ruin e Bad Acid. All’epoca il combo giapponese si affacciava sulla scene per la prima volta, riuscendo a calamitare l’attenzione di tutti per più di un motivo: suonava come una moderna incarnazione dei Saint Vitus (di cui ripropongono “War Is Our Destiny”) e non nascondeva la sua passione per i serial killer, tanto che ognuno dei suoi brani è dedicato ad un assassino famoso ed introdotto da stralci di documentari o telegiornali che ne narrano le gesta efferate. La loro cattiveria si ferma però lì, dato che quanto al resto ci troviamo di fronte ad un doom rock coi piedi ben saldi nel hard’n’heavy dei ’70 e con palesi aspirazioni psichedeliche. Un po’ alla maniera dei Goatsnake più blues, ma con un taglio decisamente più classico. Lo si evince tanto nei brani originali (meraviglioso il lungo assolo finale in “Road To Ruin”), quanto nelle cover (ottima quella di “In A Gadda Da Vida” degli Iron Butterfly). Chi aveva conosciuto e apprezzato i Church Of Misery a seguito del loro debutto sulla lunga distanza rilasciato dalla Southern Lord, avrà adesso occasione di mettere le mani sul resto del repertorio, sicuro di trovarsi di fronte a materiale all’altezza della fama di questa piccola, grande cult-band.

CLOUDLAND CANYON
Requiems Der Natur 2002-2004 (Tee Pee)
I promettenti Cloudland Canyon prendono il nome da un sito naturalistico della Georgia, e la suggestione è tale che all’inizio sembra di trovarsi di fronte ad una versione minimalista e post rock degli ultimi Earth, quelli più bucolici e “country”, con la saltuaria partecipazione alla voce (fragilissima e approssimativa) del cantante degli Sparklehorse (“Clearlight Intry”). Ma subito viene fuori la vera natura del disco, ispirato dal kraut rock nel modo di distendere mantra percussivi e acustici alla maniera dei Popol Vuh. La tradizione della musica americana (anche psichedelica), che si rispecchia nei luoghi e nei paesaggi che i Cloudland Canyon sembrano volere descrivere, gioca comunque un ruolo importante nel conferire identità alla loro proposta (“Field Ghosts”), l’atmosfera da risveglio post-trip di “Summer Cloth”), ed è certamente da preferire questo tipo di risultati a quelli di una “Holy Canyon”, jazz-lounge di maniera, per quanto affascinante. Raccontata la musica, resta da dire della sorpresa nel trovare su un disco del genere il marchio della Tee Pee Recors, tradizionale label stoner rock. Ma si sa, le vie della psichedelia sono infinite.

CLOUDS
Legendary Demo (Hydra Head)
Alla partenza del boogie indiavolato di “New Amnesia”, traccia d’apertura del debutto dei Clouds, si stenta a credere che si tratta del progetto di Adam McGrath, fino a ieri nelle fila dei Cave In, nota band post-hardcore attualmente in pausa di riflessione. Qualche traccia del retaggio metal non è stata del tutto cancellata, vedi la concitata sarabanda punk di “Live For It Now” o i rallentamenti martellanti di “Guardian’s Eyes”, ma generalmente i Nostri preferiscono restare fedeli ai canovacci southern-blues di ZZ Top, Alabama Thunderpussy e Clutch, re-interpreandoli col piglio assassino di Stooges e MC5. “Mountain Jim”, invece, ci ha ricordato dei Dead Meadow con meno acido in corpo, mentre la conclusiva “Quartulli Dub” è una jam di quasi 20 minuti, dall’andamento reggae e con un interminabile assolo di sax. C’entra come i cavoli a merenda, nonostante siano da riconoscerle grandi qualità psichedeliche. D’altronde lo dice il titolo stesso: “Legendary Demo” è soltanto un lavoro provvisorio, l’idea di uno stile ancora da rifinire. La tavola è ben apparecchiata, ma l’impressione è che in cucina i Clouds possano fare di meglio. Se queste sono le premesse, il prossimo album potrebbe sorprenderci, purché McGrath e soci acquistino maggiore sicurezza e tirino fuori la propria personalità.

CLUTCH
From Beale Street To Oblivion (DRT)
Un nuovo album dei Clutch, l’ennesimo di una discografia solida e nutrita come poche. Ma in quanti se ne accorgeranno? La band del Maryland sembra condannata allo status (per nulla disprezzabile) di cult band per pochi fedeli appassionati, gli unici che nel tempo hanno prestato attenzione alla loro proposta e che ne hanno seguito l’evoluzione da hardcore band a gruppo heavy rock innamorato dei classici dei ’70. Anche “From Beale Street To Oblivion” si ispira alla scuola di Led Zeppelin, Black Sabbath, ZZ Top, Free, Lynyrd Skynyrd e Allman Brothers, ma senza impantanarsi nelle secche di uno stile troppo retrò per piacere ai rockettari di oggi. Anzi, i Clutch hanno sempre saputo conferire un taglio moderno alle loro composizioni, che qui si realizzano perfettamente nell’arco di pochi minuti, tra fumiganti hard blues al testosterone (“White’s Ferry” su tutti) e qualche svisata psych. Produce Joe Barresi, veterano di guerre stoner, che per l’occasione ha reso ancora più naturale e “live” il suono della band. Delusi dal nuovo album dei Fu Manchu? Qui avrete modo di rifarvi pienamente.

COLOUR HAZE
Tempel (Electrohasch)
I Colour Haze sono sempre stati un po’ snobbati dalla critica stoner, vuoi per alcune prove (quelle iniziali) non propriamente brillanti, vuoi per un’innegabile dipendenza dallo sfruttatissimo modello kyussiano. Negli ultimi album provvedevano a dilatarlo sulla scorta della passione per il krautrock, e il nuovo “Tempel” non fa eccezione, sebbene questa volta i Nostri preferiscano concentrarsi su brani più brevi, invece delle recenti, interminabili suite. L’iniziale “Aquamaria” suona come l’ennesima rivisitazione di “Magnolia”, ma fa comunque piacere sentire quel suono immenso, rotolante e desertico. I Colour Haze migliori sono quelli più personali di “Fire”, una nenia da dopo-sbornia psichedelico, e “Mind”, che mischia con disinvoltura Doors, Monster Magnet e un riff da garage-punk anni ‘60. In “Gold & Silver” c’è persino un organo Hammond, a sottolinearne una più spiccata impronta Seventies à la Blue Oyster Cult, mentre “Ozean” torna a ribadire l’amore per il kraut dilatato degli immensi Ash Ra Tempel. Non è di sicuro l’album migliore della band, ma chi piange ancora i Kyuss avrà di che consolarsi.

COMETS ON FIRE
Avatar (Sub Pop)
“Avatar” è il quarto album dei Comets On Fire, eterna promessa heavy-psych che ancora non è riuscita a sfornare il suo album definitivo, nonostante che col precedente “Blue Catherdral” ci sia andata molto vicino. Con l'ingresso in pianta stabile di Ben Chasny (la mente flippata dei Six Organs Of Admittance) e del manipolatore elettronico Noel Von Harmonson, il combo americano sembra abbia trovato una dimensione di compromesso tra la rumorosa psichedelia free-form degli esordi e la voglia di scrivere canzoni di senso compiuto. Infatti, qui dentro ci sono splendide melodie acid rock anni '70 che spesso e volentieri si complicano in code psych-noise distruttive (vedi l'iniziale e magnifica "Dogwood Rust"). Ottima l'interazione tra chitarre, batteria e tastiere, che si esprimono ai massimi livelli nei frangenti più disparati: fragorosi blues rock venati di soul (“Lucifer’s Memory”), morbide divagazioni jazz (“Joybird”) e inaspettati deliqui pinkfloydiani ("Hatched Upon The Edge"). “Avatar” è il disco più ordinato e ragionato dei Comets On Fire, ma allo stesso tempo trabocca di personalità. Lo consigliamo a chi già ama il retro-rock rammodernato di Dead Meadow e Black Mountain.

THE CUTS
From Here On Out (Birdman/Goodfellas)
Ci piacerebbe vedere le facce di voi tutti alla partenza di “Stop Asking”, che inaugura il nuovo lavoro dei The Cuts: rock duro e sovra-arrangiato di metà anni Settanta, che ogni tanto esce dai binari per prendere la strada del garage psych del decennio precedente. Il tutto propulso da una voce nasale del tutto simile a quella di Arthur Lee dei Love! Sì, The Cuts compiono il piccolo miracolo di far convivere il glam rock più lussurioso e prog (T-Rex, Bowie, Sparks) con l’energia cinetica dei Who e col pop orchestrale dei Love di “Forever Changes” (“Hun Tun”, “Boots In The Winter”) in 11 canzoni come miele solido. Psichedelia aggraziata e vivace, schitarrate robuste, arrangiamenti sfarzosi a base di organo, archi e trombe… persino un paio di ballate psych da lacrime agli occhi (“Shotgun”, “She’s In Love”) e una spruzzata di soul nel finale (“One Last Hurrah”). D’altronde The Cuts non sono degli illustri sconosciuti: ne fanno parte due Time Flys, acclamata garage band che si diletta con cose simili, ma con maggiore carica punk. Qui invece dominano l’eccentricità e il gusto per il barocco, senza perdere di vista l’urgenza espressiva e l’istintività del rock. Grandi.

DANAVA
S/T (Kemado)
Come i Danava siano finiti nel roster Kemado, label degli ottimi The Sword e Priestbird, è un mistero. Non che siano disprezzabili, ma lo stile hard rock anni ’70 che adottano sembra la parodia di quel sound immortale, piuttosto che un omaggio deferente ai maestri. Nei brani dell’album s’incontrano e si scontrano Black Sabbath, Blue Cheer, Led Zeppelin, Hawkwind e T-Rex, ma senza alcun tentativo di mediazione da parte della band, che si limita a dar voce a tutte le influenze nell’arco di ogni brano. Il risultato è bizzarro e spiazzante, un’accozzaglia di riff e idee che si succedono senza seguire un copione sensato. Questa apparente libertà creativa non porta da nessuna parte, finendo per irritare l’ascoltatore, continuamente sballottato da una parte all’altra. Forse a tradire i Danava è stata la voglia di dimostrare subito ciò di cui sono capaci, quando sarebbe bastato organizzare meglio certe melodie. L’incrocio tra Hawkwind e Captain Beyond proposto in “Quiet Babies Astray In a Manger” lascia intuire le buone potenzialità di una band che deve imparare ad essere più disciplinata.

THE DATSUNS
Smoke & Mirrors (V2)
All’ascolto di “Who Are You Stomping Your Foot Foor?”, brano apripista del nuovo Datsuns, si ha l’impressione che la band voglia rilevare una volta per tutte il ruolo che fu degli Hellacopters e che oggi sembra vacante: quello di migliore “high energy rock’n’roll band”, per dirla alla maniera di Nick Royale. I Datsuns s’impegnano seriamente sfornando alcuni dei loro pezzi più belli, ma finendo per andare in troppe direzioni diverse. “System Overload”, ad esempio, ha un arrangiamento elettronico che fa molto anni ’80, mentre “Waiting For Your Time To Come” è appesantita da effetti space che ne smorzano l’impatto rock. Qui finiscono per assomigliare agli ultimi Screaming Trees, ma già nel brano successivo si presentano in veste diversa, quella southern blues dei Black Crowes. E nell’altro ancora strizzano l’occhio agli AC/DC, sparando una melodia facilona che alla radio potrebbe fare strage (“Maximum Heartbreak”). Non c’è dubbio, i Datsuns sono dotati e padroneggiano bene il linguaggio del rock, ma sono anche troppo smaniosi di mettere sulla brace tutta la loro carne, rischiando di non cuocerla fino in fondo.

DEAD BOY & THE ELEPHANTMEN
We Are The Night Sky (Fat Possum)
Allucinato cantante dei sottovalutati Acid Bath, Dax Riggs è già una figura di culto; venerata soprattutto a livello locale, data l’allergia del Nostro alla luce dei riflettori. La sua è una tra le voci più belle e comunicative dell’ultimo decennio, ma in linea col suo animo romantico Riggs ha scelto il quasi anonimato. Ha persino sciolto gli Agents Of Oblivion, gruppo col quale ha pubblicato un debutto-capolavoro di tardo grunge psichedelico e stupende ballate crepuscolari. Nella nuova creatura, Dead Boy & The Elephantmen, Dax scarnifica le sue composizioni, smorza i toni epici e si dedica prevalentemente a brani country-dark. Quasi dei Doors acustici, ma con qualche puntata nell’indie rock più moderno (in “Blood Music” e “Kissed By Lightning” cita il rock robotico dei QotSA). È musica dolente e fatalista, che solo ogni tanto si carica di elettricità, ma raggiungendo raramente le vette espressive toccate con gli Agenti dell’Oblio (“Dressed In Smoke”). Da rocker rabbioso a singer maledetto, fino a perdente menestrello dark: il percorso di Riggs si è svolto nel giro di pochi anni, ad indicare l’indole mutevole di un’artista timido e schivo che probabilmente ha ancora molto da dire. Purché nessuno ne scopra la grandezza.

DIVE
Once (Autoprodotto)
Oggi come oggi, imbattersi in una grunge band pone un certo imbarazzo. Il genere, molto in voga oltre un decennio fa, ha contribuito enormemente a riportare il rock alla popolarità che gli appartiene, ma è invecchiato decisamente male, ed è finito sepolto da una valanga di dischetti inutili in cui le clone band di turno si esercitavano a scimmiottare i grandi. È un po’ quello che succede in questo album dei Dive. L’iniziale “I Die Young” (che nel titolo strizza l’occhio agli Alice In Chains) lascia ben sperare, non fosse altro perché ricorda gli Screaming Trees degli esordi, quelli ancora imbevuti di garage punk sessantiano. La successiva “Versus” (ma non era il titolo del secondo Pearl Jam?) copia spudoratamente riff e melodie dei Soundgarden, per un risultato disastroso. “Never” (mind?), invece, vorrebbe replicare il tiro dei Nirvana del periodo “Bleach” e “Incesticide”, ma con risultati disastrosi e l’aggravante di un pessimo drumming. Lo ammettiamo, abbiamo mollato poco più avanti, scoraggiati da una produzione terribile, da una voce mediocre e da una totale assenza di idee.

DIXIE WITCH
Smoke & Mirrors (Small Stone)
I Dixie Witch di “Smoke & Mirrors” non potevano che incidere per Small Stone, etichetta attenta alle sonorità più retrò in seno alla variegata scena stoner. Se i Five Horse Johnson continuano a essere la punta di diamante del suo roster, i Dixie Witch sono dei buoni secondi, insieme ai dispersi Halfway To Gone. Lo stile è infatti quello: hard rock sudista e con spiccate propensioni psichedeliche (oggi meno evidenti che ai tempi degli esordi), ben riassunte nel rifferama dell’acida “Ballinger Cross”, un incrocio tra Sleep e Dead Meadow. La band compone canzoni solide, dotate di una bel tiro (“S.O.L.”), di grandi assolo e di melodie convincenti (la ballata stradaiola “Out In The Cold”). Alcuni le troveranno leggermente stereotipate, ma è il prezzo che paga chi attinge ad una tradizione musicale, quella americana, ormai ampiamente metabolizzata. Il lungo blues onirico e psichedelico di “Last Call”, giocato su un ottimo intreccio di chitarre e organo, è però farina del loro sacco e orgogliosamente li riscatta.

DOOMRAISER
Lords Of Mercy (Iron Tyrant)
“Heavy drunken doom” è il motto dei romani Doomraiser, che dunque non lasciano dubbi circa l’incrollabile fede nella musica del destino più classica. Cioè quella “americana”, quella “thirsty and miserabile” dei Saint Vitus, dei Trouble e dei Pentagram, sebbene non manchi l’epica romantica dei Candlemass e la verve stoner di certi Cathedral. I Doomraiser suonano con consumata abilità, rinverdendo un tradizione che per fortuna è dura a morire. In “Lords Of Mercy” tutto funziona a dovere. I riff sono granitici, marmorei come le lapidi di un cimitero; gli assolo, ben cesellati, tra blues e psichedelia (ottima la parentesi ipnotica nel bel mezzo di “The Old Man To The Child”); la sezione ritmica, possente e precisa, capace sia di recintare l’elettricità che si spande lentamente dalle chitarre, che di cavalcarvi sopra a rotta di collo (“Doomraiser”). La voce di Cynar, invece, ha trovato la sua strada da qualche parte tra il registro pomposo di Scott Reagers, quello istrionesco e declamatorio di Lee Dorrian, e quello animalesco di John Garcia. Il gran finale di “Doomalcoholocaust” coincide col momento di massima maturità espressiva della band, che riscrive il verbo sabbathiano con sensibilità gotico-orchestrale. Una sinfonia funerea che non può lasciare indifferenti.

DREAM DEATH
Back From The Dead (PsycheDOOMelic)

Straordinaria riscoperta, quella operata dalla PsycheDOOMelic Records, etichetta che spaccia doom metal di qualità ai numerosi appassionati del genere. “Back From The Dead” è una raccolta contenente tutto il materiale registrato dai Dream Death, combo americano dalla cui ceneri hanno preso vita i Penance. “Sludge metal”, si auto-definivano all’epoca: era il 1986, i Cathedral erano di là da venire, ma la band di Mike Smail e Brian Lawrence quasi profetizzava le evoluzioni future della musica del destino avverso. Oltre ad una naturale dipendenza dal modello sabbathiano, i Dream Death evidenziano infatti un approccio molto oscuro e violento, tanto che in più di un’occasione finiscono per assomigliare ai primi Celtic Frost, complici le vocals graffianti di Lawrence. Gli mancano ovviamente le velleità sperimentali di Tom G. Warrior, ma i Nostri sopperiscono con una malvagità che a quei tempi era fuori dal comune e con una scrittura che – per quanto acerba – riesce bene nell’alternanza tra groove heavy rock e sfibranti rallentamenti. Quella dei Dream Death è una nota a margine nel libro di storia del doom, ma vale la pena di leggerla.

EA
Ea Taesse (Solitude)
Il funeral doom è arrivato fino in Russia, dove al momento la scena sembra particolarmente vitale e ricca di buone band. Tra esse, questi Ea, misteriosa formazione di cui si ignora praticamente tutto, se non quello che traspare dai tre brani che compongono “Ea Taesse”. Innanzitutto, è chiara l’influenza dei maestri Esoteric e Skepticism, le band con cui chiunque sia interessato al genere deve essere in grado di confrontarsi. Emerge con prepotenza anche la volontà di creare atmosfere arcane e spettrali, per dare profondità dark a brani che definire imponenti è poco. La batteria è ben più di un suono d’accompagnamento. I suoi singulti, i suoi scarti, le rullate ravvicinate e i colpi sui piatti hanno carattere altamente descrittivo, persino più della voce, cavernosa e distante come poche. Le chitarre suonano note lunghe e dilatate, mentre gli spazi vengono riempiti dalle melodie decadenti e liturgiche che gli Ea affidano a keyboards effettate o ai fraseggi minimali del piano. Nel finale di “Laeleia” compare anche una voce femminile che aggiunge drammaticità e mistero. Ancora uno sforzo per definire ulteriormente la propria personalità, e gli Ea saranno sulla bocca di tutti, ma sin d’ora sapranno fare la gioia dei fanatici di funeral doom.

EL THULE
Green Magic (Go Down)
Gli El Thule non si facevano sentire dal 2004, anno della pubblicazione del primo “No Guts, No Glory”. Titolo azzeccato: ci volevano le palle per suonare stoner nel momento in cui molti appassionati della prima ora si era disaffezionati al genere, ma loro si erano comunque fatti notare. Tre anni dopo, il compito è ancora più arduo, ma nel frattempo il trio italiano ha accumulato esperienza da vendere, dividendo il palco con gente come High On Fire, Witchcraft, On Trial e Orange Goblin. “Green Magic” si rivela un album vincente: nostalgico il giusto, ma soprattutto potente e violento, complice una produzione che più grezza non si può. Persino là dove potrebbero abbassare la guardia e rilasciare la tensione (vedi le evoluzioni psych di “Adam Bomb” o l’intermezzo tribale in “Bud Orange”), i Nostri scelgono di pestare duro, di spaccare tutto, incitati da quel pungiglione punk che è la voce di Mr. Action. Gli El Thule si dimostrano a loro agio anche nel doom fumoso (e fumato) di “La Muela Del Diablo”, strumentale di 10 minuti che sembra durare la metà, tanta è la carne al fuoco. Davvero bravi. Se n’è accorata anche l’ottima Go Down Records, che li ha subito presi con sé.

ELECTRIC WIZARD
Witchcult Today (Rise Above)
Gli Electric Wizard tornano in scena con un disco che riallaccia i ponti col passato di “Come My Fanatics...” e “Dopethrone”, con le loro melodie doom perse in voragini heavy-psych, atmosfere da b-movie dell'orrore, ed una sezione ritmica meno enfaticamente metal rispetto a quella dell'ultimo “We Live”. Non aspettatevi un capolavoro, però. “Witchcult Today” ha da offrire una buona dose di ottime canzoni e riff memorabili, ma a primo ascolto sembra sia andata persa l'aggressività di un tempo, complice una produzione che smorza leggermente i toni e schiarisce le vocals di Jus Oborn, mettendole avanti a tutto. Seppure buoni, i brani si affidano (non sempre con la dovuta convinzione) a classici canovacci ripetuti all'eccesso. Vedi la struttura prevedibile di “The Chosen Few”, della title-track e di “Torquemada 71”, dotate di simili code ultra-lisergiche affidate alla solista settantiana del leader, in cerca delle stesse derive cosmic-blues di “Supercoven”. Allo stesso modo, le melodie di “Dunwich” e “Satanic Rites Of Drugula” (gran bel titolo!) girano intorno a quelle di brani-capolavoro come “Doom Mantia” o “I, The Witchfinder”. Certamente una gioia per le orecchie dei nostalgici (noi compresi), ma la domanda che molti non vorranno porsi resta la stessa: lo Stregone Elettrico è a corto di magie? È forse rimasto vittima dei suoi stereotipi? Non del tutto, perché il drone-doom psichedelico di “Black Magic Rituals And Perversions” suona nuovo e devastante, e la conclusiva “Saturnie” ha finalmente la forza impattante che un brano dei Wizard deve possedere. Nient'affatto un brutto disco, ma da loro è lecito pretendere di più.

ETERNAL
Lucifer’s Children EP (Rise Above)
Più che nei Thy Grief Eternal, le radici degli Electric Wizard affondano negli Eternal, di cui la Rise Above propone tutto il materiale (4 brani, contando anche la cover di “Electric Funeral” dei Black Sabbath) registrato durante la loro breve esistenza. È qui che Jus Oborn comincia ad immaginare con maggiore compiutezza lo space-doom che ben conosciamo, intriso di arcane atmosfere lovecraftiane e di psichedelia cosmica. Mancava ancora qualcosa, ma la cifra stilistica era già quella dello Stregone Elettrico adulto. Ai fan farà piacere ascoltare una versione embrionale di “Chrono.naut”, che anni dopo sarebbe stata perfezionata e inclusa in un mitico split con gli Orange Goblin targato Man’s Ruin. Un recupero filologico doveroso.

EVERLOVELY LIGHTNINGHEART
Cusp (HydraHead)
Non basterebbe lo spazio di questa recensione per elencare, come nel libricino custodito nella splendida confezione digipack, tutti gli strumenti, regolari e non, coinvolti nella stesura di “Cusp”. La mente degli Everlovely Lightningheart, lo strambo Chris Badger, è arrivato persino a registrare il suono della sua urina. Come a dire che tutto è musica. Come a dare alla musica il significato profondo di colonna sonora della sua vita, della vita di tutti. Di essa ci offre la sua percezione, che assomiglia tanto ad un quadro impressionista. Così è la musica di “Cusp”, un’unica lunga traccia ambient drone che attraversa varie fasi, alcune particolarmente melodiche (molto belle le partiture pianistiche all’inizio), altre più scorbutiche e ripiegate su stesse. Tra luci e ombre, l’effetto trance è assicurato.

FEAR FALLS BURNING & NADJA
S/T (Conspiracy)
I Nadja hanno deciso di fare concorrenza ai Sunn O))), dato che anche loro non si pongono problemi nel rilasciare dischi a getto continuo. Per la verità, la maggior parte delle uscite recenti del duo canadese consisteva in ristampe di vecchi demo, mentre questo lavoro realizzato a quattro mani con Fear Falls Burning (artista anche noto col nome di Vidna Obmana) contiene materiale di nuova concezione. Si tratta di qualcosa di diverso dal solito sound drone-psych dalle sfumature doom tipico dei Nadja. C’è più interesse per la componente ambient-noise di quello stile, ma senza rinunciare alle melodie ipnotiche, da cercare tra le pieghe di droni di chitarra oscuri e fluttuanti, ma che a tratti sembrano acquistare fisicità ed assumere i contorni di veri e propri riff. Il tappeto d’accompagnamento è affidato a percussioni discrete, spesso trasfigurate in clangori industriali che trasmettono sensazioni d’ansia e disagio, come di fronte ad una catastrofe imminente. Altrove, e segnatamente nel secondo movimento del disco (senza titolo come gli altri), si respira l’atmosfera lugubre di una cerimonia d’iniziazione, una messa nera dove qualcuno ci rimetterà la pelle. Se cercate una valida alternativa ai Sunn O))), provate tra questi solchi, e troverete molto di più.

FIREBIRD
Hot Wings (Rise Above)
In passato la conversione all’hard blues dell’ex-Carcass Bill Steer ha già prodotto ottimi frutti, il più buono dei quali si chiamava “Deluxe” ed usciva per Rise Above nel 2001. “Hot Wings” è invece tanto bello quanto gli altri album dei Firebird, un’altra dimostrazione di come nella passione e nella classe stia la formula dell’eterna giovinezza di un genere, il rock duro, che di anni sul groppone ne ha davvero tanti. Bill Steer e soci (tra loro anche Ludwig Witt, drummer degli Spiritual Beggars) se ne infischiano e continuano a divertirsi alla vecchia maniera, addirittura citando Johnny Winter in “Play The Fool” (un tripudio di chitarre slide!) o il blues tipico dei ’50 in “Misty Morning”. Non potevano mancare le ballate sudiste torci-budella, che i suoni crudi e la produzione essenziale del disco esaltano a dovere: “Horse Drawn Man” ha un refrain mozzafiato, mentre “Bow Bells”, che potrebbe appartenere al repertorio dei Black Crowes più ispirati, si serve di un bell’impasto di chitarre elettriche e lap steel. Roba da intenditori, insomma. Peccato che i soliti modernisti senza memoria storica spareranno a zero contro un disco passatista, sì, ma di una purezza cristallina.

FIVE HORSE JOHNSON
The Mistery Spot (Small Stone)
Nonostante una discografia nutrita e la fama di grande live band, finora se li sono filati in pochi. I Five Horse Johnson sono evidentemente destinati a soddisfare pochi cultori, che nel loro ruspante heavy rock ritrovano la grande tradizione della musica americana. “The Mystery Spot” non fa eccezione. C’è il torrido clima del Sud degli States, con le sue paludi e i riti vudù. E ci sono ovviamente il country e il blues, sebbene stretti in una morsa hard rock che non lascia scampo. L’armonica a bocca è una presenza costante, tanto dirompente quanto le chitarre che le ruggiscono attorno. La sezione ritmica è pura dinamite, mentre la voce è maschia e roca come quella di un Mark Lanegan primitivo: l’unica possibile per intonare inni alcolici come “Call Me Down” o “Drag You There” in modo credibile. Per via di un ritmo forsennato, “Feed That Train” sembra l’interpretazione di un classico del blues ad opera di Lemmy e i suoi Motorhead, ma negli ascolti dei Five Horse Johnson ci sono soprattutto ZZ Top, Led Zeppelin, Cactus, Aerosmith, Mountain, Lynyrd Skynyrd e Allman Brothers. “…Of Ditch Diggers And Drowing Men” è l’apice della raccolta, puro orgoglio Southern come da tempo non capitava di ascoltare. Nel suo genere, uno dei migliori dischi dell’anno.

FUNERAL
From These Wounds (Tabu)
“From These Wounds” riaccende i riflettori sui doomsters norvegesi Funeral, dopo le brutte notizie degli ultimi anni: innanzitutto la morte del bassista Einar Frederiksen nel 2003 (dopo la pubblicazione del precedente “In Fields Of Pestilent Grief”), poi quella del chitarrista Christian Loos, venuto a mancare lo scorso ottobre. Perdite importanti, che hanno reso orfano Anders Eek (l’unico rimasto dei membri originari), ma che non hanno impedito ai Funeral di maturare ulteriormente la loro miscela di funeral doom e gothic metal. Congedatisi da Hanne Hukkelberg e dalle sue vocals operistiche, questa volta la band è ricorsa ai servigi del singer Frode Forsmo (dalle fila dei Minas Tirith), che ha interpretato a perfezione i toni da elegia delle sette tracce dell’album. Tra esse, “The Achitecture Of Loss” è quella che per atmosfere e contenuti lirici si pone come cartina di tornasole dell’intero lavoro: una cattedrale di chitarre gotiche, un coro monastico di grandi proporzioni, una melodia decadente che nel gran finale è sottolineata da una linea di flauto e da brividose impennate elettriche. Le maestose liturgie chiesastiche di “Red Moon” e “Vagrant God” non sono da meno, tanto da rivaleggiare col miglior repertorio di My Dying Bride e primi Paradise Lost, ma senza plagio alcuno. Come nelle migliori storie doom, i Funeral hanno trasceso il dolore e ne hanno fatto arte.

THE GATES OF SLUMBER
Suffer No Guilt (I Hate)
La I Hate Records è ormai un punto di riferimento per gli aficionados del doom, sia esso di stampo Seventies o di matrice più estrema. Tra le band portate sotto la luce dei riflettori ci sono anche questi The Gates Of Slumber, stilisticamente affini a Saint Vitus, Black Sabbath, Cirith Ungol, Manilla Road, Manowar, Iron Maiden e Mercyful Fate. In questi solchi c'è dunque una certa enfasi sulle componenti heavy metal classiche del genere doom. L'iniziale "Angel Of Death" ne è un esempio lampante, mentre la title-track tira in ballo Conan il Barbaro, il famoso personaggio dello scrittore Robert E. Howard che ben si adatta all'immaginario guerresco dei Nostri. La copertina in puro Frazetta-style parla da sola. The Gates Of Slumber maneggiano il doom metal con discreta disinvoltura, ma restando lontani dai risultati raggiunti dai Reverend Bizarre, che nell'ultimo decennio hanno rappresentato quanto di meglio il genere (nelle sue forme più pure ed epiche) avesse da offrire. Sono degli ottimi mestieranti, e l'ascolto del disco procede senza intoppi, ma anche senza grossi sussulti. La colpa è in parte della voce di Karl Simon, che manca della giusta incisività. In compenso, la sua chitarra mena fendenti a destra e a manca, soprattutto nella lunga digressione heavy blues dell'ottima "Riders Of Doom". Promossi senz'altro, ma l'impressione è che il meglio debba ancora venire.

THE GERSCH
The Gersch (Tortuga)
Nei The Gersch, band attiva sin dai primi anni ‘90, suona la chitarra Bryant Clifford Meyer, già membro di Isis e Red Sparowes, nomi di punta della scena post metal. Il Nostro ha deciso che era ora di far conoscere al mondo il gruppo messo in piedi ben prima delle formazioni in cui oggi milita. Ma chi si aspettava il disseppellimento di chissà quale tesoro perduto, resterà deluso. “The Gersch” è un disco semplice e onesto, in bilico tra sludge-doom e hardcore (“Face”), prodotto approssimativamente e con pochi momenti davvero esaltanti: la galoppata di “Residue Three”, la potenza melvinsiana di “Listwish”, i climi funerei di “’taker” e lo psych-metal dilatato e emozionale di “Your Lips Are No Man’s Land But Mine”, 13 minuti che ricordano i Neurosis più pinkfloydiani. Il resto non è certamente disprezzabile, ma in giro c’è decisamente di meglio.

GHEESTENLAND / GRIM FUNERAL
Gheestenland / Grim Funeral Split (Obscure Abhorrence)
Spariti nel nulla dopo la pubblicazione di un promettente split con gli Spectre, tornano in azione gli spagnoli Grim Funeral. Come in quell'occasione siamo di fronte ad un sound black metal fedele all'immaginario necrotico che circonda la band. Un suono tremolante, tagliente, acuto, tutto giocato su riff di chitarra che disegnano figure semplici e ripetitive. Melodie oscure sono inseguite da una batteria in perenne blast beat e da vocals rugginose intrise d'eco, in una tremenda cavalcata a rotta di collo attraverso l'Ade. I brani avvolgono l'ascoltatore come una nebbia glaciale e viva che sparge tenebre ovunque, nascondendo ogni cosa alla luce. I Grim Funeral fanno bene la parte di Caronte, trascinandoci nel regno dei morti, coi suoi maestosi scenari notturni raccontati dalle grandiose scalate chitarristiche e dai fieri rallentamenti ritmici. Curiosamente, i Nostri restano fedeli all'artwork del precedente split, riproposto con minime variazioni. Esattamente come il loro stile primitivo e criptico, uguale a se stesso eppure ogni volta stupefacente per profondità espressiva e coinvolgimento emotivo. Il futuro full-length per Total Holocaust li consacrerà sicuramente tra le migliori black metal band dei nostri tempi. I Gheestenland, al confronto, fanno la figura dei mediocri, proponendo un black metal canonico e dagli accenti epici, ma confezionato in brani di breve durata che lasciano in chi ascolta un senso di incompiutezza.

GHOST
In Stormy Nights (Drag City)
Il 2007 inizia col botto, e non ci riferiamo di certo ai fuochi d’artificio. Si tratta invece di un nuovo album dei giapponesi Ghost, ancora una volta col marchio della Drag City. Il precedente “Hypnotic Underworld” è stato giustamente lodato come il più bello della loro produzione, la summa di un’arte che da oltre un ventennio perfezionano in dischi di prog rock ed acid folk. “In Stormy Nights” non raggiunge forse le vette del quel capolavoro, ma si conferma come l’ennesimo grande album in una discografia praticamente impeccabile. Stavolta c’è meno spazio per ariose e solari costruzioni prog; i toni sono più introversi, le atmosfere decisamente più cupe. “Water Door Yellow Gate” e “Gareki No Toshi” (quest’ultimo il nome della band prima di ribattezzasi Ghost) si giocano quasi esclusivamente sul passo marziale di timpani e batteria, con gli altri strumenti ad entrare ed uscire di scena con un effetto corale. La stessa tecnica, ma con risultati migliori, informa il tour de force (oltre 28 minuti!) di “Hemicyclic Anthelion”, che si snoda tra clangori metallici e singulti free jazz, in totale anarchia. I Ghost che preferiamo sono quelli della conclusiva “Grisaille”, stupenda ballata notturna in cui la tristezza si trasforma in dolore, sulla scorta di un assolo torci-budella da antologia.

GHOST
Overture: Live In Nippon Yusen Soko 2006 (Drag City)
Fantasiosi e raffinati interpreti di folk rock, inclini a flirtare con il prog settantiano e il free jazz, in “Overture” i Ghost si tolgono uno sfizio: suonare un concerto di sola musica sperimentale e improvvisata, alla larga dalle formule utilizzate negli ultimi, splendidi lavori in studio. Non aspettatevi quindi di ascoltare la voce sottile di Masaki Batoh (che si limita a intonare pochi pattern vocali) o le schitarrate di Michio Kurihara. Qui c’è solo astrattismo sonoro, dai colori tenui e dalle atmosfere rarefatte e sospese, nonostante l’imponenza della strumentazione utilizzata (sax, percussioni, flauto contrabbasso, liuto, piano, etc.). Dopo 15 minuti, un’impennata inaspettata si lascia dietro il minimalismo insistito per far posto a malinconiche melodie appena abbozzate, ma sufficientemente chiare da permetterci di tirare in ballo il kraut dei ’70 e il free jazz spirituale di Coltrane e Ayler. Ma il grande affresco immaginato dai Ghost si apprezza soprattutto sul DVD allegato, che propone il concerto nella sua interezza attraverso l’occhio di quattro telecamere. Il risultato è stratosferico, tenuto conto dell’incredibile lavoro di Overheads, team di artisti che interpreta la musica della band proiettando sulle pareti del Nippon Yusen Soko (vecchio magazzino oggi adibito a galleria d’arte) un caleidoscopio di immagini suggestive ed emozionanti. Il trip è servito.

GOAD
The House Of The Dark Shining Dreams (Black Widow)
Questa volta la Black Widow Records punta i riflettori su una band storica: i Goad di Maurilio Rossi, in passato autori di svariati album costruiti attorno ad opere letterarie (il “Tribute to Edgar Allan Poe” d’una decina d’anni fa), teatrali e cinematografiche. Che Rossi sia un grande istrione si capisce dalla voce: strisciante, a tratti tagliente, a metà tra la recita e il canto, a suo agio sia quando si tratta di interpretare lo strano soul-prog di “Olympia”, sia quando in “Killer” accompagna una marcia rock epica. Attorno a Rossi si accalcano chitarre, keyboards, sax, flauto, moog, mellotron e violino, per un suono orchestrale mai sopra le righe, capace di coniugare musica classica e prog rock come fosse cosa semplice (“Dark Virigin”). La produzione non è delle migliori, ma non impedisce di godere appieno delle melodie e dei ricchi arrangiamenti di cui la band infarcisce i suoi brani e la cover di “21st Century Schizoid Man” (King Crimson): un pezzo rifatto da molti, ma che mai era stato trasformato nel curioso baccanale pagano immaginato dai Goad.

GRAVETEMPLE
The Holy Dawn (Southern Lord)
Forse sarebbe il caso di consigliare a Steve O’Malley e Greg Anderson di andarci piano. Il duo americano, già attivissimo attraverso la sigla dei Sunn O))), sta invadendo il mercato con una serie di uscite dedicate a collaborazioni importanti. Dopo quella con Pita nei KTL, e in attesa dell’inedito team-up col percussionista d’avanguardia Z’ev, O’Malley ha pubblicato col nome di Gravetemple il resoconto live di un breve tour in Israele al fianco dello sperimentatore Oren Ambarchi (già al lavoro su “Black One”) e del solito Attila Csihar. Il risultato non è difficile da immaginare. Droni di chitarra come una pozza d’acqua nera, dapprima increspata da pochi tocchi percussivi, poi agitata da un rumorismo sempre più fitto e dalle vocals malvagie di Csihar, ad invocare il sorgere di creature mostruose. Ma rispetto ai Sunn O))) c’è meno pathos, meno profondità. I suoni sono scheletrici, appuntiti come la lama di un coltello, laddove i Sunn O))) preferiscono una lenta asfissia doom per vincere la resistenza dell’ascoltatore. L’impressione è che certe improvvisazioni abbiano un senso solo nella dimensione live in cui sono concepite, perdendolo una volta trasposte su disco. I fan non vorranno comunque mancare all’appuntamento.

GREY DATURAS
The Path Of Niners (Rocket)
Immaginate di capitare nel bel mezzo di una tempesta cosmica, di quelle che i Monster Magnet di “Spine Of God” replicavano a meraviglia quando erano ancora infatuati degli Hawkwind. Oppure sforzatevi di concepire uno stile a metà strada tra Isis e Sunn O))). Così saprete cosa aspettarvi quando sarete ben dentro a “The New Neuralgia”, il primo brano di "Path Of Niners". Lo suonano i Grey Daturas, combo di heavy-psych rock strumentale e dalle tinte drone, ambient e noise. Il loro è un approccio moderno, ma non aspettatevi una musica troppo intellettuale o di difficile decifrazione. La band sa mettere bene in evidenza le proprietà melodiche delle sue composizioni, che pur non seguendo i normali percorsi della forma-canzone, non suonano mai sopra le righe e sanno rendersi interessanti. Anche quando le chitarre e la batteria prendono strade diverse, come nell'incipit di “Cretinism”, i Nostri giungono presto ad un incrocio in cui farle scontrare, creando emozionanti crescendo, o implodendo dentro paesaggi sonori ghiacciati (“Aurora Australis”). Il pezzo forte è “Ghosts Of The Eastern Block”, dove il ritmo ben congegnato della batteria è l'unico appiglio per sottrarsi ai gorghi elettrici. Sulle note sospese della title-track, invece, si potranno piangere i neuroni (tanti) che non sono sopravvissuti al naufragio. Ai Grey Daturas manca ancora qualcosa per scrivere un album davvero memorabile, ma restano in pole position tra le band “psyched-out” del momento.

GRIS GRIS
For The Season (Birdman)
Ha fama di essere lo Stato americano più folle e violento, ma il Texas è anche la culla del garage psichedelico, avendo dato i natali ai 13th Floor Elevators di Roky Erickson, ispiratori di decine di formazioni altrettanto psyched-out. Lo scorso decennio il Texas ci aveva offerto, tra le altre, le pastiglie acide di Bag e Lithium X-Mas, mentre il nuovo millennio è iniziato all’insegna dei Gris Gris. Lo spirito degli Elevators alberga in loro; lo dice l’inquietudine latente in “Cuerpos Haran Amor Extrano” (un blues à la Black Heart Procession) o “Peregrine Downstream”. Sperare che i Gris Gris non escano fuori di testa come successe al buon Roky (che si credeva un alieno e finì per qualche tempo in un ospedale psichiatrico) è chiedere troppo. Loro ci provano a mantenersi entro i binari della forma-canzone, da bravi ragazzi (“Down With Jesus”). Ma poi l’acido calato ore prima torna su per sferrare gli ultimi colpi, e i Nostri si imbarcano in viaggi psichedelici ossessivi, a base di chitarre riverberate, sax impazziti, organo e archi (nella title-track). Poco altro da aggiungere, se non un plauso per un titolo immaginifico come “Pick Up Your Raygun”, che riassume benissimo lo spirito di un disco eccellente.

HAKENKREUZ NOCTURNA
Eternal Introspective Winter (Algiz Art)
Non c'è assolutamente niente di nuovo nei solchi di "Eternal Introspective Winter", solo l'aderenza ad un modello classico di black metal norvegese che evidentemente è ancora nei cuori di molti. Va bene così, finché a suonarlo è gente come gli Hakenkreuz Nocturna, abili artigiani del metallo nero. Nonostante le premesse possano sembrare poco entusiasmanti, la musica risulta comunque molto coinvolgente nella sua sapiente alternanza di fieri mid-tempo e sfuriate di blast-beat che replicano in note la potenza travolgente di una tormenta di neve. A merito del gruppo, va anche detto che la lunghezza dei brani, molti dei quali intorno ai 9-10 minuti, non s'avverte nemmeno, segno che gli Hakenkreuz Nocturna sanno come costruire strutture in grado di reggersi da sole senza annoiare. Il senso di gelo è tangibile, l'aura misantropica avvolge tutto in una cappa asfissiante, i riff sono essenziali ed efficaci, e melodie drammatiche fanno capolino in coincidenza di azzeccati rallentamenti ("Illusione Di Esistenza", "November Sky"). Tutto suona familiare, ma l'impressione non è certo quella di ascoltare qualcosa di "già sentito", semmai qualcosa di "classico". Gli Hakenkreuz Nocturna sembrano essere giunti talmente vicino al cuore del black metal da padroneggiarlo con naturalezza istintiva. Un lavoro nel complesso più che discreto, una band di valorosi che non cambierà il black metal... perché non c'è nulla da essere cambiato.

HESPERIA
Il Ritorno Di Una Civiltà Arcaica (Il Male)
Personaggio davvero singolare, Hesperus. Non soltanto per l'apprezzabile approccio personale ad un black metal calato in un contesto italico che gli calza come un guanto, ma anche per la grandiosità del concept mitologico con cui intende riscrivere la storia arcaica del nostro Paese (Hesperia era il nome delle nostre antiche lande). Un modo per raccontare luoghi, leggende, tradizioni, miti, culti e culture di casa nostra attraverso il linguaggio crudo e altrettanto primitivo della musica della fiamma nera. Che è solo uno strumento nella mani di Hesperus, intenzionato a piegarlo alle sue necessità. "Il Ritorno Di Una Civiltà Arcaica", compendio del concept che Hesperus ha in programma di realizzare, è musicalmente e stilisticamente molto interessante. Criptico e avanguardista, lo stile Hesperia ricorre a partiture furiose e caotiche, organizzate un po' confusamente in brani inframmezzati da continue parentesi folk (affascinanti quelle di "The Archetypal Tyrant Of Hesperia" e "Il Culto Del Sole"), stranianti passaggi doom (la grandiosa "De Bello Hesperio"), bizzarre litanie lunari e assolo di chitarra tecnici e contorti (nella title-track e nella conclusiva, lunghissima "La Civiltà di Hesperia"). Manca ancora una visione musicale nitida e a fuoco, ma allo stesso tempo ci viene un dubbio: imponendo ordine (ed una produzione curata) a questa massa incandescente di suoni e melodie appena abbozzate ed evidentemente acerbe, non si rischierebbe di perdere o ridimensionare parte del fascino che una visione tanto ferina e assoluta ha da offrire? Allora, che la fiamma atipica del black metal hesperiano continui pure a bruciare libera e alta, assumendo la forma che più le aggrada.

THE HIDDEN HAND
Devoid Of Colour EP-DVD (Southern Lord)
Ritornano in buona forma gli Hidden Hand di Wino (ex-The Obsessed e Spirit Carvan) e Bruce Falingburg. Spalleggiato da un nuovo batterista, il duo questa volta ha scelto di presentare un EP-DVD limitato a 3000 copie. Da una parte del dischetto, tre nuovi brani e un paio di strumentali che continuano a percorrere sentieri doom ("Devoid Of Colour"), deviando ogni tanto verso la psichedelia e il prog, come nelle magnifiche "The Dagger" e "Vulcan's Children". Dall'altra, un DVD contenente estratti da un concerto del Luglio 2005 in cui gli Hidden Hand presentano una scaletta composta da brani tratti dall'EP in questione e dai precedenti studio-abum. Le due telecamere impegnate nelle riprese fanno un discreto lavoro, consegnando alla storia immagini importanti: non solo quelle di un artista irriducibile che dopo 30 anni è ancora qui ad agitare la chioma fluente (appena imbiancata qua e là) e a suonare grande doom sabbathiano, ma anche brevi e divertenti parentesi di vita vissuta fuori dal palco. Vita "on the road" di musicisti che hanno venduto l'anima al rock.

HJARNIDAUDI
Pan:Noise:March (Paradigms)
Di tutte le evoluzioni e le articolazioni assunte dal linguaggio doom negli ultimi anni, quella che lo cala in una dimensione psichedelico-onirico a base di drone e ambient è la nostra preferita, perché restituisce al doom una carica visionaria e sognante che le contaminazioni col metal più brutale gli avevano tolto. Già i Nadja ci conquistarono con un disco, “Truth Becomes Death”, a dir poco eccezionale, ma quello raggiunto da Aidan Baker sembrava quasi un risultato imprevisto, non programmato. Hjarnidaudi è molto più consapevole degli obiettivi che intende raggiungere, ed è certamente più addentro alla materia doom, dato che resta fedele ai suoi mood malinconici (“March”). Hjarnidaudi si muove lungo le stesse coordinate dei Nadja, offrendo all’ascolto brani lunghi (tre in tutto), dilatati oltre misura, carichi di suoni e ultrasuoni. Poggiano su riff cosmici tanto semplici quanto sinistri, da cui si dipartono mille rivoli psichedelici, che si accavallano gli uni sugli altri, fino a formare un unico, impetuoso flusso space doom. Il misterioso e solitario musicista dietro Hjarnidaudi ha optato per l’esclusione delle vocals, a sottolineare la purezza adamantina di una musica altamente espressiva e sognante, nonostante la possanza con cui ci schiaccia. Impressionante.

HYPNOS 69  
The Electric Measure (Electrohasch)
L’ascolto di “The Electric Measure” è accompagnato dalla brutta notizia dello scioglimento degli Hypnos 69, forse la band più interessante nel roster della Electrohasch insieme ai Colour Haze. Il loro “The Intrigue Of Percepetion” del 2004 li ha rivelato al mondo quali musicisti dotati, abili compositori e grandi appassionati del rock che fu, soprattutto di quello psichedelico e prog degli anni ‘70. Pink Floyd, Genesis e King Crimson vanno a braccetto in brani che, date le circostanze, sono ammantati di umori malinconici e autunnali. Le cose più memorabili del disco sono certamente le ballate d’impronta psych-folk, ben cesellate e dotate di arrangiamenti lussureggianti (“Forgotten Souls”, “Halfway To The Stars”), a volte persino un po’ stucchevoli e di maniera (“I And You And Me”, “Deus Ex Machina”). La pecca maggiore è invece da ricercarsi nell’uso più tradizionale e parco del sax, strumento che in passato aveva letteralmente involato la musica degli Hypnos 69 verso vette incredibili. Qui salta fuori in poche occasioni (nello straordinario dark prog di “Ominous”, per esempio), lasciando una leggera sensazione di rimpianto per quello che poteva essere. E che oramai non potrà più. Ci mancheranno.

JAZKAMER
Metal Music Machine (Smalltown Supersound)
Conosciuto fino a qualche tempo fa come Jazzkammer, il duo composto da Lasse Marhaug e John Hegre ha rinunciato ad alcune consonanti per evitare fraintendimenti. Niente jazz nei solchi di “Metal Music Machine”, se non nelle irriconoscibili forme avanguardiste propugnate da altre formidabili band norvegesi come Supersilent, Shining e Jaga Jazzist. Rispetto ad essi, i Nostri risultano molto più interessati al noise e, in questa occasione, anche al metal estremo. Soprattutto quello nero, che tanta fama ha dato alla terra dei fiordi. Per chiudere il cerchio, Marhaug e Hegre hanno coinvolto nel progetto anche membri di Enslaved, Audrey Horne e Manngard, e tutti insieme si sono divertiti a trasfigurare il black metal in modo molto simile a quanto fatto dagli ultimi Sunn 0))). A conti fatti, “Metal Music Machine” è il fratello di “Black One”, ma più sozzo e sguaiato. “Abomination” segue le direttive di una scrittura intelligibile, imparentata col death-grind; “Friends Of Satan” insiste invece su una blast-beat furioso, doppiato da chitarre scorticanti e chiuso da un divertente campionario di screaming e growl vocals, mentre “The Worms Will Get In” è un drone-doom scolpito nel dolore e “Occult Glider” uno straordinario viaggio ambient-noise che più tetro non si può. Tutte cose già dette, ma qui ridette dannatamente bene.

JET JAGUAR
Space Anthem (Black Widow)
In mezzo a tanto doom e dark sound anni ’70, la Black Widow Records trova sempre la strada verso lo spazio più profondo, complice la passione per gli Hawkwind e per il krautrock. I Jet Jaguar si ispirano palesemente ai primi, tentando persino di imitare la voce robotica (anticipatrice della new wave) dell’immenso Bob Calvert. Il risultato non è dei più felici, ma la musica che gira attorno alle vocals è di discreta fattura. La sezione ritmica della band martella di continuo, e tutt’attorno ad essa è un delirio di chitarre space, effetti elettronici (“Future Martyr Of Supersonic Waves”) deraglianti e melodie proto-punk che oltre alla band di Brock sembrano omaggiare anche gli indimenticabili Chrome (“The Last King Of Space”). Più avanti si procede nell’ascolto, più le tracce acquistano personalità e spessore, ma senza dubbio sono le due cover conclusive a calamitare definitivamente l’attenzione: “Archangel’s Thunderbird” degli Amon Duul II e una “Set The Controls For The Heart Of The Sun” (Pink Floyd) oscura come l’originale, ma dolcemente adagiata su un tappeto quasi ambient con infiniti ricami di chitarra space.

JOSIAH
No Time (Elektrohasch)
Terzo album per gli inglesi Josiah, adesso accasatisi presso la Elektrohasch. Poco è cambiato dalle ultime volte in cui li avevamo avvistati: il loro stile hard’n’heavy s’aggrappa ancora saldamente alle radici rock piantate qualche decennio fa da Sabbath e Zeppelin. Un terreno evidentemente ancora fertile, capace di produrre frutti che non siamo stanchi di mangiare. Peraltro, i Josiah ci servono piatti appetitosi e vari, alternando sapientemente blues monolitici (“Looking At The Mountain”), boogie indiavolati da fare invidia ai Clutch (“Long Time Burning”) e brani dall’inclinazione prog (“The Dark”, “Silas Brainchild”). Si tratta indubbiamente di una band minore, ma tante ve ne erano anche nei Seventies, e adesso i loro dischi riempiono gli scaffali degli appassionati.

KALAS
Kalas (Tee Pee)
I Kalas ci tengono a non essere considerati un side-project di Matt Pike, ex-Sleep e attuale leader degli High On Fire. In effetti si è aggiunto alla band solo in tempi recenti, ma la sua voce è una delle carte vincenti giocate dalla band californiana, dedita ad un heavy rock sabbathiano moderno e allucinato. A cominciare dai Blue Cheer di “Vincebus Eruptum”, da quelle parti si è sempre suonato grande rock acido, e i Kalas sono solo gli ultimi della lista a modernizzare un linguaggio vecchio, ma sempre efficace e affascinante. Rispetto agli High On Fire, che oggi sono una bestia metal fuori controllo e in pieno trip anni ‘80, i Kalas mostrano una più accentuata propensione per la componente blues della psichedelia dura. Ovviamente un blues iper-distorto, animalesco, in linea con quanto proposto dagli ultimi Earthride. Doom dai risvolti dark, quindi, e con una discreta attenzione per la melodia (“Godpills”, “Things Done And Undone”). Un disco superiore alla media, nonostante manchi un po’ di energia.

KNUT
Alter (HydraHead)
L’ottima HydraHead Records ci riprova. Dopo il bel lavoro di remix operati su “Oceanic”, capolavoro degli Isis, la label più in voga del momento compie la medesima operazione sui Knut, pescando da un po’ tutto il loro repertorio. I Knut sono una formazione post metal, partita come molte da posizioni hardcore e poi spintasi verso territori drone e psych-metal culminati nella pubblicazione del recente “Terraformer”. Immaginare chi ne manipola i suoni e le strutture su “Alter” è finanche troppo facile. Innanzitutto, Justin K. Boadrick, che in “H/Armless” inietta le atmosfere sonnolente e drogate dei suoi Jesu. E poi Dalek, alle prese con una “Deadverse Remix” che insiste su droni e rumori asfissianti. Sono della partita anche KK Null, Lad, Spectre e l’emergente Oren Ambarchi, già collaboratore dei Sunn 0))), ma il risultato oscilla sempre tra dark ambient, noise e una drone music che più grigia non si può. Un disco per chi non teme un trip senza ritorno negli abissi interiori.

KTL
KTL (Mego)
Stephen O’Malley continua inarrestabile nelle sue collaborazioni, sempre più interessanti e innovative. Che i Sunn O))) gli inizino a stare stretti, nonostante l’usuale messe di ospiti chiamati a suonare nei loro dischi? Sicuramente il musicista americano avverte sempre più forte l’esigenza di confrontarsi con personalità che, oltre ad esprimersi attraverso le sette note, sfogano le proprie pulsioni artistiche attraverso altri media. Il progetto KTL, che lo affianca al nordico Pita, mago dell’elettronica noise, nasce dall’esigenza di registrare la colonna sonora di una performance multimediale denominata Kindertotenlieder. Fattosi prendere la mano, l’inedito duo ha realizzato un intero album in cui le sperimentazioni elettroniche di Pita si amalgamano alle chitarre drone-black metal di O’Malley. In certi frangenti, il risultato supera le profondità abissali di “Black One”, perché se nei Sunn O))) i riff doom di Greg Anderson ancora conferiscono un senso melodico al tutto, qui l’ascoltatore è privato di qualsiasi appiglio, e riconoscere i classici monocordi norvegesi nella fitta trama noise di “Forestfloor” (pezzo cardine della raccolta) serve a ben poco. “KTL” pretende massima attenzione e abbandono per essere compreso appieno.

LANSING-DREIDEN
The Dividing Island (Kemado)
Lansing-Dreiden è un collettivo multimediale che si esprime attraverso i mezzi più svariati. Si tratta di una premessa necessaria per spiegare l’approccio sperimentale di un gruppo-non gruppo che su “The Dividing Island” segue coordinate musicali alquanto bizzarre. La partenza, affidata alla title-track, è in perfetto stile psych, con un occhio di riguardo alla musica lisergica dei ’60. Per una semplice associazione mentale, ci si fa subito coinvolgere dall’idea di un’odierna comune di hippie anticonformisti come lo erano i Grateful Dead, i Jefferson Airplane e tanti altri musicisti “sballati” che nel ’67 bazzicavano San Francisco, teatro dei famosi acid test a base di LSD. Le tracce successive, “Cement To Stone” e “A Line You Can Cross”,  sono però spiazzanti: trattasi di ottimo pop anni ’80, con arrangiamenti elaborati, melodie lussureggianti e un pizzico di elettronica, come solevano fare i The The dei primi lavori. Si continua su questa piacevole altalena fino a “Dethroning The Optimyth”, che chiude il disco sulle note del più becero e orrendo power metal. Avrete capito che, per quanto dotati e interessanti, i Lansing-Dreiden piaceranno solo a chi è fuori di testa come loro.

LENTO
Earthen (Supernatural Cat)
Fattisi conoscere grazie al progetto Supernaturals che li ha visti collaborare con gli Ufomammut, i Lento debuttano con “Earthen”, confermando quanto di buono avevano messo in mostra nella precedente occasione. Suonano un heavy rock interamente strumentale, figlio tanto del post-metal neurosiano e del drone, quanto della psichedelia heavy. Dopo il successo degli Isis, questo tipo di suono è diventato un cliché, ma i Lento riescono ad evitare di finire nel gran calderone degli imitatori (e, peggio ancora, in quello dei gruppi post-qualcosa più soporiferi) grazie ad una scrittura sempre varia e ricca di spunti melodici. “Hadrons” parte in quarta con riff rocciosi e rallentamenti atmosferici, “Need” saltella su una linea di basso ipnotica e stordente, caricandosi di elettricità ad ogni passaggio, mentre “Subterrestrial” scandaglia profondità ambient con competenza. “Currents” mantiene fede al titolo, sollevandosi poco a poco da terra sulle ali di un vento cosmico, in un crescendo maestoso e inarrestabile. C’è ancora spazio per crescere, ma sin d’ora i Lento si impongono come una delle migliori formazioni drone-metal del nostro Paese.

LESBIAN
Power Hör (Holy Mountain)
Il rinascimento psichedelico americano oggi passa soprattutto attraverso le uscite della Holy Mountain (Six Organs Of Admittance, Daniel Higgs, Om, Mammatus). Ultimi arrivati nel roster della label sono i Lesbian, al debutto con “Power Hör”. Si fregiano di rappresentare la new wave del metal psichedelico, ma la cosa che più sconvolge è la commistione assolutamente inedita tra rock heavy psych, black metal, death metal, post-core e jazz. L’amalgama è così ben studiato da scongiurare il pericolo di risultare dispersivo o pretenzioso, ma all’ascolto dell’iniziale “Black Forest Hamm” non si può evitare di restare interdetti. Riconoscere il rifferama tipico del metallo nero, ma adattato a chitarre liquide e sognanti, oppure una progressione à la Neurosis culminante con uno stacco death metal incoronato da screaming vocals, provocherebbe un capogiro a chiunque. “Powerwhorses” e “Irreversible” sono più rassicuranti, meno estreme nel loro gioco di rimandi, e soprattutto meno indecise nel gettarsi nude a capofitto nella psichedelia pura, prima di emergerne con indosso una corazza metal. “Loadbath”, invece, la lasciamo volentieri alla vostra scoperta, se avete abbastanza fegato da sciropparvi un’odissea di 24 minuti in cui succede davvero di tutto. I Lesbian danno l’impressione di potere crescere ancora, coraggio e grandi capacità visionarie non gli mancano.

MANNHAI
Hellroad Caravan (Dockyard)
Tornano i “lupi mannari” finlandesi, accompagnati da un singer d’eccezione, Pasi Koskinen, già avvezzo a sonorità Seventies grazie all’esperienza nella sua ex-band, gli Amorphis. Dai Mannhai ci saremmo però aspettati un seguito al precedente “The Exploder”, straordinario album di retro-rock coi suoni magici dell’Hammond e ottime melodie tra Southern e psichedelia. Invece, “Hellroad Caravan” è lavoro molto meno elaborato, decisamente più diretto e convenzionale. “Fuzzmaster”, ad esempio, gira su riff stoner sentiti innumerevoli volte, mentre “Shellshock” e “Back In Red” sono classici anthem à la Kiss, di quelli su cui i Fu Manchu hanno costruito la carriera. Qualche spunto interessante viene fuori quando i Mannhai mischiano lo stoner al grunge degli Alice In Chains (“Dambuster”), nelle porzioni tribali di “Bitter Hate Yesterday” e nell’oscura epica di “Hall Of Dead”, con l’organo finalmente protagonista. Invece “Mojo Runner” e “Overdaze” sono dotate di ritornelli e riff troppo generici per impressionare gli appassionati di heavy rock più scafati. La band sembra svolgere senza troppa convinzione un lavoro di semplice routine. Ma forse è solo una fase passeggera, e in futuro ritroverà la strada di “The Exploder”, con un pizzico di modernità in meno, ma più passione e vitalità.

THE MARS VOLTA
Amputechture (Universal)
In passato sono riusciti ad imporsi nelle playlist di fine anno nonostante le iniziali perplessità su un disco, “Frances The Mute”, che portava alle estreme conseguenze uno stile progressivo complesso e stratificato, di difficile assimilazione. Quella dei Mars Volta suonava come una sfida, come l’insegnamento che in musica nulla è impossibile; o che quantomeno loro non temono ostacoli espressivi di sorta, sicuri come sono nel padroneggiare ogni sfaccettatura del linguaggio rock. Una volta assimilato il suo predecessore, il nuovo “Amputechture” risulta ascolto meno ostico del previsto. Si parte in sordina con la ballata introversa di “A Vicarious Atonement”, che poi esplode nel primo tour de force: “Tetragrammaton”, un mostro dotato di 16 minuti/tentacoli stretti intorno al prog settantiano, alla psichedelia dei padri, alla musica afro-cubana e al jazz-fusion, il tutto governato dalla chitarra hendrixiana del mancino Omar Rodriguez. Stupenda è l’interpretazione in falsetto di Cedric Bixler; scala vette altissime anche in “Meccamputechture”, che per atmosfere meditabonde ricorda il Coltrane acido di “Ascension” virato rock. Più avanti gli fanno eco “Viscera Eyes”, torrido prog-funk carico di fiati, e “Day Of The Baphomet”, snodo cruciale del disco, ipnotica summa dello stile della band. In mezzo a tale sfoggio di muscoli e creatività, stupiscono i toni dolci di “Asilos Magdalena”, un folk gitano suonato in punta di chitarra acustica, e i sussurri di “El Ciervo Vulnerado”, che suggella il disco con una punta di inquietudine. Un altro album così, e anche l’estro generoso dei Mars Volta nel costruire partiture monumentali diventerà la norma. Ma scommettiamo che per allora avranno trovato il modo di cambiare registro e di stupirci nuovamente.

MARSHAN
Brought To You By The Goodtime Girls (Beard Of Stars)
Fosse uscito una decina d’anni fa, “Brought To You…” dei Marshan avrebbe potuto sperare di raccogliere qualche consenso tra i patiti dello stoner e dell’high energy rock’n’roll. Oggi come oggi, invece, il loro album suona doppiamente anacronistico, perché ricalca pedissequamente stilemi anni ‘60/’70 già ampiamente abusati dagli stoners. Non aggiungono nulla di loro, i Marshan, se non grandi dosi di divertimento, una certa sensibilità Southern rock e una cura certosina nel confezionare melodie piacevoli e facilmente memorizzabili. Forse anche troppo radio-friendly, per i nostri gusti. È il caso delle ballad “Fieldgoals” e “Pedona AZ”, che infilano luoghi comuni uno dietro l’altro. I Marsan si riscattano solo in un paio di occasioni, ma una prova vocale troppo sforzata mortifica anche quel poco di buono che è possibile ascoltare in questi solchi.

MAX MIDSUN
Max The 1st (Morningstar)
L’idea di mischiare il metallo estremo con il groove dell’hard rock settantiano piace sempre più, e i norvegesi Max Midsun provano a dire la loro con un disco che la loro label definisce l’incrocio tra Queens Of The Stone Age, Entombed, Alice In Chains, System Of A Down e Tool. In effetti l’influenza di tutte queste band è presente ed evidente in molti dei brani di “Max The 1st”, ma non si può certo dire che i Max Midsun siano all’altezza dei colleghi. Troppo facile la loro miscela: un pizzico di groove stoner, un po’ di chitarre metal, un basso rimbombante che sembra uscito da un disco dei Soundgarden, qualche giro nu-metal e una voce emo ispirata a quella di Maynard Keenan. Il gioco riesce bene nella radiofonica “The Pain”, in “Plaguedoctor’s Mask” e in qualche altro episodio dalla forte impronta melodica. La sensazione, però, è che i Nostri aspirino alle charts, le stesse che hanno fatto la fortuna di band come Evanescence e ultimi Lacuna Coil. Metal dalla produzione leccata e destinato a teenager finto-dark. Fatevi sotto, se la cosa vi alletta.

THE MELVINS
Houdini Live 2005 (Ipecac)
L’idea di registrare dal vivo “Houdini”, uno dei loro lavori migliori e più noti, nasce nei Melvins all’indomani della partecipazione al festival inglese All Tomorrows Parties, al quale i gruppi (tra essi anche The Stooges, Dinosaur Jr e Mudhoney) erano invitati a suonare un intero album seguendone la scaletta originale. Una bella sfida, per King Buzzo e Dale Crover. Innanzitutto perché si è trattato di imparare a suonare un repertorio glorioso ma datato; poi perché molti dei brani di “Houdini” non erano di facile trasposizione live; infine perché in quel periodo i Melvins erano senza bassista e dovettero ricorrere all’aiuto del “fantomas” Trevor Dunn. Ma i concerti andarono così bene da convincerli a ripetere l’esperienza in studio. Il risultato dà nuovo lustro a brani eccezionali (“Night-Goat”, “Hooch”, “Joan Of Arc”, “Honey Bucket”…) che, ascoltati a distanza di una decina d’anni, non solo suonano attuali, ma evidenziano l’enorme influenza avuta dalla band su tutto il miglior metal odierno, dal doom allo stoner, passando per le sperimentazioni noise e perfino per il drone. Tanto di cappello, anche stavolta.

THE MELVINS
(A) Senile Animal (Ipecac)
L’incipit di “The Taking Horse” è una botta violentissima, di quelle che solo i Melvins sanno sferrare: pura elettricità, solida come un guantone chiodato, accompagnata da piatti ultra-loud che scuotono il sistema nervoso. I Melvins sono tornati, e la formula adottata è la solita: chitarre appuntite, una sezione ritmica sconquassante, brani che esauriscono la loro carica esplosiva nel giro di pochi minuti, a volte prendendo scorciatoie noise, altre volte tuffandosi di testa nelle sabbie mobili di melodie acide (“Civilized Worm”, “A Vast Filthy Prison”). Infilano gallerie doom così lunghe e opprimenti da non lasciare intravedere l’uscita (“A History Of Bad Men”, “The Mechanical Bride”); oppure si lanciano in rettilinei punk-hardcore, per poi deragliare volutamente contro il guard-rail, facendo strage di lamiere (“Rat Faced”, “The Hawk”). Si divertono a fare rumore (molto rumore!), oggi come vent’anni fa. Un “animale senile”, come vorrebbe il titolo? Semmai una belva con artigli affilati che aspetta nell’ombra. Aspetta ghignante le carezze riservate ad un animale vecchio e stanco per potervi azzannare alla gola.

MGR
Nova Lux (Neurot)
MGR è la sigla sotto cui opera Michael Gallagher, chitarrista degli Isis. In “Nova Lux” segue l’esempio dell’amico Steve Von Till, che ogni tanto fuoriesce dai Neurosis per esprimersi liberamente nei progetti a suo nome e sotto l’insegna Harvestman. Oppure quello di Justin Broadrick di Jesu e Final. Gli MGR si muovono lungo lo stesso solco di questi ultimi: psichedelia drone, ambient music notturna che galleggia su un tappeto di chitarre ed elettronica, con l’intervento di una pedal steel (suonata da Greg Burns di Red Sparows e Halifax Pier) a movimentare una quiete comunque solo apparente. Immaginate gli Isis senza la componente metal e non sarete lontani dal vero. Le atmosfere sono rarefatte, ma pregne di angoscia e solitudine. Un po’ come quei cieli fotografati dallo stesso Gallagher per il booklet del disco. Incombono minacciosi su un paesaggio brullo e desolato; quasi lo schiacciano, se non fosse per qualche traliccio (simbolo della presenza dell’uomo) che li tiene a distanza, come la frusta del domatore col leone. Sono cieli gonfi di nubi, dai colori maestosi e drammatici. Esattamente come le note dei 5 movimenti contenuti in “Nova Lux”. Stando al titolo, il disco potrebbe essere lo strumento catartico di Gallagher, una auto-terapia per scacciare l’inquietudine interiore e tornare a vedere la luce.

MONO
You Are Here (Temporary Residence)
Copertina affascinante e titolo che, con una punta di ironia, evoca tanto il senso di disorientamento e di vertigine psichedelica creata dalle loro piccole sinfonie, quanto una presa di coscienza esistenzialista. “Sei qui”, dicono i Mono, a questo punto della tua vita, ed è il momento di tirare le somme. Il nuovo album dei giapponesi continua seguendo le coordinate del passato, senza lesinare in armonie suadenti, maestose partiture orchestrali in costante crescendo e improvvise implosioni minimaliste: il tutto intriso di lirismo e malinconica rassegnazione, di quelle in cui è bello crogiolarsi. Un saliscendi emotivo da colonna sonora tipico degli artisti a cui si ispirano, in particolare della sacra trimurti post-rock di Godspeed You! Black Emperor, Mogwai e Sigur Ros. Il gioco gli riesce bene, anche se è un gioco vecchio e di cui oramai conosciamo a menadito le regole. I Mono le applicano con troppo rigore e poca voglia di osare qualcosa di nuovo, coinvolgendoci meno che in passato.

MONSTER MAGNET
4-Way Diablo (Steamhammer)
La buona notizia è che l'overdose di Dave Wyndorf non ha affatto fiaccato i Monster Magnet, che oggi rientrano in scena con un album nuovo di zecca. La notizia cattiva è che con “4-Way Diablo” la band dimostra una volta di più di avere perso gran parte dello smalto che fino a “Powertrip” ne aveva fatto il gruppo simbolo della moderna psichedelia heavy. Il precedente “Monolithic Baby!” si avvaleva quanto meno di una scrittura solida ed efficace, mentre lo stesso non si può dire del nuovo lavoro, che sbanda tra brani senza personalità e mordente (le insulse “You're Alive” e “No Vacation”, ad esempio) e grosse occasioni mancate. “Cyclone” appartiene a quest'ultima categoria: poteva essere un gran pezzo heavy psych, come sul mitico “Dopes To Infinity”, invece si accontenta di molto meno, lasciando a “Freeze and Pixelate” il compito di ricordare il glorioso passato del Mostro Magnetico con un pizzico in più di convinzione. Deliziose sono invece “Blow Your Mind”, la title-track e “Solid Gold”, che si affacciano sul garage anni ’60 insieme ad un Rolling Stones d’annata, “2000 Lightyears From Home”, interpretata in modo superlativo (a quando un disco di sole cover?). L’ottima “Wall Of Fire”, dal canto suo, potrebbe fare strage in classifica. E probabilmente la farà, ma “4-Way Diablo” è destinato a passere alla storia come il disco più debole dei Nostri.

MORKOBOT
Mostro (Supernatural Cat)
“Mostro” è il secondo lavoro dei Morkobot, combo dedito ad una musica strumentale e sperimentale che suona del tutto aliena. Le note della Supernatural Cat, la label di Ufomammut e Malleus Studio, parla di un incrocio tra John Zorn, Black Sabbath, Pink Floyd, Godflesh e Primus. Dapprima non si sa se ridere per la maldestra sparata pubblicitaria, o preoccuparsi per un pastrocchio sonoro del genere. Invece, non solo è tutto vero, ma addirittura limitante! I Morkobot sono più della sintesi dei gruppi citati. Probabilmente annoiati da ciò che si ascolta in giro, hanno creato un proprio idioma, più “post” del post rock (“Cammut”), più contorto e heavy del nuovo noise su Load Records (“Zorgongollac”), psichedelico e spaziale in modi diversi da quelli comuni (“Poldon”). Persino dark ambient, in certi frangenti allucinati (“Kaklaipus”). E c’è di più: i Morkobot fanno tutto servendosi di due bassi, una batteria e un synth, ma evidentemente alla loro fervida immaginazione non serve nient’altro. Non ci stupirebbe se il titolo scelto per il disco, oltre a sottolineare la natura spaventosa e maligna della musica, avesse a che fare anche col significato latino di “monstrum”: meraviglia.

MORTUUS
De Contemplanda Morte (Ajna)
Da qualche tempo, il "religious black metal" non è più un'ipotesi stilistica perpetrata da pochi e studiata come una novità. Il successo di band come Ondskapt, Deathspell Omega, Funeral Mist, Secrets Of The Moon e Armagedda ha ovviamente generato nuove compagini desiderose di esprimersi seguendone i dettami. La corsa al "religious black metal" assumerà ben presto proporzioni imbarazzanti, e già adesso non è difficile imbattersi in fastidiosi gruppi-clone alle prese con produzioni bombastiche e artwork criptici e pseudo-simbolisti. Non è il caso dei Mortuus, che pure saccheggiano Ondskapt e Mayehm, ma evidenziando qualità che in breve tempo potrebbero arrivare a conferirgli maggiore personalità. "De Contemplada Morte" è un album più che discreto, che manca in parte della dinamicità necessaria per rendersi interessante in ogni frangente, ma che sopperisce con melodie sufficientemente oscure e buoni  arrangiamenti. La voce, invero un po' anonima, è granitica e si sforza di adattarsi alle varie situazioni, riempiendo gli spazi e contribuendo alla solennità di brani solitamente organizzati in forma di mid-tempo. I Mortuus non risultano profondi quanto gli Ondskapt, ma neppure si può dire che restino in superficie. Gli manca ancora un pizzico di scaltrezza e una visione d'insieme più a fuoco per conferire maggiore mordente alle composizioni. Restano comunque una band da tenere d'occhio.

MOS GENERATOR
Songs For Future Gods (Small Stone)
Dopo la fine della Man's Ruin, lo stoner rock più fresco ed entusiasmante è finito tra le braccia della Small Stone, che oggi ce lo propone col volto dei Mos Generator e un album, il loro, davvero gradevole. Il power-trio americano sa scrivere canzoni brevi e dalle melodie immediate (“NandV”, “Y'juana”), concedendosi ogni tanto qualche piacere jazz in seno ad uno stile sostanzialmente preso in prestito da Black Sabbath e ZZ Top (“Into The Long Sleep”). La maggior parte dei brani ha infatti la foggia di boogie rock, ma i Nostri sono abilissimi nel cambiare registro e trasformare una galoppata Southern in mid-tempo dalle tinte prog (“Lumbo Rock”) o addirittura latin rock (“Acapulco Gold”), ma senza forzature e con senso della misura. Mentre altri avrebbero faticato a trovare il giusto equilibrio, nei tre minuti abbondanti delle loro composizioni i Mos Generator sono anche in grado di riversare degli assolo di chitarra che denotano gusto e personalità. Se invece preferite uno stoner rock sbrodolante di psichedelia, allora perdetevi nelle spire della ghost-track, una jam acida di 13 minuti che avrebbe meritato l'onore di un titolo nella track-list e che passa in rassegna un po' tutti gli amori della band, da Hendrix a Santana, fino agli Allman Brothers. Una bella sorpresa. 

MOSS
Cthonic Rites (Aurora Borealis)
“In strani eoni, anche la morte può morire”. È una citazione del sommo Lovecraft, impareggiabile narratore di ciò che si nasconde nelle recondite regioni del cosmo e delle storie dei suoi abitatori, i Grandi Antichi. Gli inglesi Moss ne sono rimasti conquistati al pari del loro produttore Jus Oborn, leader degli Electric Wizard. La sua partecipazione a “Cthonic Rites” è già un bel biglietto da visita per una band dedita al doom. Per immaginarne la musica basta il programma del disco: 2 monolitici brani, “Crypts Of Somnambulance” e “The Gate”, che insieme fanno la bellezza di 66 minuti e 6 secondi. Sorvolando sull’abusato ricorso al numero della bestia, “Cthonic Rites” appassiona per la sua impenetrabilità, per gli abissi profondi che sa evocare e portare in superficie. Diversamente dagli Electric Wizard, dei quali per ovvie ragioni adottano i suoni, i Moss non entrano mai in territori psichedelici, restando confinati nell’ombra più tetra. Un continuo pellegrinaggio di riff lenti e stordenti suonati ad un volume pazzesco, accompagnati da colpi di batteria sospesi nel vuoto e una voce black distante e inintelligibile. I Moss sono ancora una pietra grezza, ma già affascinano per l’assoluta intransigenza.

MV & EE with the GOLDEN ROAD
Gettin' Gone (Ecstatic Peace)
Matt Valentine è un allampanato figlio dei fiori con occhialetti da intellettuale e una maglietta dei Grateful Dead sempre indosso. Erika Elder è una ragazza carina, faccia pulita e aria timida. Insieme fanno MV & EE, tra i gruppi psych più hot del momento. In passato non avrebbero sfigurato in una ipotetica top ten del cosiddetto free-folk, ma "Gettin' Gone" è un disco diverso, più concreto. Innanzitutto perché J Mascis (Dinosaur Jr) ci suona una batteria hard rock fragorosa (“Susquehanna”), alla maniera dei Witch; e poi perché qui il modello di riferimento è il Neil Young acido e rumoroso di “Zuma”. Il duo Valentine/Elder si divide equamente le parti vocali e canta testi belli e ispirati (“Hammer”, “Day & Night”), devoti ad un tradizionale immaginario americano da “casa nella prateria”. Le chitarre, invece, indugiano su canovacci psych-blues di stampo alternativo, secondo quanto sperimentato negli anni dai seminali Giant Sand. Psichedelia agreste, dunque; un acid rock che prima flirta col folk ("Easy Livin'"), poi s'avventura in territori hard (“Speed Queen”), infine spicca voli lisergici e si scioglie in nuvole colorate (“I Got Caves In There”). Nonostante si tratti di roba già sentita, le melodie vagamente “trippy” di MV& EE sapranno con un calibrato mix di grazia e potenza elettrica.

MY SLEEPING KARMA
My Sleeping Karma (Electrohasch)
Sei brani per un totale di 45 minuti di musica. I numeri parlano chiaro, ai My Sleeping Karma piace suonare brani lunghi e dilatati oltremisura, cibo psichedelico per menti mai sazie. La band compie i suoi piccoli viaggi lisergici intorno al “lato oscuro della luna”, calcando la mano sulle componenti dark di uno stile che nell’iniziale “Intention” ricorda quello dei Cure di “Wish”. Stesse melodie ombrose e romantiche, ma senza la profondità espressiva degli inglesi. My Sleeping Karma sanno certamente come scrivere un buon pezzo psichedelico in crescendo, caricandolo di effetti e linee melodiche in itinere, ma non sempre riescono a dargli lo spessore richiesto. È come se esaurissero il carburante prima di compiere il salto nell’iper-spazio, e di sicuro non li aiuta la totale mancanza di vocals. Va molto meglio in “Hymn 72” e “Drannel Xu IIop”, esaltanti omaggi agli Hawkwind e ai discepoli We e 35007. My Sleeping Karma non ne sono ancora all’altezza, devono ancora scrollarsi di dosso un certo manierismo stoner-psych.

NEFASTORETH
In Tenebris Radiorum (Algiz Art)
In una scena black metal italiana sempre più affollata di talenti, i Nefastoreth cercano un proprio spazio con un album di debutto pienamente convincente. Si presentano in pompa magna con "Ab Aeterno", uno strumentale dal passo marziale composto dal sempre impeccabile Namter per l'occasione. Poi arriva una slavina di chitarre ghiacciate, a battagliere con portentosi cambi ritmici per far posto ad un crescendo melodico che arriva puntuale a pochi minuti dalla fine. Il pezzo s'intitola "Ancient Circles", ma non è il miglior biglietto da visita che la band potesse scegliere. Il resto del programma, infatti, è decisamente all'altezza dell'ottimo incipit. Forte di suoni prodotti con l'accetta ma estremamente efficaci, "In Tenebris Radiorum" inanella una serie di centri impressionanti. "Pensiero Antiumano", "Vortex" e l'emozionante "Nel Mio Cuore" (il momento più alto della raccolta) sono composizioni strutturalmente ben equilibrate, potenti, capaci di tenere desta l'attenzione grazie ad una buona distribuzione di riff e cambi ritmici. Lo spirito che le anima è indomito e battagliero; la luce, fioca come nel più profondo degli inverni. Solo "Elke" si allunga eccessivamente, ma compensa con una bella atmosferica epica. Nonostante la classicità del canovaccio black utilizzato, l'impasto di neve, notte e misantropia dei Nefastoreth affascina senza riserve. Le liriche, invece, non sono sempre all'altezza della situazione. Quando la band si serve dell'Inglese, il risultato è francamente censurabile ("God's Mummification"), mentre nei testi in Italiano sembra più a suo agio. Che cantino in madrelingua, dunque. Incontreranno qualche problema metrico in più, ma ci guadagneranno in maturità e profondità. 

NICK OLIVERI AND THE MONDO GENERATOR
Dead Planet: SonicSlowMotionTrails (Mother Tongue)
Dopo l’allontanamento forzato dai QOTSA, per Nick Oliveri sembrava arrivato un momento di empasse. Le collaborazioni con Mark Lanegan e Winnebago Deal testimoniavano che in lui non s’era ancora spento il sacro fuoco del rock, ma conoscendone il caratteraccio e la dipendenza dalle droghe dubitavamo che potesse concentrarsi sulla stesura di un intero album. Invece Nick ha pensato bene di aggiornare la sigla Mondo Generator e di perfezionarne la cifra stilistica con l’aiuto degli amici di sempre. Tra essi, Dave Catching (earthlings?, QOTSA), Alfredo Hernandez (Kyuss, QOTSA), Blag Dahlia (Dwarves) e non ultimo Mathias Schneeberger, eccellente producer di svariate realtà stoner e doom. Il risultato è un album compatto e potente, dove il rock psichedelico i carica della furia iconoclasta del punk-hardcore (“So High”, “Life Of Sin”), con la voce da aspide di Oliveri a dare un’impronta “evil” al tutto. Ma non mancano le belle melodie e le traiettorie oblique di un rock moderno che le Regine hanno contribuito a creare e che oggi sono troppo imbolsite per suonare a dovere. Fortuna che c’è Nick…

NORTHWINDS
Chimeres (Black Widow)
A guardare i capelli corti e ben pettinati di alcuni di loro, la calvizie incipiente del cantante-chitarrista e gli abiti da nerds che indossano, si stenta a crederli una delle migliori doom band in circolazione.
Poi la traccia inaugurale del nuovo “Chimeres”, “Masters Of Magic”, bussa ai timpani con tutto il suo carico di oscurità sabbathiana e creatività prog, ribadendo il concetto di doom rock: musica anti-trend per eccellenza e che si ciba di pure emozioni, non certo una faccenda di look e pose. I francesi Northwinds ce l’hanno nel sangue da oltre 10 anni, passati a fronteggiare un destino avverso (frequenti i cambi di line-up) che però ne ha fatto un gruppo maturo, particolarmente attento alla melodia, all’atmosfera e agli arrangiamenti. “Chimeres”, il loro terzo album, è quello che dice il titolo: una raccolta di fiabe fantasy (“Never Never Land”, la stupenda “Le Circle Des Fées”) che spesso e volentieri si tingono di nero e si popolano di mostri (“Dusty Pictures”, “Winds Of Sorrow”). Tradotte in musica, diventano un pastiche di hard rock settantiano, heavy metal anni ’80 (come quello sulfureo e tenebroso dei Witchfinder General, di cui rifanno “Friends Of Hell”) e dark prog à la Black Widow, con accenti folk e flauto e tastiere a profusione. Un disco doom per sognatori, vecchi e nuovi.

OJM
Under The Thunder (Go Down)
Gli OJM ci sanno davvero fare con l’hard rock, il garage e lo stoner. Forse perché hanno sempre preferito rifarsi alla lezioni dei padri, piuttosto che seguire stentatamente il canovaccio kyussiano come certi colleghi senza fantasia. Hanno cioè capito che per suonare un rock classico che possa entusiasmare anche dopo 40 anni, occorre cultura storica. Non sorprende affatto che l’ex-bassista degli MC5, Michael Davis, si sia scomodato per produrre il nuovo “Under The Thunder”. Che è il più bel disco dei Nostri, per il modo in cui fonde insieme scuole diverse: Led Zeppelin e MC5, Stooges e Blue Cheer, Black Sabbath e Grand Funk Railroad. E senza dimenticare un piglio punk arrabbiato che rimanda alla tradizione garage dei ’60 (“Spread Me”), che d’altronde informava il precedente, splendido “The Light Album”. Il cuore del disco è nella tripletta di “Dirty Nights”, “Lonelyness” e “Starsshine”, in bilico tra roboante hard blues, rock’n’roll saturo d’elettricità e divagazioni psych che sanno di mistero e deserto come la “Riders On The Storm” di doorsiana memoria. OJM: una gloria heavy rock tutta italiana.

OM
Conference Of The Birds (Holy Mountain)
Come per il debutto “Variations On A Theme”, questo EP degli Om, “Conference Of The Birds” (dal titolo di una raccolta di poesie orientali del 12° secolo), piace senza convincere fino in fondo. Gli ex-Sleep Al Cisneros e Chris Hakius ce la mettono tutta, ma i due lunghi brani offerti all’ascolto si attestano su livelli soltanto discreti. L’impressione è che gli Om non riescano a trovare una formula musicale adatta ai loro deliri psichedelici, oggi molto più cerebrali che metallici, sorta di salmi pronunziati nella lingua dei Pink Floyd di “Let There Be More Light” e “Set The Controls For The Heart Of The Sun”. Solo che i Floyd di allora avevano ancora il senso della misura e una tavolozza sonora ben più ampia. Gli Om si limitano invece ai suoni di basso e batteria, e puntano sull’effetto ipnotico della reiterazione di note, piuttosto che su costruzioni elaborate. Nonostante tutto, la loro musica resta affascinante e godibile, oltre che dagli interessanti risvolti mistico-rituali. Forse la copertina del disco dice il vero, e gli Om si trasformeranno ben presto nel bellissimo cigno che tutti ci aspettiamo.

OM / CURRENT 93
Inerrant Rays Of Infallible Sun EP (Durtro)

La notizia che gli Om sono passati alla scuderia Southern Lord e che si apprestano a registrare sotto la supervisione di Steve Albini, lascia sperare che il duo Cisneros-Hakius sia finalmente pronto a spiccare il volo, dopo due dischi belli, ma interlocutori. Se la scelta di rinunciare alle chitarre in favore dell’accoppiata super-heavy di basso e batteria è certamente da lodare, gli rimproveriamo però una cifra stilistica che, per quanto volutamente basata su reiterazioni ipnotiche di riff e melodie, finisce per annoiare, complice l’eccessiva durata dei pezzi. Il brano qui contenuto, “Rays Of The Sun/To The Shrinebuilder”, si allunga per soli 8 minuti ed è dotato di maggiore dinamismo, forse di una visione musicale maggiormente a fuoco. Gli Om sembrano avere trovato la formula giusta, e Albini riuscirà sicuramente a tirargli fuori il capolavoro che tutti si aspettano. Nel frattempo, i Nostri continuano a collezionare fan importanti. Buon ultimo, David Tibet di Current 93, che per l’occasione propone il folk pesante e claustrofobico di “Inerrant Infallibile”, con aggiunta di cornamuse.

ORTHODOX
Gran Poder (Alone)
Scoperti dalla spagnola Alone Records, gli Orthodox sono stati prontamente accalappiati da Southern Lord Records, evidentemente sensibile ai giudizi lusinghieri espressi da Julian Cope, che con gli Orthodox sta già progettando collaborazioni future. Cos’abbiamo di speciale questi tre incappucciati è presto detto: suonano doom metal alla maniera dei mitici Sleep, ma sostituendone le derive psych con altrettanto interessanti svisate drone, alla maniera di Sunn 0))) e Earth. Niente di nuovo sotto il sole, come si suole dire. Ma gli Orthodox sono talmente padroni della materia da sembrarne i creatori, piuttosto che dei semplici interpreti. Brani assolutamente monolitici e dal minutaggio importante (l’iniziale “Geryone’s Throne” sfiora la mezz’ora) richiedono attenzione, ma contraccambiano con melodie ipnotiche e atmosfere drogate, sebbene spesso e volentieri le nubi di etere vengono spazzate via da un drumming potente e fantasioso, di chiara impostazione free jazz. Nell’elogiarli, Cope tira in ballo anche gli Amon Duul 2 delle suite complesse e psichedeliche dei primi dischi: non ci permettiamo di dissentire, ma sappiate che la bilancia pende soprattutto dalla parte heavy doom, e la bussola punta dritta in direzione Teeth Of Lions Rule The Divine.

OSTINATO
Chasing The Form (Exile On Mainstream)
Sapevamo che David Hennessy, ex-batterista degli Hidden Hand, fosse impegnato anche negli Ostinato, ma – presi dalla passione viscerale per la band di Wino – avevamo sorvolato sulla cosa, immaginando che si trattasse di un gruppo heavy rock come tanti. Invece gli Ostinato suonano psichedelia sperimentale e confezionano piccole colonne sonore per sinistri viaggi mentali. L’approccio è generalmente strumentale; la forma, quella di cavalcate lisergiche non troppo lontane da certe cose di Pelican, Tone e Red Sparowes. Forse con meno genialità, ma certamente con altrettanta carica emozionale. L’utilizzo di organo, violini e violoncello (ogni tanto salta fuori anche una tromba free jazz) assicurano trame musicali ricche e dense di note, dove però la fanno da padrone le chitarre. Le suona Hennessy, impegnato anche all’hammond. Se anche voi l’avevate sottovalutato,  questa è l’occasione per rimediare.

OW
Moon Tan (Heaven Hotel)
Curiosi, questi Ow. “Moon Tan” è già il loro secondo album, un traguardo di tutto rispetto per chi suona un rock totalmente strumentale e anti-convenzionale come il loro. Hanno le movenze di una indie-band estroversa come i dEUS, ma non disdegnano puntatine nello space rock settantiano (“Black Lagoon”) e nella dark wave (“Drop” cita apertamente i Cure), guardati sotto la lente deformante di una psichedelia pop dolce e carezzevole. Assomigliano un po’ agli Euroboys (ricordate il loro splendido album su Man’s Ruin?), rispetto ai quali sfoggiano un sound meno aspro e nascondono meglio l’influenza del garage anni ’60, che pure è presente. Le melodie riversate nelle otto canzoni di “Moon Tan” sono tra le più belle ascoltate ultimamente, ed esemplificano bene il clima notturno annunciato nel titolo del disco (“abbronzatura lunare”). Non mancano neppure i crescendo psych-noise che tanto piacciano agli “alternativi” d’oggi: fantastico quello di “Hello Sunny/Coasters”, in cui gli Ow puntualizzano come certe cose l’avessero inventate i Motorpsycho ben prima dell’avvento del post rock. Non lasciatevi spaventare dalla mancanza di un accompagnamento vocale: gli Ow compensano con arrangiamenti ricchi e sofisticati, in cui trovano posto – oltre a chitarre, basso e batteria – anche sax, flauto, tromba e tastiere d’ogni tipo.

PHASED
Medications (Electrohasch)
Chi conosce la Elektrohasch, etichetta gestita dai bravi Colour Haze e con nel roster band come Los Natas, Gas Giant e Hypnos 69, sa già cosa aspettarsi da ogni nuova uscita: stoner rock, psichedelia o krautrock, solitamente di discreta fattura. “Medications” dei Phased fa eccezione: è un disco stoner con qualche buona canzone, ma la maggior parte dei riff esposti in vetrina è decisamente di seconda mano, e la totale mancanza di personalità della band spegne ogni entusiasmo. I Phased non eccellono neppure sul piano della tecnica, dato che il batterista si limita ad eseguire le sue partiture in modo troppo schematico, anche laddove i compagni gli lasciano lo spazio per mettersi in mostra. Così si passa da un doom spaziale (“Worship The Sun”) con poco mordente ad un heavy rock’n’roll senza grinta, fiacco e flaccido (“Frozen Buds”). La band è convinta che basti un contorno di effetti e qualche trucco da studio perché ai brani si possa attribuire l’aggettivo “psichedelico”, che ha ben altra sacralità. In giro c’è di peggio, ma la cosa non ci consola.

PLACE OF SKULLS
The Black Is Never Far (Exile On Mainstream)
Dopo il recente ritorno di Earthride e Hidden Hand, è anche il turno dei Place Of Skulls di Victor Griffin, leggendario chitarrista di Pentagram e Death Row. Erano dati per spacciati, dopo l'abbandono di Wino all'indomani della pubblicazione di "With Vision" e i continui problemi di line-up. Ma Griffin è riuscito a tenere duro e oggi rilascia il terzo capitolo della sua personale saga doom coinvolgendo un altro grande singer: Dennis Cornelius, storico cantante dei Revelation e recentemente degli Oversoul. Il timbro di Cornelius è più levigato e meno profondo di quello di Wino, ma aggiunge un tocco epic-metal che non guasta. La partenza è affidata a "Prisoner's Creed" un rock troppo generico per avvincere. Ma è solo l'introduzione ad un album che vive sul contrasto tra riscoperta delle radici heavy-blues del doom metal ("Apart From Me", "Master Of Jest") e ballate malinconiche con aperture psych acustiche e in qualche caso inserti di sax ("Lookin' For A Reason", la title-track). Se "With Vision" è il disco che ha fatto incontrare The Obsessed e Pentagram, "The Black Is Never Far" è quello della maturità totale, quello in cui la chitarra di Griffin si esprime in modo completo, tra riff tombali, assolo memorabili e persino qualche svisata prog.

PRIESTBIRD
In Your Time (Kemado)
I Priestbird, prima conosciuti come Tarantula A.D., hanno cambiato ragione sociale, ma non la buona abitudine di sperimentare con la psichedelia (heavy e non) e il post rock. L’incrocio tra i due generi è oggi all’ordine del giorno, ma alla band va riconosciuto di servirsi di idee nuove e di una certa imprevedibilità. Nel nuovo lavoro è cosa naturale imbattersi tanto in acidi strumentali come “Season Of The Sun” o delicate ballate orchestrali come la title-track, quanto in heavy rock mutanti a base di percussioni schizofreniche ed inserti di piano (“Guest Room”, “Hand That Draws”). Ma c’è spazio anche per bozzetti folk acustici (“Jackyl”), miniature pinkfloydiane (“Last To Know”) e poderosi, spiritati doom in stile Saint Vitus, benché arrangiati col solito tocco di lucida e trasfigurante follia. È ciò che succede nella lenta e drogata “Smoke & Pain”, che improvvisamente si auto-inietta un ritornello vagamente trip-hop, partendo per la tangente. La chiusura di “Mandog”, tutta echi e melodie dolcissime, ci lascia infine a galleggiare nell’etere, privi di peso. Geniali e ambiziosi, i Priestbird meritano tutta la vostra attenzione.

PSYCHIC ILLS
Early Violance (The Social Registry)
“Early Violence” non è esattamente il nuovo album degli Psychic Ills, ma il doveroso recupero di materiale date alle stampe nel 2003, prima del bel debutto di qualche tempo fa, “Dins”. Molti hanno salutato il primo disco come una boccata d’aria fresca in un ambito, quello indie rock, sempre più asfittico e condizionato dalle tendenze del momento. Non che gli Psychic Ills possano dirsi realmente originali. Il loro stile psichedelico, qui ancora non perfettamente a punto, strizza l’occhio allo shoegaze rock dei ’90 e alle sperimentazioni lisergico/rituali dei Liars, incanalate in strutture semplici e reiterate, ma i Nostri sono capaci di melodie accattivanti e ipnotiche al punto giusto. C’è anche una non indifferente carica oscura in queste canzoni, rintracciabile in certe atmosfere tenebrose e nei suoni sfibranti di chitarra, che paiono sintetizzare l’amore della band per Sonic Youth, Velvet Underground, My Bloody Valentine e la dark-wave di Bauhaus e Cure. Gli Psychic Ills sono nella lista di band promettenti da seguire con estrema attenzione.

RED SPAROWES/GREGOR SAMSA
Red Sparowes/Gregor Samsa EP (Robotic Empire)
Titoli chilometrici, atmosfere narcolettiche e malinconiche, suggestivi crescendo di chitarre e la capacità di raccontare luoghi, persone ed emozioni come solo la miglior musica da film: sono i Red Sparowes, molto più che l’alter ego post rock dei Neurosis. Nascono da una loro costola e ne approfondiscono aspetti venuti fuori nelle ultime prove discografiche. Ma stilisticamente risultano più affini agli Slint (soprattutto per la tensione minimalista che aspetta l’occasione per esplodere) e soprattutto all’orchestra prog dei Goodspeed You! Black Emperor. Una bella conferma, in attesa di un seguito al debut “At The Soundless Dawn”. Non sono da meno i compagni di split Gregor Samsa, come il personaggio de “La Metamorfosi”di Kafka. Anche loro dipingono paesaggi notturni, ma al ruggito delle chitarre preferiscono più spesso l’abbraccio di melodie consolatorie per vocals sognanti e sublimi arrangiamenti d’archi. La colonna sonora ideale per un dolce risveglio.

PAUL ROLAND
Re-Animator (Black Widow)
Torna su Black Widow Records il menestrello Paul Roland, artista prog-psych innamorato della musica di Marc Bolan e T-Rex. Negli anni ’80 ha conquistato tutto quello che c’era da conquistare con dischi folk semiacustici, barocchi e dalle tematiche occulte, da cui traspare un grande amore per la letteratura gotica e i personaggi dell’epoca vittoriana. Il nuovo “Re-Animator” non fa eccezione: le creazioni di Lovecraft restano la principale fonte d’ispirazione, ma c’è spazio anche per il Valdemar di Poe, ritratto in un suggestivo e (è il caso di dirlo) mesmerico brano eponimo. Ciò che è cambiato è l’approccio del Nostro, oggi interessato ad una musica più sfacciatamente rock, diretta ed essenziale, per quanto sempre elegante e raffinata nelle scelte melodiche. Ne è esempio lampante l’hard-psych in crescendo di “Cthullu”, tra gli episodi migliori della raccolta. “Swamp Girl” è invece un irresistibile garage pop dagli accenti esotici, punteggiato da un organetto delizioso; “Pan” si bea del flauto spiritato di Geoffrey Richardson dei Caravan, mentre “Assassins” ripropone con gusto le visioni cosmiche dei Pink Floyd di “Saucerful Of Secrets”. Menzione speciale per “Arkham”, delicata ballata acustica che in meno di 3 minuti racconta una storia che potrebbe essere un film, un libro, un fumetto. È proprio questa la grandezza di Roland: l’essere non un semplice musicista, ma un narratore sopraffino, capace di intrecciare penna e note per raccontarci con leggerezza e semplicità le sue favole nere.

SAHG
Sahg (Regain)
Se i Motorpsycho ci hanno insegnato a guardare alla terra dei fiordi con occhi diversi, ossia con le pupille dilatate dagli effetti lisergici della loro musica, oggi sono i Sahg (in cui militano membri di Audrey Horne, Gorgoroth, Manngard e Jotunspor) a fare altrettanto grazie ad un album di heavy-psych rock sbalorditivo. È vero, s’avventurano in territori musicali ampiamente battuti, ma riescono comunque a convincere e ad avvincere abbracciando un ampio spettro di suoni e vibrazioni metal. Partiti dal prototipo messo a punto dai Black Sabbath, passano infatti per la rivoluzione doom anni ’80, fino a lambire certo grunge oscuro impostosi 15 anni fa e ovviamente lo stoner rock più psichedelico e pesante. Un flauto tremolante introduce la splendida “Repent”, che si snoda tra ondeggianti partiture elettro-acustiche ed un cantato acido ed effettato. Poi è la volta della title track, un diluvio di chitarre pesanti come una montagna che crolla; puro, maestoso doom metal dalle tinte dark, pompato da una sezione ritmica all’altezza della situazione. “The Alchemist” ripropone il lato più psichedelico dello stile Sahg, che ritorna nella tenebrosa parentesi acustica di “Rivers Running Dry”, nel cuore della superba “Godless Faith” e in “Boundless Demise”, in cui accelera in modo esponenziale. Il gran finale è affidato a “Black Passage”, che in sette minuti riepiloga tutte le migliori qualità della band. Un disco fatto col cuore, e che nel cuore vi resterà.  

SATURNIA
Muzak (Elektrohasch)
Ha fatto benissimo la Elektrohasch a dare credito ai Saturnia, formazione portoghese che si ispira agli Hawkwind e ai Pink Foyd del dopo-Barrett, quelli ricompresi tra “A Saucerful Of Secrets” e “Meddle”. A quei suoni immortali la band di Luis Simões aggiunge un’inedita impronta tribale e melodie ipnotiche come da tempo non se ne sentivano. Più che una rilettura dei classici suoni prog/psych dei ’70, viene fuori una libera interpretazione che non si sottrae alla sfida di nuove commistioni sonore. Così, i Saturnia non ci pensano due volte a flirtare con l’elettronica, col pop più raffinato (“Kite”) o persino col trip-hop di “Organza”, dove Nik Turner è chiamato a suonare il suo flauto magico. “Mindrama” e “Analepsis” sono dotate di nenie vocali floydiane che invogliano all’abbandono dei sensi (“Lost in the labyrinth, get a taste of absynth...”). “Infinite Chord” è un mirabile esempio di psichedelia liquida, alla maniera dei compianti 35007. “Syrian” è un tappeto di percussioni indiane, sitar ed elettronica su cui volare in compagnia dell’ospite Daevid Allen dei Gong. Infine, “Aqua” è il viaggio definitivo, una “Meddle” in miniatura, dolcissimo bagno ristoratore in acidi profumati e colorati. Un disco che lascia senza fiato.

SATURNUS
Veronika Decides To Die (Firebox)
In lavorazione per sei lunghi anni, il terzo album dei Saturnus viene finalmente pubblicato per i tipi della Firebox. La lontananza dalle scene del gruppo danese non è però servita a sperimentare nuove soluzioni, a battere strade diverse. Così, “Veronika Decides To Die”, ispirato all’omonimo romanzo di Paulo Coelho, è un disco di death/doom gotico sin troppo manieristico. Ci sono le tipiche melodie depressive e strappalacrime, che mentre le ascolti guardi fuori dalla finestra nel cuore della notte e ti struggi per le solite paturnie adolescenziali. Ci sono le incursioni di growling vocals, gli interventi pianistici, gli assolo sborrosi… persino l’ospite d’onore (Michael Denner dei Mercyful Fate) e una copertina di Travis Smith, che va molto di moda. Ma ci sono anche grossi sbadigli e l’irritazione di trovarsi di fronte ad un tripudio di stereotipi gothic doom. Fatevi sotto, se vi accontentate di così poco.

SCISSORFIGHT
Jaggernaut (Tortuga)
Tanto prolifici quanto micidiali, gli Scissorfight hanno sintetizzato una bella mistura di heavy rock sudista, punk e hardcore metallico, un incrocio bastardo e letale tra Georgia Satellites, Slayer e Dead Kennedys, come ha scritto qualcuno. “Jaggernaut” è l’ultimo capitolo di una carriera decennale che non ha conosciuto cedimenti, un disco di boogie rock fiammeggiante (“Victory Over Horseshit”, l’anthemica “86 Sucker”), zeppo di rimandi all’hard dei Settanta, ma interpretato con l’indole irriverente ed iconoclasta del punk. Qui è lì saltano fuori anche un’armonica a bocca e un banjo a farsi strada tra i potentissimi groove della sezione ritmica, ma le vere protagoniste sono le chitarre, granitiche e inventive. Ascoltate ad esempio il “wall of sound” metallico generato in “Backwoods”, in cui affondano sciabolate slide tipicamente Southern rock, e in “Fang”, che ricorda i Karma To Burn oscuri e violenti del primo album. Bravi.

SGT. SUNSHINE
Black Hole (Elektrohasch)
Tanto
Sgt. Sunshine è l’alter ego del chitarrista/cantante Eduardo Fernandez, un musicista con in vena la psichedelia più acida e stramba degli ultimi anni. Se il primo album era un bell’esempio di stoner rock di qualità, il nuovo “Black Hole” è tutt’altra storia, basata su originali scale lisergiche di stampo jazz e con intorno guizzanti melodie dal taglio obliquo a rincorrere ritmi errabondi. All’iniziale smarrimento, segue l’inevitabile assuefazione ad un modo di concepire la musica heavy-psych assolutamente personale e imprevedibile. La propensione per la jam acida e l’incontenibile creatività accomuna i Sgt. Sunshine ai primi Grateful Dead, che sembrano tornare in azione nei viaggi mentali di “Tell Me” e “Go Out Fishing”, mentre le parentesi prog di “Hidden Propaganda” citano apertamente i Mars Volta più complicati. È vero, ogni tanto la band sembra perdere temporaneamente la bussola nell’inseguimento delle sue chimere psych, ma sa ritrovare la pista con facilità, padrona com’è del linguaggio acid rock e delle sue mille sfumature. Peccato per la copertina anonima: un disco visionario come questo avrebbe meritato ben altra presentazione.

SHISHOU NO FUNE
Where The Spirits Are (Holy Mountain)
Chi stravede per il rock del Sol Levante, aggiunga pure i Shishou No Fune (in Inglese, “The Crystal Ship”) alla lista dei grandi, insieme a Boris, Ghost ed Acid Mothers Temple. La Holy Mountain Records ci titilla con uno sticker di copertina che strilla “majestic psychedelia!”. Non esagera di sicuro: Pirako Kurenai e Kageo, entrambi chitarristi-cantanti, sanno come innalzare imponenti costruzioni lisergiche giocando sulle infinite possibilità espressive della chitarra elettrica. A tratti rievocano i viaggi dei “corrieri cosmici” tedeschi (“Vale Of Spirits”) in un continuo naufragare nello spazio, ma senza l’auto-indulgenza degli Acid Mothers Temple. In “Your Tears Drop From The Sky” propongono una ballata pinkfloydiana con un importante sottofondo di echi e riverberi oltremodo acidi, mentre nel resto del disco fanno a meno della batteria, suonata comunque in modo essenziale. Nei 17 minuti di “Apparition On A Moonless Night” e nei 14 di “Black Phantom”, i toni si fanno quindi più eterei, pregni di mistero. I territori qui sorvolati sono quelli del dark-ambient esoterico e della drone music, ma con un uso sapiente delle sei-corde e sparuti interventi vocali che evitano alla musica di arenarsi, offrendo invece nuovi spunti di meraviglia nell’alternare scoppi di luce a buio profondo. Un simbolico abbraccio tra vita e morte.

SLEEPING PEOPLE
Sleeping People (Temporary Residence)

Dietro la sigla Sleeping People operano musicisti dell’area di San Diego – solitamente alle prese con l’indie rock – a cui è improvvisamente balenata in testa l’idea di suonare prog strumentale mischiandolo al rock alternativo. Niente che gente come Don Caballero o June Of ’44 non avesse già fatto, e con più successo. Agli Sleeping People non manca la competenza tecnica necessaria per affrontare una prova del genere, ma il problema sta nella quasi totale assenza di emozioni. Eseguono freddamente partiture complesse e astruse (un titolo come “Technically You…” la dice lunga), ma non riescono ad essere comunicativi e finiscono per annoiare. Si salva “Fripp For Girls”, che nel finale cita le melodie malinconiche di marca Pinback (il loro cantante, Rob Crow, è della partita). Deludenti, almeno in questa occasione.

SPECTRAL LORE
Spectral Lore Tape (Saturnine Society)
Il debutto eponimo degli Spectral Lore è solo un demo limitato a 250 copie, ma ha tutte le carte in regola per affermarsi come uno dei dischi black più interessanti degli ultimi anni. Si tratta del progetto solista di tale Lycaon Ayr, che si esprime in modo maturo su più fronti: quello del black burzumiano in primis, ma anche del folk acustico e della dark ambient con influssi industrial. La sua proposta non risulta tanto dissimile da quella degli americani Velvet Cacoon, Le atmosfere sono nebbiose; i suoni, ovattati e avvolgenti; le melodie, drogate e ipnotiche. Ma a differenza dei colleghi, Sectral Lore vanta una più ampia tavolozza di colori, che in "The Drowning" si traduce in un plumbeo surrealismo, mentre in "Echoes Of A Long Dead And Forgotten Place" assume i toni tipici del doloroso viaggio negli abissi del sé. La voce di Lycaon Ayr si avverte appena, come fosse un urlo strozzato in gola, ridotto ad un bisbiglio incomprensibile. Ma la cavalcata notturna a seguire parla da sola, l'apertura melodica che l'interrompe è pregna di misticismo e grandeur cosmica, mentre la chiosa finale a base di un flauto magico intriso d'eco ed elucubrazioni ambient riporta tutto alla terra, magari quella di un antico cimitero sacro in cui s'aggirano oscure presenze. Qualche sbavatura è ancora da limare, ma quanto a freschezza inventiva gli Spectral Lore sono già un gradino più in alto rispetto a molti blasonati colleghi.

SPICE AND THE RJ BAND
The Will (Scarlet)
John Garcia escluso, tra tutti i cantanti dello stoner Spice era di certo il più dotato. Le sue performance negli Spiritual Beggars sono entrate nella storia del rock duro. Dotato di una voce maschia, di quelle tirate su ad alcool e nicotina, l’artista è oggi timoniere di un gruppo che ne porta il nome, Spice And The RJ Band, dopo la breve parentesi nei Mushroom River Band. Aspettatevi un grande heavy rock, meno psichedelico e creativo di quello dei Beggars (ovvio, mancando la chitarra di Mike Amott!), ma altrettanto emozionante e pieno di groove. Rispetto alle poderose costruzioni heavy psych del passato, qui Spice è chiamato a dare carattere a brani più diretti e rock’n’roll (“Parallel”, “Fat Snale), che spesso invadano il campo da gioco dei migliori Hellacopters (“Don’t Tell Me”, “Fat Snakes And Robots”) e altrettanto spesso vestono i panni di veri anthem dal sapore settantiano. È il caso delle coinvolgenti “See Ya”, “As We Lie” e “Hold On”, quest’ultima una ballata elettro-acustica molto ruffiana, che in mezzo a tanti chitarroni heavy riesce ad addolcire il clima tempestoso del disco. Un disco classico, suonato splendidamente e cantato da un grande interprete. Nessuno ne resterà deluso.

SUMA 
Let The Churches Burn (Spakerphone)
Immaginate un mix letale tra Eyehategod, primi Earth, Yob, Electric Wizard e Sunn O))), e avrete idea del pandemonio sludge scatenato dai Suma. Questi quattro svedesi se ne vanno in giro con gente del calibro di Ramesses, Unearthly Trance e Unsane, e non ci stupirebbe sapere che dal vivo gli rubano la scena. In “Let The Churches Burn”, secondo album della serie, i Suma sono riusciti a sintetizzare il perfetto sludge-doom psichedelico dei nostri tempi, fondendo la grandeur noise-drone di Sunn O))) e Earth alla violenza psicotica degli Eyehategod e alle elucubrazioni space-doom dello Stregone Elettrico. In altre parole, i Suma ci danno dentro con chitarre elettriche ultra-distorte e una batteria che più heavy non si può, fino a trasfigurarne i suoni, fino a farne puro rumorismo astratto, capace di catapultare chi ascolta in uno stato di trance da cui è difficile uscire. Succede tutto in  “Blood Pony”, nella title track e nella conclusiva “…Seems You Developed An Acid Tongue”, che da sole contano quaranta minuti di delirio heavy-psych. Impossibile resistere ad un disco estremo ed affascinante come questo, peraltro prodotto con la solita maestria da Billy Anderson.

SUNN O)))
La Mort Noir Dans Esch/Alzette (Southern Lord)
Ci sarebbe da ridire sulle recenti politiche della Southern Lord, l’etichetta di Greg Anderson e Steve O’Malley. Il duo ha preso il vizio di rilasciare dischi in quantità ultra-limitata disponibili solo ai loro concerti e rivenduti su Ebay a prezzi da capogiro, con grande scorno dei fan. Difficile però resistere alla tentazione di un esclusivo live dei Sunn O))) tirato in 1000 copie numerate. Tanto più che “La Mort Noir…”, registrato in Lussemburgo durante l’ultimo tour europeo in compagnia degli Earth, suona divinamente ed offre interessanti spunti inediti. C’è l’ospite Malefic/Xasthur, che nei 21 minuti del medley “CandleGoat/Bathori” raggiunge i più profondi recessi della psiche con le sue vocals torturate e catacombali. E ci sono anche la Fender Telecaster di Dylan Carlson (Earth) e addirittura un trombone, che in “Hallow-Cave” aggiunge notte a notte. Il suo è un suono luciferino, un corno che chiama a danzare creature mostruose e deformi in un sabba pagano. “Orthodox Caveman” e l’improvvisazione noise di “Reptile Lux” completano il solito menu a base di drone-doom e feedback. Musica sospesa nel vuoto, nera, allucinata, paurosa e visionaria.

SUPERSILENT
8 (Rune Grammofon)
I
 Supersilent sono un gruppo norvegese che suona musica prevalentemente strumentale e sperimentale. Molto sperimentale. Partono chiaramente da strutture free jazz, complicante da una buona dosa di elettronica, ambient, drone music e noise. E in alcuni frangenti anche rock, quando la batteria smette di giocare coi piatti e inizia e pestare duro seguendo i suoni metallici delle chitarre. Non avviene molto spesso, perché nella musica dei Supersilent sono le pause e i silenzi a dettare legge, tanto che le note non suonate diventano più importanti di quelle che lo sono. Difficile seguirli nei loro esperimenti errabondi, soprattutto in questo disco, che offre meno spunti melodici rispetto a “6” e “7”, i precedenti, bellissimi lavori. Ma continua ad esserci qualcosa di magico e psichedelico nel modo improvvisato in cui le loro sinfonie ora minimali ora cacofoniche prendono forma lentamente. La maestria tecnica dei Supersilent (ne fa parte anche Deathprod, un tempo produttore e membro dei Motorpsycho) è fuori discussione, così come la loro sfrenata fantasia avanguardista.

SWITCHBLADE
Switchblade IV (Trust No One)
Il quarto album degli svedesi Switchblade si chiama col loro stesso nome, come d’altronde i suoi predecessori. Oggi gli Switchblade suonano un doom metal strettamente imparentato con la drone music. La scuola è quella di Burning Witch e Khanate, tanto più che le voci malefiche dei due ospiti presenti, il cantante dei blacksters Watain e quello dei Logh, contribuiscono ad accorciare le distanze tra America e Scandinavia. Ma mentre i gruppi di Steve O’Malley riescono a toccare corde profonde, gli Switchblade restano almeno in questa occasione in superficie. Troppo facile comporre brani di 20 minuti mettendo in fila qualche riff di senso compiuto, aggiungendo un po’ di distorsione e alternando il tutto a porzioni strumentalmente più vuote, in un classico gioco di opposti. Un gioco che non è privo di fascino e che non fa mancare momenti di grande intensità. Ma il resto, curioso a dirsi, è post-metal di maniera in salsa doom, e alla fine non sembra portare da alcuna parte.

TEETH OF THE HYDRA
Greenland (Tee Pee)
Rivale di lungo corso della detroitiana Small Stone per il titolo di miglior label heay-psych, la Tee Pee si sta specializzando sempre più in un tipo di suono post-stoner metallico di grande potenza e impatto. Il prototipo è quello degli High On Fire, recentemente preso a modello da gente come Kalas e The Sword; ma guardato con interesse anche dai Mastodon, che in certi frangenti hanno dimostrato ammirazione per il lavoro di Matt Pike e soci. Oggi alla lista si aggiungono i Teeth Of The Hydra, che però ci mettono troppo poca farina dal loro sacco per potersi dire originali. Giusto nella lunga “The Garden Of Rotten Teeth”, complice il mortifero andamento doom imposto dalla sezione ritmica, c’è spazio per qualche bella impennata psichedelica. Ma il resto è noioso stoner metal d’ordinanza, una copia sbiadita degli High On Fire, con una voce che tenta di replicare (senza riuscirci) la ferocia assassina di Pike.

TITAN
Titan (Paradigms)
L’attiva Paradigms, etichetta inglese di belle speranze, non si fa mancare niente. Dopo una manciata di uscite in ambito drone e qualche puntatine nel black metal, ecco che ci prova col krautrock, proponendo il debutto dei carneadi Titan. Nome e copertina colpiscono favorevolmente, ed alla prova d’ascolto si resta decisamente soddisfatti. Solo tre brani, ma i Titan li riempiono di tutto ciò che un appassionato di “kosmiche  musik” possa desiderare. Il canovaccio è quello di Klaus Schulze e Tangerine Dream: lunghi droni che pulsano battendo un tempo immobile e infinito, con synth che sfrecciano da ogni dove, trascinandosi dietro materia celestiale. Quando a prendere il sopravvento sono la chitarra elettrica e la batteria, il risultato non è tanto distante dal free rock psichedelico degli Ash Ra Tempel (“Die Morgensonne/Die Mitternachtsonne”). In queste note si avverte distintamente anche il senso di mistero tipico dei primi Pink Floyd, quando erano ancora i “signori dell’astronomia” e scrutavano il cielo in cerca di dischi volanti. Brano dopo brano, galassie e costellazioni sembrano prendere forma davanti ai nostri occhi, ma non c’è tempo per disegnare nuove mappe astrali: l’astronave Titan ha già superato le colonne d’ercole dell’Universo e procede oltre…

TODD
Comes To Your House (Southern)
Tornano i Todd più incazzati che mai, ed è di nuovo violenza allo stato puro. La band dell’ex-Hammerhead Craig Clouse suona un heavy rock mostruosamente metallico e rumoroso. A tratti sembra di essere tornati ai tempi dei primi e più caustici Nirvana, quelli di “Bleach”, ma sovraccaricati dell’elettricità noise dei gruppi anni ’90 targati Amphetamine Reptile e Touch & Go (“A Killer Grows”), della pazzia di Melvins e Today Is The Day (“The Knife Whisperer”, “Council Member”), e con tracce dell’elettronica più radicale e devastante degli ultimi anni (“Black Skull”). Non pensiate che “Comes To Your House” suoni come un pasticcio. Anzi, riesce ad essere coerente e ad amalgamare bene ciascuna delle sue componenti. La durata complessiva contenuta, che riflette quella dei singoli pezzi, ne fa un bignami del rock contemporaneo più malato, perverso e cacofonico. Il ritratto disincantato di una società violenta, schizofrenica ed animata da pulsioni di morte e distruzione. Inutile dirvi di non aprire la porta ai Todd: ce li avete già dentro casa, dentro al televisore, in fondo allo stomaco.

TONE
Solidarity (Neurot)
Attivi da parecchio tempo, dopo l’esperienza alla corte della Dischord i Tone sono approdati alla Neurot Recordings, che insieme a Hydrahead costituisce l’avamposto più importante nell’ambito del post-metal psichedelico. Facile immaginare il contenuto di “Solidarity”: melodie avvolgenti e dilatate, atmosfere rarefatte e notturne che improvvisamente si accendono di nuovi suoni e colori, per infine esplodere in progressioni chitarristiche mozzafiato. Brani come “Confidence And Progress”, “The Unwilling” e “Towers” sono fiori psichedelici che vediamo sbocciare poco a poco, che vediamo crescere sotto le sapienti cure di una band che funziona come un’orchestra. I Tone annoverano infatti due percussionisti e ben cinque chitarristi impegnati a tessere trame complesse ma mai stucchevoli, che prediligono l’impatto emotivo al puro sfoggio di tecnica. Sanno essere tanto impetuosi quanto delicati (le due anime del raga “Evolution”), cambiando registro in un battere di ciglia. Il risultato finale ricorda la magia poetica dei Goodspeed You! Black Emperor (o di Rachel’s più muscolari), oltre che ovviamente certe cose degli illustri colleghi Isis e Pelican. Bravi.

TOTEM
Totem EP (I Hate)
Ogni volta che ci tocca presentare l’opera prima di qualche nuova band, è cosa giusta reprimere l’entusiasmo, ché troppo spesso è capitato di fare i conti con dei fuochi di paglia e niente più. Nel caso dei Totem, però, ci sbilanciamo senza timore: si tratta del migliore gruppo doom degli ultimi anni, sicuramente la sorpresa più grande dall’avvento dei Witchcraft. Il loro EP di debutto per la svedese I Hate Records allinea tre bellissime song dai titoli immaginifici (tra tutte, “Luna Moth Speaks”), in bilico tra il doom-style americano anni ‘80 e il dark sound progressivo del decennio precedente. Un tripudio di riff in slow-motion, melodie ossianiche, improvvise accelerazioni psichedeliche e pregiati bordoni di tastiere e flauti su cui si staglia una voce femminile altera e glaciale, eppure suadente come solo Grace Slick (Jefferson Airplane) sapeva essere. Non a caso citiamo la sacerdotessa del folk psichedelico dei ’60: per quanto heavy, lo stile dei Totem è ben radicato proprio in quella gloriosa musica lisergica. D’altronde, si dice che della band facciano parte sotto mentite spoglie nientemeno che James Toth e Clay Ruby, due degli artisti psych-folk più amati degli ultimi anni, titolari di sigle prestigiose quali Wooden Wand e Davenport. “Totem” è solo un assaggio: un full-length è già pronto, anche se sarà pubblicato col nome Jex Thoth, lo stesso della cantante. I ben informati ne parlano come di un capolavoro, e noi non abbiamo motivo di dubitarne.

TRIP HILL
Space Trip Passport (W-Dabliu)
Si presenta in una bella confezione gatefold-LP l’ultima produzione della W-Dabliu Records, etichetta italiana specializzata in musica psichedelica e che ha recentemente dissotterrato “Return To Uranus”, debutto di una formazione primitiva dei Wicked Minds che rischiava di essere dimenticato. Non dimenticheremo facilmente neanche il viaggio spaziale offertoci da Trip Hill, alter ego di Fabrizio Cecchi. Ogni brano è un confetto d’acido, da mandare giù aspettandone gli effetti. Che non tardano ad arrivare. Sulle note di una chitarra liquida vi troverete a levigare; proverete l’ebbrezza di un volo in picchiata, per poi atterrare dolcemente su giardini incantati e coloratissimi. Trip Hill padroneggia molte delle svariate forme assunte dalla psichedelia nel corso di 40 anni e, nonostante le nostre congenite riluttanze di uomini moderni immersi in un mondo sempre più frenetico, riesce a fermare il tempo, a rilassare mente e corpo. Tra riff acid blues, progressioni lisergiche, chitarre fuzz e droni ipnotici, Trip Hill rende omaggio tanto ai “corrieri cosmici” e al krautrock tedeschi, quanto alla scuola anglo-americana. Un rituale liberatorio, totalmente strumentale, concepito da una mente gioiosamente “fuori”.

TROUBLE
Simple Mind Condition (Escapi)
Al ritorno dei Trouble abbiamo creduto solo dopo aver sentito la voce di Eric Wagner distendersi come le ali di un’aquila reale sull’iniziale “Going Home”. Nel momento in cui i suoni compressi di “Mindbender” si sono sciolti negli assolo ben torniti di Rick Wartell e Bruce Franklin, sono arrivati anche i brividi. “Simple Mind Condition” è il settimo album della band americana, e come il suo predecessore del ’95, “Plastic Green Head”, predilige brani brevi e diretti. Il loro sapore è forse fin troppo classico (“Pictures Of Life”, “Ride The Sky”), e i Nostri non si producono in un songwriting particolarmente brillante. Ma i pezzi prendono letteralmente vita quando i due chitarristi cominciano a duellare come sanno fare solo loro, e difficilmente si resiste al fascino doom di “Arthur Brown’s Whiskey Bar”, con accordi sinistri e un cuore melodico, o al groove di “Trouble Maker”. Come nel disco di 12 anni fa, c’è spazio anche per la psichedelia beatlesiana, che Wagner ha continuato a frequentare anche nei Lid e che qui salta fuori nelle ballate “After The Rain” e “The Beginning Of Sorrows”. “Simple Mind Condition” è un lavoro discreto e non sfigura affatto nella discografia della band. Fatelo vostro senza timore, ma anche senza grosse aspettative.

TRUCKFIGTHERS
Gravity X (Meteorcity)
Un’occhiata alla copertina del disco, un fumetto in stile Frank Kozik, ed è chiara la natura di “Gravity X”: stoner rock, quello di cui si era affamati all’indomani dello scioglimento dei Kyuss. Sono il principale punto di riferimento per i Truckfigthers, che comunque ci mettono anche farina dal loro sacco. Molto bello lo stacco melodico e la coda space di “Desert Cruiser”, che altrimenti sarebbe stata un lungo elenco di cliché stoner, di groove desertici e assolo polverosi come tanti ne abbiamo ascoltati. “Momentum” punta invece sul contrasto tra una cantilena cadenzata alternata a scoppi di fuzz guitar in crescendo. Ma spunti intriganti e melodie conturbanti affiorano a getto continuo in ciascuna delle canzoni di “Gravity X”, suonate con verve e arrangiate con gusto da una band di giovanotti che sono riusciti a non farci annoiare. Se stoner rock deve essere, che sia quello fresco e interessante dei Truckfighters.

UFOMAMMUT - LENTO
Supernaturals Record One (Supernatural Cat)
Forse gli appassionati di comics ricorderanno i Supernaturals, gruppo di supereroi Marvel composto unicamente dai personaggi horror della famosa casa editrice. Il progetto Supernaturals ne sembra la controparte rock, stando al contenuto di questo primo team-up tra i mostruosi Ufomammut e gli altrettanto impressionanti Lento. Per continuare con le metafore fumettistiche, nei sei pezzi della raccolta gli Ufomammut si manifestano con le sembianze di Galactus, il divoratore di pianeti, riproponendo il primitivismo titanico di “Godlike Snake” attraverso riff ipnotici e incredibilmente brutali. Avendo rinunciato al filtro della maturità espressiva ravvisata nel recente “Lucifer Songs”, è ai Lento che viene lasciato il compito di rifinire tale magmatica materia secondo la sensibilità ambient-core (si può dire?) che li contraddistingue. Il risultato aggiorna il linguaggio post-metal neurosisiano (“Painful Burns…”), si affianca allo shoegaze-metal di Jesu e Nadja (“The Overlord”), ride in faccia ai tanti gruppi drone-doom che spuntano come funghi e si spinge oltre il noise, dove nessuno è ancora arrivato (“Infect Two”).

VOLT
Rorhat (Exile On Mainstream)
Deludenti, questi Volt. Debuttano per la tedesca Exile On Mainstream con un album in bilico tra noise metallico e stoner rock, proponendosi come un incrocio tra gli Helmet, i Queen Of The Stone Age (“Kreuz” sembra citarli esplicitamente nei suoi modi “pop” obliqui) e gli Unsane. Ma solo a tratti riescono a sposare feedback, melodia e groove angolari. C’è dalla loro molta buona volontà ed una certa fantasia compositiva, ma nessun reale tentativo d’innovazione, e se i primi brani in scaletta incuriosiscono o addirittura convincono (molto belli gli start-and-stop ipnotici di “Griffel”, le impennate psichedeliche di “Frommburg” e il noise blues squadrato di “Zwigillussion”), i successivi non riescono a tenere desta l’attenzione, nascosti come sono dietro stilemi ampiamente abusati. Ad esempio, l’attacco di “Stativ” è un plagio spudorato (e fastidioso) dei Jesus Lizard, mentre i 12 minuti di “VLT” esplorano il contrasto quiete-rumore bianco in modo del tutto banale. Noiosi.

VV.AA.
For The Sick - A Tribute to Eyehategod (Emetic)
Se ancora ci fossero dubbi circa il ruolo determinante avuto dagli Eyehategod nell’evoluzione del metal estremo, basterà buttare l’occhio su questo monumentale tribute album: su 2 CD è raccolto il meglio del repertorio dei tossici sludgers americani, interpretato dalle migliori band dei nostri giorni. Inutile citare i gruppi migliori: tutti eseguono delle cover impeccabili, rispettando i brani originali, ma senza rinunciare ad esprimere la propria personalità e sensibilità. La cosa che più colpisce, comunque, è la partecipazione massiccia di band all’apparenza lontane dai canoni metal delineati dagli Eyehategod. Oltre agli sludgers loro amici e a coloro che ne hanno tratto palese ispirazione (Alabama Thunderpussy, Unearthly Trance, Sourvein, Cable, Raging Speedhorn, The Mighty Nimbus, Lair Of The Minotaur), c’è un sacco di gente che non ti aspetteresti. I funeral doomsters Esoteric, ad esempio; oppure gli emergenti Byzantine, Mouth Of The Architect, Kylesa, Minsk e Bloody Panda. Band che il metal lo stanno manipolando a piacimento e cambiando dall’interno, esattamente con la stessa naturalezza e lo stesso approccio sincero degli Eyehategod. La testimonianza più commovente? Quella dei Brutal Truth (presenti con “Sister Fucker”), perché l’omaggio reso da maestri come loro ha un significato ancora più grande.

VV.AA.
Sucking The 70's: Back In The Saddle Again (Small Stone)
Non contenta di produrre da molti anni a questa parte il meglio del rock psichedelico e dello stoner, la Small Stone di Detroit ha deciso di pubblicare un nuovo “Sucking The 70s”, sorta di antologia del rock duro di trent’anni fa tradotto in un linguaggio heavy moderno e attuale. Questo è già il secondo volume di un progetto che in futuro speriamo possa arricchirsi di ulteriori capitoli e nuovi partecipanti. Sì, buona parte dei gruppi qui presenti erano già sulla precedente raccolta, e ovviamente molti fanno parte della scuderia Small Stone. Ma c’è davvero poco di che lagnarsi, di fronte ai Grand Funk Railroad di “Are You Ready?” reincarnatisi nei Sasquatch, ad una “Born To Be Wild” rifatta dai Natas, ad una “Saturday Night Special” (Lynyrd Skynyrd) piegata dagli artigli psych dei Red Giant e ad una “When The Levee Breaks” in versione Roadsaw! Scott Reeder si diletta con una cover dei Beatles, mentre gli Antler si buttano sugli Eagles di “Those Shoes”, e i Dozer addirittura sui Devo di “Mongoloid”, scelta davvero inaspettata e apprezzabile. E che piacere vedere Clutch e Five Horse Johnson suonare insieme “Red Hot Mama” dei Funakdelics! A voi la scoperta dei classici del passato rivisitati da Alabama Thunderpussy, Glasspack, Orange Goblin ed Acid King.

WHITE DARKNESS
Nothing (Roadburn)
Da ora in poi, oltre ad essere il più importante festival al mondo di heavy-psichedelia, post metal, stoner e affini, Roadburn è anche una casa discografica. Ai White Darkness il compito di inaugurare una serie di uscite che si preannunciano interessanti, come d’altronde è questo “Nothing”, disco sperimentale e quasi interamente strumentale che indaga tra le pieghe del doom, del drone, dell’ambient e della psichedelia. Un album dal piglio avanguardista, ma con la inconsueta capacità di risultare musicale in ogni frangente, dunque facilmente fruibile da chiunque. Mai ripiegato su se stesso, si avvale di melodie arcane solitamente suonate da un pianoforte, con sullo sfondo archi sintetizzati e sporadiche schitarrate heavy. Il clima è meditabondo, oppressivo e ossessivo, ma i White Darkness lasciano abbastanza spazio perché l’ascoltatore non rimanga schiacciato da tanta oscurità. Ne sentiremo ancora parlare.

WICKED MINDS
Live At Burg Herzberg Festival 2006 (Inakustik)
Se frequentate assiduamente questa rubrica, dei Wicked Minds sapete già tutto. A cominciare dal fatto che hanno sfornato un paio di album eccezionali per Black Widow Records (puntualmente finiti nelle nostre playlist annuali) e che coltivano una passione viscerale per l’hard rock anni ’70 di Deep Purple, Uriah Heep e compagnia. Sapete anche dei giochi funambolici tra una sezione ritmica solida come la roccia e chitarre incandescenti e psichedeliche (ascoltatele attentamente nelle impennate lisergiche di “The Elephant Stone”). Per non dire dell’impetuoso flusso di keyboards che scorre copioso dentro ogni brano, e della voce passionale di J.C. Cinel, a sua agio sia nelle ballate (“Drifiting”) che ne frangenti più hard. Ma dal vivo? Per ogni rocker che si rispetti, è quella la sede per dimostrare di saperci fare davvero. Ebbene, non solo i Wicked Minds passano facilmente la prova live, ma addirittura riescono a fare meglio che su disco, perché la loro partecipazione emotiva all’evento li rende ancora più veri… e più grandi. Impeccabili sotto ogni punto di vista, non temeno nemmeno di confrontarsi con un pezzo impegnativo come “Return To Uranus”, che si allunga anche per 20 minuti e richiede tecnica, fiato e capacità d’improvvisazione. Da non perdere.

WINNEBAGO DEAL
Flight Of The Raven (Fierce Panda)
Dopo aver affiancato in tour Brant Bjork e Nick Oliveri, i Winnebago Deal tornano con un album di innocuo stoner punk che solo nella conclusiva “Revenge”, cover di un classico dei Black Flag interpretato dallo stesso Oliveri, trova il suo momento più alto e devastante. Il resto suona come una versione ripulita (la produzione è di Jack Endino) dei Mondo Generator, con tutti i clichè al loro posto: assolo rock’n’roll deraglianti, accelerazioni punk, vocals al vetriolo e una patina stoner che emerge prepotente in certi riff rotondi e corposi (la lunga “Going Home”). C’è persino qualche leccata di slide à la Queens Of The Stone Age, tanto per aggiungere un tocco di modernità ad un disco certamente non fiacco, ma che comunque aggiunge poco a quanto detto sinora in questo ambito.

WITH LOVE
A Great Circle CD - DVD (GSL)
La GSL, nota soprattutto per essere stata il trampolino di lancio dei Mars Volta, si dedica con profitto a gruppi e musiche fuori dall’ordinario. Tra i suoi sperimentatori più audaci spiccano gli italiani With Love, che sul nuovo “A Great Circle” sbocciano una volta per tutte. Considerata la forte interrelazione esistente tra i contenuti audio e video dell’opera, potremmo quasi parlare di concept. Parola abusata e invisa a molti, soprattutto ai fanatici della musica “post”. Invece proprio un concept ci sembra: un concept sull’arte, sui modi formali e informali delle sue vie espressive, sulla libertà e sul coraggio dell’atto creativo. Che qui è sublimato in una musica che si guarda, e in immagini che si ascoltano. Il cortometraggio è firmato dal cantante Nico Vascellari, che gioca con gli spazi (da orizzonti ampi e luminosi, a buchi neri e claustrofobici) e i ritmi (ora caotici, ora ordinati, ora assenti o sospesi) durante un viaggio psichedelico che incrocia paganesimo e caos entropico. Così anche la musica, che mette insieme drone ambientale, silenzi assordanti, pulsioni post-harcore e atmosfere dark. Come e meglio di Liars e Black Dice, a cui i With Love sono spesso paragonati.

WIZAR'D
Smouldering Sinners 7" (Rusty Axe)
E' solo un 7", ma non ci poteva essere miglior biglietto di presentazione per questi pazzi doomster australiani. La sola copertina, che eguaglia le oscenità in bianco e nero di Chris Moyen pur non essendo uscita dalla sua penna, ci racconta di una band dal sound primitivo, fortemente debitore ad un immaginario prettamente heavy metal. La title-track suona come un omaggio a Saint Vitus e Manilla Road, fondendo i classici groove doom dei primi all'epico sound dei secondi, e con un cantato nasale dagli accenti ritualistici pronunciati. Nel break centrale, la chitarra wah-wah dei Wizar'd fa il verso a quella di Dave Chandler, regalando brividi a non finire. Ma sono i modi rudi della band e la produzione da macellaio a definirne il carattere, più estremo di quello di una doom band ottantiana, ma altrettanto debitrice dei Black Sabbath. Per chi ancora non ha smesso di ascoltare Witchfinder General, Withfynde, Manilla Road, Cirith Ungol ed Hellhammer.

WIZARDZZ
Hidden City Of Taurmond (Load)
Trattandosi di un side project dei lanciatissimi Lightning Bolt, vale a dire la nuova frontiera del noise rock, c’era da aspettarsi molto dai Wizardzz, e la curiosità è cresciuta una volta venuti a sapere che la band intendeva avvalersi soltanto di batteria e tastiere. Il risultato non è poi così fuori dall’ordinario, e in ogni caso non particolarmente brillante. Lo si capisce dalle prime note di “Sailship”, “Whispers From Wallface” e “Glimpse Of The Hidden City”, con sintetizzatori pacchiani sparsi dappertutto e una batteria che segue ritmi semplici e che solo a tratti si lascia andare alle progressioni tempestose che era lecito aspettarsi (“Sea Battle At Orkusk”). Ne viene fuori una musica prog-psych da carillon, organizzata in brevi sketch piuttosto che in canzoni vere e proprie. Una musica quindi irrisolta, a tratti persino sbiadita, nonostante i Wizardzz cerchino affannosamente melodie circensi, fantasiose e colorate (“Diamond Mirror”). Va meglio quando i toni si fanno più minimali o caoticamente ipnotici (“Do Come In!”, “Ambushed By A Time Quagga”), ma è tropo poco per risollevare le sorti di questo disco-giocattolo. Un divertissement poco riuscito che nulla toglie alla genialità dei Lightning Bolt, ma che potete tranquillamente risparmiarvi.

WOLFMOTHER
Wolfmother (Universal)
Pubblicato dalla Modular sul finire del 2005 e riproposto nel 2006 col marchio Universal, "Wolfmother" è il disco retro-rock più bello degli ultimi anni, insieme a quelli firmati Witchcraft e Dead Man. Contiene i brani già ospitati in un EP rivelatore accompagnati da nuove canzoni decisamente più strutturate e complesse. A partire da “Colossal”, un’apertura mozzafiato a base di riff sabbathiani che giocano a inseguire una batteria rocciosa come poche. I Led Zeppelin redivivi rispondono per le rime in “The White Unicorn” (puro sound “Stairway To Heaven”), cominciando una battaglia a colpi di tonante heavy rock che si trascina per tutta la durata dell’album. Le lussuriose keyboards di “Mind’s Eye”, primo singolo estratto, raffreddano i bollori della band bagnandoli in una melodia lisergica da far invidia ai Monster Magnet. Anche “Where Eagles Have Been”, “Tales From The Forest Of Gnomes”, “Vagabond” e “Witchcraft” (con un bell’intervento di flauto) mostrano il lato più sognante dei Wolfmother, tra prog, folk e psichedelia floydiana perfettamente inglobati nel poderoso sound zeppeliniano dei Nostri. Vi sono dunque interessanti prospettive future di evoluzione, ma intanto il presente è talmente radioso da risultare abbagliante.

XASTHUR / LEVIATHAN
Xasthur / Leviathan (Battle Kommand)
Più passa il tempo, più riusciamo a scorgere un filo rosso che lega certo black metal americano al post metal e alle avanguardie noise/psichedeliche contemporanee. Non bastava la promozione di Xasthur e Leviathan da paladini underground della fiamma nera a ospiti di riguardo sui dischi e nei tour dei lanciatissimi Sunn 0))). Sembra infatti che il leviatano Wrest stia collaborando con membri degli Isis ad un progetto ancora senza nome, e che i Twilight (in cui milita insieme a Malefic), intendano registrare un album di droning black metal prodotto da Randall Dull (di fama Earth, Sunn 0))) e Boris). Al momento, però, il manifesto simbolo del nuovo black USA è lo split album tra Xasthur e Leviathan, inizialmente pubblicato su vinile e andato esaurito in un batter di ciglia. Oggi viene ristampato dalla Battle Kommand con l’aggiunta di vari bonus, tra cui interessanti cover di Katatonia e Judas Iscariot. Ma il meglio è nei brani autografi delle due one-man band. Nel caso di Xasthur assomigliano a walzer di morte drogati e angoscianti (“The Eerie Bliss And Torture Of Solitude”), colonne sonore di un malessere interiore che tracima da ogni nota. Come Burzum, Mutiilation, Manes e Forgotten Woods prima di lui, Malefic lancia urla di terrore cercando un varco nella fuliggine di melodie che sanno di solitudine infinita. Ma non c’è scampo, e l’unico conforto è nelle voci dei defunti, che Xasthur sceglie come compagni nel dolore (“Telepathic With The Deceased”). Di questa sorta di “psichedelia nera”, di questa musica capace di aprire squarci su intime dimensione d’incubo e depressione, Leviathan è maestro indiscusso. Le sue sono vere sinfonie, arricchite da aperture dark-ambient (la coda di “Unfailing Fall Into Naught”) e arrangiamenti wagneriani di chitarre, grandiosi e struggenti quanto quelli dei Godspeed You! Black Emperor (“The Remotest Cypher”). Ma non è post rock, quello offerto all’ascolto. È black metal, finalmente libero dalle catene della routine e mai così emozionante e visionario come adesso.

 

torna al sommario