I TEMPI CAMBIANO
di Vincenzo Ballo |
Ferragosto
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sirbia]
Noi
pietrini siamo molto devoti alla Madonna della Cava che, con San Rocco, è
la compatrona di Pietraperzia. A lei è dedicato un piccolo santuario sul
cucuzzolo di una collina pianeggiante, chiamata con la stessa
denominazione, a circa quattro chilometri dal paese, e molte edicole sono
state erette dai proprietari di terreni che costeggiano la strada di
collegamento.
[Nota 13-1: Per la
storia del culto della Madonna della Cava è interessante leggere la
presentazione che il sacerdote Filippo Marotta fa alla Relazione
critico-storica di Padre Dionigi Bongiovanni nel libro “Pietraperzia dalle
origini al 1776”, nell’edizione del 1998].
Ora questa è asfaltata, ma una volta era una trazzera sabbiosa con
cespugli di erbe spinose. Dove la sabbia veniva calpestata si formava
polvere fine per uno spessore di parecchi centimetri che rendeva il
cammino difficoltoso. Abbiamo sempre fatto pellegrinaggi a piedi alla
Cava, sia per devozione che per accompagnare i devoti o per consuetudine,
recitando il Rosario e cantando Salvi di Rigina Madonna di la
Cava. Ricordo il pellegrinaggio nell’Anno Santo 1950 con
l’effigie della Madonna di Fatima, per la quale si fece un mese di
festeggiamenti e per l’occasione venne un missionario, Padre Angelo
Minisola, che col suo contagioso entusiasmo conquistò tutta la
popolazione, anche la miscredente. Lo si vide correre scalzo fra le spine
della trazzera, allegramente indaffarato nel coordinamento del viaggio,
destando impressione al confronto coi nostri sacerdoti di allora che
facevano il viaggio in macchina, quando ancora ce n’erano poche (oggi
sarebbe assurdo pretendere il contrario).
Molti vanno in pellegrinaggio al Santuario durante tutto l’anno, ma nel
mese di maggio varie categorie di lavoratori o associazioni fanno i
“sabati”, così chiamati per il giorno settimanale in cui vi si recano.
Negli anni Sessanta e Settanta compivano il viaggio anche gli emigranti,
poi l’hanno fatto gli automobilisti e infine i camionisti e trattoristi,
che hanno sostituito gli scomparsi carrettieri, il cui “sabato” era il più
bello e caratteristico.
Ora,
in occasione delle feste dei Santi Patroni che culminano a Ferragosto, per
la via principale e la grande piazza del paese, vien fatta una
spettacolare sfilata di oltre trenta bellissimi carretti siciliani
provenienti da ogni parte dell’isola. Tutti completamente dipinti con
vivaci colori in disegni vibranti, hanno i riquadri delle pareti esterne
delle sponde illustrate con scene della vita di Orlando ed altre storie.
Li trainano superbi cavalli con alti pennacchi, sfarzosamente addobbati.
Sui pianali stanno giovani in costume che suonano fisarmonica, chitarra,
zufolo e tamburello. Si crea una grande e festosa animazione di colori,
musica, voci, strepito di ruote e ferri di cavallo che battono sul
basolato e a volte scivolano per qualche centimetro. Il magnifico e lungo
corteo merita la partecipazione di un pubblico molto numeroso, ma la
manifestazione si svolge in un giorno infrasettimanale e non ci sono molti
turisti, a parte i concittadini emigrati che ancora tornano per le
festività.
La
kermesse per i Santi Patroni inizia negli ultimi giorni di luglio,
con l’arrivo dei primi emigranti, e si protrae per tutto il mese di
agosto, con varie manifestazioni sportive (immancabile un torneo
calcistico), culturali, spettacolari e le luminarie in piazza e nelle vie
della passeggiata.
Fino
ai primi anni Sessanta si festeggiava solo nei giorni 14, 15 e 16. In via
eccezionale anche il 13 o il 17, se cadevano di domenica. Di gare sportive
a volte si faceva una corsa ciclistica. C’erano li pignateddi e
l’antinna, ossia l’albero della cuccagna. Le prime erano pentole di
terracotta appese ad una corda, che all’interno contenevano cose varie: un
oggetto, un coniglio, un pollo, ma anche della crusca o, raramente, perché
poteva trasudare, acqua. Si scopriva il contenuto a sorpresa, scegliendo
la pentola da rompere e pagando per farlo. Gratis invece era l’arrampicata
sull’albero della cuccagna, a cui partecipavano dei giovani scalcagnati
che speravano di guadagnarsi il pranzo della festa, se raggiungevano il
premio posto sulla cima: un pacco di pasta, un pollo vivo terrorizzato e
una bottiglia di vino. Bastava toccare la parte più bassa che di solito
era la cresta del gallo appeso per i piedi. Non risultava però facile, in
quanto il palo veniva ricoperto di sapone simile al grasso che usano i
meccanici. Se nessuno ci riusciva, il premio comunque andava in regalo a
quelli che avevano tentato, e se erano in molti c’era il rischio che
litigassero. Qualche volta si faceva un’altra gara, crudele, per pezzenti
che, tenendo le mani legate dietro la schiena, dovevano staccare con i
denti una moneta incollata sul fondo esterno di una padella nuova,
ricoperto di fuliggine o di crema da scarpe nera, penzolante da una
cordicella. Di solito le padelle erano due per incitare all’agonismo i
concorrenti. Difficilmente riuscivano a concludere la gara, ma quando il
pubblico era soddisfatto dello spasso offerto dai miserabili che si erano
prestati a dare spettacolo, le padelle venivano comunque regalate, magari
con qualcosa da mangiare.
I
festeggiamenti erano organizzati dalla Chiesa, ma la responsabilità delle
manifestazioni era dei comitati laici. Le spese si raccoglievano andando
casa per casa con mule e cavalle riccamente bardate, con fiocchetti e
specchi nel basto e nell’imbraca, dalla quale lateralmente penzolavano due
o quattro nappe sgargianti. I giovani facevano a gara per poter
partecipare, in quanto avrebbero avuto occasione di sfoggiare le loro
cavalcature, farsi notare dalle ragazze e adocchiarle, quando bussavano
alle porte dei cittadini per l’offerta, che di solito era in grano. Ora ci
pensa il Comune con il contributo proprio e della Regione e le cose perciò
si fanno più in grande.
Prima che l’agricoltura si motorizzasse, si faceva la fiera (fera)
del bestiame. Gli uomini vi partecipavano anche se non avevano da
commerciare. Ovviamente bisognava fare attenzione, andando in giro, a non
prendersi un calcio da qualche mulo fanzu. Ma bisognava stare più
attenti a non comprarli, perché certi padroni, ma più facilmente i
mediatori (mizzani), sapevano renderli mansueti almeno per il tempo
necessario a concludere l’affare.
La
fera (mercato) invece, che si svolgeva con molti stands (barracchi)
di oggetti vari – occupando anche la piazza –, era una grande occasione
per visitare le varie esposizioni, non essendoci a quei tempi il mercato
settimanale. C’era quindi maggiore interesse e curiosità per i prodotti
esposti e ciò vivacizzava gioiosamente la festa dal pomeriggio fin dopo la
mezzanotte.
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Nello spiazzo della Sirbia veniva il luna park (li
giostri) per il divertimento dei giovani. Gli altoparlanti
diffondevano le canzoni in voga e davano un’aria festosa per tutti. Alcuni
facevano sfoggio della propria forza dando una spinta a un carrellino
pesante su un binario, che andava a girare in una ruota verticale. Ma
valeva più la pratica che la forza. Al tiro a segno tutti si sentivano
tiratori scelti. C’erano le gabbie rotanti (due o tre cabine accostate),
in ognuna delle quali entravano due giovanotti, o solo uno, spingevano
avanti e indietro, facendo oscillare la gabbia, che restava sempre nella
posizione verticale, perché imperniata a sua volta in una estremità di un
bilanciere, fino a farle compiere giri completi. Lo stesso si poteva fare
con altri mezzi a forma di barche, ma queste erano fisse a un doppio
braccio e, quando si raggiungeva la sommità, ci si trovava a testa in giù,
col vuoto sotto. Ciò poteva risultare pericoloso, specialmente nel tempo
che la barca stava un po’ ferma nell’incertezza di girare dall’altra parte
o tornare indietro. Nell’autoscontro andavano anche gli adolescenti e per
tutti il piacere era di sbattere contro gli altri. Nella giostra volante
salivano anche i fanciulli. Ci si divertiva ad afferrare il sedile di chi
stava davanti e dargli una spinta. Ma molti arrotolavano la catena, poi
lasciavano la presa e il sedile girava veloce nel senso inverso.
Ovviamente a qualcuno provocava il capogiro. Le donne preferivano la
pesca. Qualche volta veniva il baraccone delle attrazioni, dove facevano
trucchi di magia e di levitazione. Ricordo anche la donna ragno: una
bellissima ragazza col corpo nascosto in un finto grosso ragnone.
In
piazza c’era il caramellaio che faceva le caramelle sul posto. Appendeva
un cordone di pasta dolce e collosa a un gancio e lo stirava e ristirava
finché non raggiungeva la giusta consistenza. I fanciulli aspettavano la
conclusione per vederlo tagliare a pezzi e comperarne qualcuno chiamato
bombolone. Essendo stati fatti di fera (avendo cioè ricevuto regali
in denaro – cinque o dieci lire – dai genitori, dai nonni e da qualche
zio), potevano spendere i pochi soldi che possedevano. Io mi vergognavo di
andare dai nonni nei giorni di festa perché mi sembrava che lo facessi per
i soldini, ma loro me li davano lo stesso alla prima opportunità. Ero il
primo nipote di tutti e quattro i nonni, ma quelli paterni mi coccolavano
di più, fors’anche perché facevo l’erede, come si diceva, nel senso
di perpetuare nome e cognome. Da piccolo restavo da loro anche per più di
un mese. Poi, ogni volta che vi andavo, mia nonna mi dava sempre qualcosa,
come due noci, fichi secchi, una pera invernale, qualche dolcino… Erano
piccole cose che mostravano grande affetto. Nella loro casa c’erano anche
libri, oggetti non facili da trovare nelle famiglie di scarsa cultura.
Ricordo che vi lessi Pinocchio e un vecchio libro dell’Ottocento
ch’era una riduzione della Bibbia. Mia nonna teneva gli occhiali,
ma quando doveva infilare la refe nella cruna dell’ago aveva qualche
difficoltà e chiedeva il mio intervento. Per chiudere questa parentesi,
dirò che allora i nonni erano chiamati col nome preceduto da “mamma” o
“papà”: mamma Mara Ca’, papà Vicì (mamma Maria Cava e Papà
Vincenzo). Il nome non veniva troncato quando si parlava di loro: la
mamma Mariuzza, lu papà Micheli, per citare i nonni materni. E
torniamo alla festa.
Nei
tre giorni di celebrazione, alcuni colpi di mortaio danno la sveglia al
mattino ed altri più tardi annunciano il mezzogiorno.
Santuario della Cava
-
1999,
acquerello 51x36
La
sera del 14 agosto si fa il pellegrinaggio al Santuario della Madonna e si
partecipa alla Messa che viene celebrata sul piazzale, posto curiosamente
sul lato sinistro della chiesa. Una volta in esso vi erano erbe
cespugliose e spinose, ma ora vi è un bel giardino, con fontana e vialetti
e spazio asfaltato per le funzioni religiose, dovuto all’infaticabile
sacerdote Bongiovanni, parroco di Santa Maria e vicario del vescovo, che
ha fatto costruire pure una foresteria e un bar. I paesani ne approfittano
per portare i bambini a giocare nelle sere d’estate, godersi il fresco e
prendere un gelato. Dopo la santa Messa vengono sparati i fuochi
artificiali.
La
sera del 15, festa di Ferragosto, che la Chiesa dedica all’Assunta, si
porta in processione il palio della Madonna della Cava. Questo è di
proprietà laica e quindi non ha sede in nessuna chiesa. La sera del 16 si
fa la processione col simulacro di San Rocco.
Nelle due sere si assiste a concerti di complessi musicali e cantanti noti
a livello nazionale, che si esibiscono sul palco eretto davanti alla
chiesa di Santa Maria. Quasi tutti cantano in play back, con
diffusori molto potenti da rompere i timpani, ma i ragazzi si mettono
tutti il più vicino possibile per vederli meglio. Dietro a loro stanno i
meno giovani, andati presto per trovare i posti a sedere, volendo
approfittare di questa occasione per vedere dal vivo personaggi famosi.
Altri ascoltano seduti ai bar, bevendo bibite fresche o mangiando gelati e
brustolini, arachidi o ceci tostati. Complessi di minor notorietà,
musicali o teatrali si esibiscono in altre sere del periodo dei
festeggiamenti.
Una
volta i bar speravano in quei due giorni di festa per guadagnare col
grande consumo di pizzetti, che non sono piccole pizze ma pezzi di
gelato-cassata, e facevano gli scongiuri affinché il tempo non li
tradisse. C’erano molti che il gelato lo prendevano solo in quella
occasione, anche se nel cono lo si vendeva da San Giuseppe a fine estate,
ma era considerato leccornìa per bambini e i grandi si vergognavano di
leccarlo. Ora lo prendono tutti e i giovani tutto l’anno.
In quei tempi si facevano concerti bandistici su un apposito palco di
legno, con il podio per il direttore e gradoni a semicerchio su cui si
disponevano i musicanti, che eseguivano sinfonie e pezzi d’opera, finendo
poi con musica leggera. La sera dell’Assunta si esibiva la banda
cittadina, allora per molti anni diretta dal maestro Buccheri, lu
Vrichìnu; la sera di San Rocco veniva una banda da fuori per suonare
lo stesso genere di musica. Il palco stava montato davanti alla chiesa di
san Rocco e qualche volta al centro della piazza.
Tutte le feste patronali si chiudono coi classici fuochi pirotecnici fatti
di botti e giochi luminosi, che possono essere visti anche da lontano. Da
noi, per prolungare la festa e favorire le spese e il divertimento,
vengono eseguiti dopo la mezzanotte. Una volta li “spararono” addirittura
dopo le tre. Quand’ero ragazzo, i fuochi d’artificio erano fatti con
girandole poste su degli appositi pali e di solito giravano in senso
orario, ma qualcuna era predisposta a cambiare direzione. Erano belle
anch’esse con varie luci e scoppiettii (giravano, scoppiettavano e
riprendevano a girare, per finire scoppiettando), non facevano temere
grandi rischi e l’esecuzione avveniva in piazza. Il finale poteva essere
fatto con l’apparizione di fiammelle che componevano la scritta “W S.
Rocco”, (in altri casi “W Maria”). Ma si chiudeva immancabilmente con lo
sparo di mortai, di cui l’ultimo, come adesso, era più forte di tutti per
indicare la fine della festa.
La
Madonna di Pietraperzia
(linee dell'immagine della Madonna della Cava)
2000,
acrilico su cartone telato 40x50
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