I TEMPI CAMBIANO
di Vincenzo Ballo |
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Quando il 10 luglio 1943 gli angloamericani sbarcarono in
Sicilia, ci fu lo sfollamento dai paesi e noi andammo a Camercia, dove avevamo
un casolare nell’unico fondo in affitto, detto a ttirraggiu o gabella, di
circa due ettari.
Un giorno passò un militare forse disertore, con uno zaino sulle
spalle e il fucile in mano tenuto basso orizzontalmente. Non ricordo cosa disse,
né la sua nazionalità, ma credo che fosse italiano, perché mi pare di ricordare
che aveva la divisa con le fasce alle gambe e la “bustina” sul capo; forse era
siciliano con la voglia di restare vicino alla famiglia. Ci chiese da mangiare e
gliene offrimmo. Quando passò un aereo si alzò a guardarlo dall’interno della
casa, per individuarne nazionalità, provenienza e direzione, commentando con mio
padre, senza difficoltà di comprensione.
Nel cielo
c’era traffico di aerei diversi e alcuni portavano a rimorchio gli alianti. I
nostri Cicogna sembravano avere una certa grazia, ma quando passavano i temibili
“due code” americani, ci domandavamo preoccupati dove andassero a bombardare.
Grande era l’ansia quando i boati delle esplosioni provenivano dal paese.
Infatti vi furono alcuni danni e una bomba dilaniò la signora Rosa Farinelli
all’angolo di via Verdi con via Sabotino, un’altra distrusse una casa vicino al
teatro Comunale, che rimase gravemente danneggiato, e una ancora provocò un
cratere vicino all’attuale via della Pace, prima del bivio per il cimitero.
Nelle strade statali vidi colonne di militari in ritirata e altre
in avanzata. Gli americani lasciavano scatolette di carne (non ne avevamo mai
viste), sigarette e, sparsi nella campagna, bidoni e barili di metallo vuoti,
oltre a vari bossoli.
Ovviamente lasciarono anche bombe inesplose, e ricordo i pianti
disperati dei famigliari di un uomo dilaniato dall’esplosione di una bomba che
lui voleva aprire per recuperare la polvere. Sentii dire che parti delle sue
membra erano andati ad appendersi sui rami degli alberi. Salvatore Culmone, un
ragazzo fratello del nostro studioso di cose pietrine, morì per un ordigno
lanciatogli per scherzo da incoscienti amichetti.
Anch’io, bambino, giocando appena fuori dall’abitato, sotto la
chiesa di San Francesco, vidi un oggetto come un piccolo ananas (frutto che
allora non conoscevo), sembrava bello e lo presi incuriosito. Fortunatamente se
ne accorse un uomo e mi disse di lasciarlo stare perché era una bomba a mano.
Il Governo militare alleato nominò in Sicilia prefetti, sindaci,
nuovi magistrati, rettori e professori universitari. Oltre l’80 per cento del
potere amministrativo fu dato a mafiosi e separatisti, che proprio il giorno
dello sbarco avevano proclamato il Movimento indipendentista siciliano. E
introdusse una nuova cartamoneta chiamata AM lira, che condannava a una grossa
svalutazione quella precedente.
La guerra sarebbe finita quasi due anni dopo, con la sconfitta
della Germania e la resa del Giappone, dopo le due bombe atomiche americane che
distrussero Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del ‘45. E sarebbe cambiata un’era.
Un po’ alla volta tornarono i militari sopravvissuti, ma non
tutti; i prigionieri sarebbero tornati successivamente, tranne quelli rimasti in
Russia, di cui non si sapeva e non si sarebbe saputo più nulla. Ricordo una
mamma che se ne stava seduta in una sedia sul piano della scala esterna (astricu)
e volgeva lo sguardo continuamente verso la strada, lontano, nella speranza di
vedere apparire il figlio, che non tornò. E una donna con figli piccoli che non
sapevano nulla del proprio caro e non lo videro mai più tornare. Alcune
avrebbero avuto necessità di risposarsi ma non era possibile perché il loro uomo
poteva essere vivo. E in certi casi lo era, salvato magari da una donna di
quella terra “nemica” dove c’erano stati milioni di morti e gli uomini
scarseggiavano. Il prigioniero in tenere braccia decideva di restare per
gratitudine o perché convinto che ormai a casa lo ritenessero morto, alla sua
famiglia avrebbero dato una pensione e per lui non valeva la pena di tornare
dove l’aspettava una vita di stenti e di fame. Perché, anche se l’Italia era
diventata Impero, molti pativano la fame come nel Terzo mondo di oggi.
La
miseria allora era molto diffusa. Ce n’erano tanti che non mangiavano per
diversi giorni. Parecchi non avevano vestiti di ricambio e portavano sempre gli
stessi, sporchi e laceri; anche per chi non si considerava povero era normale
indossare abiti rattoppati. Molti bambini non avevano scarpe e camminavano a
piedi nudi nel fango, d’inverno, e nella polvere, d’estate, col rischio di
ferirsi con chiodi o pezzi di vetro, che era facile incontrare per terra. Quei
piedi sporchi se li lavavano per gioco solo nell’acqua in piena quando pioveva.
Non si curavano dei raffreddori e forse si erano irrobustiti con le difficoltà
superate, ma parecchi tossivano rumorosamente.
Adulti e bambini facevano volentieri qualche commissione, che
veniva compensata con una fetta di pane.
Si era poveri ma non si rubava come adesso. Qualche furtarello lo
si commetteva per fame: un sacchetto di fave, in aprile, un covone di grano, a
giugno-luglio, poi mandorle, olive. D’inverno rimaneva da rubare solo qualche
fascina di legna per scaldarsi più che cucinare, non essendoci niente da
mangiare. Qualche bambino strappava un pezzo di pane o una sciarpa a un altro e
fuggiva via.
Per le strade giravano molti mendicanti che venivano da altri
paesi. I monelli non avevano pietà, per ignoranza e abbrutimento godevano
facendo male agl’infelici, miseri come loro, unica occasione di divertimento.
Mi ricordo che a un povero vecchio offrirono un pezzo di pane duro, sul quale
prima avevano urinato. Il disgraziato lo accettò ringraziando, credo senza
notare la “manipolazione” perché il pane si era asciugato. A un altro miserabile
che dormiva dietro una porta di un luogo disabitato, gli orinarono addosso.
Quasi tutti i ragazzi dileggiavano i mendicanti scemi, storpi e ciechi per le
loro disgrazie, e qualche volta li prendevano a sassate; così come facevano con
i gatti e i cani. Con questi ultimi il divertimento era maggiore quando li
sorprendevano congiunti, e spesso aspettavano che finissero, per farli fuggire e
vederli correre lateralmente con molta sofferenza. Non si salvavano i passeri e
nemmeno i pipistrelli che nelle sere d’estate venivano a volare nelle strade per
cibarsi degli insetti. Con canne o bastoni tentavano di colpirli, ma
difficilmente ci riuscivano e non capivano il perché, ignorando che fossero
dotati di un sistema radar.
Non c’era
pietà per gl’infelici con menomazioni fisiche diverse che oggi accomuniamo
nell’unica definizione di handicappati: erano derisi e disprezzati. Le famiglie
se ne vergognavano, perché venivano moralmente marchiate, li tenevano chiusi in
casa e spesso li trattavano senza riguardo.
La miseria era materiale e morale.
[Segnalibro: morale]
Si
sputava sul pavimento o, per non sporcarlo con densi catarri, si sgraccava
fuori dalla finestra. In un angolo dei locali pubblici, come dal barbiere, c’era
la sputacchiera. D’altronde, fino all’Ottocento, anche in certe corti europee ci
si liberava della saliva in eccesso con lo sputo.
Gl’indumenti si lavavano con un tipo di sapone che si vendeva
sfuso, un po’ più denso del grasso lubrificante, oppure con cenere del mesocarpo
di mandorle (cìnniri di mìnnula). Con l’endocarpo invece si faceva la
brace (ginisi), migliore di quella più comune derivata dai rami, usata
principalmente per gli scaldini che tutti possedevano, anche più d’uno.
Erano chiamati scarfatura e, oltre che tenerli vicini
durante il giorno, si mettevano tra le lenzuola per scaldare il letto prima di
andare a dormire. Lenzuola e coperte a volte erano protette dal trabiccolo, che
avvolgeva lo scaldino, e di solito serviva per mettervi ad asciugare pannolini,
tovaglioli e altri piccoli capi di biancheria.
Quando i letti non erano sufficienti per tutti, per guadagnare
spazio si dormiva in posizione alternata, cioè uno con la testa in una direzione
e il vicino nella direzione opposta, cosicché ciascuno si trovava con la faccia
accanto ai piedi puzzolenti dell’altro. A qualcuno i piedi uscivano fuori dalle
coperte e allora piegava le ginocchia, ma se le teneva basse, di lato, dava
fastidio a chi gli stava accanto e se le teneva alzate dava fastidio a tutti,
perché sentivano freddo e chi stava all’esterno restava un po’ scoperto. Perciò
era una continua lotta, finché il sonno non metteva a tacere.
Nelle sere d’inverno ci si riuniva in una stessa stanza, a volte
anche con amici o parenti vicini di casa, e si conversava, mentre le donne di
solito facevano la calza o lavoravano a maglia e si scaldavano con lo scaldino a
terra, sotto le cosce. Qualcuna filava la lana e se c’era da fare i gomitoli con
le matasse, queste a volte le tenevano i bambini. Lana e vestiti si coloravano
in casa. Quando le donne erano inattive, tenevano le braccia conserte, oppure
mettevano lo scaldino sopra la gonna che copriva le cosce e vi appoggiavano le
mani. Sulle spalle di solito tenevano una sciallina di lana semicircolare
o rotonda piegata in due, abbastanza bella, da loro stesse fatta all’uncinetto,
con disegni modulari che lasciavano molti vuoti. Raramente gli uomini tenevano
lo scaldino, perché si vergognavano, e si mettevano addosso un ruvido scialle di
lana o una coperta, una sciarpa al collo e il berretto (tascu) in testa.
Per la notte molti dormivano con una berretta di tipo arabo, ed era questa che
noi chiamavamo cuppula. Per il freddo, qualcuno lamentava i geloni, ma
faceva male anche tenere le estremità troppo vicine al fuoco.
Si stava bene in compagnia e ci si poteva sentire felici con
poco. Le donne anziane raccontavano le favole che si erano tramandate oralmente,
sia le celebri che quelle locali, pure bellissime, delle quali purtroppo non
rimane traccia.
A volte il più bravo nella lettura, anche se a scuola era
arrivato solo alla seconda o terza elementare, leggeva romanzi che gli altri
ascoltavano volentieri e ogni tanto commentavano con interesse. I libri più
letti erano i pochissimi che qualcuno teneva chiusi in un cassetto, perché non
erano ritenuti interessanti per l’arredo della stanza. Ma anche gl’ignoranti
conoscevano La Divina Commedia, qualcuno addirittura in buona
parte a memoria, Il Ponte dei Sospiri, I Reali di Francia, I
Cavalieri della Tavola Rotonda, Guerrin Meschino, Le Mille e una
Notte, Paolo e Francesca e molti romanzi di Carolina Invernizio.
In mancanza di alimentazione elettrica, si leggeva accanto a una
lucerna (lumera) ad olio o di un lume a petrolio. Qualcuno aveva quello a
gas (con la lampada di cotone che alla prima accensione si era carbonizzato e
non bisognava assolutamente toccare, altrimenti si sbriciolava) ma lo si
accendeva solo nelle grandi occasioni. L’energia elettrica c’era sin dal
1927-28, ma non in tutte le abitazioni, fornita dalla ditta Martorana, coi
generatori situati in un locale isolato, dove ora c’è la fontana nella piazzetta
di Santa Croce. In tutte le strade, poco sotto la gronda delle case, passavano
tre fili elettrici, sui quali si posavano gli uccelli.
All’inizio della guerra il servizio era stato interrotto e
quando, alla fine, fu riattivato, per la fretta fecero gli allacciamenti senza
le minime misure di sicurezza. A casa nostra posero i piccoli cavi elettrici
sopra l’uscio, senza nessuna protezione. La porta era allannata
(rivestita di lamiera inchiodata) e col movimento di apertura e chiusura ne
grattò i rivestimenti, mettendo allo scoperto i fili conduttori, prima che ce ne
accorgessimo. Successe così che un giorno, uscendo di casa per andare a giocare,
infilai due dita di una mano nel buco della serratura, poiché non c’erano altri
appigli per chiuderla, e vi rimasi attaccato, penzolando verso la strada, con un
solo piede sul gradino della soglia (ce n’era un altro più in basso), formando
un triangolo col braccio, il corpo e la porta. Io non riuscivo a gridare ma
gridarono delle vicine che si avvidero del pericolo. Mia madre accorse ad
aprire, togliendo così il contatto, ed io andai a sbattere a terra in mezzo alla
strada. Dopo questo fatto vennero gli operai a fare un buco nel muro e vi
infilarono una canna come tubo in cui passare i cavetti. Dopo due-tre anni
subentrò la Società Generale Elettrica Siciliana e gl’impianti furono fatti con
maggior sicurezza. La nuova illuminazione la chiamammo luci di Catania o
luci bianca, perché le lampadine davano una luce più chiara.
[Segnalibro: unrra]
L’organizzazione internazionale di assistenza Unrra, nata nel ’44, da noi fu
attiva a partire dall’anno successivo. Cominciarono ad arrivare pacchi
americani: tra l’altro, gli Stati Uniti mandavano abiti usati da regalare alla
popolazione stracciona, ma venivano venduti al mercato nero. Alcuni li
ricevevano direttamente dai parenti, altri scrivevano loro per chiedere che
glieli mandassero. C’era l’illusione che lì fossero tutti ricchi e quando
alcuni, uomini o donne, nel dopoguerra vennero in Italia per sposarsi, le e gli
italiani li presero a scatola chiusa.
Per le strade e nelle case sparsero il DDT, un disinfettante il
cui utilizzo poi fu vietato per la sua alta nocività, ma intanto era servito a
debellare pulci, pidocchi e cimici, allora comuni compagni di tutti. (Quando uno
aveva strane pretese, gli si diceva: “chi ccià piducchi ‘ntesta?”). Anche
il numero delle mosche si ridusse, ma quelle che sopravvissero generarono una
discendenza più robusta e più resistente ai disinfettanti. Oggi comunque ce ne
sono molto meno di una volta.
Lu vanniaturi (banditore) passava per comunicare,
gridando, le ordinanze comunali, annunciare l’arrivo del pesce in pescheria,
chiedere chi avesse trovato qualcosa che qualcuno aveva perduto, eccetera. Lo
accompagnava solitamente una bambina, sua figlia, perché lui era cieco, a causa
di qualcosa che aveva messo negli occhi per farsi esonerare dal servizio
militare.
Intanto la vita riprendeva con migliori speranze. Per le vie
passavano vari ambulanti, di cui molti erano forestieri. Sembrava strano che
alcuni comprassero o barattassero capelli. E alcune donne se li tagliavano per
ottenere in cambio piccolezze, come bamboline e spilli da balia. Con la speranza
di un futuro migliore, si compravano i fogliettini della fortuna dall’ambulante
col pappagallino in una gabbietta, che li estraeva da dei cassettini. Qualche
volta passava l’organino meccanico e l’uomo che girava la manovella vendeva i
foglietti con i testi delle canzoni. C’erano gli ambulanti che compravano uova,
stracci, e quelli che vendevano stoffe e altri generi caricati sulle spalle.
Qualcuno aveva il somarello sul quale caricava frutta o verdura, ed altri
caricavano i prodotti sui carretti. In Sicilia non c’è stato mai il monopolio
del sale e passavano a venderlo per le strade. Un cavallo poteva tirare fino a
sette quintali di merce, ma una parte veniva lasciata nel fondaco, perché non
era logico girare a pieno carico. Inoltre le traverse delle strade erano in
pendenza e spesso bisognava aiutare l’animale, spingendo o trattenendo il
carretto. (Nelle vie pianeggianti i monelli vi si aggrappavano dietro, di
nascosto, per farsi trasportare). Si poteva barattare tutto con fave o grano. Le
donne li rubavano da casa ai mariti che non volevano sentirsi chiedere denaro,
ma non si domandavano poi da dove arrivasse quella roba necessaria per la
famiglia. Anche la biancheria era barattata furtivamente e gli uomini se ne
accorgevano quando fidanzavano le figlie. Qualche ragazza era costretta a
ricamarsela di nascosto. Se non ci fossero state le mamme previdenti, molte
ragazze si sarebbero trovate senza dote al momento di accettare un matrimonio.
Ogni
tanto passava il fotografo ambulante, con la sua grossa macchina di legno col
tre piedi. Egli, dopo lo scatto, immergeva il negativo su carta nella bacinella
con l’acido all’interno della camera oscura, attendeva lo sviluppo, poi lo
tirava fuori e lo faceva aderire capovolto a una parete di legno che sporgeva
dalla macchina di fronte all’obiettivo e, con la testa nascosta dentro un
cappuccio nero comunicante con la camera, faceva tanti scatti per quante copie
gli si chiedevano. Quando apriva la “scatola”, noi ragazzi sbirciavamo dentro
per vedere le immagini capovolte. In paese c’era un fotografo, ma faceva solo
foto in studio per il ricordo delle grandi occasioni, come per il matrimonio (e
gli sposi andavano da lui alcuni giorni dopo la cerimonia), per le foto di
famiglia e quelle per i figli piccoli.
Passava il gelataio col suo triciclo, gridando: “’O piccolo
barro”. Non capivo il significato di “barro” o perché chiamasse così il suo
carretto. Solo molti anni più tardi avrei conosciuto i bar, ma allora al paese
c’erano i “caffè” che comunque erano diversi. Oggi ci sono i pub
(pronuncia pab), che possono essere considerati la versione delle osterie
per la birra.
Ogni ambulante gridava il nome della merce che trattava e i monelli facevano il
verso a tutti.
[Segnalibro: ragazzi]
Per i ragazzi vennero di “moda” gli zoccoli di legno, bassi, con
strisce di cuoio. Per le signorine erano alti, senza vuoto tra suola e tacco,
venivano indossati con calzettoni corti di colore bianco. Poi gli zoccoli
femminili divennero di sughero, più leggeri e meno rumorosi. E intanto, chi
poteva permetterselo, si faceva fare le scarpe “apposta” dal calzolaio.
Erano di pelle di vitello e gli scarponi, almeno per i contadini e i loro figli,
avevano le suole chiodate, con bullette a testa larga a punta di diamante,
affinché durassero di più. Perciò per i ragazzi si costruivano di una misura più
grande.
Cominciarono a vedersi mezzi a motore. Ma le macchine che
passavano in un giorno non raggiungevano il numero delle dita di una mano. E
poiché le statali non erano asfaltate, le poche auto che le percorrevano
sollevavano tanta polvere che impedivano di vedere altro a chi si fosse trovato
eventualmente dietro. La corriera, col vano motore sporgente davanti, certi
giorni era l’unico mezzo circolante. I bagagli venivano posti sopra il tetto e a
volte vi salivano i viaggiatori che non trovavano posto dentro. In paese c’era
il fratello maggiore dei Bertini che aveva una moto Guzzi. Ogni tanto venivano
un paio di giovanotti forestieri a fare un giro attorno alla nostra piazza con
una macchina che andava molto lenta, tanto che noi ragazzi la rincorrevamo, ci
salivamo sopra, aggrappandoci alla ruota di scorta (che allora era avvitata alla
parte posteriore, sullo sportello verticale del piccolo bagagliaio) e ci
facevamo trasportare per un tratto. Nello scendere, per non cadere nel toccare
terra, bisognava rimanere aggrappati con le mani, e correre insieme
all’automobile, quindi darle una spinta per lasciarsi andare e proseguire la
corsa rallentando fino a fermarsi. Nelle visite successive quella macchina
divenne un po’ più veloce, specialmente quando imboccava la via Di Blasi per
lasciare il paese, e allora era prudente scendere prima che uscisse dalla
piazza.
C’erano i fratelli Mastella che avevano un camion con cui
lavoravano facendo di tutto. Era talmente scassato che in paese, per un oggetto
malridotto, si diceva la battuta: “E chi iè a molla, cumu lu camiu di
Mastella?”. Ma era d’ammirare la loro abilità meccanica.
Intanto i separatisti, alla cui testa vi erano “politici
emarginati, mafiosi e nobili”, nel ’45 crearono l’Esercito volontario per
l’indipendenza della Sicilia, con volontari idealisti, delinquenti comuni e
banditi. All’ingresso di questi ultimi era contrario il capo dell’Evis Antonio
Canepa, ma fu fatto uccidere dai carabinieri. Molti servitori dello Stato
sarebbero stati sacrificati nei giochi di guerriglia, specialmente con
l’ingresso del bandito Giuliano, che assumerà il comando col grado di
colonnello. Dicevano di combattere per l’indipendenza ma il fine era di passare
sotto l’amministrazione degli Stati Uniti d’America.
Poi lo Stato concesse l’autonomia regionale, mentre la nobiltà
separatista pensava di offrire il trono della “libera Sicilia” a Umberto di
Savoia, il quale però dovette firmare il decreto di approvazione dello Statuto,
diciassette giorni prima del Referendum che abolì la monarchia.
La milizia cominciò a sfaldarsi, la “giustizia” prese a
inquisire, ma i capi del movimento non venero incriminati, i volontari ingenui
furono trattati con clemenza e solo i banditi vennero incarcerati. Tranne quelli
della banda Giuliano, perché se ne aveva ancora bisogno per combattere il
comunismo, e ci sarà la strage di Portella della Ginestra. Finché, tornato un
po’ l’ordine, il bandito di Montelepre, che ci descrivevano come un novello
Robin Hood, non sarà eliminato.
[Nota 18-1: “Il Movimento separatista
siciliano di fine guerra” di Davide Bellalba].
[Segnalibro: dc]
Una volta sciolto il Movimento, mafiosi e separatisti, o meglio
mafiosi-separatisti, confluirono nella DC, che vedevano destinata al potere.
L’onorevole democristiano Giuseppe Alessi raccontò che si era
opposto all’ingresso nel partito di tutto uno schieramento di mafiosi, volendo
esaminare la posizione di ognuno. Ma fu persuaso ad accettarli tutti nel loro
“complesso organico”, perché era necessaria la loro protezione contro le
violenze dei comunisti. Il "gruppo entrò in massa e da quel momento si appropriò
del partito" (2).
[Nota 18-2:
Andrea Camilleri in MicroMega, Novembre
1999, su Internet, febbraio 2003].
Effettivamente i comunisti si erano fatti spavaldi e mettevano
paura agli agrari con quello che andavano gridando, alcuni tentativi di
occupazione delle terre e la loro pretesa di dividere il raccolto dando i 3/5 ai
mezzadri.
Per
frenare l’avanzata del comunismo, il segretario di Stato americano Marshall
propose un piano di aiuti per la ricostruzione europea, che avrebbero apportato
vantaggi pure agli States. E di sicuro “il Piano Marshall preservò le economie e
la libertà dell’Europa occidentale”.
[Nota 18-3: Paolo Avanti su Internet,
febbraio 2003].
Il 18
aprile 1948 si svolsero le elezioni politiche in Italia, precedute da una
campagna molto agguerrita. Specialmente tra i due schieramenti, Democrazia
Cristiana (aiutata dalla Chiesa e sovvenzionata dai dollari americani) e il
Fronte Democratico Popolare (socialcomunisti aiutati dall’Unione Sovietica).
Particolarmente efficace la propaganda democristiana che, esagerando, paragonava
il comunismo al diavolo, dicevano che i comunisti mangiavano i bambini,
distribuivano molti volantini e opuscoli, tra i quali ricordo un racconto a
fumetti in cui migliaia di persone venivano trasportati nei carri bestiame
senz’acqua né cibo, attribuendo ai comunisti sovietici il trattamento che i
tedeschi riservavano ai deportati. E un efficace disegno con la testa di
Garibaldi, simbolo del FDP, che capovolto diventava la testa di Stalin. Infine
invitavano a riconoscere gli aiuti degli Stati Uniti. I comunisti promettevano
democrazia e ricordavano le ingiustizie e le oppressioni subite dalle masse.
Nelle discussioni, spesso vivaci, fra la gente comune, più che discutere dei
problemi italiani, si disputava sui pregi e i difetti dell’America e della
Russia, com’erano comunemente chiamate le due superpotenze. Il fanatismo spesso
conduceva al ridicolo. Ricordo un bracciante che mise un papavero sulla testa
del suo somaro carico d’erba e, standogli alla coda per meglio spingerlo a
camminare (ché a tirarlo per la redine avrebbe opposto resistenza) tutto fiero
andava dicendo: «Anche lui è comunista».
Perché tutti potessero votare furono mobilitate le poche
automobili disponibili e si andava a prendere gli invalidi e gli ammalati a casa
o anche all’ospedale per guadagnare più voti possibili.
La Democrazia Cristiana ottenne il 49% dei suffragi e la
maggioranza assoluta dei seggi, De Gasperi formò il governo con alcuni partiti
minori e ci si diede da fare per la ricostruzione.
Al paese cominciarono ad asfaltare le strade. Si cominciò a
vivere un po’ meglio. In molti comperarono l’apparecchio radio, spesso col
giradischi incorporato. Quando l’accendevano di giorno, tenevano il volume alto
e le finestre aperte. Ed era un piacere potere ascoltare gratis da casa o magari
dalla strada, godendosi il bel sole di primavera, le orchestre Angelini e Fragna,
che erano le più note tra quelle scritturate allora dalla Rai, con i loro
cantanti fissi. E sembrava festa.
Ma c’era
ancora molta povertà e i più poveri cominciarono ad emigrare.
Gatti
-
1994, olio su tela 40x30
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