I TEMPI CAMBIANO
di Vincenzo Ballo |
Boom!
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mattino - emigrare -
torino]
Il giorno della partenza si avvicina. La prima volta che lasciai il paese, a
parte l’essere andato in giornata a Caltanissetta, Enna e Barrafranca, fu quando
mi recai per la visita militare a Palermo. In quell’occasione feci il primo
viaggio in treno, le carrozze avevano i sedili di legno della ex terza classe, e
dai finestrini entravano granelli di cenere del fumo della locomotiva a vapore.
Nei pressi di Termini Imerese vidi per la prima volta il mare, e il suo blu
intenso mi fece un certo effetto. L’avevo visto al cinema, nei film in
technicolor e forse con un blu ancora più bello, ma a vederlo di presenza
sembrava incredibile. Da ragazzo mio padre me lo aveva indicato da un punto
delle Serre di Mezzo, ma era lontano e sembrava una piccola pianura grigia dalle
parti di Licata. Ora lo guardavo da vicino e in uno dei tre pomeriggi liberi
sarei andato a bagnarmi nell’acqua trasparente sulla sabbia di Mondello. Un
altro pomeriggio l’avrei dedicato per una visita alla suggestiva grotta di Santa
Rosalia sul monte Pellegrino, e con l’occasione avrei ammirato i bei panorami
tutt’attorno. Poi, se “chi va a Palermo e non va a Monreale parte cristiano e
torna animale”, non potevo rischiare tale metamorfosi. Il detto è sicuramente
dovuto all’incantevole Duomo della piccola località, coi mosaici fra i più belli
e vasti del mondo, ma scoprii ch’è bello pure l’abside esterno, ammirevole il
chiostro con le coppie di colonnine tutte diversamente decorate e, dietro la
piazza, come dessert di meraviglie, la terrazza del belvedere sul
panorama della Conca d’Oro, allora tutta verde di agrumeti, ora punteggiata di
villette. Vi tornai dopo cena per assistere alla trasmissione televisiva in
diretta Campanile sera, della quale la cittadina fu a lungo campionessa,
e in quella puntata vi furono ospiti alcuni celebri attori che in quel periodo
giravano un film a Taormina. Insomma vedevo un mondo nuovo e diverso che
m’invogliava di più a lasciare il paese.
A Palermo sarei tornato per tre mesi di servizio militare nel Centro
Addestramento Reclute e avrei avuto molti pomeriggi a disposizione per visitare
la città, che nel passato è stata fra le più belle del mondo e rimane una delle
più belle d’Italia. Potei ammirare i suoi monumenti, le sue ville e giardini con
fantastici alberi tropicali, il suo Duomo ed altre bellissime chiese, piazza
Pretoria detta piazza Vergogna per la grandiosa fontana con una quarantina di
statue di nudi. Ma a scuola non avevamo mai letto delle sue bellezze, non si
parlava degli artisti che l’avevano fatta bella, ci avevano fatto conoscere
forse solo i tre grandi del Rinascimento (Leonardo, Michelangelo e Raffaello)
che vissero altrove. Ancora oggi non ha la fama che merita, molti hanno sentito
parlare solo del mercato della Vuccirìa e tutti associano il nome di Palermo
alla mafia. Le reclute settentrionali notavano solo che era sporca, non alzavano
gli occhi per conoscerla meglio, non si guardavano attorno per esplorarla. A
loro non piaceva, forse perché non amavano la vita di caserma e di riflesso non
amavano la città, o forse per i pregiudizi verso i siciliani e tutto quello che
era siciliano. Ci chiamavano arabi, ignorando la grande civiltà araba e
non considerando quella greca, ci giudicavano tutti ignoranti e incivili,
dandosi arie di superiorità, persino gli stupidi e gli zotici. A saperlo, si
poteva far notare che “cretino” era il nome che designava gli abitanti delle
valli alpine. Ma sarebbe stato ugualmente ridicolo basarsi su denominazioni
generiche per giudicare le persone. Alcuni ignoravano che la Sicilia fosse
un’isola, sapevano solo che avevano dovuto attraversare lo Stretto per venire a
Palermo e con ciò la ritenevano staccata dall’Italia e non degna di farne parte.
Il problema principale di Palermo era, esclusa la mafia che su di noi militari
non influiva, la scarsità di acqua. I rubinetti restavano chiusi per giorni e le
latrine s’intasavano, tanto che il nostro colonnello, persona intelligente,
corretta e di buon cuore, mise delle reclute di guardia ai gabinetti per
impedire che ce ne servissimo. Poiché non eravamo angeli, nei casi di quotidiana
stretta necessità ci nascondevamo dietro gli alberi e le siepi.
Passarono più di quindici giorni prima di
concederci la libera uscita, perché bisognava imparare bene a fare il saluto.
Chiuso in caserma, anche se non prigioniero, costretto a seguire le istruzioni e
marciare sul vasto piazzale che qualcuno aveva chiamato, col titolo di un film,
la Pista degli elefanti, la vita strascicava fiacca e si cercava di alleviare la
noia con il fumo. Io avevo fumato la prima sigaretta a tredici anni, offertami
per prova da un ragazzo più grandicello di me, un giorno che eravamo andati a
zappare da soli perché mio padre non era potuto venire: me la confezionò a mano,
arrotolando la cartina col trinciato forte, come facevano tutti i fumatori. Ma
io ho la fortuna di non prendere i vizi e anche da giovanotto fumavo solo
qualche sigaretta quando andavo alle cantuneri per darmi un tono,
aspettando che si affacciasse la carusa e, poiché mio padre mi concedeva
di uscire solo il sabato sera, per andare dal barbiere, e la domenica, posso
dire che fumavo quattro-cinque sigarette alla settimana, compresa quella che mi
accendevo per abitudine appena mettevo piede fuori dalla porta, prima di
scendere i pochi gradini esterni. (Ma sovente le spegnevo prima che si
consumassero, per riutilizzarle in una seconda occasione, com’era uso fare
allora). Ebbene, in caserma arrivai a fumarne diciassette al giorno, ma quando
cominciai a uscire smisi completamente. Poi avrei ripreso a fumarne qualcuna e
dopo cinque-sei anni avrei smesso definitivamente.
Fuori dalla caserma ebbi occasione d’incontrare il compaesano Calogero Rizza,
che era stato contadino come me. Ora era sergente, ma parlammo di studio. Ho
letto poi, con piacere, che conseguì la laurea in giurisprudenza e divenne
tenente colonnello di Cavalleria.
[Nota 19-1: “Io li vedo così” di Felice
Guarnaccia, 1989].
Prima che ci trasferissero chiesi una licenza di trenta ore per tornare a
rivedere i miei genitori. Bisognava andare per via gerarchica e mi rivolsi al
tenente, il quale mi disse di doverne parlare al capitano, che però era in
licenza. Saltai la gerarchia e, in una pausa di esercitazione nel piazzale
principale, mi presentai al maggiore che vidi passeggiare con un altro
ufficiale. Mostrava un aspetto severo ma avevo sentito dire che fosse una brava
persona. E infatti mi diede più di quanto chiesi. Cosicché, quando tornai dalla
licenza, trovai che tutti i colleghi erano in partenza di trasferimento ed io
non risultavo nella lista. Così rimasi per qualche giorno a Palermo e avrei
voluto che la permanenza continuasse, perché si faceva la pacchia: la mattina
non suonava la sveglia, ci si alzava a piacimento, all’ora del rancio si andava
a prendere la marmitta e ci si serviva a tavola, il pomeriggio libero per il
giro turistico. Purtroppo restò anche un’altra recluta, forse per causa di
malattia. Era un ragazzo bravo e intelligente ma, offuscato dai pregiudizi, non
gli piaceva stare e brigò per accelerare il trasferimento. Così anch’io dovetti
lasciare il luogo che per me era una delizia e fui trasferito al 155° Reggimento
di Artiglieria Semovente di Udine. Lungo il viaggio mi disse: «Ballo (è il mio
cognome), andiamo nella civiltà». Mi sentii un po’ offeso e in seguito, vedendo
un bambino piccolo sul tram trattare in modo maleducato sua madre, avrei detto
tra me «Se questa è la civiltà, io ci rinuncio» (da noi c’era molto rispetto
verso le persone più grandi). Ma in generale l’educazione verso il prossimo era
notevole: gl’impiegati usavano riguardo col pubblico, i negozianti coi clienti,
nelle code ai negozi la precedenza veniva rispettata da tutti e con tutti.
Purtroppo negli anni seguenti avrei constatato che, con il progredire della
cosiddetta civiltà, la maleducazione sarebbe aumentata, specialmente negli anni
Settanta, in coincidenza col terrorismo, aggiungendosi alla prepotenza e
colorandosi di volgarità. Questa, ormai spettacolarizzata, oltre che dal cinema,
anche dalla radio e dalla televisione, le quali dovrebbero avere maggior
rispetto delle famiglie in cui entrano, l’hanno elevata alla normalità e molti
si esprimono con parole e gesti scorretti, in qualsiasi luogo e in presenza di
chiunque, senza rendersi conto di essere volgari. Tanti genitori non si
controllano davanti ai figli e lasciano che i piccoli li imitino. Una volta
l’educazione s’insegnava con gli scappellotti; oggi non è insegnata. Si diceva
di non bere in bottiglia e di non mordere rumorosamente la frutta; oggi la
televisione mostra il contrario. C’era rispetto per gli anziani; oggi siamo
tutti uguali; ma in nome dell’arrivismo ci si scavalca con spudoratezza,
inganno, calunnia, cattiveria e prepotenza: la chiamano grinta. Più nessuno cede
il posto a sedere, né a vecchi né a donne incinte.
[Segnalibro: mattino]
Il mattino successivo alla partenza, mi svegliai col vociferare quasi allegro di
gente che andava a lavorare in treno. Parlavano un’altra lingua, non era più
solo l’accento diverso che avevo sentito dai commilitoni settentrionali (e che
due ragazzi siciliani incolti imitavano credendo così di parlare in italiano).
Guardai fuori dal finestrino e vidi un’altra terra: una vasta pianura con
l’orizzonte piatto che si perdeva nella foschia. Attraversammo un fiume e credo
fosse il Po con la sua grande massa d’acqua fra gli argini. Al Nord tutti i
fiumi sono pieni d’acqua, con l’eccezione del Torre, che in alcuni tratti si
nasconde sotto il letto, quasi come il Timavo, che addirittura si inabissa in
Slovenia e dopo quaranta chilometri riappare in Italia, vicino alla foce, in
numerose bocche, grande e calmo da non sembrare neanche un fiume. Durante le
esercitazioni sul Carso mi avrebbero sorpreso le doline, piccoli “crateri” nella
roccia e sul fondo la terra coltivata, senza che l’acqua vi risiedesse. E
c’erano ancora le trincee, dove i soldati della prima guerra mondiale si
riparavano e da dove partivano per l’attacco, mandati a morire, facile bersaglio
del nemico trincerato in posizione più elevata.
Appena giunto in caserma, un soldato “anziano” mi prese il berretto e strappò
coi denti il fregio della Fanteria, come una belva che lacera la preda, felice
di poterlo fare. Io la considerai una stupidaggine e lo lasciai sfogare. Quando
poi qualcuno, “nonno” in quanto fra i prossimi congedanti, mi chiese di
preparargli il letto, mi rifiutai: non accettavo che un uomo dovesse essere
servo di un altro, addirittura collega. Ma avrei subito ritorsioni pesanti se
fra i congedanti non ci fosse stato un santo protettore nella persona dell’amico
e parente alla lontana Sariddu Lisi (Rindone), che a mia insaputa fermò
la punizione.
Dopo qualche giorno fui trasferito al Distaccamento di Cervignano e vi trovai
una certa democrazia: gli anziani chiedevano solo che gli si portasse il caffè
in branda. Anche questo non lo ritenevo giusto e per evitarlo, senza fare
storie, mi avviavo quando tutti erano usciti per la colazione e chi era rimasto,
in attesa di bere il caffè a letto, aveva già chiesto a qualcun altro di
portarglielo. Visto che facevo il furbo, a pranzo o a cena spesso mi ordinavano
di portare il rancio a chi stava punito in cella di rigore. Preferivo questo,
sebbene mi causasse disagio, dovendo mangiare in ritardo, che fare il servo a un
commilitone.
Io non pretesi e non chiesi mai a nessuno di farmi un “favore”, me ne sarei
vergognato. Ma una volta, quand’ero anziano, lo fecero altri per me, però
sarebbe stato meglio se non lo avessero fatto.
Era successo (dirò poi come) perché io amo conoscere, se ne avessi avuto la
possibilità avrei girato il mondo, ma non ho visto nemmeno l’Italia come avrei
voluto. Mi piace andare pure nelle zone non frequentate dai turisti, perché lì
c’è l’essenza dei residenti e una città diversa da quella conosciuta. Certamente
escludo le zone insicure, dove semmai si potrebbe andare accompagnati da
qualcuno del quartiere o da un poliziotto di rispetto (ma non da due, perché
potrebbero pensare che ti abbiano arrestato e per liberarti aggredirebbero i
tuoi angeli custodi). Mi sentirei a disagio tra le bidonvilles del Terzo
mondo; e non m’interessa fare l’esploratore, col rischio di finire in brodo o
sacrificato a sconosciuti dèi. Escluso il pericolo, sarebbe interessante fare un
salto indietro nei secoli e vedere come vivevano in quei tempi, tornando poi
però ai giorni nostri. Mi piace vedere le bellezze della natura e le grandi
opere costruite dall’uomo, notare i progressi della scienza, i cambiamenti
avvenuti nell’architettura, nell’arte e nel modo di vivere. In mancanza di
tempo, mi accontento di girare per le strade e le piazze e visitare le chiese.
Qualcuno ha sorriso nel sentirmelo dire, perché gli è sembrato che andassi solo
per pregare, e non ci sarebbe niente da ridere: visitare le chiese è un modo
semplice ed economico per ammirare molte opere d’arte. Mi piace l’armonia del
Rinascimento, la grandiosità del Barocco, l’arditezza del Gotico, l’atmosfera
mistica di raccoglimento all’interno delle chiese Romaniche.
Poiché a Catania prendevo il treno “Freccia del Sud” e con la prima coincidenza
a Bologna sarei arrivato in caserma verso le cinque pomeridiane, mi fermavo
lungo il percorso per visitare una città e prendevo un treno successivo che mi
avrebbe consentito di arrivare prima di mezzanotte. Quella volta mi fermai a
Roma per vedere la Basilica di San Pietro e salire sul cupolone. Avevo
controllato il tempo di andata per regolarmi nel ritorno, solo che poi c’era
molto più traffico e persi il treno utile per Trieste che fermava a Cervignano.
Salii sul successivo che andava a Venezia ma non c’era nessuna coincidenza per
proseguire. Così dormii in un posto militare nella stazione di Mestre e presi il
primo treno del mattino successivo. Mi aspettavo una punizione di rigore perché
il maggiore era molto severo, e quella volta mi aveva dato una doppia licenza
premio, per aver disegnato due tabelloni con camion, carri armati e tanks
[Nota19-2: Mezzo con due ruote anteriori e
due cingoli posteriori], utili per spiegare le esercitazioni militari, e
lavorato da manovale muratore nella costruzione di due pareti in fondo alla
lunga camerata, al fine di ricavare stanze da destinare ai sottufficiali. Per
questi favori certamente ci guadagnava ed era solito dare cinque giorni di
licenza, che potevano andare bene per i settentrionali ma per un meridionale
erano insufficienti, perciò gli dissi che avrei rinunciato. Generosamente egli
mi diede due licenze di cinque giorni più due giorni per il viaggio.
Al rientro, in caserma arrivai tardi, ma ebbi fortuna: per non farmi vedere
dall’ufficiale di picchetto passai dalla porta carraia, dove c’era di servizio
un sergente amico, e quando giunsi in camerata non mi vide nessuno, perché erano
tutti a prendere il caffè. Ma dovetti rimettere a posto la branda preparata per
dormire, dato che era ora di riprendere servizio.
A Cervignano avevo fatto amicizia con un commilitone romano, dopo averci
litigato, e con un farmacista di Ascoli Piceno, Albertini, che poi fu trasferito
a Udine. Lo rividi quando anch’io vi tornai per fare un corso di trombettiere.
Era diventato caporale o già caporal maggiore e mi raccontò che aveva proibito
ogni sopruso dei militari anziani verso i giovani, chiamati microbi. Qualche
volta lo avevano buttato giù dalla branda ma alla fine l’aveva spuntata, pur
contro il parere degli ufficiali, che avrebbero voluto continuare a lasciar
fare. Ma lui era dalla parte della ragione e della legge: non c’è nessun
regolamento che ammette i soprusi; permetterli per stupida concezione di rude
militarismo è disconoscimento della dignità umana. Forse il sopruso poteva
essere incoraggiato quando i soldati erano elementi di aggressione e di rapina,
criminali più che eroi. Oggi hanno compiti di difesa, di protezione e di
soccorso nei disastri naturali, per cui è logico un cameratismo con la condotta
da cavalieri onesti e giusti. Purtroppo in questi ultimi tempi sono avvenuti dei
fatti sicuramente esagerati, che hanno provocato suicidi e omicidi. Il servizio
militare dovrebbe essere una scuola di vita, ma tanti giovani tornano rovinati
nel fisico e nella mente.
Anche un mio commilitone si ridusse a uno straccio che non si reggeva in piedi,
ma non per colpa della naia, bensì dei soldi di papà, che lui dilapidava nei
vizi. Era un milanese alto, atletico e robusto, quando si giocava a calcio aveva
un tiro potentissimo. Per le molte notti che restava fuori ed altre infrazioni,
accumulò settanta giorni di CPR (prigione di rigore) e perciò gliene rimasero
altrettanti di naia, dopo che tutti andammo in concedo: le donne e l’alcool, e
forse la droga, lo avevano rovinato.
Molti settentrionali amavano la sbornia e avevano uno strano modo di
festeggiare: si ubriacavano consapevoli che poi sarebbero stati male e avrebbero
vomitato.
Durante la naia mi trovai bene, anche se non mi piacevano i rigidi regolamenti e
i riti esteriori, come il saluto militare, le marce e la cura delle armi, che
negli ultimi mesi potei evitare stando in fureria. Ma era bello quando si andava
nei boschi e avevo la possibilità di visitare luoghi diversi.
Mi piace ricordare Aquileia, l’antica città romana dove, nel 1921 fu designato
il Milite ignoto da tumulare all’Altare della patria, e Palmanova, la
cittadina-fortezza del tardo Rinascimento con la bastionatura a stella a nove
punte, che tanto mi sorprese per la sua integrità e caratteristica. Diversa
sorpresa ebbi nel vedere il letame addossato alle cascine. Chissà la puzza in
casa. E osavano criticare i meridionali: da noi almeno anche i contadini che
vivono in campagna lo depositano a distanza. Ma al di là di quest’uso nordico,
apprezzai molto i friulani.
Le gite le facevo con Pisoni, un ragazzo di Milano che aveva portato con sé la
motocicletta. Ogni tanto veniva a trovarlo la sua “morosa”. Io non concepivo che
una ragazza andasse da sola a raggiungere il fidanzato; oggi i tempi sono
cambiati e non mi scandalizzo più se due giovani fanno insieme le vacanze. Ma
allora, quando per la prima volta vidi due innamorati che si baciavano su una
panchina, mi parve esagerato. Fu a Trieste, mentre visitavo il Castello e mi
affacciai tra due merli a guardare il giardino sottostante. Negli anni Sessanta
con l’esplosione della libertà dei costumi, si sarebbero visti gl’innamorati
baciarsi ad ogni angolo di strada e dappertutto, senza vergognarsi. Anzi la
vergogna era di chi vedeva e si imponeva di non guardare.
Il servizio militare di un contadino era un grave problema per la famiglia, in
quanto veniva a mancare un aiuto necessario nei periodi di aratura, semina e
raccolto. Allora alcuni ricorrevano a uno stratagemma, che adottarono pure i
miei genitori. Mia madre si finse moribonda, con parenti attorno al letto
affinché il medico e il maresciallo dei carabinieri potessero autorizzare un
telegramma in cui si richiedeva il mio rientro urgente. Medico e maresciallo
sapevano che era tutta una messinscena, ma doveva essere fatta perché fossero
salvate le apparenze.
Anch’io, quando arrivò il telegramma, finsi di essere preoccupato al massimo e
risultai molto credibile per qualche mia imbranatura che una persona calma non
farebbe.
Ma non servì a nulla, perché piovve appena cominciammo a trebbiare con le mule
e, col grano bagnato sull’aia, non potemmo proseguire. In quei giorni si
svolsero le esercitazioni campali e mancai l’occasione di sparare qualche colpo
di cannone dal carro semovente.
Ora si sta per escludere il servizio militare obbligatorio per passare a quello
esclusivamente volontario, perché con le nuove armi non c’è tanto bisogno di
uomini per affrontare il nemico, ma di una migliore preparazione tecnologica. I
militari saranno in numero inferiore però meglio preparati. E anche per le donne
sarà possibile arruolarsi.
[Segnalibro:
emigrare]
Finita la naia, decisi di emigrare. Mio padre era ovviamente contrario: “Abbiamo
le terre nostre” diceva. Rispondevo che erano sue, e quando mi sarei sposato, io
sarei stato il suo mezzadro. Ma contava più il fatto che a me lavorare in
campagna non era mai piaciuto e per varie ragioni: primo perché avrei voluto
studiare (ma lo studio mi fu precluso per fare il contadino); secondo perché non
mi piaceva la fatica dei campi allora molto dura; terzo perché il lavoro
agricolo non era riconosciuto per quello che valeva; quarto perché il
coltivatore lo si voleva ignorante (uno che leggesse il giornale era criticato e
deriso); quinto perché il contadino era considerato persona inferiore; sesto
perché volevo la mia libertà. Ero ubbidiente per rispetto ai genitori ma mi
sentivo prigioniero, volevo evadere, avrei voluto volare, in senso metaforico,
non me la sentivo di continuare a lavorare la terra, volevo vivere in città. E
vedevo che tutti partivano, anche uomini sposati, alcuni dei quali abbandonavano
i fondi di cui erano proprietari. Certo lasciavo l’aria buona del mio paese,
della campagna, lasciavo i genitori, i parenti, gli amici (ma molti se n’erano
andati). E soprattutto lasciavo la ragazza che amavo, per sempre, perché andando
via decidevo di non sposarmi subito e non volevo che lei mi aspettasse. Non
avendo relazioni epistolari né verbali, finsi di non amarla più non facendomi
vedere da lei e non guardandola se ciò accadeva. Io ne soffrivo e lei forse più
di me, ma sarebbe passata e, bella com’era, avrebbe trovato da scegliere fra
vari pretendenti, e sarebbe stata felice.
Volevo emigrare ma non all’estero. La meta interna maggiormente preferita era
Milano, ma a me piaceva Roma, però mio padre volle che andassi a Torino perché
lì c’era suo fratello. C’era pure il mio amico Vincenzo Rindone che lavorava in
ferrovia e trovò una soffitta in subaffitto, dove andammo ad abitare. Mi
ritenevo fortunato perché era difficile trovare un abituro per gli scapoli; ed
era già tanto trovare un letto dalle affittacamere: le chiamavano “pensioni” ma
erano cameroni pieni di brande in cui si andava solo per dormire fra
sconosciuti, senza possibilità di far da mangiare, e spesso era proibito anche
consumare un pasto freddo. Però c’era il lavoro, che è la cosa più importante
dopo la salute.
Le soffitte erano dei sottotetti adibite ad alloggio col boom
dell’emigrazione. Per tutti gli occupanti c’era solo un piccolissimo lavabo e un
gabinetto ricavati in un piccolo spazio a metà di uno stretto corridoio. Ai lati
le soffitte, il tetto spiovente si abbassava a circa sessanta centimetri dal
pavimento, si poteva stare in piedi solo nella parte adiacente il corridoio e
nel tratto fra la porta e l’abbaino. Nel primo lato si tenevano appesi i vestiti
da festa, messi dentro un apposito sacco di nailon perché non si sporcassero,
nel secondo trovavano posto il fornello a gas e due sedie; nello spazio che
restava, sotto la falda bassa, c’era la branda a una piazza e mezza o due.
In una così misera topaia ci abitavano anche sposi che al loro paese avevano
lasciato una casa spaziosa, ma al loro paese non c’era lavoro; ci stavano anche
famiglie intere: nella soffitta accanto alla nostra dormivano una donna con tre
figlie, il genero e due nipoti, però non credo che fossero abituati a una vita
decorosa.
C’era carenza di alloggi e molti proprietari non affittavano a meridionali,
specialmente se famiglie numerose, le quali potevano trovare con difficoltà una
sistemazione solo in vecchi edifici; poi, col tempo, avrebbero trovato anche
appartamenti nuovi. Infine tutti comperarono l’alloggio da abitare, e alcuni
pure la casa in montagna o al mare.
La caratteristica dei vecchi caseggiati è generalmente un quadrilatero di
edifici congiunti tra loro (detto isolato perché circondato da strade), con
all’interno il cortile e in ogni piano i ballatoi (che non sono luoghi in cui si
possa ballare, ma stretti e lunghi balconi comuni) sui quali si aprono
portefinestre che fungono da ingresso degli alloggi. Nei palazzi del Settecento
il cortile può essere unico e avere due o più scale per salire ai piani. In ogni
pianerottolo c’è l’ingresso degli alloggi adiacenti e un’uscita verso il
ballatoio. Altri isolati hanno la corte separata da muri e ogni condominio ha il
suo cortiletto. Gli appartamenti di solito sono composti di due vani
consecutivi, il primo adibito a cucina e il secondo a camera da letto, la quale
dà sulla strada. In origine c’era il gabinetto in comune in fondo al ballatoio,
nell’angolo del casamento, ma poi era stato ricavato nel vano della cucina di
ogni appartamentino e in alcuni fu posta anche la vasca da bagno. Chi non
l’aveva andava nei bagni pubblici o si faceva la doccia in fabbrica.
In quegli anni di boom generale, oltre ai quadrilateri, si costruirono
stabili allineati, ma anch’essi col cortile, delimitato però da semplici muri.
Con l’aumento della motorizzazione, questi àmbiti sono stati invasi dalle auto,
prima gratis, poi a pagamento in posti assegnati. Una volta vi giocavano i
bambini, poi anche i loro genitori convennero che i piccoli, per giocare,
dovessero andare ai giardini, ma son finiti per restare in casa con la compagnia
della televisione che per loro trasmette mostruosi cartoni animati. Ora è
obbligatorio costruire dei box in numero adeguato agli alloggi dei
condomìni e i cortili sono stati ridotti a spazi di passaggio delle auto dei
condòmini.
Per la tendenza a stare vicini, e anche perché era più favorevole trovare
alloggio nelle vicinanze degli amici o parenti, la comunità maggiore dei paesani
si raggruppò nel quartiere chiamato Barriera di Milano, seguiva Santa Giulia o
Vanchiglia e poi tutti gli altri. Nei primi tempi ci si riuniva spesso in casa
di qualcuno, poi a poco a poco gl’incontri cominciarono a diradarsi per il
cambiamento di stile di vita e per la crescita dei figli che inducevano ad
assecondare le loro esigenze.
Piazza della Repubblica, che comunemente è chiamata Porta Palazzo, come il
quartiere in cui si trova, era piuttosto frequentata per il grande mercato
omonimo (c’era anche un angolo ufficioso in cui si poteva trovare collocamento
per lavori saltuari nell’edilizia) e per le riunioni domenicali. I meridionali
vi dominavano pacificamente, con l’armonia della conversazione. Unica stonatura,
dovuta a qualche meridionale, tollerata dalle autorità di sicurezza, era il
contrabbando di sigarette e, nelle vie adiacenti verso il municipio e oltre, la
prostituzione.
Ora Porta Palazzo è dominio degli africani (maghrebini e neri) in conflitto tra
loro, che spesso sfocia in furiose battaglie per il dominio del mercato della
droga. La polizia interviene in forze per sedare ma si prende la sua parte,
perché quegli extracomunitari non la temono e contrattaccano. I vigili urbani,
che passeggiano per controllare nei giorni di calma, fingono di non vedere e di
non sentire nemmeno le battute ironiche nei loro confronti. La prostituzione si
è molto estesa in altre zone della città, con donne nere e dell’est europeo,
ingannate con la promessa di trovare in Italia un posto di lavoro e invece,
nella nostra nazione cattolica, democratica e civile, sono ridotte in schiavitù.
Noi meridionali venimmo per lavorare e fummo male accolti, considerati degli
incivili. Nei nostri confronti si comportavano da educatori anche gl’immigrati
piemontesi, molti dei quali avrebbero fatto meglio a tacere: proprio in quegli
anni, a due fratelli abitanti in una valle vicina, andarono i piedi in cancrena,
perché da mesi non si toglievano le scarpe. Occorre rilevare che il giudizio di
paragone si è sempre fatto tra i cafoni del Sud e i cittadini del Nord. Non si
nega la nostra eccessiva gelosia nei riguardi delle donne, la possibile reazione
violenta nelle controversie (quand’ero militare, i settentrionali avevano paura
del coltello che noi potessimo estrarre) e la minor cultura nella media della
popolazione. Ma criticavano pure i nostri modi di dire, come “a me mi”, che può
rispondere ad esigenze di messa in rilievo ed è quindi ammesso nella lingua
parlata; mentre loro dicono “ce n’è tanti”, chiaramente sbagliato. E poi, dopo
aver criticato il nostro pleonastico “ma però”, hanno lanciato il loro “poi
dopo”, che purtroppo ormai usano anche buoni parlatori istruiti (e qualcuno
arriva ad esagerare con “ora poi dopo”). Ci chiamavano “Napuli” (forse
perché quando i piemontesi conquistarono il Meridione chiamavano Napoletani
tutti i cittadini del Regno delle Due Sicilie); a Milano i meridionali erano
“Terun”. Noi avremmo potuto chiamare loro “Pulintuna” e avremmo reso
la pariglia, ma in noi non ci sarebbe stato il tono dispregiativo equivalente ed
eravamo rispettosi dei costumi e delle idee locali. Ci consideravano quasi tutti
mafiosi o comunque omertosi. Ma quando la grande mafia con i suoi tentacoli ha
avvinto pure loro, non l’hanno denunciata; e hanno accettato di buon grado la
mafietta dei posteggiatori abusivi, i quali pretendono la mancia per il
posteggio di una macchina che non custodiscono ma eventualmente danneggiano nel
caso in cui non la si desse. Stazionano pure nei parcheggi a pagamento delle
piazze, vicino agli ospedali e ai vari edifici pubblici, per cui capita così di
dover pagare due “tasse”. Agl’incroci dei corsi più trafficati ci sono i
pulitori di vetri, mestiere inventato dai polacchi a Roma, ora esercitato da
tutti dappertutto, e tanti bambini mendicanti.
I pregiudizi nei nostri confronti resistettero finché non si diffusero i
matrimoni misti e ci facemmo apprezzare per la generosità, la benevolenza, la
laboriosità e la pulizia.
I tempi sono cambiati e i nuovi immigrati, extracomunitari, che pure hanno preso
il nostro posto nelle dimore e nei lavori pesanti e sporchi, sono stati accolti
democraticamente, con il rispetto dovuto giustamente a tutte le persone di
qualsiasi razza e di qualsiasi ceto. Ma la nostra buona accoglienza è
considerata stupidità, avvalorata dalla legge, che in certi casi concede loro
maggiori diritti degli italiani, e da alcune deroghe non scritte. Molti non
pagano il biglietto dei mezzi pubblici e non vengono perseguiti. Il trattamento
nei loro confronti è molto diverso da quello adottato nei nostri, allora e oggi.
Per il decoro degli edifici, ai meridionali era proibito mettere tendoni da sole
nei balconi che davano sulla strada; per non disturbare era vietato fare rumore
dopo le ore ventidue. Nei casi di trasgressione chiamavano solerti vigili urbani
per far rispettare il divieto. Gli extracomunitari fanno quello che vogliono e
nessuno osa protestare, per paura delle loro minacce. Se qualcuno denuncia, i
vigili non intervengono. E la città è sempre più sporca e insicura.
Ovviamente non sono tutti uguali (i neri sono giudicati più chiassosi e i
marocchini subdoli, ma non bisogna generalizzare), ci sono tantissime brave
persone, seppure in numero diverso a seconda della provenienza, e quasi tutti
sono degli sfruttati. La stragrande maggioranza, che interessa gli sfruttatori,
lavora sottopagata, spesso non in regola, vive in condizioni disagiate, e si
nota poco. La minoranza crea i disagi, alimenta la delinquenza, si nota di più e
preoccupa la cittadinanza. Ma forse sarà quella che raggiungerà il successo,
economico o politico, e sarà riverita con grande rispetto.
Basilica di Superga
-
1995/6, olio su tela 80x60
[Segnalibro: torino]
Di Torino ricordavo una piccola fotografia in bianco e nero sul libro di
geografia delle elementari. In essa si notava la Mole Antonelliana e il fiume
Po. M’incuriosiva quella guglia che sovrastava la città e mi domandavo quale
fosse la sua funzione: era un mastodontico involucro vuoto, monumento che
l’architetto aveva fatto a se stesso, non rispettando l’iniziale progetto per
una sinagoga, con spese crescenti, a cui la comunità ebraica non poteva far
fronte, e subentrò il comune di Torino, che assecondò la megalomania di andare
sempre più in alto. Ora, dopo i necessari adeguamenti interni, vi è stato
trasferito il Museo del cinema e vi fanno varie mostre, cosicché serve a
qualcosa, oltre che consentire di vedere il panorama delle Alpi Cozie e Graie, e
quello della città, spesso avvolta però nella cappa dell’inquinamento
industriale. A causa dello smog, i palazzi antichi hanno assunto il
colore grigio-fumo, ed è ciò che sorprende un campagnolo, arrivando per la prima
volta in città. Noi notammo pure che la corrente elettrica non si staccava mai,
e non poteva essere altrimenti, perché ogni interruzione avrebbe causato
parecchi danni alla lavorazione con le macchine elettriche. E l’abbondanza di
acqua, sempre pronta a scorrere quando si apriva il rubinetto. Io notai anche
l’insegna di certi negozi con la scritta “Drogheria”, ma non si vendeva droga,
bensì vari prodotti di uso domestico, che ora si trovano al supermercato, e quei
negozi sono scomparsi.
Torino è una bellissima città, con una caratteristica che consente di fare un
lungo giro turistico nel centro barocco in una giornata di pioggia, senza
l’ombrello e senza bagnarsi, camminando sotto i portici ininterrottamente per
chilometri. Si può partire dall’alberata piazza Statuto, nella quale si trova la
bella fontana dedicata al lungo traforo ferroviario del Frejus (km. 13,5),
andare verso la stazione di Porta Susa (che sarà spostata per un rimodernamento
viario dei trasporti), proseguire per i portici unilaterali di via Cernaia,
osservando quello che resta della grande Cittadella e poi ammirare la bella
Fontana Angelica, che un ricco volle dedicare a sua moglie. Per via Pietro Micca
si raggiunge piazza Castello, al centro della quale sta l’antico maniero, di cui
vediamo la facciata settecentesca del messinese Filippo Juvarra. Svoltiamo a
destra per via Roma, la più elegante della città, voluta dal fascismo per un bel
percorso diritto che ci porta alla bellissima piazza San Carlo, con due belle
chiese in prospettiva, circondata armoniosamente dai palazzi seicenteschi del
Castellamonte e al centro il Caval d’ bronz, monumento equestre ad
Emanuele Filiberto II, che fu anche alchimista. (Tutto il centro è una Torino
magica sopra una vasta rete di strette gallerie segrete). Proseguiamo per
raggiungere piazza Carlo Felice, oltre gli alberi vediamo la facciata liberty
della grande stazione ferroviaria di Porta Nuova, che sta nel corso Vittorio
Emanuele II, dove svoltiamo ancora a destra per raggiungere l’alto monumento
dedicato al primo Re d’Italia, posto al grande incrocio con corso Galileo
Ferraris, vicino alla galleria d’Arte moderna. Torniamo indietro dalla parte
opposta fino a piazza Castello, per andare in via Po, al fondo della quale si
affaccia piazza Vittorio Veneto (dove prima c’era un’altra porta della vecchia
Torino, che si apriva sul fiume). Oltre il ponte vediamo la chiesa della Gran
Madre, diamo uno sguardo panoramico al vicino “Monte dei Cappuccini” con la sua
chiesetta sul cucuzzolo inserito nella collina torinese a destra, mentre lontano
sulla sinistra nel cielo si staglia la Basilica di Superga, che custodisce i
resti di molti Savoia. Se piove rinunciamo a passeggiare nel bellissimo parco
del Valentino che sta poco distante sulla destra, lungo il fiume che qui
proviene da Sud e rifacciamo la strada dall’altro lato per completare il
percorso in piazza Castello, nella quale ora, dietro il vecchio edificio,
vediamo il monumento al Duca d’Aosta. Facciamo il giro passando davanti al
Teatro Regio e più avanti ci affacciamo sul cortile del Palazzo reale, oltre il
quale vi sono giardini interni ed esterni e al suo interno bellissime sale
barocche. Ad esso collegata vi è la cappella della Sindone con la caratteristica
cupola del ferrarese Guarini. Vi si può accedere dal Duomo, che si affaccia su
un’altra piazza, la quale, se non vi avessero costruito un brutto palazzo per
uffici del comune, o se lo avessero fatto più indietro, dove ora c’è il vuoto
lasciato da vecchi casamenti demoliti, sarebbe bellissima, con la romana Porta
Palatina nel lato nord. Oltre, a due passi, c’è il grande mercato di Porta
Palazzo. Se non piove è comodo farvi una capatina e se è sabato possiamo
raggiungere il Balon (pronuncia Balùn), dove si svolge il celebre
Mercato delle pulci. Oppure torniamo indietro e visitiamo il Museo Egizio
(secondo a quello del Cairo), vicino al palazzo Carignano, che ospitò il primo
Parlamento italiano.
[Nota 19-3: Ovviamente lungo il percorso ci
sono altre cose degne di nota, che abbiamo tralasciato di elencare].
Giardino del Valentino
-
1995, olio su cartone telato 40x30
Dopo questa camminata di otto chilometri, compresi i tre di ritorno, sarebbe il
caso di pranzare.
La cucina piemontese non è molto famosa, il suo più celebre piatto è la bagna
càuda, una fluida crema di acciughe con aglio in burro e olio di oliva,
servita a tavola in un apposito fornello di terra cotta, tenuta calda con la
fiamma della meta (un piccolo parallelepipedo di metaldeide). In compagnia vi si
intingono verdure crude, principalmente cardi di una varietà grossa chiamati
“gobbi” perché curvati e tenuti coperti dal terreno per sbiancare, e si beve
Barbera.
Più degni di nota sarebbero gli antipasti, in numero esagerato e vario da
saziare prima che venga servito il cosiddetto “primo”, che può essere di buoni
agnolotti. Per secondo prendiamo il brasato. Tutto accompagnato da ottimi vini e
poi finire alla grande con uno degli spumanti per i quali (gli uni e gli altri)
sono famose le terre astigiane, il Monferrato e le Langhe.
I piemontesi son
detti “falsi e cortesi”. Direi che hanno anticipato una forma di educazione oggi
molto diffusa anche da noi. Io posso dire che sono veramente gentili, ma molto
riservati. Loro dicono che gli amici s’incontrano al bar, perciò dovette dare
fastidio la nostra abitudine di riunirci a casa e parlare ad alta voce, ridere e
scherzare. Hanno il difetto di essere un po’ lunatici: oggi ti sorridono e ti
fermano a conversare, domani non ti salutano neanche, poi tornano a darti
confidenza. Inoltre si potrebbe dire di loro quello che si dice dei genovesi:
che sono tirchi, ma essi dicono che sono parsimoniosi. Io comunque mi son
trovato bene e ho riscontrato scatti di generosità, sono ottimi conversatori e
sanno far baldoria moderata. Cerèa, nèh?
[Nota 20-4:
Saluto ormai in disuso, cerea è
un’evoluzione popolare della parola signoria, che si faceva seguire al
saluto vero e proprio: “Bon dì, cerea = Buongiorno, vossignoria”].
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