I TEMPI CAMBIANO
di Vincenzo Ballo |
[Nota 17-1: Per la
compilazione di questo capitolo ho ricavato le notizie principalmente da:
“Il Castello di Pietraperzia” di Lino Guarnaccia,
Edizione a cura del Comune di Pietraperzia, 1985;
“La Chiesa Matrice di Pietraperzia” di Lino
Guarnaccia;
“Saggi e documenti riguardanti la storia di
Pietraperzia”, Volumi I e II, di Autori Vari, a cura del sacerdote Filippo
Marotta;
“Pietraperzia dalle origini al 1776 (Relazione
critico-storica della prodigiosa invenzione d’una immagine di Maria Santissima
della Cava di Pietraperzia)” composta dal p. Fra Dionigi, trascritta da
Salvatore di Lavore, presentata da Filippo Marotta;
“Storia del territorio di Pietraperzia dalle origini
agli Aragonesi” di Rosario Nicoletti e Antonio Lalomia,1982.
E inoltre da:
“Rinasce la Matrice” di Michele Ciulla, 1993;
“Un Paese chiamato Pietraperza” Testo realizzato
nell’a. s. 1993/94 dagli alunni della classe I^ D della Scuola Media Statale “V.
Guarnaccia” di Pietraperzia, a cura dei professori Rosanna Baio e Salvatore
Mastrosimone].
[Salta al segnalibro:
duomo - castello -
carrubo].
Dalla
finestra della cucina di mia nonna Maria Cava, che abitava nel quartiere
Terruccia, vicino alla piazzetta in cui c’è ancora la casa dove lei nacque,
vedevo la cupola della Matrice e il castello diroccato. Mia nonna sembrava
essere fiera di quel rudere, come se le appartenesse, ma credo che non l’avesse
mai visitato. Mi raccontava che nei tempi gloriosi contasse 365 stanze e che in
esse, o nei sotterranei, come sarebbe più plausibile, si persero tre donne che
vi si erano introdotte e le avessero poi trovate morte. Ma è una leggenda. Si
dice anche di gallerie che lo collegavano col sito delle Rocche [rocce],
passando sotto il torrente di Calò. Io vedevo il cielo attraverso i vani delle
finestre nei resti di alti muri e non pensavo che quel maniero andato in rovina
potesse essere stato abitato fino a una ventina d’anni prima.
Il castello di Pietraperzia
-
1998, olio su tela 40x30
Esso sorge
su una rupe esposta a nord-ovest della montagna, che si prestava bene per una
fortificazione. Pare che furono gli Arabi i primi a costruirvi una rocca, sotto
la quale si stabilirono gli abitanti dei villaggi vicini per sentirsi meglio
protetti. I Normanni la diedero in possesso ad Abbone Barrese
[Nota 17-2:
C’è chi dice Barrese e chi
Barresi, io userò il nome nella forma singolare o plurale],
insieme ad altre località. Durante la guerra fra Aragonesi e Angioini fu
distrutta dai primi e i Barresi persero i loro beni. Li riebbero dopo vent’anni,
ricostruirono il castello e tornarono ad abitarlo.
Il pieno
splendore della famiglia si ebbe nel Cinquecento con Matteo, il nipote Pietro e
la sorella di questi, Dorotea, con la quale si estinse la dinastia.
Matteo Barrese fu fatto Marchese di Pietraperzia da Carlo
V nel 1527, arricchì la sua dimora, fece ricostruire la chiesa
principale e promosse altre opere. Morì nel 1534, assassinato o fatto
assassinare, insieme a due paggi, dal figlio Gerolamo, aiutato dal suocero
Santapau e da altri Signori.
Gerolamo fu
decapitato nel 1549 nel castello a mare di Palermo
[Nota 17-3: Denis Mack Smith, in “Storia
della Sicilia Medievale e Moderna”, Ed. Laterza, Bari 1971, scrive solo: “Il
marchese di Pietraperzia, colpevole di aver ucciso suo padre, soffocandolo con
un cuscino, se la cavò a caro prezzo” e dei Barresi e di Pietraperzia non dice
altro]
e gli successe il figlio tredicenne Pietro che, “per i servigi
resi come capitano generale della milizia Siciliana”, nel 1565 fu fatto
Principe di Pietraperzia e Marchese di Barrafranca; quindi Vicario di Catania e
cavaliere del Toson d’Oro. Fu “grande cultore delle scienze matematiche e
astronomo insigne”, mecenate di artisti e letterati. Grazie alla moglie Giulia,
dei conti Moncada di Caltanissetta, la quale introdusse ottimi musicisti alla
sua corte, nacque la musica rinascimentale siciliana, che si diffuse e fu
apprezzata in tutta l’Europa.
[Nota 17-4: “Pietraperzia e la scuola madrigalistica siciliana
(1550-1630)” di Filippo Marotta, in “Saggi…” Vol. II, da scritti di Ignazio
Nigrelli e M. Antonella Balsamo. E’ aggiunto in nota che musiche di madrigali
siciliani furono eseguiti nella chiesa di S. Nicolò dagli English Bach Festival
Singers in una tournée del 1985].
Morì a 35 anni, nel 1571, colpito da un fulmine mentre pregava
accanto alla moglie, rimasta illesa.
Poiché non ebbe prole, gli successe
la sorella Dorotea, nata nel 1529. Questa sposò Giovanni Branciforte, duca di
Mazzarino, dal quale ebbe Fabrizio, a cui passò il titolo. Rimasta vedova a 34
anni, sposò il cugino Vincenzo di Militello, diciassettenne, il quale morì dopo
un giorno di matrimonio per febbre malarica precedentemente contratta. Dopo un
lustro di seconda vedovanza, sposò don Giovanni Zunica e Requens dei conti di
Castiglia, ambasciatore a Roma presso il papa Pio V e poi viceré di Napoli.
Successivamente gli sposi si trasferirono a Madrid, dove Dorotea divenne aia
(educatrice, istitutrice) del futuro re Filippo III e fu iscritta tra i grandi
di Spagna. Introdusse a corte il nipote Francesco, che poi avrebbe sposato
Giovanna d’Austria. Infine volle venire a morire a Pietraperzia e le sue ossa
riposano in un sarcofago (simile a quelli di Federico II e di Costanza
d’Altavilla nel duomo di Palermo) che si trova all’ingresso della Matrice.
Qui, ai lati del portone centrale, vi sono due mausolei “piccoli
ma di gran pregio”, uno di Antonello Gagini, “contenenti le ceneri di Matteo
Barrese e della madre Laura”, e l’altro d’ignoto, dedicato a Pietro Barrese.
Tre portali dello stesso stile, con apertura di circa 160 centimetri e larghi
all’esterno circa 280, alti in proporzione, sono addossati rispettivamente alle
pareti del fonte battesimale (uno) e nella cappella del Sacro cuore (due).
L’attuale Matrice, dichiarata Monumento Nazionale, conserva un Crocefisso forse
del frate Umile di Petralia e numerose opere pittoriche del Seicento: di Filippo
Paladino è la Madonna in trono e Santi, grande pala dietro
l’altare maggiore, e altri due quadri nel coro, insieme a due dipinti del
monregalese Pietro Novelli; di quasi tutte le tele che adornano gli altari
laterali è autore Francesco Vaccaro. Le stazioni della Via Crucis, dentro
cornici con didascalie in lingua tedesca, sono riproduzioni oleografiche dei
famosi originali di Luigi Morgari. A parte queste ultime, del 1894, le altre
opere provengono dal precedente duomo fatto costruire da Matteo Barrese, dove
c’era già una chiesa normanna, che a sua volta era stata costruita sul luogo di
una chiesa basiliana, modificata in moschea dagli arabi.
Resosi
pericolante, l’edificio del Cinquecento fu parzialmente abbattuto nel 1790 e lo
spazio inglobato in parte nel transetto dell’attuale Matrice, costruita in
direzione quasi perpendicolare alla chiesa demolita. Rimasero fuori la Cateva,
che molto probabilmente era la cripta delle vecchie chiese, con la parte sopra
di essa trasformata in sacrestia, e i robusti muri romanici dell’abside, la cui
parte centrale sporge con tre lati di un immaginario ottagono, che in basso
mostrano le fondamenta scoperte. I lavori iniziarono nel 1800 e si protrassero
fino al 1848 ma non furono mai finiti. Infatti mancano il porticato a sei
colonne e il campanile da erigere a lato nell’angolo con la Cateva, che
l’architetto Pietro Trombetta aveva progettato a base quadrata di circa quattro
metri per lato e l’altezza di circa 34 metri dal piano chiesa.
[Nota 17-5: Sono dati che ricordo dalla
lettura di un contratto pubblicato dal sac. Filippo Marotta in “Saggi…” Vol. II,
ma non ho appunti per verificare].
Anche la mancanza del tamburo sotto la cupola fa pensare che i
lavori fossero stati interrotti prima del tempo, come dire, parafrasando:
“mettiamoci una cupola sopra” tanto per concludere; ma pare che sia stato
previsto così dal progetto. Comunque, il tamburo sarebbe stato poco visibile e
la chiesa, molto bella all’interno, risulta armoniosa e maestosa pur nella
semplicità della facciata.
La Matrice di Pietraperzia
-
1999, acquerello 51x36
[Segnalibro:
duomo]
Il duomo del Cinquecento, a navata
unica, ricco di opere di famosi scultori e pittori dell’epoca, era orientato a
nord-ovest, verso la via Barone Tortorici, laterale alla chiesa odierna. La
facciata, non molto larga, probabilmente non aveva tutti e tre i portali giunti
sino a noi: uno sembra di riconoscerlo in un vecchio disegno pubblicato da Lino
Guarnaccia nel volume dedicato alla Matrice, il quale mostra il lato verso la
chiesa del Carmine. Ci sarà stata anche allora la piazzetta e quello poteva
essere l’ingresso più praticato dai fedeli, come succede ancora oggi in molte
chiese di quel tempo.
Matteo Barrese, non solo fece
costruire un tempio degno del suo casato, ma fece ingrandire e abbellire anche
il castello, rendendolo il più sontuoso dell’isola. Molti ne hanno scritto
ammirati della sua magnificenza. Ma dopo la morte di Donna Dorotea, i
Branciforte lo abbandonarono alle cure della loro corte e iniziò il lento
declino. Non è da credere che fosse stato “Fabrizio Branciforte a trasformare
l’antica fortezza in un elegantissimo e fastoso palazzo fortificato”.
[Nota 17-6: “Il Castello di Pietraperzia” di
Salvo Niboli, in Saggi…II].
Dei
Branciforte è detto anche che “incrementarono le loro terre con impianti di
vigneti, uliveti, orti ecc., favorirono lo spezzettamento dei grandi latifondi
con vendite agevolate ed enfiteusi, incoraggiando il formarsi di una borghesia
rurale ed artigianale”.
[Nota 17-7: Da “Sul castello Pietrino” di
Rosario Nicoletti, in Saggi…II].
Quando nel 1812 fu abolito il
feudalesimo, nel palazzo dei principi rimasero i custodi. Una parte lo prese in
affitto il Comune, che lo adibì a carcere fino al 1906, ma non pagò mai la
pigione e non fece nemmeno le riparazioni necessarie; per cui tutta la
costruzione, che tra l’altro aveva subito crolli a causa dei terremoti del 1883
e ’99, andò in rovina, non senza aver prima ospitato, in alcune delle proprie
sale, ammalati di colera nel 1887 e di vaiolo nel 1910 e ’18. I suoi pregi, un
po’ alla volta, furono asportati dagli ultimi amministratori, Lanza di Trabìa,
dai custodi, da funzionari e da chi sa chi.
Il castello meritava di essere
dichiarato monumento nazionale, che lo avrebbe salvato dalla rovina. Ma,
abbandonato, rimase in balìa di tutti. I cacciatori lo frequentavano per
allenarsi al tiro a segno e uccidere corvi e colombi; i pastori vi portavano a
pascolare le pecore e le capre, bruciando quel che serviva per fare il
formaggio; i bambini andavano a giocarci, deturpando ogni cosa; e gli adulti
portavano via preziose travi per farne legna da ardere.
Nei giorni 1 e 2 gennaio 1894,
durante la sommossa dei Fasci dei lavoratori siciliani (a cui pare avesse
partecipato un fratello di mio nonno Vincenzo, Nino, il quale era ritenuto un
poco di buono, come quasi tutti i socialisti di allora, perché conviveva con una
donna more uxorio, cosa comune a quei tempi più di quanto si pensi), la
rocca fu assaltata per liberare i detenuti, ma senza esito. Come senza esito fu
il tentativo di saccheggiare l’esattoria. Riuscirono invece a devastare i
casotti daziari e bruciare anche il Casino (Club) dei Galantuomini, l’ufficio
telegrafico e il Municipio, distruggendo, tra l’altro, l’archivio anagrafico.
Nel carcere del castello i reclusi
venivano tenuti in condizioni disumane, nei sotterranei mancava l’aria, e si
rischiava un’epidemia perché le latrine s’intasavano. Ma “secondo gli organi
amministrativi comunali esso offriva le più ampie garanzie igienico-sanitarie”.
Lino Guarnaccia riporta un brano di V. Consolo del 1760 in cui si legge che “il
cibo ai condannati veniva somministrato attraverso una pietra forata posta
nell’atrio prospiciente il portone d’ingresso alle celle nelle quali per
l’esiguità dello spazio, non potevano stare né in piedi né coricati”.
[Nota 17-8: L.
Guarnaccia, “Il Castello di Pietraperzia”, pagg. 120 e 118].
La terza
delle arcate a sud-ovest del cortile ha un’apertura da cui si accede a un lungo
e largo corridoio, in fondo al quale c’è un vano poco spazioso e buio, pur
essendo aperto nell’ambulacro. Probabilmente serviva per deposito di derrate ma
non si esclude che in qualche periodo sia stato utilizzato come prigione.
Quand’era funzionale, la luce e l’aria erano date solo da un foro largo circa 15
centimetri, entro il quale c’erano due ferri incrociati che avrebbero impedito
il passaggio di un braccio, nel caso di prigione, o di un colombo, nel caso di
deposito alimentare. All’interno di questo piccolo vano ci sono due “cucce”
contigue, entro le quali una persona non potrebbe stare né in piedi né distesa.
Poiché il locale è esposto a nord-ovest, d’inverno sarà terribilmente freddo:
buon frigorifero ma tremenda prigione. Nel corridoio c’è una finestra aperta
fino a terra che si affaccia nello strapiombo, molto pericolosa per chi dovesse
spingersi a guardare l’incantevole paesaggio.
Il castello di Pietraperzia con
panorama -
1999, olio su tela 70x50
[Segnalibro:
castello]
Il castello
è situato in una posizione da belvedere su un panorama di 360 gradi. E’
gradevole la veduta meridionale coronata dalle colline, che si estende da
nord-est a nord-ovest. La Chiesa Madre sta sotto di noi, i tetti delle case si
dilungano verso occidente e a sud, in fondo al quale spicca “l’Istituto”,
progettato e costruito dal muratore Giuseppe Bonaffini (Cazzulu). Ma la
parte nord è eccezionale, col suo vasto e bellissimo panorama che si espande
fino alle Madonie, e una bella “carrellata” visiva che da Caltanissetta,
passando per Sabbucina, Capodarso e Pasquasia, raggiunge Enna. Questa città è
ricca di storia e di miti, imprendibile, se non per tradimento, nelle guerre del
passato, grazie alla sua posizione su un monte circondato da strapiombi. Nei
suoi pressi Plutone rapì Proserpina, ma altre località vantano questo onore che
non appartiene a nessuno. Fino al 1926 Enna si chiamava Castrogiovanni dal tempo
degli Arabi e, forse per il fatto di essere l’”ombelico” della Sicilia, divenne
capoluogo di una nuova provincia a est del fiume Imera inferiore o Salso, e
Pietraperzia cadde sotto la sua giurisdizione. Ma il nostro paese avrebbe
preferito continuare a far parte della provincia di Caltanissetta, essendo
questa città più vicina, cosa molto importante quando le automobili non erano
ancora di uso comune. Così, dopo la guerra, con la democrazia, durante le
campagne elettorali, tutti i candidati che venivano a fare i comizi,
promettevano che si sarebbero interessati a far tornare Pietraperzia nella
provincia di Caltanissetta. Ma il fiume è un confine naturale ed era vano
illudersi.
A quei
tempi non c’era la nuova strada diretta, costruita in parte su viadotti, che
costeggia grosso modo la vecchia trazzera, lunga circa dodici chilometri, ma
bisognava percorrerne venti sulla via disagevole del Besaro, che provocava mal
d’auto con le sue curve, per appianare le pendenze seguendo l’orografia del
terreno, con piccoli ponti sui torrenti. Le auto compivano il tragitto in
mezz’ora ma i carretti impiegavano circa cinque ore. Con le bestie si percorreva
la trazzera, guadando il fiume in un tratto pianeggiante con l’alveo molto
largo, attraversabile anche a piedi, saltando sui grossi ciottoli. Lo facevano i
giovani in servizio di leva quando, tornando in licenza o congedati, il treno
arrivava tardi e non c’erano mezzi di trasporto per il paese.
Mi ricordo
di quando ero piccolo e mio padre mi portava a Caltanissetta in groppa alla mula
per andare alla fiera del bestiame o per qualche spesa. Io ero contento e mi
piaceva quell’odore di città dato dalle esalazioni degli scarichi di pochi
veicoli a motore in circolazione. Ora l’inquinamento è diventato un problema
molto grosso e preoccupante.
Guardo la
città sotto il monte con la statua in bronzo del Redentore e l’altissimo
traliccio della Rai (antenna per la radio degli anni Cinquanta, che coi suoi 284
metri era la più alta d’Europa). Da Caltanissetta proveniva il mio nonno materno
e il suo cognome, Amico, lo dimostrava. Erano cinque fratelli e tre sorelle, una
delle quali emigrata negli Stati Uniti non so quando né dove. Quattro di essi
sposarono un’intera famiglia: un maschio, due sorelle e la madre vedova di
guerra. Sentii dire una volta a mia madre che quel suo nonno, Calogero Rindone,
rimasto gravemente ferito alle gambe, preferì morire che vivere mutilato. Le sue
ossa sono sepolte nel Sacrario di Redipuglia, una grande gradinata con alti
gradoni di tombe nelle quali riposano 100 mila caduti sul Carso.
Il mio sguardo si posa in una zona di contrada Minniti, che una
volta riconobbi nella fotografia in un libro di geografia, per rappresentare le
caratteristiche della Sicilia interna. Isolato nella terra argillosa e franosa,
c’è un piccolo gruppo roccioso, con una guglia antropomorfa che, guardandola da
due lati, e cioè dalle due strade che conducono a Caltanissetta e che in quel
punto sono ancora poco distanti, mostra la testa di una donna vista di profilo.
Un aspetto zoomorfo, con la fronte e l’inizio della proboscide di
un elefante, ha invece il costone occidentale delle Rocche. Sulla destra si
vedono le grotte, che quand’ero ragazzo pensavamo fossero le antiche abitazioni
dei nostri antenati, ma gli studiosi ci dicono trattarsi di grandi sepolture.
Pietraperzia e le sue origini
-
2001, acrilico su cartone telato 40x50
I primi insediamenti erano avvenuti nel neolitico o forse nel
paleolitico superiore. In età successive il territorio fu conteso tra Sicani e
Siculi e poi Greci. I primi avrebbero dato il nome Petra e i terzi aggiunto
Perxìa. Ma poiché anche la collina dove in epoca Araba sorse l’attuale
Pietraperzia era stata abitata da Siculi e forse da Sicani, mi domando se Petra
e Perxìa non fossero i nomi dei due siti vicini e che gli abitanti,
rappacificati, abbiano deciso di creare un’unica comunità per meglio difendersi
da un comune e forte nemico, quale potevano essere i Cartaginesi. Nel mezzo
passa il Vallone di Calogero, che noi chiamiamo, anche col significato di
torrente, Vadduni di Calò. Più in basso c’è un avvallamento profondo e
fresco che crea un ambiente agreste idilliaco. Una volta tutta la zona doveva
essere bella e magnifica, essendo attraversata dal rivo nel quale scorrevano
perennemente acque limpide abbondanti. Perciò mi piace immaginare che il suo
nome non sia il troncamento di Calogero ma derivi dal greco “kalòs” (bello,
magnifico, eccellente); e Ìmeros lo accoglie con bramosia (cioè il fiume Salso
in cui affluisce, detto anche Imera, che significa appunto brama, voglia,
desiderio). Da ignorante posso permettermi di fantasticare e da curioso mi pongo
varie domande. Poiché il nostro accento è molto simile a quello della provincia
agrigentina, da quando l’ho scoperto (durante il periodo militare) mi sono
domandato se ciò risale ai tempi dei sicani e siculi, stanziati gli uni a
occidente e gli altri a oriente dell’Isola, essendo i nostri sotto l’influsso
dei primi o, più probabilmente, abbia avuto origine durante il dominio Bizantino
(dal 535 a dopo l’827) quando la Sicilia occidentale rimase latina, mentre in
quella orientale prevalse il greco. Il professor Giovanni Culmone mi dice però
che possa derivare dall’arabo e lo si parla in una zona che va dalle Madonie ad
Agrigento, passando per Caltanissetta.
Da giovane mi domandavo se il “divano” di li Valati, con
due “poltroncine” laterali, l’avesse fatto scalpellare un ricco proprietario per
capriccio o per servirsene durante le scampagnate, o… Gli studiosi dicono possa
essere un trono rituale preellenico. Ed io mi ci sedevo con poco rispetto, per
sfizio o per riposarmi dalla fatica. Mio padre aveva comperato la terra in cui
si trova e poi l’aveva venduta, ma senza mai considerare il valore di quel
reperto, come se non ci fosse stato. E’ curioso che un frammento di ceramica
antica valga molto denaro, mentre un’opera fissa di enorme interesse
archeologico, non abbia valore monetario, perché non è commerciabile.
E torniamo alle Rocche. Sulla cresta centrale c’è una grotta con
due aperture, che si possono notare anche da lontano, quando attraverso di esse
si vede il cielo. L’ingresso è solo uno e lo si raggiunge arrampicandosi nella
roccia; attraversando la grotta, ci si affaccia a nord, sull’orlo di uno
spaventoso precipizio su massi enormi e appuntiti. Chissà che non sia stata
usata per riti o più probabilmente per esecuzioni capitali.
[Segnalibro: carrubo]
Sposto lo
sguardo a sinistra per cercare la fronda di un carrubo seminascosto, in quanto
vive sul versante di tramontana, al confine superiore di un piccolo appezzamento
che era di nostra proprietà, quando mi ci stavo dirigendo sonnambulo,
provenendo da un altro fondo più in basso.
Quest’ultimo
arriva alla trazzera, che allora d’inverno era quasi impraticabile, poiché la
terra troppo bagnata si manteneva molliccia e appiccicosa. I contadini la
scansavano passando sul bordo del nostro podere che, essendo sopraelevato di
circa 80 centimetri-un metro, si manteneva un po’ asciutto. Per evitare il
dannoso transito, mio padre pensò di acciottolare il tratto di strada sotto di
noi, più un paio di metri alle due estremità. Con l’occasione liberammo il
nostro terreno di molte pietre necessarie al lavoro, che facemmo nei tempi morti
dell’estate. Alcuni contadini ritenevano poco intelligente che noi lavorassimo
per gli altri. Ma quando tornò l’inverno e la trazzera divenne impraticabile,
tutti passavano sul bordo sopraelevato dei fondi vicini, distruggendo il
seminato; mentre scansavano il nostro, scendendo sulla strada, perché trovavano
più asciutto camminare sulle pietre, e il nostro grano era salvo.
Alcuni anni dopo ci pensò il comune ad asfaltare tutta la
trazzera fino alla salita destra di li Cassari. Ebbene,
anche in questo caso molti ebbero da dire, ritenendo la spesa superflua. In loro
c’era la preoccupazione che nel tratto di strada in grande pendenza i muli
potessero scivolare. E certamente d’estate era meglio camminare sulla terra
polverosa che sull’asfalto. «Ci dobbiamo andare con l’automobile?» dicevano. Non
passarono molti anni che fu così.
D’inverno era impossibile attraversare certi terreni o percorrere
certi tratti di strada. Una volta me la vidi brutta sulla trazzera al di qua del
Vallone di Calò, poco oltre la via trasversale che scende dalla chiesa dello
Spirito Santo e va verso il Piano delle noci (che ricordo da sempre
senz’alberi). C’era un tratto maggiormente pericoloso un po’ al di là di dove
adesso c’è il depuratore. Essendo costretti a passarci, si cercava di aggirarlo
dall’alto, ma non è che allargandosi nel seminato non ci si dovesse preoccupare.
A un certo punto la mula sprofondò fin sopra le ginocchia, fino a sfiorare la
terra con la pancia, e cominciò ad affannarsi nervosa per uscire da una trappola
in cui faticava a liberare le zampe. Saltai a terra – macché saltare! la toccavo
già prima di scendere – e, sprofondando anch’io, cercai di dirigere l’animale
verso l’alto. Ciò che la bestia forse capiva da sé e, nel disperato tentativo di
uscirne, non si curava di scansarmi, per cui dovevo cercare di non farmi
travolgere.
E dire che quella trazzera, oggi asfaltata e utilizzata per
andare a Caltanissetta, in passato era una vecchia strada che congiungeva questa
località con Barrafranca e forse andava oltre. E’ rimasto a testimoniarlo il
tratto di via abbandonata che da qui va al Ciaramitaro.
Un’altra volta dovetti saltare a terra per evitare di scivolare
nel torrente in piena. Sarà stato in un tempo precedente, perché cavalcavo un
mulo che mio padre aveva comperato per me quando cominciai a lavorare, e si
spaventava facilmente, a causa della castrazione subita senza anestesia.
Tornavamo dal lavoro in anticipo perché si era messo a piovere a dirotto. Giunti
al Vallone di Calò, nel guado stretto, in curva, che ora è scavalcato da un alto
ponte, il mulo ebbe paura di attraversare la piena molto rumorosa, perché si
riversava nella cascata, e retrocesse. Ma si spostò dal tratto calpestabile e
mise i piedi posteriori nella roccia liscia e bagnata che s’incurvava verso il
fondo del torrente. Cominciò a scivolare e faceva tentativi disperati di tirarsi
su. Saltai a terra per alleggerirlo del mio peso e così riuscì a tornare sul
sicuro. Poi, preceduto dalla mula che cavalcava mio padre, si persuase a
passare.
A pochi metri da lì c’era un abbeveratoio scavato nella roccia,
riempito dall’acqua deviata dal torrente per alimentare l’orto sotto la strada,
ma era acqua di fogne mista a quella che si disperdeva dal Canale. Eppure molte
bestie vi si abbeveravano volentieri, qualcuna addirittura la preferiva a quella
pulita, altre invece non l’avrebbero bevuta neanche a morir di sete.
Questa
strada conduce in contrada Cassari, nella quale vi sono terre franose d’argilla
ocra scura, che d’inverno trattengono l’acqua piovana e diventano molli e
attaccaticce; in certi tratti hanno addirittura una particolarità collosa che
tende a trattenere chi ci passa sopra e vi sprofonda. D’estate, invece, a causa
della siccità, si crepano con fenditure larghe da sprofondarci una zampa di
mulo. Bisogna quindi fare molta attenzione a camminarci. Nel periodo della
raccolta si formava un sentiero dall’aia alla trazzera, facendo passare
le bestie sempre sullo stesso tracciato, affinché la parte superficiale
del terreno calpestato, polverizzandosi, riempisse un poco le spaccature e si
potesse andare tranquilli.
Ma quasi
tutto il resto del territorio è di altra natura. Si va dai terreni sabbiosi
rossi della Cava e Portella di Matteo a quelli sabbiosi neri del Piano Luogo,
dai calcarei delle Serre ai calcarei argillosi e agli argillosi neri di Camercia.
Torna all'inizio
Vai all'Home page
Vai al capitolo successivo
|