I TEMPI CAMBIANO
di Vincenzo Ballo |
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duelli].
Le risse fra i giovani, ai miei tempi erano molto frequenti.
C’era un senso dell’onore rustico, ad imitazione di quello nobile e
cavalleresco, che includeva la provocazione e l’accettazione della sfida con
spregio della vita, varcando il confine della giustizia, per irrompere nella
prevaricazione e limitare la libertà degli altri, togliendo o negando diritti,
adottando il sopruso a conferma della propria superiorità. Non che la prepotenza
oggi sia scomparsa, essendo adottata dalla criminalità organizzata e in molti
casi a livello politico e sociale; ma a quei tempi era praticata per fini
astratti, senza nessun beneficio materiale, per apparire “mafiosi”, nel senso di
alteri e coraggiosi. Se il coraggio mancava, veniva simulato con l’aspetto,
l’abbigliamento e la chiacchiera spaccona, facendo gli spavaldi per mostrare
baldanza. In quanto all’azione si faceva ricorso contro i più deboli e paurosi,
calcolando un buon margine di sicurezza per non perdere; altrimenti si stava
buoni e rispettosi. Perché i delinquenti sono anche codardi, infatti non
agiscono mai da soli e si riuniscono in clan per farsi coraggio l’un l’altro e
sentirsi forti. Si cercava la rissa quando si pensava di vincere o, nel caso le
forze si equivalessero, quando si riteneva di poter correre il rischio, pagando
il prezzo con qualche tumefazione, ma con un ritorno d’immagine per la prova di
coraggio. Purtroppo qualche volta saltavano fuori i coltelli. Ovviamente c’erano
anche gl’intrepidi e i coraggiosi pacifici. E ovviamente si ricorreva alla
violenza anche per motivi seri, d’interesse o d’onore, anche morale.
Ricordo un caso che vale la pena raccontare. C’era un gruppo di
giovani bulli, che si univano sempre numerosi e pensavano di potersi permettere
qualsiasi bravata. Ma un giorno, anzi una sera, ci fu un ragazzo diciottenne,
che si permise di pretendere da uno di loro, ma valeva anche per gli amici, un
comportamento corretto. «Altrimenti?…». Altrimenti avrebbero fatto i conti con
lui. Vennero alle mani e furono subito separati dagli amici presenti. Ma la cosa
non poteva finire lì, per un appartenente a una banda di bravacci era
inconcepibile che un pivello si desse arie con loro e osasse avanzare pretese;
bisognava dargli una lezione. Certamente l’”offeso” non poteva farcela da solo,
ma si sarebbe valso della forza del branco. Perciò una sera della settimana
successiva, aspettò in piazza l’ardimentoso e lo invitò a seguirlo. Era
immaginabile che ci fosse pronto un agguato e il giovane invitato avrebbe dovuto
avere la prudenza di rimandare lo scontro a un momento a lui favorevole o meno
rischioso. Ma egli era un tipo che non si tirava indietro, si sarebbe vergognato
di mostrarsi timoroso. Per sua fortuna si trovava con un amico-parente, il quale
vide un altro loro amico-parente insieme ad un comune amico e li avvertì che si
andava per una rissa.
Il posto usitato per risolvere con la forza le questioni era lo
spiazzo della Sìrbia, luogo ideale perché vicinissimo alla piazza
Vittorio Emanuele, al buio, col lungo muro cieco dell’ex monastero di Santa
Maria da un lato e poche case da quello opposto. Andarono dietro l’angolo dove
adesso c’è l’ufficio postale e l’infido cominciò con i preamboli verbali per
l’aggressione, mentre dall’ombra tutt’attorno uscivano le sagome dei compari. Lo
sfidato ritenne che la miglior difesa fosse l’attacco e anticipò l’avversario
prendendolo a pugni; quindi, essendo disarmato, prima che quegli si riprendesse
dalla sorpresa, si voltò indietro e corse a cercare una pietra (che allora erano
molto comuni per le strade). A due passi ne trovò subito una bella grossa
accanto a delle basole addossate al muro. Si girò e la ruppe (letteralmente)
sulla fronte del primo che gli venne contro: un bravo ragazzo che per ingenuità
si era inserito in quella compagnia. L’amico-parente aggiuntosi per ultimo si
lanciò coraggiosamente contro il principale rivale e subito la zuffa coinvolse
tutti. Gli aggressori erano più di una dozzina, circa quindici, e si divisero in
due gruppi per dare addosso ai due combattenti. Gli altri due amici di questi
non facevano altro che prendere da dietro gli aggressori uno alla volta e
metterli da parte, ma mentre ne toglievano uno, arrivava quello allontanato
prima. L’interessato si batteva dando pugni bassi con la mezza pietra rimastagli
in mano e l’amico-parente lottava eroicamente senz’armi ma con molta efficacia.
Dopo un po’ la lotta finì in una disputa movimentata e, stranamente, non si
videro danni: tanti pugni e non provocarono nemmeno un ematoma. Forse perché
allora non c’erano scuole di lotta e nemmeno i rissosi sapevano dare
cazzotti, come invece vedevano fare nei film detti “americanate”, dove con un
pugno Buster Crabbe stordiva l’avversario; e il karate era sconosciuto. Il
ragazzo che avrebbe dovuto subire la lezione se ne andò addirittura a ballare in
una festa in casa, forse per un matrimonio. Il principale aggressore invece
l’indomani uscì con una mano fasciata, che nascondeva in tasca come in un vezzo
di stile, quello che era stato messo fuori combattimento dovette uscire col
berretto sulla fronte: e furono gli unici che mostrarono i segni delle botte.
Ma non era finita, i malandrini non potevano accettare che
finisse così. L’indomani era festa e loro al “temerario” avrebbero fatto una
“festa” da ricordarsene per sempre. Non misero in conto però la sagacia del
padre, il quale affidò il figlio a un giovane amico più maturo, che aveva
compagni di sicuro rispetto e che, guarda caso, sarebbero stati contenti di dare
una lezione a quel gruppo di spacconi. Si prevedeva qualcosa di grosso, gli
amici intimi dell’aggredito gli dissero «dài che ci siamo anche noi», ma si
tennero alla larga; quelli che avevano partecipato alla zuffa invece gli furono
vicini.
Alla processione del Santo c’era molta gente, “un populu”
si sarebbe detto. La festa era ben sentita nel clima di armonia e pace gioiosa,
con la banda musicale che seguiva il simulacro, allora trasportato a spalla da
giovani devoti, tramite due grosse aste conficcate in quattro anelli quadrati su
due lati del plinto. Ogni tanto ci si fermava per permettere ad alcuni fedeli di
offrire delle banconote, che venivano fissate con uno spillo sui nastri
attaccati all’immagine Sacra. Questa, circondata da fiori, aveva l’espressione
sorridente, come se vedesse tutti buoni, e ispirava amore e beatitudine pur se
illuminata dal basso, angolo che in cinematografia viene usato per dare al volto
un’espressione sinistra. Nessuno poteva pensare che lì attorno, ai lati del
corteo, tanti giovani sorridenti, apparentemente tranquilli, che miravano le
ragazze in processione, erano pronti a uno scontro dalle conseguenze
imprevedibili. Quei picciutti si controllavano a distanza, da un lato
all’altro della strada, chi avanti e chi indietro. Gl’ignari non vi facevano
caso, sembrando che avessero interesse solo per le ragazze, con sguardi da
cupido senza frecce. Ma erano tutti armati di coltelli o pistole.
La gravità del pericolo però fece riflettere le due schiere sulla
validità del grosso rischio per una questione poco chiara e sicuramente lieve,
la quale interessava due persone per un principio d’onore che poteva restare
salvo senza ricorrere alla forza, la cui dimostrazione avrebbe provocato vittime
innocenti. Perché poi? Per niente. Qualcuno degli spavaldi s’incaricò di
presentare il quesito alla controparte. Si fu generalmente d’accordo. E anche i
principali antagonisti non avrebbero avuto piacere che per colpa loro qualcuno
ci rimettesse la pelle. Si decise quindi di porre fine alla contesa, gli
aggressori incassarono le invettive per aver aggredito un ragazzo che sapevano
pacifico, e si andò tutti quanti al bar per stabilire la pace con un bicchierino
e una partita a carte.
In seguito, per un motivo o per un altro (chi andò militare, chi
si sposò, chi emigrò) la banda si frantumò e i componenti diventarono tutti
bravi cittadini, tranne uno, che fu ammazzato in piazza da un compare, il quale
però non faceva parte dello stesso gruppo.
Il bello è che causa di tutto era stato un amico di entrambi i
contendenti (i quali però non erano amici tra loro), per una leggerezza, che per
equivoco era stata attribuita all’altro, il quale aveva reagito a modo suo. Ma
questo si seppe dopo e l’amicizia rimase, perché in sostanza non era stata una
mancanza grave.
[Segnalibro: duelli]
I duelli e le baruffe le facevano anche gli uomini sposati, per
questioni d’interessi a volte legati ai problemi di vicinato agricolo. Ma molto
più comuni erano fra giovani, per questione di donne. Nelle rivalità d’amore,
anche senza che si fosse corrisposti, il prepotente che riteneva di poterselo
permettere, senza averne alcun diritto, intimava al rivale di non guardare la
ragazza (cioè di non corteggiarla) e addirittura di non passare dalla strada
dove lei abitava!
Personalmente non ebbi di questi problemi, non fui mai molestato
e non sfidai mai nessuno, tranne una volta, e merita raccontare il fatto per gli
sviluppi che ne derivarono.
Avevo circa dodici anni e il mio amico di allora, col quale ci
chiamavamo “cumpà” (in molti ci si dava del compare per buona amicizia),
mentre passeggiavamo in piazza (di solito passeggiavano i grandi, ma per un
po’ poteva capitare anche ai piccoli) mi disse che un ragazzo si vantava di aver
fatto a botte con me e di avermi battuto. Rimasi trasecolato. «A mmìa?!…».
Non ci eravamo mai picchiati, la sua vanteria era assurda. Eppure il mio amico
affermava essere vera e, vistolo con un compagno davanti al cinema-teatro
Comunale, me lo indicò. Bisognava dargli una lezione e dimostrargli che io ero
più forte. Andammo e dissi: «Tu vai dicendo…» eccetera eccetera. «Io?! No, io
non ho detto niente». «Beh, comunque prendi questi». E lo presi a pugni.
Alla prossima uscita, in piazza, mentr’ero fermo, non ricordo
con chi, mi abbordò insieme al suo amico. Ma per ripetermi che lui non aveva mai
detto di aver fatto a botte con me e tantomeno di avermi battuto. L’amico
confermava quello che lui diceva e io gli credetti.
Il bello è che a poco a poco mi allontanai dal compare, restando
pur sempre amici, e strinsi amicizia con questi due, forse per il fatto che con
l’aggredito eravamo vicini di casa. Poi lui, ancora giovanissimo, emigrò in
provincia di Vercelli e non l’ho mai più rivisto. Con l’altro invece l’amicizia
proseguì e non s’interruppe, formando, insieme ad un terzo, un trio affiatato
con lo stesso nome in comune: Vincenzo (anche se io ero chiamato Vicinzinu,
ma non da loro). Essi erano lu Giuratu, Emma di cognome, e Vasamaduni,
Rindone. Entrambi, studiarono per corrispondenza disegno meccanico che, con
altre conoscenze, servì loro per far carriera rispettivamente all’Alfa Romeo e
alle Ferrovie dello Stato. Insieme frequentavamo la biblioteca, che allora era
situata in un locale al primo piano delle scuole maschili ed era aperta di sera.
La diressero due insegnanti, prima Rocco Messina e poi Vincenzo Laurella di
Piazza Armerina, che insegnava pure musica. Un anno frequentammo un corso serale
chiamato Sesta, condotto da Calcedonio Rame, un giovane insegnante che aveva
studiato per conseguire il diploma continuando a lavorare da contadino. Egli ci
potenziò le conoscenze delle elementari e imparammo un po’ di francese. Questo
mi fa ricordare che mio padre in gioventù aveva frequentato un corso serale di
agricoltura, sicuramente più utile per i contadini di allora. Un altro caro
amico, ma che non faceva parte dello stesso gruppo, era Calogero Palascino, del
ramo Pudditruni, col quale c’erano pure vincoli di parentela, essendo la
madre sorella del mio nonno materno. Ho aggiunto i soprannomi, oltre per il
fatto che con essi erano e sono meglio conosciuti, anche perché distinguono una
famiglia dall’altra, in quanto vi sono persone con lo stesso cognome senza
essere parenti. Mio suocero era uno dei tanti Imprescia, ma era conosciuto come
Cazzuttu. Col mio stesso cognome c’era un’altra famiglia, della quale non
ho conosciuto nessuno e forse si è estinta. (Mi fece impressione l’annuncio di
morte di Ballo Carmela, che non era mia zia e madrina ma una signora anziana
sconosciuta). Vi è pure il caso di soprannomi uguali con cognomi diversi. Ora
però i soprannomi, ‘ngiùlii (da ‘ngiùlia = ingiuria), sono caduti
in disuso. Al Nord, invece, si danno per simpatia.
Vorrei tornare al ragazzo che avevo preso a pugni, per introdurre
due note di moda maschile. Lo conobbi un giorno a scuola, dopo qualche tempo che
il corso era cominciato, quando entrò per la prima volta in classe. L’amico
Vinci, nel vederlo, gridò: «Mezzatesta!». «Ss-t» gli dissi, pensando che lo
chiamasse con un soprannome per la sua testa piccola e lo potesse offendere.
Invece quello era il suo cognome: Mezzatesta Filippo. Era un ragazzo fine e
pulito, con una riga perfetta sui lisci capelli biondi, indossava un cappotto
blu che lo faceva molto elegante: si vedeva che veniva da una città
dell’alt’Italia. Infatti era stato a lungo ospite da parenti a Brescia, per
questo non lo conoscevo, anche se eravamo vicini di casa, nella quale però
abitavo da poco, essendoci trasferiti da San Francesco al Canale.
Lui somigliava alla madre; il padre, ben piantato, la testa non
l’aveva piccola. Possedeva un vivace cavallo storno, che saltellava smanioso
quando lo teneva per la redine vicino alla cavezza, conducendolo a piedi da casa
verso la fontana, dove lo cavalcava per andare a lavorare. La gente diceva che
fosse lui a stuzzicare l’animale per renderlo inquieto, ma sulla strada per la
campagna andava spontaneamente a passo spedito. Questo signore era una persona
brava e intelligente, ma si ironizzava sul suo cognome anche per il fatto che,
sia d’estate che d’inverno, andava sempre senza cappotto e senza berretto. Non
capivano che era un precursore.
Allora, oltre al paltò, qualcuno usava ancora la scappulara,
pesante mantello di panno blu scuro con cappuccio e senza accessori di
allacciamento. Tutti i contadini portavamo lu tascu; alcuni ricchi invece
mettevano il cappello e poi molti finirono per andare a capo scoperto. A questo
punto, per modernizzarsi, anche i contadini giovani smisero di portare la
coppola (ma questo è un termine che noi non abbiamo mai usato) e i ricchi, per
distinguersi, ripresero a mettere il berretto, ma di tela chiara, d’estate. Poi
si arresero.
Ora molti, anche d’inverno, passeggiano in piazza senza cappotto
né berretto, infreddoliti, raggrinziti dal freddo, e magari criticano chi si
copre perché il tempo lo richiede o per le sue buone ragioni. La critica può
essere irrazionale e fatta con cretineria fumosa anche da persone intelligenti,
perché la moda induce a seguire la piena stando sul canotto senza usare la
pagaia.
A quei tempi i ricchi portavano l’orologio da tasca, detto
cipolla, e lo teneva pure qualche contadino, ma averlo era un segno borghese. In
qualche casa c’era il grande orologio a pendolo e poi si diffuse quello a cucù.
Quando nei primi anni Cinquanta l’orologiaio Turiddu Stella introdusse la moda
dell’orologio da polso, tutti i giovani lo comperarono e alcuni, che lo
portavano anche in campagna, furono criticati perché per il loro lavoro bastava
guardare il sole o, quand’era nuvoloso, la luce del giorno.
I giovani sentivano di poter aspirare a un vita migliore, perché
c’era qualche soldo in più, grazie a maggiori raccolti dovuti ai nuovi concimi
chimici e all’arrivo del trattore, che vangava la terra molto più a fondo,
distruggendo la gramigna infestante le terre con le sue radici superficiali ma
fitte, le quali impedivano al grano di crescere vigoroso.
Molti giovani volevano fare bella figura con le loro cavalcature
e ordinarono bardature pompose e sgargianti, con fiocchetti tondeggianti
multicolori e specchietti rotondi. Il mio amico Pino Coniglio ebbe molto
successo con questo lavoro. Ma s’intensificò l’emigrazione, le richieste
diminuirono e anche lui fu costretto ad emigrare in Germania, dove sposò una
tedesca.
L’emigrazione purtroppo ha separato molti amici e molte famiglie.
Anche quelli che vivono nella stessa città, i quali nei primi tempi si
ritrovavano spesso per stare insieme, ora non si rivedono più. Lo stile di vita
e di comportamento è cambiato: nella confusione delle città ci avviamo tutti
verso l’isolamento.
I paesi delle cinture cittadine son diventati da tempo grossi
agglomerati residenziali, mentre i paesi lontani dallo sviluppo sono come le
ossa con l’osteoporosi. I giovani pietrini se ne vanno e il paese nei suoi
abitanti si fa sempre più vecchio. Continuano alcune costruzioni nella parte
bassa, mentre molte delle vecchie case, rimaste abbandonate, vanno in rovina,
come il glorioso castello i cui ruderi, in cima alla collina, tentano di
resistere alla corrosione del tempo.
Il riposo del
Sanbernardo -
1996, olio su tela 60x40
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