I TEMPI CAMBIANO
di Vincenzo Ballo |
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Anche Pietraperzia e li pirzisi hanno subito un grande
cambiamento. Il paese, lo abbiamo detto, si è ingrandito, con molte belle case,
belle vie tutte lastricate. I cittadini sono diminuiti ma si sono molto evoluti,
mettendosi al passo coi tempi. Dalla furbizia contadina si è passati a quella
raffinata e, purtroppo, dalla gentilezza genuina a quella di facciata, come
suggerisce la società moderna. Ciò non vuol dire che manchi la vera gentilezza;
la generosità e l’amicizia sono rimaste integre. Del resto anche gli emigranti
siamo cambiati.
Ma la
differenza maggiore si nota nella cultura e nell’altezza delle persone. Dopo una
sola generazione, la statura dei giovani è aumentata di circa 15-20 centimetri,
certamente grazie all’abolizione del lavoro infantile e al benessere in cui sono
cresciuti, con maggiore e migliore alimentazione.
Nel rapporto tra i sessi i giovani hanno raggiunto la libertà che
i genitori invidiavano ai settentrionali, i quali avevano avuto l’evoluzione
qualche hanno prima, partendo però da costumi meno rigidi. Ora anche da noi
molte coppiette si baciano pure per la strada, ma soprattutto appartandosi negli
angoli bui o sulle panchine della Villa nelle sere d’estate, non preoccupandosi
di essere visti da coloro, grandi e piccoli, che vanno lì a prendere il fresco,
e i più, per discrezione, preferiscono non andare oltre la fontana appena dopo
l’ingresso. L’utilizzo della macchina favorisce l’intimità lontano dal paese e
dagli sguardi. La verginità non è più un tabù e non sappiamo quante la
conservano fino al matrimonio. I genitori, specialmente quelli delle femmine,
fingono di non sapere e ritengono le loro figlie illibate al cento per cento. Il
bello è che giudicano le ragazze settentrionali tutte “puttane” o quasi,
ignorando che possono essere più “oneste” delle proprie figlie.
Il giudizio errato, o perlomeno esagerato, nel ritenere le donne
del Nord libere e disponibili, portò molte delle prime immigrate meridionali,
specialmente quelle con genitori più permissivi, a concedersi molto facilmente,
dando sfogo alla libertà conquistata dopo secoli di proibizione, come se ognuna
fosse la reincarnazione di tante altre donne del passato che avevano aspettato
il momento buono per prendersi una rivincita.
L’analfabetismo è scomparso e, con l’obbligo dello studio fino a
una certa età, pochi non hanno il diploma e molti sono laureati.
Purtroppo quasi tutti i giovani genitori impongono ai loro figli
piccoli di parlare esclusivamente italiano, privandoli di una ricchezza
linguistica, perché anche il dialetto è cultura. L’accento dei giovani è
cambiato, forse a causa degli studi in città con compagni di altri paesi, per
cui hanno una pronunzia troppo aperta, con cadenza prima sconosciuta, e simile
alla parlata dei coetanei di altre località. Molti, compresi i meno giovani,
parlano un misto di siculo-italiano e spesso italianizzano male i vocaboli
siciliani, come quando dicono mettà o luneddì eccetera, potendo
evitare il raddoppio delle consonanti, (una volta dicevamo mità e
lunidì). Anche “nuautri”, che si è cominciato a dire negli anni
Cinquanta, non è meglio di “nuantri”. A quelli che manchiamo da oltre
quarant’anni, rimproverano l’uso di certi vocaboli che loro non pronunciano più.
Ma noi siamo rimasti al dialetto di allora, non conosciamo gli aggiornamenti:
non sappiamo che tumazzu (da toma) ora si dice formaggiu (da
forma), li canzi ora sono pantaluna, la froscia per noi non
è il femminile di un altro significato ma è il termine siciliano di frittata.
Impedirci di chiamare le cose con i nomi di una volta, è come toglierci il
piacere di parlare siciliano e allontanarci dalle nostre origini. Vero è che già
noi, sessant’anni fa, criticavamo i pochi vecchi che dicevano bunaca per
giacca, occa per acqua e muccaturi per fazzulettu. I
tempi cambiano continuamente e muta anche il linguaggio; ora che abbiamo quasi
imparato a parlare l’italiano, cominciamo ad adottare termini inglesi, per
influenza statunitense, americanizzando la lingua e il modo di esprimerci.
[Segnalibro: giovani]
I
giovani d’oggi (e qui non mi riferisco solo ai pietrini) si americanizzano anche
nei gusti, nei costumi e nei vizi. A pasta, frutta e verdura preferiscono
merendine e panini. Amano la musica statunitense, non tanto quella negra
(blues o jazz), ma il rock, che però ha subito una rilevante
trasformazione dai tempi di Elvis Presley, “re” del rock and roll, morto
da parecchi anni e ancora osannato. E ascoltano musica hause, che si
ripete su un giro armonico di accompagnamento in cui emerge solo un monotono
rumore martellante, col quale si muovono a tempo e pure ballano.
I giovani sono diventati musicaldipendenti dal ritmo e dalla
ripetitività. Anche il sottofondo, ch’era motivo di gentilezza per valorizzare
il discorso con discrezione, è diventato invadente, martellante e forte, tanto
da impedire la comprensione di quello che viene detto.
Una volta si ballava al suono delle orchestrine, il volume era
lieve, le luci si abbassavano per non disturbare e creavano una dolce atmosfera
di intimità. Le sale da ballo aprivano alle ventuno e chiudevano a mezzanotte-l’una,
quasi esclusivamente sabato e domenica, facendo il matinée nei pomeriggi
dei giorni festivi. Ora quest’uso rimane per le persone mature che amano il
“liscio” e le canzoni degli anni Sessanta.
Prima piaceva a tutti la melodia italiana. Tajoli, Villa,
Consolini e la Pizzi erano i cantanti più in voga. I giovani ballavano
ascoltando le canzoni e gli anziani li criticavano perché secondo loro si doveva
ballare solo con i ballabili, senza interferenza di voce umana. La melodia
italiana resistette anche al successo dei ritmi americani del nord e poi del
centro-sud (mambo, rumba e cha cha cha). Cambiò genere verso la fine degli anni
Cinquanta con Modugno, che nel ’58 vinse il Festival di Sanremo con Nel blu
dipinto di blu (Volare), e l’avvento dei cantautori, che non tutti avevano
una bella voce ma andava bene per le loro musiche. E fra i cantanti emersero più
di tutti Mina e Celentano.
Al cinema si deridevano le danze primitive dei popoli “selvaggi”
che ballavano saltellando da soli. Ma ben presto anche i nostri giovani
“evoluti” cominciarono a saltellare ciascuno per conto proprio, rinunciando al
piacere di ballare guancia a guancia. Poi venne e passò la disco music,
ma resiste il rock e si diffonde in tutti i paesi che si aprono
all’Occidente.
I giovani vanno in discoteca dalle undici di sera alle
tre-quattro del mattino, orario che una volta praticavano i night, locali
notturni per gente danarosa o viziosa che amava spendere, dove c’erano belle
ragazze, eleganti e profumate, con buona resistenza all’alcol, pagate apposta
per invogliare i clienti che le invitavano a ballare, a consumare bottiglie di
supercostosissimo champagne.
Nelle discoteche ora ci sono le cosiddette cubiste, che ballano
in una posizione elevata invogliando al divertimento. Luci psichedeliche
lampeggianti e musiche ad alto volume che rovina l’udito e fa male allo stomaco,
combinano un mix sconvolgente. Purtroppo molti giovani, per resistere ai
ritmi della serata, prendono pastiglie di droga sintetica che non fa sentire la
stanchezza ma danneggia la salute. Non c’è da meravigliarsi che molti escano
incoscienti dall’ubriacatura di tutto questo e vadano incontro a pericoli
d’incidenti mortali.
Ai miei
tempi la droga era conosciuta nell’alta società, per soddisfare vizi e
depravazioni, la gente comune non cercava nessuna droga; a parte la sigaretta
che si fumava per sentirsi uomini. "Cu nun fuma e nun piglia tabaccu
iè cumu un canniliri senza meccu” si diceva. Ma chi aveva preso il vizio
avvertiva che “Cu fuma e piglia tabaccu notte e ghiurnu tussi cumu un
beccu”. Qualcuno eccedeva col vino, ma si trattava di poca gente anziana,
vissuta in ambienti esposti al rischio e abbrutita dalle traversie della vita.
I giovani, per la loro sana e giusta propensione alle novità,
sono più esposti alle nuove proposte e seguono le tendenze spesso in modo
acritico, trascinati dall’esempio dei coetanei che anticipano nuovi stili
d’immagine e comportamentali. Ma non sono stati mai come oggi così volubili e
passivi a tutte le stravaganze introdotte nella società. Intorno al 1970 era
considerato barbaro l’uso di fare un buchino agli orecchi delle bambine e
andavano di moda gli orecchini con gli attacchi a pinza. Oggi c’è l’uso del
piercing (che nelle sue manifestazioni più spinte in passato sarebbe stato
punito dalla legge) ed anche i maschi eccedono coi buchi e mettono anelli,
orecchini e spilli in tutti i punti più significativi del corpo: al naso, nelle
sopracciglia, nella bocca, nella lingua, nei capezzoli, nell’ombelico e persino
nelle parti più intime. Una volta vidi litigare due ragazzi con la faccia piena
di questi oggetti ornamentali, lei sbraitava e provocava il ragazzo, questi
stringeva i denti dalla rabbia e tratteneva le mani frementi davanti al volto di
lei. Rabbrividivo al pensiero di quello che sarebbe potuto succedere se le
avesse afferrato un qualche aggeggino di quelli che lei aveva conficcati sul
viso e avrebbe tirato.
E’ in
voga pure il tatuaggio, se lo fanno fare anche i meno giovani e persone
eleganti, specialmente d’estate, come ornamento fantasioso, giovanile, allegro
del corpo. Prima era comunemente praticato da popolazioni di cultura inferiore,
anche a scopo religioso e/o magico, da marinai e delinquenti (per i quali ultimi
non capisco l’interesse, dato che potrebbe risultare un compromettente segno di
riconoscimento indelebile; solo di recente ci sono tecniche che ne permettono la
cancellazione).
[Segnalibro: mode]
Diverse mode giovanili sono sorte in questi anni ma hanno fatto
poca presa. Alcuni giovanissimi vestono in modo molto trasandato e tingono i
capelli con colori assurdi (fucsia, blu cobalto), a imitazione di certi gruppi
musicali, che hanno bisogno di adottare un look particolare per farsi
notare e avere più facilmente successo, ma non aiutano certo i giovani nella
ricerca di un lavoro.
Diffusissimi invece i blue-jeans, specialmente nella
seconda metà del XX secolo, usati anche dai meno giovani. Inizialmente di grossa
tela di cotone, sono diventati eleganti, leggeri e di vari colori. Ai primi, i
giovani vi provocarono delle macchie schiarenti immergendoli nella candeggina,
ora escono dalla produzione con macchie e disegni particolari che danno al corpo
un aspetto più sexy. Inoltre, e questo è un segno aberrante del
consumismo, parecchi giovani li lacerano, maggiormente nella parte anteriore
delle gambe, e vanno in giro con tagli sfilacciati che lasciano intravedere un
po’ di pelle. Non lo fanno per questo, lo fanno per gusto giovanile, ora che
nella società del benessere neanche i poveri vanno con gli abiti rattoppati;
mentre quando ciò avveniva ci si vergognava di andare come vanno adesso loro.
Insieme ai jeans, che tra l’altro hanno aperto la via alla
moda unisex, hanno preso piede le scarpe da tennis e alcuni usano gli uni
e le altre anche con giacca elegante, per snobismo. Le calzature di tale foggia
che non devono servire per lo sport, sono state appesantite nei materiali e
portano bene in vista il logo del costruttore. Anche altri prodotti di
abbigliamento, giubbotti e borse, si impongono per la griffe, perché
tutti oggi vogliono la roba firmata. Altrimenti non si è nessuno, gli altri ti
fanno sentire inferiore. Non conta se sei onesto, bravo, intelligente,
progredito, non conta quello che sei, conta quello che mostri. In questo modo i
giovani vanno in giro con il marchio delle industrie d’abbigliamento, alle quali
fanno involontariamente pubblicità e vengono “compensati” con l’aumento del
costo. Portano con disinvoltura delle magliette nelle quali è stampata la
bandiera americana; mentre si vergognerebbero se fosse quella italiana, per il
solo fatto di portare i colori di una bandiera. Più appariscenti sono le scritte
sulle t-shirt, veri slogans, inglesi o italiani, che spesso
esprimono appartenenza o simpatia per un gruppo, alcune inneggianti all’amore,
alla natura, altre sono, in qualche caso, velatamente politiche. E pensare che
una volta i commercianti pagavano per far mostrare il proprio nome o quello
delle case dei prodotti che vendevano. Erano chiamati sandwich i giovani
che nei corsi principali passeggiavano con due tabelloni addosso a mo’ di
poncho con la scritta pubblicitaria. Ora il marchio viene mostrato per
distinguersi, esibire la propria illusoria superiorità.
La moda interessa pure i piccoli, e i genitori, anche se non
hanno molte possibilità finanziarie, sono costretti a spendere per non sfigurare
e non fare emarginare i propri figli. Poi bisogna farli partecipare con regali
alle molte festicciole che i loro amichetti organizzano in diverse occasioni, e
a loro volta festeggiare i propri compleanni, onomastici, comunione, cresima,
inizio e fine di anno scolastico, vacanze di Natale, eccetera, eccetera,
eccetera.
Ai miei tempi gli anniversari si festeggiavano con una scherzosa
tiratina di orecchi ai ragazzi che compivano gli anni, dicendo col sorriso: “Arrihordatinni”
(ricòrdatene). Le altre ricorrenze venivano ricordate solo se coincidevano con
le festività. La moda infantile riguardava una ristretta élite e per i
grandi l’eleganza maschile era data da giacca e cravatta, vietato andare in
maniche di camicia. Le donne portavano gli abiti con l’orlo sotto le ginocchia
ed erano leggiadre con le gonne a mantello. Poi le maniche si accorciarono e in
alcuni abiti estivi scomparvero del tutto, creando problemi per entrare in
chiesa (a messa mettevano la veletta). Ora le ragazze mostrano l’ombelico,
portando magliette cortissime, senza timore di prendere freddo e rischiare il
mal di schiena.
I tempi cambiano e anche il trucco è cambiato: negli anni della
mia prima giovinezza, le donne usavano solo cipria sul viso e rossetto sulle
labbra, qualche buon profumo o acqua di Colonia; ora ci sono fondotinta,
mascara, rimmel, bistro, detergenti, eccetera, con vari profumi molto costosi.
Gli uomini per dopobarba mettevano l’alcol e sui capelli la brillantina, che i
poveri sostituivano con l’olio di oliva, solo alcuni usavano un po’ di debole
profumo.
[Segnalibro:
caratteri]
Sono
cambiati pure i caratteri delle persone. La schiettezza non è più di moda,
l’evoluzione consiglia l’ipocrisia. Anche se i giovani quando s’innamorano non
tengono conto delle classi, persiste il sentimento di distacco da quelle meno
fortunate, oggi ci si allontana da loro, mentre prima venivano allontanate.
L’emarginazione avviene in merito alle apparenze. C’è molta superficialità:
prima si badava di più alla sostanza, oggi siamo nell’era dell’immagine ed è più
importante apparire. Purtroppo si è soggetti al giudizio della gente, anche se
molti dicono che non gliene frega niente, in realtà lo subiscono al pari degli
altri, se non di più. E per fare bella figura, dato che i soldi non bastano,
magari risparmiano sul vitto, giustificandosi con la scusa della dieta, ma
comunque facendo capire agli altri di mangiare meglio di loro. Il che potrebbe
essere un’offesa di cui non si rendono conto.
Il cibo da necessità è divenuto cultura, più che come nutrimento
è valorizzato come gastronomia. Una gran parte della popolazione dei paesi
ricchi è in sovrappeso ma gli opinion leaders dicono che per essere belli
bisogna essere magri. Così molte donne, maggiormente le più giovani, fanno diete
dimagranti, aiutandosi spesso con prodotti specifici, e alcune diventano
anoressiche. Non ascoltano l’opinione di chi sta loro intorno, non considerano
di essere piacenti e amate così come sono, non si domandano perché le donne che
Tv e giornali ci mostrano a scopi erotici non sono magre. Per indicare linee di
bellezza, più giustamente si dovrebbe dire snelle, come negli anni Sessanta,
perché c’è differenza tra essere snelle ed essere magre. E poi “non è bello ciò
ch’è bello ma è bello ciò che piace”. (Ho sentito dire a un uomo che bisogna
sposare la donna che piace agli altri e farsi l’amante come piace a se stessi.
So che aveva la moglie magra e l’amante grassa. Forse pensava alla moglie come
bustarella o accessorio di eleganza, altrimenti credo che sia preferibile una
moglie-amante). I canoni di bellezza sono dettati dalla moda, che non rispecchia
i gusti di tutti. I popoli poveri apprezzano le persone in carne. Nel passato
piacevano le donne grasse, e i dipinti lo dimostrano. Si vedano i bellissimi
quadri di Rubens, Boucher e di tanti altri pittori, fino al realista Coubert e
all’impressionista Renoir con le loro bagnanti, per non parlare di Tiziano e
Tiepolo, e ignorando due nomi che dipingono solo figure tondeggianti tutte
uguali.
Prima, comunque, ci si curava meno della forma fisica, si
mangiava quanto e quello che si poteva o piaceva, non si faceva moto, al di là
di quello imposto dal lavoro, e ci si accontentava di mostrare un viso piacente.
La bellezza era genuina ma purtroppo molte ragazze belle si guastavano per
trascurataggine.
Oggi c’è chi cura il corpo in
modo maniacale, non ci si accontenta di una normale ginnastica, occorre
frequentare la palestra (e son definiti palestrati quelli che esagerano e
mostrano i muscoli gonfiati, magari con gli anabolizzanti dannosi alla salute).
C’è chi frequenta i centri di bellezza e al solarium si abbronza con le
lampade artificiali, che quando si esagera imbruttiscono. Tutte le donne si
depilano e molte, di una certa età e categoria, fanno il lifting agli
occhi, alle labbra, alle guance e dove è necessario per ringiovanire il loro
aspetto.
Ovunque c’è una concezione edonistica della vita, principalmente
dovuta all’influenza della televisione (che fa pubblicità, a volte ingannevole e
sempre mirante al consumismo, pagata in misura esorbitante da sponsor che spesso
usano personaggi famosi per invogliare a comperare i propri prodotti),
secondariamente dagli altri media e infine dal giudizio della gente, che
dichiara di aver rispetto delle persone in quanto tali, ma umilia, emargina e
deride chi non si adegua. Poi magari si scopre che uomini rispettabili hanno
rubato e giovani maritate oneste e ragazze di buona famiglia si sono
prostituite, ovviamente in case esclusive. Si tenta di imitare i divi del
momento, che magari si comportano in un dato modo o adottano un certo look
per farsi notare e far parlare di sé. Ma ciò che può andar bene per loro non è
detto che vada bene per la gente comune. Ad essi un divorzio può rendere in
pubblicità, ma ad altri arreca solo danni, e può essere necessario solo quando
c’è l’impossibilità di andare d’accordo. Le situazioni estreme delle soap
opera, telenovelas e fiction varie, inventate per tenere
avvinti al televisore per anni, vengono recepite come realtà della vita di tutti
i giorni. I fatti eclatanti, veri o finti, possono indurre all’emulazione, molto
più facilmente quando sono negativi. Gli spettacoli di svago, con balli e
lustrini, fanno sembrare la vita bella e divertente. I giovani vogliono
divertirsi ad ogni costo e in ogni modo, sempre.
Con una battuta si potrebbe dire che non c’è più religione, ma
seriamente diciamo che non c’è più rispetto della religione. Certamente la
credenza è sentita e diffusa, ma agli ammonimenti della Chiesa quasi nessuno dà
retta, e abbiamo visto che le funzioni sacre sono meno seguite di una volta.
Questo però non significa, come potrebbe sembrare, che prima ci fosse più
religiosità; c’era più osservanza e si rispettavano le ricorrenze con devozione,
ma le cerimonie erano seguite per svago e per farsi conoscere, non essendoci
altre occasioni. Ora ci si diverte e si balla anche il giorno del Venerdì Santo.
La televisione trasmette i normali programmi di divertimento, (quando c’era solo
la Rai trasmetteva esclusivamente musica sinfonica). Prima non ci si specchiava,
si faceva penitenza e digiuno in ricordo del sacrificio di nostro Signore Gesù
Cristo che morì in croce per noi, perché predicava l’uguaglianza e la dignità di
tutti gli uomini, per un’idea che voleva liberarci dalla discriminazione e dalla
schiavitù. Si constata amaramente che gli schiavi ci sono ancora oggi, pure nel
nostro civilissimo paese, che però non s’impegna seriamente, non può o non sa
difendere quelli che sono costretti a subire violentemente il sopruso criminale.
E nell’espressione del Crocifisso rimane sempre viva la sofferenza del
Redentore.
Lu Signuri di li fasci
(elaborazione di una foto non mia)
[Segnalibro: venerdì]
Il Venerdì Santo a Pietraperzia lo si celebra con una particolare
devozione per Gesù morto, rappresentato nel Signuri di li fasci, una
croce alta otto metri e mezzo, oltre il plinto, col simulacro del Cristo che
sovrasta il globo di vetri colorati e illuminato dall’interno, sul vertice di
una piramide conica formata da circa duecento fasce di lino bianco lunghe
trentatré metri, allacciate nella loro metà ad un anello. Le fasce, per lo più
ex voto, sono tenute alle estremità dai devoti e servono a proteggere dal
basso il Crocifisso, nei casi in cui dovesse inclinarsi da una parte. Quando ciò
accade, qualcuno grida: “Attrantati li fasci!”, e quelli della parte
opposta all’inclinazione tirano per trattenere il sacro complesso trasportato a
spalla, generalmente per voto, da circa 50-80 persone, che ogni tanto gridano
drammaticamente “Pietà e misiricordia, Signuri!”. Immagini e grida sono
molto suggestivi, particolarmente prima della processione, quando la croce,
distesa nel piazzale antistante la chiesa del Carmine, viene alzata, e alla
fine, quando viene adagiata. Al seguito vi è una bara con Gesù Cristo nell’urna
e infine l’Addolorata. La prima è portata da dodici uomini incappucciati e la
seconda da dodici donne; (una volta lo facevano solo gli uomini vestiti in modo
normale). Spira una grande atmosfera di partecipazione e la banda musicale che
suona marce funebri contribuisce a coinvolgere tutti.
Una volta c’erano molti gruppi che ladavanu in mezzo alla
folla, cioè lodavano il Signore, narrando in laudi la Sua Passione con un canto
lamentevole (di cui però non si capivano le parole perché molte sillabe avevano
lunghe variazioni di tono) e le frasi erano alternate dal coro che accordava con
la vocale a oppure la o in una nota trattenuta a lungo. I cantori
erano contadini o braccianti e fra questi ultimi stavano i più bravi. Ora è
rimasto solo un piccolo gruppo a cantare quelle laudi e le tradizioni si
perdono.
Le prediche quaresimali oggi sono distribuite fra le tre
parrocchie e se ne tengono in minor numero. Una volta erano fatte solo alla
Matrice e parecchie persone vi accorrevano andando molto in anticipo in chiesa
per prendere i posti migliori, affittando le sedie dal sacrestano o portandosi
sgabelli di ferla (ferola). Era una grande occasione per ascoltare
parabole del Vangelo (celebre quella del Figliuol prodigo), farsi una piccola
cultura religiosa, commuoversi e godere come nell’assistere ad uno spettacolo.
Il predicatore (che veniva da fuori, destava grande curiosità e si facevano
paragoni con i precedenti) saliva sul pulpito e con la sua voce stentorea,
spesso in modo drammatico o, secondo i casi, enfatico, avvinceva gli auditori,
per lo più donne, specialmente anziane, ma andavo anch’io fanciullo. C’è
sempre, e non può essere diversamente, l’incontro di Pasqua tra Gesù Risorto e
la Madonna che gli va incontro in gramaglie. Se ne libera quando, con sorpresa,
lo riconosce, e poi fa il segno della Croce.
Ho
notato molta affluenza alle normali messe del sabato sera e della domenica.
Quasi tutti prendono la Santa Comunione, ora che non c’è l’obbligo di essersi in
precedenza confessati. Tanto, anche se prima ci si confessava e si dichiarava
pentimento, si reiterava nel peccato. Molti andavano dal confessore per svuotare
la sacca delle colpe, in modo da sentirsi più leggeri e poterne immettere
ancora. Dubito che in tutti ci sia vera devozione e credo che tanti mostrino di
essere credenti e fedeli alla Chiesa perché i preti hanno un certo potere e
possono essere utili nei momenti del bisogno. Ma certamente la frequenza e la
devozione sono aumentate per merito dei nuovi sacerdoti.
Una volta parecchi giudicavano male la religione e i suoi
ministri, forse influenzati dalla politica socialista, allora in contrasto con
la Chiesa; anche se c’è da dire che una volta i parroci, spesso figli di ricchi,
erano nominati dai signori e i più stavano dalla loro parte. Perciò gli uomini,
specie i contadini, pur essendo cattolici, non li avevano in simpatia. Alcuni,
pur essendo cattolici, ammiravano Lutero, il quale aveva contestato il papa
(allora Leone X de’ Medici) che raccoglieva fondi con le indulgenze per
costruire la nuova Basilica di San Pietro. Ignoravano però che si era affidato
alla protezione dei principi tedeschi, e contro i contadini in rivolta aveva
gridato: “Uccideteli tutti!”. Non sapevano che secondo lui l’uomo si salva per
la fede, non per le opere, ciò che porta a giustificare i fini anche se
raggiunti con metodi condannabili. Ma apprezzavano la divulgazione della Bibbia,
che con la sua traduzione nella lingua parlata chiunque poteva leggere e perciò
aveva dato impulso all’istruzione. Mentre da noi, per la diffusione in italiano,
si doveva attendere il Concilio Vaticano II, la messa era ancora celebrata in
latino, con austerità (quella cantata però era molto suggestiva). Ma
apprezzavano di più che i sacerdoti protestanti, chiamati pastori, potessero
sposarsi. Dunque gli uomini, anche se credenti, erano quasi tutti mangiapreti,
ne parlavano male e non si avvicinavano a loro e alla Chiesa se non in casi di
stretta necessità, per soddisfare gli obblighi precettuali, spesso non sentiti,
di battesimo, comunione, cresima, matrimonio e morte.
Non
consideravano il fatto che i preti insegnano e indicano la retta via e sono
importanti nell’educazione dei ragazzi. All’inizio degli anni Venti i sacerdoti
Amico e Carà fondarono la Cassa Rurale Maria S.S. del Rosario per difendere
dagli usurai coloro che avevano necessità di un prestito di denaro, ma quasi
nessuno lo riconosceva. Tutti ricordavano invece un altro prete fondatore di
banca che fu arrestato per mafia dal famoso prefetto Mori. E mettevano comunque
in discredito i sacerdoti con aneddoti spesso esagerati e a volte inventati.
[Segnalibro:
fantasmi]
Ricordo di aver sentito raccontare che un prete, per andare a
trovare una donna, si copriva con un lenzuolo che teneva alto sopra un ombrello.
La gente credeva al fantasma e si chiudeva in casa. Ma una sera, due delinquenti
che fuggivano dal luogo di un loro fatto criminoso, se lo trovarono davanti e,
costretti a passare da quella strada perché vi abitavano, gli intimarono: «Se
sei fantasma sparisci, ma se sei uomo fatti riconoscere». Al che il prete si
sarebbe scoperto e avrebbe balbettato: «Ragazzi, fermatevi, sono io». C’è da
pensare che se l’uomo si travestiva da fantasma, certamente usciva da qualche
parte e vi ritornava, qualcuno avrebbe dovuto vederlo, ma nessuno lo vide mai
fuori da quella strada.
Purtroppo la gente dà credito alla diffamazione, e a volte le
malelingue hanno rovinato delle famiglie innocenti. Condannabili i calunniatori
e biasimevoli coloro che credono senza riserva.
Una volta le apparizioni dei fantasmi erano frequenti, le strade
e le case al buio e la credulità della gente ne favorivano la presenza. Qualcuno
raccontava di averli visti ed essersi fermato a parlare amichevolmente con loro.
So di una casa con più appartamenti, che era quasi un palazzo, e non riuscivano
a venderla perché la gente diceva che dentro c’erano li spirdi. La comprò
per pochi soldi una coppia di sposi: la moglie, Rosina, era sorella di mio nonno
Vincenzo, e non aveva paura dei fantasmi. I vari antri bui mettevano timore
anche di giorno ma lei, nei primi tempi, con la lucerna poco illuminante che
creava ombre di figure minacciose, li perlustrava intorno alla mezzanotte per
vedere se gli spiriti avessero avuto il coraggio di mostrarsi, ammesso che ci
fossero. Evidentemente non ce n’erano o avevano paura di lei, perché non ne vide
e non ne comparvero nemmeno in seguito. Quella casa poi l’abitarono
contemporaneamente alcuni dei suoi figli con le rispettive famiglie.
In quei
tempi si aveva prole numerosa. Fino alla seconda guerra mondiale, gl’italiani,
non solo meridionali, erano un popolo fra i più prolifici; oggi sono fra quelli
con meno figli. E con molte coppie che ne hanno solo uno, la popolazione
indigena non può che ridursi. Domani i figli di coppie senza fratelli e sorelle
non avranno nemmeno cugini. Al di là dei motivi egoistici (non pensando alla
solitudine della vecchiaia) il problema è dovuto anche al fatto che i figli
costano: nei tempi moderni non possono essere allevati allo stato semibrado come
una volta, bisogna dar loro una vita decorosa, con buoni cibi, costoso
abbigliamento e farli studiare.
Allora
si usava trasmettere i nomi dei nonni e, quando si superava il numero di quattro
figli, si imponevano quelli degli zii, che ne erano felici e riconoscenti. Ovvio
che nelle famiglie ci fossero molti omonimi e, quando si parlava di cugini, per
distinguerli bisognava aggiungere il patronimico. Si trasgrediva in qualche caso
quando un bambino nasceva nel giorno dedicato a un santo molto venerato.
Oggi, per opposizione, non si chiamano i figli come i propri
genitori, anche se hanno nomi validi, belli e moderni. Si mettono a piacere,
spesso stranieri, con la pronuncia diversa da come sono scritti, o si prendono
quelli di famosi personaggi dello spettacolo e dello sport, o magari li si imita
nell’attribuzione del nome che essi danno ai propri figli, e inoltre si copia
spesso dagli amici o dai parenti, col risultato che c’è meno varietà di una
volta e ancora omonimia tra cugini. La cosa non si nota molto solo perché ci
sono pochi bambini. Ma si è passati da una tradizione di rispetto verso i propri
genitori a un capriccio campato per aria secondo la moda del momento.
Da noi il nome più comune maschile era Giuseppe, seguito da
Salvatore, che ha un bellissimo significato, (motivo tenuto in grande
considerazione dagli orientali). Ma il primo è giudicato troppo comune e del
secondo ci si vergogna perché è caratteristico dei siciliani. E allora? Vogliamo
darci un nome nordico con la faccia araba? Anzi dovrebbe essere un segno
distintivo di cui andare fieri. Delle donne non c’è più nessuna di nome Maria
Cava, che una volta si dava in omaggio alla Madonna nostra patrona ed era forse
il più comune tra le donne. Qualcuna che ancora lo porta all’anagrafe, lo ha
escluso dall’uso comune e quando può non lo scrive completo nemmeno nei
documenti. Si vergogna per quel Cava, specialmente se abita lontano dal paese,
perché lo possono scambiare per cognome, e lascia semplicemente Maria.
Si danno nomi di altre culture, che sono antichi di millenni,
credendo che siano moderni, perché si tiene in pregio la modernità e la si
manifesta con presunzione di superiorità. Se non ti mostri superiore non sei
nessuno. Ma come fai se ti manca l’elemento per dimostrarlo? Bluffi, magari
sbeffeggiando.
[Segnalibro:
pietrini]
Dicono che i pietrini sono vanagloriosi e credo sia vero. Ovunque
per tutti è importante dare buona impressione di sé, ma li pirzisi, con
retaggio spagnolesco, in più vogliono dimostrare di essere “sprazzusi”,
anche se non hanno soldi. E’ curioso però che, mentre tengono a dare
l’impressione di stare meglio degli altri (di “avere”, “possedere”), nello
stesso tempo vogliono nascondere i propri beni, non amano dire quanto hanno e si
lamentano, preferiscono che gli altri non sappiano, temono l’invidia ma amano
suscitarla.
G. A. Borgese nota il complesso d’inferiorità e lo spirito di
grandezza dei siciliani.
[Nota 15-1: “Gente di Sicilia” di G. A. Borgese, pag. 184].
Lino
Guarnaccia dice che il pietrino “è di sentimenti fieri e decisi più d’ogni legge
sociale”, ha “alto il senso dell’onore e dell’amore per la sua famiglia”. E’
fatalista. “La satira è quella più evoluta del popolo. Il motteggio è aspro,
salace, fatto di dialoghi pungenti e burleschi. L’uso della battuta è sempre
ironico e a doppio senso, fatta con allusioni a volte pesanti ed anche oscene
sulla vita quotidiana. La battuta è beffarda, spregiudicata, implacabile”.
Deride i difetti altrui e applica soprannomi ingiuriosi. “L’arguzia e la lingua
sciolta non fa difetto a nessuno, chi tace è giudicato un fesso”.
[Nota 15-2:
“Vita e
condizione della popolazione a Pietraperzia” di L. Guarnaccia, pag. 15].
Anche se riesce ad avere successo nella vita grazie alla sua
intelligenza, rimane fesso nel giudizio altrui, magari ammirato e invidiato, ma
sempre fesso è.
Occorre dunque mostrarsi arguti, spiritosi e faceti, buoni
parlatori, pure usando frasi fatte. Prima forse più che oggi parlavano spesso
con gerghi, deridendo chi non li capiva. E deridevano gli altri anche quando
erano loro a non capirli, parlando quelli una lingua straniera. Alcuni sono
enfatici, sminuiscono o ingrandiscono il fatto o la persona di cui parlano, una
banalità la fanno sembrare meravigliosa, eccezionale, e concludono il racconto
con una smorfia della bocca, facendo roteare contemporaneamente, dall’interno
verso l’esterno, l’avambraccio sollevato in avanti, aggiungendo spesso un’alzata
di sopracciglia e, quando parlano di fatti straordinari, qualche volta
concludono dicendo semplicemente ma con cadenza sulla o allungata: “Còsi,
còsi…”. Se però la cosa è conosciuta come normale, può svelare
provincialismo.
Questo modo di esprimersi è caratteristico degli anziani, i quali si dilettano
nella conversazione, ma avendo pochi argomenti su cui discutere,
finiscono per pettegolare, specialmente le donne, sparlando anche dei propri
famigliari, magari per lamentarsi, invogliandosi con vicendevole imitazione.
Molti, per amor di stima e farsi belli con gli estranei, curano in certi casi
più i rapporti esterni che quelli interni, forse male interpretando il “dividi
et impera”, che va bene per gli statisti ma è autolesionista nell’ambito della
famiglia, dove non si dovrebbe dimenticare che “l’unione fa la forza”.
C’è
solidarietà di clan: i parenti stretti o gli amici intimi di chi subisce un
torto, raffreddano i rapporti con chi lo ha commesso, arrivando a togliere il
saluto. A volte però le reazioni, anche per se stessi, possono essere
irrazionali: rompendo legami per colpe lievi o, diversamente, perdonando offese
gravi, a seconda di chi le fa. Dimostrano sentimenti di simpatie o antipatie
immotivate e danno più importanza alle parole che ai fatti, lasciandosi
ingannare da ipocrisie, pur conoscendo la storia di quel padre che aveva tre
figlie, due gli esprimevano a parole grande amore e promettevano che l’avrebbero
assistito con dedizione, l’altra diceva che l’amava come il sale. Al che il
padre la cacciò via. Ma fu questa che si prese cura di lui quando ne ebbe
bisogno, mentre le altre lo abbandonarono. Era grosso modo la vicenda di Re Lear,
o forse Shakespeare si rifece a questa storia per scrivere il famoso dramma.
Gli anziani vivono abbastanza tranquilli ed hanno tutti la mente
molto lucida anche in età avanzata ma, per carenze di studio, trascurano la
cultura, a parte quella televisiva. Il loro carattere materialista li spinge a
interessarsi al proprio benessere economico, per quanto piccolo, apprezzando le
pensioni facili (ma ora è diventato difficile averle) e conoscono tutte le leggi
che prevedono contributi statali o regionali e i sistemi per ottenerli. A chi
pratica un hobby dicono “Chi te lo fa fare? Guadagni, almeno?”. Perché,
se non c’è guadagno, per loro è stupido fare qualcosa. Se la risposta è
affermativa restano delusi però, trattandosi di attività che esula dal loro
interesse, ugualmente concludono: ”Ma lascia perdere”.
Eppure i pietrini sono spirti, e spirtu ha un
significato migliore che intelligente, perché quest’ultimo termine si usa per
chi ama lo studio, apprende facilmente ed ha creatività, ma può essere ingenuo e
può risultare sciocco nei rapporti con un furbo anche se poco intelligente;
mentre la spirtizza indica un’intelligenza pratica e concreta di chi sa
agire e comportarsi, curare i propri interessi e non farsi prendere in giro da
nessuno. I pietrini sono anche furbi, troppo furbi, ed è questo “troppo” che li
danneggia.
Mi hanno raccontato una storiella nella quale si dice che ci sono
due proposte per cambiare nome al paese ma non si trova l’accordo sulla scelta,
alcuni vorrebbero chiamarlo “Chi-me-lo-fa-ffare” e altri “Chi-te-lo-fa-ffa-re”.
Cioè a dire che i pietrini sono noncuranti e vorrebbero che tutti lo fossero.
Giudicano sciocco l’idealista che tenta di opporsi alle ingiustizie e si
sacrifica per il prossimo. Ma, preferendo non esporsi, pretendono che siano gli
altri a fare quello che sta loro a cuore, trascurando che quelli potrebbero
curare i propri interessi. Più che per i propri meriti, pensano di ottenere con
l’astuzia e con la raccomandazione. Per loro essere raccomandati è un vanto,
significa essere rispettati e non sottomettersi. Non pensano che sia meglio
impegnarsi invece di aspettare che cada loro la bìfara
[fico primaticcio, fiorone] in
bocca. Purtroppo i pietrini non aiutano nemmeno i compaesani che si danno da
fare, certamente per se stessi, ma da cui ne potrebbe ricavare un bene anche la
comunità. Preferiscono favorire i forestieri, i quali, diversamente dai paesani,
nel nostro paese hanno fatto tutti fortuna. Ricordo che verso la fine degli anni
Cinquanta si costituì una ditta e aprì un piccolo stabilimento di bibite. I
compaesani, forse anche vedendo come venivano preparate, non ne comperarono
alcuna, preferendo la concorrenza conosciuta (ma senza conoscere il metodo di
produzione) e la ditta chiuse dopo qualche settimana.
[Segnalibro:
progresso]
Così, mentre un po’ dappertutto il progresso aumenta, e il
Veneto, regione d’emigranti come noi, si è industrializzato tanto da richiedere
manodopera esterna, il nostro paese regredisce.
Eppure i giovani vorrebbero impegnarsi e c’è un certo interesse
culturale: sono state fondate due radio private (Radio Pantera e Radio Futura
Pietrina), una televisione (Tele-Oasi), Pino Siciliano (nipote di quella mia
prozia che non credeva ai fantasmi) e la moglie Ursula, svizzera, rientrati nel
nostro paese, hanno creato un gruppo folkloristico di valore internazionale; c’è
un impegno sociale con giovani volontari e una sede Avis molto attiva. Vi sono
campi da tennis e di calcetto, oltre al vecchio campo di calcio. Ma l’economia
non decolla e i giovani rimangono disoccupati.
C’è stata una mostra di artigianato ed altre attività locali che
hanno fatto conoscere molti giovani di talento e volenterosi, i quali però non
trovano le opportunità per progredire. Si son visti tanti bei lavori di ricamo,
artistici e d’altro. Molto interessante era l’esposizione di Liborio Tolaro con
i suoi pannelli solari, che vende fuori dal territorio, e la sua ETI (Elettro
Termo Idro) potrebbe allargarsi a livello industriale. Ma i più presentavano i
loro prodotti senza pretese di mercato. In uno stand esponevano Calogero
Di Blasi e Salvatore Di Perri. Il primo con opere d’arte in rilievo sul rame,
lavoro che ha imparato durante l’emigrazione in Germania, ed ora in pensione è
tornato all’amato paese; il secondo fa bellissima pittura su vetro, purtroppo
appena avrà finito il servizio militare dovrà emigrare, perché “qui non c’è
niente, il paese non offre niente”.
I pochissimi che riescono a trovare un’occupazione devono
accontentarsi di guadagnare poco, spesso molto meno di quello che risulta nella
busta paga e quindi aver versati pochi contributi, quando non son costretti a
lavorare in nero.
I meno giovani, non essendoci molte possibilità di lavoro,
sperano di guadagnare col giuoco e giocano su tutto. Si vantano di vincere, ma
non dicono quanto perdono per tentare la fortuna, e probabilmente ci rimettono.
Stranamente danno credito alle cartomanti delle Tv private che garantiscono
vincite al lotto e consigliano quattro numeri, dei quali almeno uno uscirà
sicuramente in una delle dieci ruote entro un mese.
I nostri “cugini” di Barrafranca invece si danno da fare e il
loro paese progredisce. Gli abitanti ora sono più dei pietrini.
Coi barresi c’è stato sempre amore e rivalità, ma più amore che
rivalità, un campanilismo di sfottimento, ritenendosi ciascuno superiore
all’altro, con aneddoti sulla stupidità che ci addossiamo a vicenda. Come quello
dell’asino che sta per bere alla fontana in una sera di luna piena. Gli è vicino
una donna e il marito l’avverte: “Maracalò, vìdica lu sceccu si vivi la luna”,
Maria Calogera, stai attenta che l’asino non beva la luna. Chi lo disse? Noi
siamo convinti che lo disse un barrafranchisi. Però, al di là degli
sfottò, ci sono stati e continuano a esserci molti matrimoni tra pietrini e
barresi.
Di fatti
gravi tra le due comunità credo che non ne siano avvenuti, a parte uno verso la
fine degli anni Cinquanta (58 o 59), di cui posso accennare. Durante la festa
della Madonna della Stella, che si celebra a Barrafranca l’8 settembre, vi fu
tra i due paesi una partita di calcio preceduta da molta rivalità tra le due
fazioni. A un certo punto sul campo cominciarono dei tafferugli e un giovane di
Pietraperzia ridusse in fin di vita un coetaneo di Barrafranca. Con questi avevo
scambiato democraticamente qualche parere anch’io prima della partita e lo
rividi dopo essere stato colpito, mentre lo portavano via vomitante. Più tardi,
il suo corpo senza vita che veniva deposto sul letto di morte, lo si poté
vedere, attraverso il balcone aperto, dalla piazza in cui avrebbe dovuto
concludersi la festa con i fuochi d’artificio, allora fatti con girandole.
Ovviamente i fuochi furono spostati al di là della vicina strada, nel pendìo
dove è subito campagna.
Certo il
colpevole non l’avrà voluto uccidere, ma il fatto di prendersi a botte per una
partita di pallone non è ragionevole. Purtroppo il tifo dimostra ancora oggi
come, per tanto poco, persone civili e pacifiche possano trasformarsi in
criminali.
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