I TEMPI CAMBIANO

di Vincenzo Ballo

Li pirzisi

 

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Anche Pietraperzia e li pirzisi hanno subito un grande cambiamento. Il paese, lo abbiamo detto, si è ingrandito, con molte belle case, belle vie tutte lastricate. I cittadini sono diminuiti ma si sono molto evoluti, mettendosi al passo coi tempi. Dalla furbizia contadina si è passati a quella raffinata e, purtroppo, dalla gentilezza genuina a quella di facciata, come suggerisce la società moderna. Ciò non vuol dire che manchi la vera gentilezza; la generosità e l’amicizia sono rimaste integre. Del resto anche gli emigranti siamo cambiati.

Ma la differenza maggiore si nota nella cultura e nell’altezza delle persone. Dopo una sola generazione, la statura dei giovani è aumentata di circa 15-20 centimetri, certamente grazie all’abolizione del lavoro infantile e al benessere in cui sono cresciuti, con maggiore e migliore alimentazione.

Nel rapporto tra i sessi i giovani hanno raggiunto la libertà che i genitori invidiavano ai settentrionali, i quali avevano avuto l’evoluzione qualche hanno prima, partendo però da costumi meno rigidi. Ora anche da noi molte coppiette si baciano pure per la strada, ma soprattutto appartandosi negli angoli bui o sulle panchine della Villa nelle sere d’estate, non preoccupandosi di essere visti da coloro, grandi e piccoli, che vanno lì a prendere il fresco, e i più, per discrezione, preferiscono non andare oltre la fontana appena dopo l’ingresso. L’utilizzo della macchina favorisce l’intimità lontano dal paese e dagli sguardi. La verginità non è più un tabù e non sappiamo quante la conservano fino al matrimonio. I genitori, specialmente quelli delle femmine, fingono di non sapere e ritengono le loro figlie illibate al cento per cento. Il bello è che giudicano le ragazze settentrionali tutte “puttane” o quasi, ignorando che possono essere più “oneste” delle proprie figlie.

Il giudizio errato, o perlomeno esagerato, nel ritenere le donne del Nord libere e disponibili, portò molte delle prime immigrate meridionali, specialmente quelle con genitori più permissivi, a concedersi molto facilmente, dando sfogo alla libertà conquistata dopo secoli di proibizione, come se ognuna fosse la reincarnazione di tante altre donne del passato che avevano aspettato il momento buono per prendersi una rivincita.

L’analfabetismo è scomparso e, con l’obbligo dello studio fino a una certa età, pochi non hanno il diploma e molti sono laureati.

Purtroppo quasi tutti i giovani genitori impongono ai loro figli piccoli di parlare esclusivamente italiano, privandoli di una ricchezza linguistica, perché anche il dialetto è cultura. L’accento dei giovani è cambiato, forse a causa degli studi in città con compagni di altri paesi, per cui hanno una pronunzia troppo aperta, con cadenza prima sconosciuta, e simile alla parlata dei coetanei di altre località. Molti, compresi i meno giovani, parlano un misto di siculo-italiano e spesso italianizzano male i vocaboli siciliani, come quando dicono mettà o luneddì eccetera, potendo evitare il raddoppio delle consonanti, (una volta dicevamo mità e lunidì). Anche “nuautri”, che si è cominciato a dire negli anni Cinquanta, non è meglio di “nuantri”. A quelli che manchiamo da oltre quarant’anni, rimproverano l’uso di certi vocaboli che loro non pronunciano più. Ma noi siamo rimasti al dialetto di allora, non conosciamo gli aggiornamenti: non sappiamo che tumazzu (da toma) ora si dice formaggiu (da forma), li canzi ora sono pantaluna, la froscia per noi non è il femminile di un altro significato ma è il termine siciliano di frittata. Impedirci di chiamare le cose con i nomi di una volta, è come toglierci il piacere di parlare siciliano e allontanarci dalle nostre origini. Vero è che già noi, sessant’anni fa, criticavamo i pochi vecchi che dicevano bunaca per giacca, occa per acqua e muccaturi per fazzulettu. I tempi cambiano continuamente e muta anche il linguaggio; ora che abbiamo quasi imparato a parlare l’italiano, cominciamo ad adottare termini inglesi, per influenza statunitense, americanizzando la lingua e il modo di esprimerci.

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I giovani d’oggi (e qui non mi riferisco solo ai pietrini) si americanizzano anche nei gusti, nei costumi e nei vizi. A pasta, frutta e verdura preferiscono merendine e panini. Amano la musica statunitense, non tanto quella negra (blues o jazz), ma il rock, che però ha subito una rilevante trasformazione dai tempi di Elvis Presley, “re” del rock and roll, morto da parecchi anni e ancora osannato. E ascoltano musica hause, che si ripete su un giro armonico di accompagnamento in cui emerge solo un monotono rumore martellante, col quale si muovono a tempo e pure ballano.

I giovani sono diventati musicaldipendenti dal ritmo e dalla ripetitività. Anche il sottofondo, ch’era motivo di gentilezza per valorizzare il discorso con discrezione, è diventato invadente, martellante e forte, tanto da impedire la comprensione di quello che viene detto.

Una volta si ballava al suono delle orchestrine, il volume era lieve, le luci si abbassavano per non disturbare e creavano una dolce atmosfera di intimità. Le sale da ballo aprivano alle ventuno e chiudevano a mezzanotte-l’una, quasi esclusivamente sabato e domenica, facendo il matinée nei pomeriggi dei giorni festivi. Ora quest’uso rimane per le persone mature che amano il “liscio” e le canzoni degli anni Sessanta.

Prima piaceva a tutti la melodia italiana. Tajoli, Villa, Consolini e la Pizzi erano i cantanti più in voga. I giovani ballavano ascoltando le canzoni e gli anziani li criticavano perché secondo loro si doveva ballare solo con i ballabili, senza interferenza di voce umana. La melodia italiana resistette anche al successo dei ritmi americani del nord e poi del centro-sud (mambo, rumba e cha cha cha). Cambiò genere verso la fine degli anni Cinquanta con Modugno, che nel ’58 vinse il Festival di Sanremo con Nel blu dipinto di blu (Volare), e l’avvento dei cantautori, che non tutti avevano una bella voce ma andava bene per le loro musiche. E fra i cantanti emersero più di tutti Mina e Celentano.

Al cinema si deridevano le danze primitive dei popoli “selvaggi” che ballavano saltellando da soli. Ma ben presto anche i nostri giovani “evoluti” cominciarono a saltellare ciascuno per conto proprio, rinunciando al piacere di ballare guancia a guancia. Poi venne e passò la disco music, ma resiste il rock e si diffonde in tutti i paesi che si aprono all’Occidente.

I giovani vanno in discoteca dalle undici di sera alle tre-quattro del mattino, orario che una volta praticavano i night, locali notturni per gente danarosa o viziosa che amava spendere, dove c’erano belle ragazze, eleganti e profumate, con buona resistenza all’alcol, pagate apposta per invogliare i clienti che le invitavano a ballare, a consumare bottiglie di supercostosissimo champagne.

Nelle discoteche ora ci sono le cosiddette cubiste, che ballano in una posizione elevata invogliando al divertimento. Luci psichedeliche lampeggianti e musiche ad alto volume che rovina l’udito e fa male allo stomaco, combinano un mix sconvolgente. Purtroppo molti giovani, per resistere ai ritmi della serata, prendono pastiglie di droga sintetica che non fa sentire la stanchezza ma danneggia la salute. Non c’è da meravigliarsi che molti escano incoscienti dall’ubriacatura di tutto questo e vadano incontro a pericoli d’incidenti mortali.

Ai miei tempi la droga era conosciuta nell’alta società, per soddisfare vizi e depravazioni, la gente comune non cercava nessuna droga; a parte la sigaretta che si fumava per sentirsi uomini. "Cu nun fuma e nun piglia tabaccu iè cumu un canniliri senza meccu” si diceva. Ma chi aveva preso il vizio avvertiva che “Cu fuma e piglia tabaccu notte e ghiurnu tussi cumu un beccu”. Qualcuno eccedeva col vino, ma si trattava di poca gente anziana, vissuta in ambienti esposti al rischio e abbrutita dalle traversie della vita.

I giovani, per la loro sana e giusta propensione alle novità, sono più esposti alle nuove proposte e seguono le tendenze spesso in modo acritico, trascinati dall’esempio dei coetanei che anticipano nuovi stili d’immagine e comportamentali. Ma non sono stati mai come oggi così volubili e passivi a tutte le stravaganze introdotte nella società. Intorno al 1970 era considerato barbaro l’uso di fare un buchino agli orecchi delle bambine e andavano di moda gli orecchini con gli attacchi a pinza. Oggi c’è l’uso del piercing (che nelle sue manifestazioni più spinte in passato sarebbe stato punito dalla legge) ed anche i maschi eccedono coi buchi e mettono anelli, orecchini e spilli in tutti i punti più significativi del corpo: al naso, nelle sopracciglia, nella bocca, nella lingua, nei capezzoli, nell’ombelico e persino nelle parti più intime. Una volta vidi litigare due ragazzi con la faccia piena di questi oggetti ornamentali, lei sbraitava e provocava il ragazzo, questi stringeva i denti dalla rabbia e tratteneva le mani frementi davanti al volto di lei. Rabbrividivo al pensiero di quello che sarebbe potuto succedere se le avesse afferrato un qualche aggeggino di quelli che lei aveva conficcati sul viso e avrebbe tirato.

E’ in voga pure il tatuaggio, se lo fanno fare anche i meno giovani e persone eleganti, specialmente d’estate, come ornamento fantasioso, giovanile, allegro del corpo. Prima era comunemente praticato da popolazioni di cultura inferiore, anche a scopo religioso e/o magico, da marinai e delinquenti (per i quali ultimi non capisco l’interesse, dato che potrebbe risultare un compromettente segno di riconoscimento indelebile; solo di recente ci sono tecniche che ne permettono la cancellazione).

[Segnalibro: mode]

Diverse mode giovanili sono sorte in questi anni ma hanno fatto poca presa. Alcuni giovanissimi vestono in modo molto trasandato e tingono i capelli con colori assurdi (fucsia, blu cobalto), a imitazione di certi gruppi musicali, che hanno bisogno di adottare un look particolare per farsi notare e avere più facilmente successo, ma non aiutano certo i giovani nella ricerca di un lavoro.

Diffusissimi invece i blue-jeans, specialmente nella seconda metà del XX secolo, usati anche dai meno giovani. Inizialmente di grossa tela di cotone, sono diventati eleganti, leggeri e di vari colori. Ai primi, i giovani vi provocarono delle macchie schiarenti immergendoli nella candeggina, ora escono dalla produzione con macchie e disegni particolari che danno al corpo un aspetto più sexy. Inoltre, e questo è un segno aberrante del consumismo, parecchi giovani li lacerano, maggiormente nella parte anteriore delle gambe, e vanno in giro con tagli sfilacciati che lasciano intravedere un po’ di pelle. Non lo fanno per questo, lo fanno per gusto giovanile, ora che nella società del benessere neanche i poveri vanno con gli abiti rattoppati; mentre quando ciò avveniva ci si vergognava di andare come vanno adesso loro.

Insieme ai jeans, che tra l’altro hanno aperto la via alla moda unisex, hanno preso piede le scarpe da tennis e alcuni usano gli uni e le altre anche con giacca elegante, per snobismo. Le calzature di tale foggia che non devono servire per lo sport, sono state appesantite nei materiali e portano bene in vista il logo del costruttore. Anche altri prodotti di abbigliamento, giubbotti e borse, si impongono per la griffe, perché tutti oggi vogliono la roba firmata. Altrimenti non si è nessuno, gli altri ti fanno sentire inferiore. Non conta se sei onesto, bravo, intelligente, progredito, non conta quello che sei, conta quello che mostri.  In questo modo i giovani vanno in giro con il marchio delle industrie d’abbigliamento, alle quali fanno involontariamente pubblicità e vengono “compensati” con l’aumento del costo. Portano con disinvoltura delle magliette nelle quali è stampata la bandiera americana; mentre si vergognerebbero se fosse quella italiana, per il solo fatto di portare i colori di una bandiera. Più appariscenti sono le scritte sulle t-shirt, veri slogans, inglesi o italiani, che spesso esprimono appartenenza o simpatia per un gruppo, alcune inneggianti all’amore, alla natura, altre sono, in qualche caso, velatamente politiche. E pensare che una volta i commercianti pagavano per far mostrare il proprio nome o quello delle case dei prodotti che vendevano. Erano chiamati sandwich i giovani che nei corsi principali passeggiavano con due tabelloni addosso a mo’ di poncho con la scritta pubblicitaria. Ora il marchio viene mostrato per distinguersi, esibire la propria illusoria superiorità.

La moda interessa pure i piccoli, e i genitori, anche se non hanno molte possibilità finanziarie, sono costretti a spendere per non sfigurare e non fare emarginare i propri figli. Poi bisogna farli partecipare con regali alle molte festicciole che i loro amichetti organizzano in diverse occasioni, e a loro volta festeggiare i propri compleanni, onomastici, comunione, cresima, inizio e fine di anno scolastico, vacanze di Natale, eccetera, eccetera, eccetera.

Ai miei tempi gli anniversari si festeggiavano con una scherzosa tiratina di orecchi ai ragazzi che compivano gli anni, dicendo col sorriso: “Arrihordatinni” (ricòrdatene). Le altre ricorrenze venivano ricordate solo se coincidevano con le festività. La moda infantile riguardava una ristretta élite e per i grandi l’eleganza maschile era data da giacca e cravatta, vietato andare in maniche di camicia. Le donne portavano gli abiti con l’orlo sotto le ginocchia ed erano leggiadre con le gonne a mantello. Poi le maniche si accorciarono e in alcuni abiti estivi scomparvero del tutto, creando problemi per entrare in chiesa (a messa mettevano la  veletta). Ora le ragazze mostrano l’ombelico, portando magliette cortissime, senza timore di prendere freddo e rischiare il mal di schiena.

I tempi cambiano e anche il trucco è cambiato: negli anni della mia prima giovinezza, le donne usavano solo cipria sul viso e rossetto sulle labbra, qualche buon profumo o acqua di Colonia; ora ci sono fondotinta, mascara, rimmel, bistro, detergenti, eccetera, con vari profumi molto costosi. Gli uomini per dopobarba mettevano l’alcol e sui capelli la brillantina, che i poveri sostituivano con l’olio di oliva, solo alcuni usavano un po’ di debole profumo.

[Segnalibro: caratteri]

Sono cambiati pure i caratteri delle persone. La schiettezza non è più di moda, l’evoluzione consiglia l’ipocrisia. Anche se i giovani quando s’innamorano non tengono conto delle classi, persiste il sentimento di distacco da quelle meno fortunate, oggi ci si allontana da loro, mentre prima venivano allontanate. L’emarginazione avviene in merito alle apparenze. C’è molta superficialità: prima si badava di più alla sostanza, oggi siamo nell’era dell’immagine ed è più importante apparire. Purtroppo si è soggetti al giudizio della gente, anche se molti dicono che non gliene frega niente, in realtà lo subiscono al pari degli altri, se non di più. E per fare bella figura, dato che i soldi non bastano, magari risparmiano sul vitto, giustificandosi con la scusa della dieta, ma comunque facendo capire agli altri di mangiare meglio di loro. Il che potrebbe essere un’offesa di cui non si rendono conto.

Il cibo da necessità è divenuto cultura, più che come nutrimento è valorizzato come gastronomia. Una gran parte della popolazione dei paesi ricchi è in sovrappeso ma gli opinion leaders dicono che per essere belli bisogna essere magri. Così molte donne, maggiormente le più giovani, fanno diete dimagranti, aiutandosi spesso con prodotti specifici, e alcune diventano anoressiche. Non ascoltano l’opinione di chi sta loro intorno,  non considerano di essere piacenti e amate così come sono, non si domandano perché le donne che Tv e giornali ci mostrano a scopi erotici non sono magre. Per indicare linee di bellezza, più giustamente si dovrebbe dire snelle, come negli anni Sessanta, perché c’è differenza tra essere snelle ed essere magre. E poi “non è bello ciò ch’è bello ma è bello ciò che piace”. (Ho sentito dire a un uomo che bisogna sposare la donna che piace agli altri e farsi l’amante come piace a se stessi. So che aveva la moglie magra e l’amante grassa. Forse pensava alla moglie come bustarella o accessorio di eleganza, altrimenti credo che sia preferibile una moglie-amante). I canoni di bellezza sono dettati dalla moda, che non rispecchia i gusti di tutti. I popoli poveri apprezzano le persone in carne. Nel passato piacevano le donne grasse, e i dipinti lo dimostrano. Si vedano i bellissimi quadri di Rubens, Boucher e di tanti altri pittori, fino al realista Coubert e all’impressionista Renoir con le loro bagnanti, per non parlare di Tiziano e Tiepolo, e ignorando due nomi che dipingono solo figure tondeggianti tutte uguali.

Prima, comunque, ci si curava meno della forma fisica, si mangiava quanto e quello che si poteva o piaceva, non si faceva moto, al di là di quello imposto dal lavoro, e ci si accontentava di mostrare un viso piacente. La bellezza era genuina ma purtroppo molte ragazze belle si guastavano per trascurataggine.

Oggi c’è chi cura il corpo in modo maniacale, non ci si accontenta di una normale ginnastica, occorre frequentare la palestra (e son definiti palestrati quelli che esagerano e mostrano i muscoli gonfiati, magari con gli anabolizzanti dannosi alla salute). C’è chi frequenta i centri di bellezza e al solarium si abbronza con le lampade artificiali, che quando si esagera imbruttiscono. Tutte le donne si depilano e molte, di una certa età e categoria, fanno il lifting agli occhi, alle labbra, alle guance e dove è necessario per ringiovanire il loro aspetto.

Ovunque c’è una concezione edonistica della vita, principalmente dovuta all’influenza della televisione (che fa pubblicità, a volte ingannevole e sempre mirante al consumismo, pagata in misura esorbitante da sponsor che spesso usano personaggi famosi per invogliare a comperare i propri prodotti), secondariamente dagli altri media e infine dal giudizio della gente, che dichiara di aver rispetto delle persone in quanto tali, ma umilia, emargina e deride chi non si adegua. Poi magari si scopre che uomini rispettabili hanno rubato e giovani maritate oneste e ragazze di buona famiglia si sono prostituite, ovviamente in case esclusive. Si tenta di imitare i divi del momento, che magari si comportano in un dato modo o adottano un certo look per farsi notare e far parlare di sé. Ma ciò che può andar bene per loro non è detto che vada bene per la gente comune. Ad essi un divorzio può rendere in pubblicità, ma ad altri arreca solo danni, e può essere necessario solo quando c’è l’impossibilità di andare d’accordo. Le situazioni estreme delle soap opera, telenovelas e fiction varie, inventate per tenere avvinti al televisore per anni, vengono recepite come realtà della vita di tutti i giorni. I fatti eclatanti, veri o finti, possono indurre all’emulazione, molto più facilmente quando sono negativi. Gli spettacoli di svago, con balli e lustrini, fanno sembrare la vita bella e divertente. I giovani vogliono divertirsi ad ogni costo e in ogni modo, sempre.

Con una battuta si potrebbe dire che non c’è più religione, ma seriamente diciamo che non c’è più rispetto della religione. Certamente la credenza è sentita e diffusa, ma agli ammonimenti della Chiesa quasi nessuno dà retta, e abbiamo visto che le funzioni sacre sono meno seguite di una volta. Questo però non significa, come potrebbe sembrare, che prima ci fosse più religiosità; c’era più osservanza e si rispettavano le ricorrenze con devozione, ma le cerimonie erano seguite per svago e per farsi conoscere, non essendoci altre occasioni. Ora ci si diverte e si balla anche il giorno del Venerdì Santo. La televisione trasmette i normali programmi di divertimento, (quando c’era solo la Rai trasmetteva esclusivamente musica sinfonica). Prima non ci si specchiava, si faceva penitenza e digiuno in ricordo del sacrificio di nostro Signore Gesù Cristo che morì in croce per noi, perché predicava l’uguaglianza e la dignità di tutti gli uomini, per un’idea che voleva liberarci dalla discriminazione e dalla schiavitù. Si constata amaramente che gli schiavi ci sono ancora oggi, pure nel nostro civilissimo paese, che però non s’impegna seriamente, non può o non sa difendere quelli che sono costretti a subire violentemente il sopruso criminale. E nell’espressione del Crocifisso rimane sempre viva la sofferenza del Redentore.

 

 

Lu Signuri di li fasci (elaborazione di una foto non mia)

 

[Segnalibro: venerdì]

Il Venerdì Santo a Pietraperzia lo si celebra con una particolare devozione per Gesù morto, rappresentato nel Signuri di li fasci, una croce alta otto metri e mezzo, oltre il plinto, col simulacro del Cristo che sovrasta il globo di vetri colorati e illuminato dall’interno, sul vertice di una piramide conica formata da circa duecento fasce di lino bianco lunghe trentatré metri, allacciate nella loro metà ad un anello. Le fasce, per lo più ex voto, sono tenute alle estremità dai devoti e servono a proteggere dal basso il Crocifisso, nei casi in cui dovesse inclinarsi da una parte. Quando ciò accade, qualcuno grida: “Attrantati li fasci!”, e quelli della parte opposta all’inclinazione tirano per trattenere il sacro complesso trasportato a spalla, generalmente per voto, da circa 50-80 persone, che ogni tanto gridano drammaticamente “Pietà e misiricordia, Signuri!”. Immagini e grida sono molto suggestivi, particolarmente prima della processione, quando la croce, distesa nel piazzale antistante la chiesa del Carmine, viene alzata, e alla fine, quando viene adagiata. Al seguito vi è una bara con Gesù Cristo nell’urna e infine l’Addolorata. La prima è portata da dodici uomini incappucciati e la seconda da dodici donne; (una volta lo facevano solo gli uomini vestiti in modo normale). Spira una grande atmosfera di partecipazione e la banda musicale che suona marce funebri contribuisce a coinvolgere tutti.

Una volta c’erano molti gruppi che ladavanu in mezzo alla folla, cioè lodavano il Signore, narrando in laudi la Sua Passione con un canto lamentevole (di cui però non si capivano le parole perché molte sillabe avevano lunghe variazioni di tono) e le frasi erano alternate dal coro che accordava con la vocale a oppure la o in una nota trattenuta a lungo. I cantori erano contadini o braccianti e fra questi ultimi stavano i più bravi. Ora è rimasto solo un piccolo gruppo a cantare quelle laudi e le tradizioni si perdono.

Le prediche quaresimali oggi sono distribuite fra le tre parrocchie e se ne tengono in minor numero. Una volta erano fatte solo alla Matrice e parecchie persone vi accorrevano andando molto in anticipo in chiesa per prendere i posti migliori, affittando le sedie dal sacrestano o portandosi sgabelli di ferla (ferola). Era una grande occasione per ascoltare parabole del Vangelo (celebre quella del Figliuol prodigo), farsi una piccola cultura religiosa, commuoversi e godere come nell’assistere ad uno spettacolo. Il predicatore (che veniva da fuori, destava grande curiosità e si facevano paragoni con i precedenti) saliva sul pulpito e con la sua voce stentorea, spesso in modo drammatico o, secondo i casi, enfatico, avvinceva gli auditori, per lo più donne, specialmente anziane, ma andavo anch’io fanciullo.  C’è sempre, e non può essere diversamente, l’incontro di Pasqua tra Gesù Risorto e la Madonna che gli va incontro in gramaglie. Se ne libera quando, con sorpresa, lo riconosce, e poi fa il segno della Croce.

Ho notato molta affluenza alle normali messe del sabato sera e della domenica. Quasi tutti prendono la Santa Comunione, ora che non c’è l’obbligo di essersi in precedenza confessati. Tanto, anche se prima ci si confessava e si dichiarava pentimento, si reiterava nel peccato. Molti andavano dal confessore per svuotare la sacca delle colpe, in modo da sentirsi più leggeri e poterne immettere ancora. Dubito che in tutti ci sia vera devozione e credo che tanti mostrino di essere credenti e fedeli alla Chiesa perché i preti hanno un certo potere e possono essere utili nei momenti del bisogno. Ma certamente la frequenza e la devozione sono aumentate per merito dei nuovi sacerdoti.

Una volta parecchi giudicavano male la religione e i suoi ministri, forse influenzati dalla politica socialista, allora in contrasto con la Chiesa; anche se c’è da dire che una volta i parroci, spesso figli di ricchi, erano nominati dai signori e i più stavano dalla loro parte. Perciò gli uomini, specie i contadini, pur essendo cattolici, non li avevano in simpatia. Alcuni, pur essendo cattolici, ammiravano Lutero, il quale aveva contestato il papa (allora Leone X de’ Medici) che raccoglieva fondi con le indulgenze per costruire la nuova Basilica di San Pietro. Ignoravano però che si era affidato alla protezione dei principi tedeschi, e contro i contadini in rivolta aveva gridato: “Uccideteli tutti!”. Non sapevano che secondo lui l’uomo si salva per la fede, non per le opere, ciò che porta a giustificare i fini anche se raggiunti con metodi condannabili. Ma apprezzavano la divulgazione della Bibbia, che con la sua traduzione nella lingua parlata chiunque poteva leggere e perciò aveva dato impulso all’istruzione. Mentre da noi, per la diffusione in italiano, si doveva attendere il Concilio Vaticano II, la messa era ancora celebrata in latino, con austerità (quella cantata però era molto suggestiva). Ma apprezzavano di più che i sacerdoti protestanti, chiamati pastori, potessero sposarsi. Dunque gli uomini, anche se credenti, erano quasi tutti mangiapreti, ne parlavano male e non si avvicinavano a loro e alla Chiesa se non in casi di stretta necessità, per soddisfare gli obblighi precettuali, spesso non sentiti, di battesimo, comunione, cresima, matrimonio e morte.

Non consideravano il fatto che i preti insegnano e indicano la retta via e sono importanti nell’educazione dei ragazzi. All’inizio degli anni Venti i sacerdoti Amico e Carà fondarono la Cassa Rurale Maria S.S. del Rosario per difendere dagli usurai coloro che avevano necessità di un prestito di denaro, ma quasi nessuno lo riconosceva. Tutti ricordavano invece un altro prete fondatore di banca che fu arrestato per mafia dal famoso prefetto Mori. E mettevano comunque in discredito i sacerdoti con aneddoti spesso esagerati e a volte inventati.

[Segnalibro: fantasmi]

Ricordo di aver sentito raccontare che un prete, per andare a trovare una donna, si copriva con un lenzuolo che teneva alto sopra un ombrello. La gente credeva al fantasma e si chiudeva in casa. Ma una sera, due delinquenti che fuggivano dal luogo di un loro fatto criminoso, se lo trovarono davanti e, costretti a passare da quella strada perché vi abitavano, gli intimarono: «Se sei fantasma sparisci, ma se sei uomo fatti riconoscere». Al che il prete si sarebbe scoperto e avrebbe balbettato: «Ragazzi, fermatevi, sono io». C’è da pensare che se l’uomo si travestiva da fantasma, certamente usciva da qualche parte e vi ritornava, qualcuno avrebbe dovuto vederlo, ma nessuno lo vide mai fuori da quella strada.

Purtroppo la gente dà credito alla diffamazione, e a volte le malelingue hanno rovinato delle famiglie innocenti. Condannabili i calunniatori e biasimevoli coloro che credono senza riserva.

Una volta le apparizioni dei fantasmi erano frequenti, le strade e le case al buio e la credulità della gente ne favorivano la presenza. Qualcuno raccontava di averli visti ed essersi fermato a parlare amichevolmente con loro. So di una casa con più appartamenti, che era quasi un palazzo, e non riuscivano a venderla perché la gente diceva che dentro c’erano li spirdi. La comprò per pochi soldi una coppia di sposi: la moglie, Rosina, era sorella di mio nonno Vincenzo, e non aveva paura dei fantasmi. I vari antri bui mettevano timore anche di giorno ma lei, nei primi tempi, con la lucerna poco illuminante che creava ombre di figure minacciose, li perlustrava intorno alla mezzanotte per vedere se gli spiriti avessero avuto il coraggio di mostrarsi, ammesso che ci fossero. Evidentemente non ce n’erano o avevano paura di lei, perché non ne vide e non ne comparvero nemmeno in seguito. Quella casa poi l’abitarono contemporaneamente alcuni dei suoi figli con le rispettive famiglie.

In quei tempi si aveva prole numerosa. Fino alla seconda guerra mondiale, gl’italiani, non solo meridionali, erano un popolo fra i più prolifici; oggi sono fra quelli con meno figli. E con molte coppie che ne hanno solo uno, la popolazione indigena non può che ridursi. Domani i figli di coppie senza fratelli e sorelle non avranno nemmeno cugini. Al di là dei motivi egoistici (non pensando alla solitudine della vecchiaia) il problema è dovuto anche al fatto che i figli costano: nei tempi moderni non possono essere allevati allo stato semibrado come una volta, bisogna dar loro una vita decorosa, con buoni cibi, costoso abbigliamento e farli studiare.

Allora si usava trasmettere i nomi dei nonni e, quando si superava il numero di quattro figli, si imponevano quelli degli zii, che ne erano felici e riconoscenti. Ovvio che nelle famiglie ci fossero molti omonimi e, quando si parlava di cugini, per distinguerli bisognava aggiungere il patronimico. Si trasgrediva in qualche caso quando un bambino nasceva nel giorno dedicato a un santo molto venerato.

Oggi, per opposizione, non si chiamano i figli come i propri genitori, anche se hanno nomi validi, belli e moderni. Si mettono a piacere, spesso stranieri, con la pronuncia diversa da come sono scritti, o si prendono quelli di famosi personaggi dello spettacolo e dello sport, o magari li si imita nell’attribuzione del nome che essi danno ai propri figli, e inoltre si copia spesso dagli amici o dai parenti, col risultato che c’è meno varietà di una volta e ancora omonimia tra cugini. La cosa non si nota molto solo perché ci sono pochi bambini. Ma si è passati da una tradizione di rispetto verso i propri genitori a un capriccio campato per aria secondo la moda del momento.

Da noi il nome più comune maschile era Giuseppe, seguito da Salvatore, che ha un bellissimo significato, (motivo tenuto in grande considerazione dagli orientali). Ma il primo è giudicato troppo comune e del secondo ci si vergogna perché è caratteristico dei siciliani. E allora? Vogliamo darci un nome nordico con la faccia araba? Anzi dovrebbe essere un segno distintivo di cui andare fieri. Delle donne non c’è più nessuna di nome Maria Cava, che una volta si dava in omaggio alla Madonna nostra patrona ed era forse il più comune tra le donne. Qualcuna che ancora lo porta all’anagrafe, lo ha escluso dall’uso comune e quando può non lo scrive completo nemmeno nei documenti. Si vergogna per quel Cava, specialmente se abita lontano dal paese, perché lo possono scambiare per cognome, e lascia semplicemente Maria.

Si danno nomi di altre culture, che sono antichi di millenni, credendo che siano moderni, perché si tiene in pregio la modernità e la si manifesta con presunzione di superiorità. Se non ti mostri superiore non sei nessuno. Ma come fai se ti manca l’elemento per dimostrarlo? Bluffi, magari sbeffeggiando.

[Segnalibro: pietrini]

Dicono che i pietrini sono vanagloriosi e credo sia vero. Ovunque per tutti è importante dare buona impressione di sé, ma li pirzisi, con retaggio spagnolesco, in più vogliono dimostrare di essere “sprazzusi”, anche se non hanno soldi. E’ curioso però che, mentre tengono a dare l’impressione di stare meglio degli altri (di “avere”, “possedere”), nello stesso tempo vogliono nascondere i propri beni, non amano dire quanto hanno e si lamentano, preferiscono che gli altri non sappiano, temono l’invidia ma amano suscitarla.

G. A. Borgese nota il complesso d’inferiorità e lo spirito di grandezza dei siciliani.

[Nota 15-1: “Gente di Sicilia” di G. A. Borgese, pag. 184].

Lino Guarnaccia dice che il pietrino “è di sentimenti fieri e decisi più d’ogni legge sociale”, ha “alto il senso dell’onore e dell’amore per la sua  famiglia”. E’ fatalista. “La satira è quella più evoluta del popolo. Il motteggio è aspro, salace, fatto di dialoghi pungenti e burleschi. L’uso della battuta è sempre ironico e a doppio senso, fatta con allusioni a volte pesanti ed anche oscene sulla vita quotidiana. La battuta è beffarda, spregiudicata, implacabile”. Deride i difetti altrui e applica soprannomi ingiuriosi. “L’arguzia e la lingua sciolta non fa difetto a nessuno, chi tace è giudicato un fesso”.     [Nota 15-2:  “Vita e condizione della popolazione a Pietraperzia” di L. Guarnaccia, pag. 15].

Anche se riesce ad avere successo nella vita grazie alla sua intelligenza, rimane fesso nel giudizio altrui, magari ammirato e invidiato, ma sempre fesso è.

Occorre dunque mostrarsi arguti, spiritosi e faceti, buoni parlatori, pure usando frasi fatte. Prima forse più che oggi parlavano spesso con gerghi, deridendo chi non li capiva. E deridevano gli altri anche quando erano loro a non capirli, parlando quelli una lingua straniera. Alcuni sono enfatici, sminuiscono o ingrandiscono il fatto o la persona di cui parlano, una banalità la fanno sembrare meravigliosa, eccezionale, e concludono il racconto con una smorfia della bocca, facendo roteare contemporaneamente, dall’interno verso l’esterno, l’avambraccio sollevato in avanti, aggiungendo spesso un’alzata di sopracciglia e, quando parlano di fatti straordinari, qualche volta concludono dicendo semplicemente ma con cadenza sulla o allungata: “Còsi, còsi…”. Se però la cosa è conosciuta come normale, può svelare provincialismo.

Questo modo di esprimersi è caratteristico degli anziani, i quali si dilettano nella conversazione, ma avendo pochi argomenti su cui discutere, finiscono per pettegolare, specialmente le donne, sparlando anche dei propri famigliari, magari per lamentarsi, invogliandosi con vicendevole imitazione. Molti, per amor di stima e farsi belli con gli estranei, curano in certi casi più i rapporti esterni che quelli interni, forse male interpretando il “dividi et impera”, che va bene per gli statisti ma è autolesionista nell’ambito della famiglia, dove non si dovrebbe dimenticare che “l’unione fa la forza”.

C’è solidarietà di clan: i parenti stretti o gli amici intimi di chi subisce un torto, raffreddano i rapporti con chi lo ha commesso, arrivando a togliere il saluto. A volte però le reazioni, anche per se stessi, possono essere irrazionali: rompendo legami per colpe lievi o, diversamente, perdonando offese gravi, a seconda di chi le fa. Dimostrano sentimenti di simpatie o antipatie immotivate e danno più importanza alle parole che ai fatti, lasciandosi ingannare da ipocrisie, pur conoscendo la storia di quel padre che aveva tre figlie, due gli esprimevano a parole grande amore e promettevano che l’avrebbero assistito con dedizione, l’altra diceva che l’amava come il sale. Al che il padre la cacciò via. Ma fu questa che si prese cura di lui quando ne ebbe bisogno, mentre le altre lo abbandonarono. Era grosso modo la vicenda di Re Lear, o forse Shakespeare si rifece a questa storia per scrivere il famoso dramma.

Gli anziani vivono abbastanza tranquilli ed hanno tutti la mente molto lucida anche in età avanzata ma, per carenze di studio, trascurano la cultura, a parte quella televisiva. Il loro carattere materialista li spinge a interessarsi al proprio benessere economico, per quanto piccolo, apprezzando le pensioni facili (ma ora è diventato difficile averle) e conoscono tutte le leggi che prevedono contributi statali o regionali e i sistemi per ottenerli. A chi pratica un hobby dicono “Chi te lo fa fare? Guadagni, almeno?”. Perché, se non c’è guadagno, per loro è stupido fare qualcosa. Se la risposta è affermativa restano delusi però, trattandosi di attività che esula dal loro interesse, ugualmente concludono: ”Ma lascia perdere”.

Eppure i pietrini sono spirti, e spirtu ha un significato migliore che intelligente, perché quest’ultimo termine si usa per chi ama lo studio, apprende facilmente ed ha creatività, ma può essere ingenuo e può risultare sciocco nei rapporti con un furbo anche se poco intelligente; mentre la spirtizza indica un’intelligenza pratica e concreta di chi sa agire e comportarsi, curare i propri interessi e non farsi prendere in giro da nessuno. I pietrini sono anche furbi, troppo furbi, ed è questo “troppo” che li danneggia.

Mi hanno raccontato una storiella nella quale si dice che ci sono due proposte per cambiare nome al paese ma non si trova l’accordo sulla scelta, alcuni vorrebbero chiamarlo “Chi-me-lo-fa-ffare” e altri “Chi-te-lo-fa-ffa-re”. Cioè a dire che i pietrini sono noncuranti e vorrebbero che tutti lo fossero. Giudicano sciocco l’idealista che tenta di opporsi alle ingiustizie e si sacrifica per il prossimo. Ma, preferendo non esporsi, pretendono che siano gli altri a fare quello che sta loro a cuore, trascurando che quelli potrebbero curare i propri interessi. Più che per i propri meriti, pensano di ottenere con l’astuzia e con la raccomandazione. Per loro essere raccomandati è un vanto, significa essere rispettati e non sottomettersi. Non pensano che sia meglio impegnarsi invece di aspettare che cada loro la bìfara [fico primaticcio, fiorone] in bocca. Purtroppo i pietrini non aiutano nemmeno i compaesani che si danno da fare, certamente per se stessi, ma da cui ne potrebbe ricavare un bene anche la comunità. Preferiscono favorire i forestieri, i quali, diversamente dai paesani, nel nostro paese hanno fatto tutti fortuna. Ricordo che verso la fine degli anni Cinquanta si costituì una ditta e aprì un piccolo stabilimento di bibite. I compaesani, forse anche vedendo come venivano preparate, non ne comperarono alcuna, preferendo la concorrenza conosciuta (ma senza conoscere il metodo di produzione) e la ditta chiuse dopo qualche settimana.

 

[Segnalibro: progresso

Così, mentre un po’ dappertutto il progresso aumenta, e il Veneto, regione d’emigranti come noi, si è industrializzato tanto da richiedere manodopera esterna, il nostro paese regredisce.

Eppure i giovani vorrebbero impegnarsi e c’è un certo interesse culturale: sono state fondate due radio private (Radio Pantera e Radio Futura Pietrina), una televisione (Tele-Oasi), Pino Siciliano (nipote di quella mia prozia che non credeva ai fantasmi) e la moglie Ursula, svizzera, rientrati nel nostro paese, hanno creato un gruppo folkloristico di valore internazionale; c’è un impegno sociale con giovani volontari e una sede Avis molto attiva. Vi sono campi da tennis e di calcetto, oltre al vecchio campo di calcio. Ma l’economia non decolla e i giovani rimangono disoccupati.

C’è stata una mostra di artigianato ed altre attività locali che hanno fatto conoscere molti giovani di talento e volenterosi, i quali però non trovano le opportunità per progredire. Si son visti tanti bei lavori di ricamo, artistici e d’altro. Molto interessante era l’esposizione di Liborio Tolaro con i suoi pannelli solari, che vende fuori dal territorio, e la sua ETI (Elettro Termo Idro) potrebbe allargarsi a livello industriale. Ma i più presentavano i loro prodotti senza pretese di mercato. In uno stand esponevano Calogero Di Blasi e Salvatore Di Perri. Il primo con opere d’arte in rilievo sul rame, lavoro che ha imparato durante l’emigrazione in Germania, ed ora in pensione è tornato all’amato paese; il secondo fa bellissima pittura su vetro, purtroppo appena avrà finito il servizio militare dovrà emigrare, perché “qui non c’è niente, il paese non offre niente”.

I pochissimi che riescono a trovare un’occupazione devono accontentarsi di guadagnare poco, spesso molto meno di quello che risulta nella busta paga e quindi aver versati pochi contributi, quando non son costretti a lavorare in nero.

I meno giovani, non essendoci molte possibilità di lavoro, sperano di guadagnare col giuoco e giocano su tutto. Si vantano di vincere, ma non dicono quanto perdono per tentare la fortuna, e probabilmente ci rimettono. Stranamente danno credito alle cartomanti delle Tv private che garantiscono vincite al lotto e consigliano quattro numeri, dei quali almeno uno uscirà sicuramente in una delle dieci ruote entro un mese.

 

I nostri “cugini” di Barrafranca invece si danno da fare e il loro paese progredisce. Gli abitanti ora sono più dei pietrini.

Coi barresi c’è stato sempre amore e rivalità, ma più amore che rivalità, un campanilismo di sfottimento, ritenendosi ciascuno superiore all’altro, con aneddoti sulla stupidità che ci addossiamo a vicenda. Come quello dell’asino che sta per bere alla fontana in una sera di luna piena. Gli è vicino una donna e il marito l’avverte: “Maracalò, vìdica lu sceccu si vivi la luna”, Maria Calogera, stai attenta che l’asino non beva la luna. Chi lo disse? Noi siamo convinti che lo disse un barrafranchisi. Però, al di là degli sfottò, ci sono stati e continuano a esserci molti matrimoni tra pietrini e barresi. 

Di fatti gravi tra le due comunità credo che non ne siano avvenuti, a parte uno verso la fine degli anni Cinquanta (58 o 59), di cui posso accennare. Durante la festa della Madonna della Stella, che si celebra a Barrafranca l’8 settembre, vi fu tra i due paesi una partita di calcio preceduta da molta rivalità tra le due fazioni. A un certo punto sul campo cominciarono dei tafferugli e un giovane di Pietraperzia ridusse in fin di vita un coetaneo di Barrafranca. Con questi avevo scambiato democraticamente qualche parere anch’io prima della partita e lo rividi dopo essere stato colpito, mentre lo portavano via vomitante. Più tardi, il suo corpo senza vita che veniva deposto sul letto di morte, lo si poté vedere, attraverso il balcone aperto, dalla piazza in cui avrebbe dovuto concludersi la festa con i fuochi d’artificio, allora fatti con girandole. Ovviamente i fuochi furono spostati al di là della vicina strada, nel pendìo dove è subito campagna.

Certo il colpevole non l’avrà voluto uccidere, ma il fatto di prendersi a botte per una partita di pallone non è ragionevole. Purtroppo il tifo dimostra ancora oggi come, per tanto poco, persone civili e pacifiche possano trasformarsi in criminali.

 

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