I TEMPI CAMBIANO
di Vincenzo Ballo |
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emigrammo - bene -
sfoggio - sederci].
Piazza Vittorio Emanuele II
(fotomontaggio ed elaborazione al computer di due foto)
Andai in piazza per rivedere molti paesani. Mancando da quarant’anni,
non conosco tutti quelli che ne hanno meno di cinquanta e loro non conoscono me,
per i quali sono un semplice forestiero. Conosco i più anziani e i miei
coetanei, ma ce ne son pochi, perché intorno al ’60 emigrammo quasi tutti e
degli amici di allora non è rimasto nessuno. Ma fa piacere vedere le nuove
generazioni. E piace incontrare anche coloro coi quali non ci si scambia nemmeno
il saluto. (In Germania, invece, nei piccoli paesi, dove a volte sono andato a
trovare dei parenti, mi vedevo salutare da tutti quelli che incontravo,
specialmente al mattino, ed era piacevole ricambiare il saluto, “Morg(h)en”,
anche se non ci eravamo mai visti e non ci saremmo più incontrati.
La piazza, ch’è chiamata corso Vittorio Emanuele (ovviamente II) forse
perché oblunga, è abbastanza bella, con un largo e lungo marciapiede
centrale. Fino agli anni venti, esso era tagliato a metà, ma poi ne fecero
una sola “banchina” e si può passeggiare senza interruzione da
Santa Maria a San Rocco e viceversa. La facciata di quest’ultima chiesa fu
rifatta da Matteo Di Natale in pietra bianca di Melilli, quando ero
ragazzo. Essendo molto friabile, ne presi alcune scaglie per farne piccole
sculture. Ricordo di un mini Mosè copiato da quello di Michelangelo che,
pur essendo una cosa da nulla (il mio, ovviamente), dimostrava una buona
predisposizione alla scultura, ma non ebbe seguito: lo dico senza
rimpianti.
Facendo la “traversata” solitaria per lungo, da lontano vidi un uomo che
conoscevo di vista. Mi ricordai che una volta, da giovani, c’incontrammo
dal fotografo. Io portavo lu tascu e i capelli mi stavano molto
male, egli me li pettinò e fece il miracolo di farli tornare a posto belli
ondulati, per cui la fotografia venne una delle migliori di tutte quelle
che abbia mai fatto. Era un povero bracciante e sarebbe potuto diventare
un ottimo parrucchiere di successo, ma fece un duro e ingrato lavoro da
emigrante. Andato in pensione, si era stabilito al paese.
La fotografia accennata sopra
Notai, tranquillamente seduto su una sedia, con un braccio appoggiato
sulla spalliera in posizione laterale, un uomo che da giovane era ritenuto
un po’ pazzo, eppure una ragazza volle sposarlo, contro il parere dei
famigliari. I primi tempi forse furono difficili, ma lei, col suo amore e
le cure prestate con vera dedizione, di una persona che avrebbe potuto
conoscere chissà quali brutture e umiliazioni, è riuscita a fare un uomo
felice e sereno. Se ci fosse un premio dell’amore, questa moglie lo
meriterebbe.
Incontrai due conoscenti che salutai e m’invitarono a unirmi a
loro, poi se ne aggiunse un altro e un altro ancora.
Erano il
fratello agricoltore di un carissimo amico emigrato in Svizzera, un contadino
che, oltre a coltivare la propria terra, lavorava alla forestale, un emigrato in
Germania in attesa di pensionamento, un emigrato in Svizzera già pensionato,
oltre a me, emigrato a Torino. Gli ultimi tre eravamo tornati al paese per
rivedere i parenti. Passeggiammo chiacchierando, fermandoci quando l’argomento
richiedeva più attenzione, per poi riprendere a passeggiare. Parlando di noi, a
un certo punto qualcuno domandò:
«Perché siamo emigrati?». La domanda poteva sembrare oziosa: si
emigra perché dove si vive non si trova lavoro, per sfuggire alla miseria.
Infatti i braccianti furono i primi a lasciare il paese, poi gli altri seguirono
le orme.
In quel tempo il pensionato era mezzadro,
quindi, non avendo terre di sua proprietà, avrebbe vissuto meglio lavorando in
fabbrica o nell’edilizia tutto l’anno.
Quello in attesa di pensionamento, con la riforma agraria del
1950 aveva ottenuto un podere e avrebbe potuto ritenersi soddisfatto, ma le
terre rendevano poco (anche perché di quelle fertili i proprietari avevano
trattenuta la quota non scorporabile e vendute le altre prima della riforma), la
vita rimaneva misera e ritenne conveniente emigrare.
Il contadino,
all’epoca del grande esodo era bambino, quando ebbe l’età per lavorare
sopraggiunse la crisi e l’emigrazione si fermò. Egli trovò impiego all’Ente
forestale per il rimboschimento e, lavorando tre mesi all’anno, arrotondava
coltivando un piccolo fondo di sua proprietà.
L’agricoltore,
anche lui più giovane di noi, si trovò quasi nella stessa condizione. La
famiglia però possedeva molti appezzamenti di terreno, in gran parte fertili, e
in certi periodi, per coltivarli tutti, assumeva braccianti. Eppure il
fratello, maggiore di lui, decise di emigrare, creando con ciò molti problemi a
suo padre, ma decidendo per il suo futuro.
In quegli anni l’emigrazione era come una piena che tutto
trascina con sé. Lasciammo la terra moltissimi coltivatori diretti, considerati
burgisi, cioè borghesi, anche se della piccola borghesia contadina un po’
rozza e conservatrice. Andammo via dal paese non perché giovani con spirito
d’avventura; parecchi avevano moglie e figli. Pur coltivando campi propri, si
preferì andare a lavorare nelle fabbriche del nord e qualcuno addirittura in
miniera all’estero o nelle fonderie, non considerando i rischi per la salute né
l’umiliazione della sottodipendenza, ma pensando al salario sicuro, senza
doversi preoccupare dei capricci del tempo.
[Segnalibro:
emigrammo]
Emigrammo perché la terra non ci consentiva di vivere
decorosamente. L’agricoltura era condotta con mezzi arretrati. Ma i macchinari
non sarebbero serviti per coltivare terreni di difficile accesso per le pendenze
o la frammistione di rocce. Eravamo in troppi e con la zappa si cercava di
sfruttare ogni angolo disponibile. Si coltivavano anche terre infeconde. Il
lavoro era lungo e faticoso e la resa poca. Emigrammo per una vita migliore. E
perché altrove c’era richiesta di manodopera non qualificata.
Richiedevamo il libretto di lavoro all’ufficio di collocamento
del paese e alla voce “Qualifica” facevamo scrivere “Manovale”, un titolo buono
per qualsiasi lavoro da ignoranti. Si poteva lavorare nell’edilizia per
trasportare malta e mattoni, servire i muratori, molti dei quali, si erano
improvvisati capimastri grazie ad un po’ di tirocinio al proprio paese, tanto
nei cantieri c’erano i geometri che dicevano come fare e per mettere un mattone
sopra un altro non occorreva molta esperienza.
Con la qualifica di manovale assumevano in fabbrica per lavorare
alla catena di montaggio o facendo altri lavori ripetitivi che non richiedevano
una specifica preparazione. Bastava una breve spiegazione di quello che si
doveva fare e un po’ di assistenza iniziale per poi continuare autonomamente.
(Negli anni successivi avrebbero assunto anche diplomati per lavori da operaio,
ma allora si preferivano uomini che non erano andati oltre le scuole di primo
grado. Posso testimoniare di quattro giovani che fecero domanda alla Fiat, due
avevano la licenza elementare e gli altri la media inferiore. Ebbene, i secondi
non ricevettero risposta, mentre i primi furono assunti). Gl’improvvisati
operai eseguivano il lavoro con meticolosità, erano contenti di farlo e si
sentivano gratificati. La gratificazione veniva dal salario che sembrava
compensasse molto quello che facevano. Si era contenti di lavorare senza
preoccuparsi del tempo e del futuro, si facevano “le otto ore”, certi di essere
pagati anche per i giorni in cui si restava a casa per malattia. Mentre al paese
la vita era misera e tribolata, si lavorava duramente per un anno, senza la
certezza del raccolto e, anche se poi era buono, non dava da vivere a
sufficienza.
In seguito
avremmo saputo che ci sfruttavano, ma almeno i ricchi settentrionali avevano
creato industrie e dato lavoro; i ricchi meridionali invece sfruttavano e basta.
Mettendo i soldi in banca o dandoli in prestito o investendoli al Nord, ci
tenevano in miseria, non facevano progredire il meridione.
Una volta
all’anno si tornava per le ferie, allegramente. Ma i primi anni era desolante
vedere la campagna incolta, specialmente le distese alberate che si stavano
spogliando e i pochi alberi rimasti avevano perso il rigoglio d’altri tempi,
sembravano vecchi e macilenti, carichi di tristezza, come se soffrissero nel
sentirsi abbandonati. I pastori avevano a disposizione abbondanza di pascolo
gratuito, eppure sono emigrati pure loro o hanno cambiato lavoro per una vita
più confortevole, e sono rimasti in pochi a continuare l’attività.
Finita la vacanza, ci si caricava di prodotti locali: olio, vino,
olive, formaggio e tante altre cose buone e genuine, oltre a manufatti tipici,
riempiendo valigie e scatoloni. Per olio e vino si usavano le damigiane di
vetro, finché non si diffusero i bidoni di plastica. Quando qualcuno tornava al
paese fuori dal periodo delle ferie, si sentiva chiedere da un parente o un
amico il favore di portare un piccolo pacco a figli o fratelli che dimoravano
nella stessa città. Così ci si caricava anche di regali altrui. A un mio amico
fu chiesto il favore di consegnare un pacchetto a dei compaesani. Per gentilezza
si mostrò disponibile e gli diedero una grossa valigia molto pesante, per cui
all’arrivo in stazione, dovette richiedere l’aiuto d’un facchino (ora si dice
fattorino), non essendoci allora carrelli a disposizione dei viaggiatori. Per
giunta, i destinatari, baldi giovanotti, non si presentarono a ritirarla, e lui
si assunse il peso di trasportarla a casa loro, con molto disagio, non avendo
ancora l’auto.
Oggi non succede più perché la mentalità è cambiata e, con lo
sviluppo dei trasporti, i buoni prodotti tipici di una regione si possono
trovare in qualsiasi città, anche all’estero. Come d’altronde in paese ci sono
prodotti prima sconosciuti.
[Segnalibro: bene]
«E ora come si vive?».
«In apparenza stiamo tutti bene, ma per i giovani non ci sono
prospettive e uno alla volta continuano ad emigrare» disse il contadino
impiegato alla “forestale”.
Sotto certi aspetti la situazione potrebbe apparire più grave
degli anni Cinquanta e Sessanta, quando noi emigrammo in massa. Allora ci furono
famiglie che resistettero ed ebbero la possibilità di far studiare i figli. Ma
questi non trovano impiego e sono costretti ad andare via. Cosicché, molti
genitori che prima erano rimasti, ora partono per seguirli. E il paese si
spopola.
Oggi anche le ragazze abbandonano il paese e vanno a vivere da
sole. Ai miei tempi una cosa del genere era impensabile, molte restavano anche
se il padre e i fratelli si erano trasferiti, specie se all’estero. Emigravano
dopo, quando si maritavano, perché al paese non c’erano più giovani e si univano
agli emigrati. E le famiglie si frantumavano.
Qualche ragazza si sposava per procura con un giovane
d’oltreoceano, che non poteva o non voleva fare spese per tornare, dopo essersi
conosciuti in fotografia, magari solo a mezzobusto, ignorandone il carattere e
il passato, senza un’idea di come sarebbe vissuta. Il matrimonio non era una
gioia ma una necessità, e molto grande era il dolore per la separazione dai
genitori, che forse non avrebbe più rivisto.
Allora si comunicava per posta. Ci si scrivevano le lettere, che
quasi sempre cominciavano con la formula “ti faccio sapere che sto bene di
salute e così spero sentire da te” o “che la presente venga a trovare te”. Non
si aveva il telefono e, per sentire la voce dei propri cari, bisognava andare in
un ufficio dei telefoni pubblici. Ma, anche per le comunicazioni all’interno
dell’Italia, si aspettava delle ore prima di prendere la linea, poi c’erano
difficoltà nell’ascolto e a volte cadeva: passava il piacere di telefonarsi.
Però, udendo la voce della persona che stava al di là del filo, si poteva essere
più o meno certi che stesse bene.
Ora tutti hanno il telefonino e anche al paese si vive uno stile
di vita moderno come al Nord. Eppure…
“Il paese è morto” ci dicono.
Verso la fine del Settecento Pietraperzia contava circa 8.300
abitanti, negli anni Cinquanta del XX secolo sfiorò i quindicimila, ora ce ne
sono meno di cinquemila.
Non c’è un cinema; per un trentennio, fino all’88, ce ne furono
due. Prima c’era solo il Teatro Comunale, che aveva tribuna e platea, ma pochi
posti. Davano film vecchi per mezzo di un proiettore vecchissimo. Spesso la
pellicola si spezzava, a volte la si vedeva sfarfallare sullo schermo bianco, si
accendevano le luci in attesa che l’operatore la incollasse, e il pubblico ne
approfittava per guardarsi attorno, come durante gli intervalli, spesso
alzandosi, per vedere chi c’era in sala. Quando l’interruzione si ripeteva a
brevi intervalli, si levava una banda di fischi. Quasi in tutti i film mancavano
spezzoni per tagli effettuati durante le riparazioni, e i ragazzi venivamo in
possesso di alcuni fotogrammi di pellicola infiammabilissima. Per qualche anno,
in occasione delle feste patronali, si proiettò il film all’aperto e così
poterono usufruirne persone che altrimenti non ne avrebbero mai visto uno. Poi
costruirono il cinema Marconi nell’omonima via, con tetto apribile che d’estate
consentiva di vedere spettacoli all’aperto. Ci fu un periodo in cui, per
concorrenza, diedero doppio spettacolo, due film, e per qualche settimana
giunsero a tre, ma quest’ultima offerta non ebbe successo perché molti amavano
rivedere le scene per poter capire meglio il racconto.
Al Comunale facevano anche rappresentazioni teatrali, le
compagnie restavano qualche giorno e ogni sera cambiavano spettacolo, seguito da
una farsa finale. Il primo che vidi, ragazzo, fu “Fiat voluntas Dei” di Giuseppe
Macrì, rappresentato dalla famosa compagnia dei fratelli Zappalà. (La fabbrica
italiana di automobili torinese non c’entrava, il titolo ripeteva la frase
latina pronunciata da un prete messo in difficoltà da due giovani innamorati che
s’incontravano segretamente in parrocchia).
Quasi una volta all’anno veniva il circo equestre (cìrculu
ecquestru) che portava il nome del clown (Fortunello o Scarpacotta).
Di animali c’erano un paio di cavalli e un cane. Una sera ci fu l’esibizione di
un giovane debuttante, che si presentò con una mascherina, come se provasse
vergogna. Molto sicuro di sé, invitò una persona del pubblico e le chiese di
dare una pedata a una scatola di scarpe per terra, dalla quale sarebbe dovuta
uscire una sorpresa. Dato il calcio, saltò il coperchio, ma non venne fuori
nulla. “Come avete potuto vedere” disse con naturalezza, “la sorpresa non c’è
stata, ma” aggiunse rivolto all’ospite “lei è un grande rompiscatole”. Non
sapeva che quello era il veterinario, un forestiero che esercitava nel nostro
paese. Ma lo sapeva il direttore del circo e, mortificato e preoccupato, andò a
scusarsi col professionista ch’era più mortificato di lui.
Poi arrivò la televisione, all’inizio si andava a vederla nei
circoli-società, che furono i primi ad averla, quindi da parenti o amici,
specialmente quando c’era Lascia o raddoppia?, Il Musichiere o il
Festival di Sanremo. I cinema entrarono in crisi, quello nuovo divenne
negozio e l’altro rimase chiuso.
Per i giovani non ci sono svaghi.
Per i bambini non ci sono giochi, tranne che all’interno della
Villa Comunale.
Non c’è piscina.
C’è un distaccamento di vigili del fuoco, ma solo d’estate,
perché capita spesso che ci siano incendi, anche dolosi.
Non c’è
lavoro.
[Segnalibro: sfoggio]
Eppure fanno
tutti sfoggio di benessere, dimostrano di star meglio di quelli che lavorano in
Continente. Ma si lamentano un po’ tutti, si lamentano di tutto, si sentono
abbandonati. E non sanno che i settentrionali si lamentano di loro.
La Stampa di Torino del 22 luglio 2002 si chiede: “Perché mediamente ogni
siciliano riceva da decenni dal resto d’Italia un contributo fiscale netto di
2-3 migliaia di euro all’anno e la Sicilia continui a rimanere un disastro dal
punto di vista della qualità dei servizi pubblici mentre, con cifre assai
minori, altre regioni arretrate d’Europa, in Irlanda e Portogallo, per esempio,
hanno conseguito risultati ben superiori?”.
“Esiste piuttosto la peculiarità italiana di un Meridione che non
riesce a fare un cambiamento radicale di cultura, che riduce spesso il nuovo ai
suoi vecchi vizi, alle sue istituzionali involuzioni” scrive Giorgio Bocca.
“Qualsiasi intervento massiccio dello stato per finanziare il Meridione finisce
nel gioco diabolico della politica clientelare alleata della malavita
organizzata. (...) Il Meridione è cambiato ma continua a perdere
l’autobus della rincorsa del Nord”.
[Nota 06-1: "Gli italiani sono razzisti?" di
Giorgio Bocca, Ed. Garzanti, Milano 1988]
Il divario tra Nord e Sud s’è allargato, così come quello tra
ricchi e poveri. Al Sud aumenta la disoccupazione, mentre nel Nord-Est,
una volta altrettanto povero, c’è richiesta di manodopera. I meridionali però
non vogliono trasferirvisi. Eppure ripetono che non hanno lavoro e non hanno da
vivere.
“Cca si campa d’aria” cantava il
calabrese Otello Profazio.
«Almeno c’è l’aria buona» dico io. Ma pare che non sia tanto buona come sembra.
Pietraperzia è Comune d’Europa e Zona denuclearizzata, ma dicono
che molti muoiono di tumore, e si dà la colpa alle scorie nucleari che
verrebbero depositate nella miniera di Pasquasia, ora chiusa ma vigilata. Non ci
sono conferme, e potrebbero essere chiamati in causa i vecchi serbatoi di
eternit sui tetti delle case, i quali contengono amianto, ritenuto
cancerogeno. Insistendo su Pasquasia, alcuni precisano che gli scarichi siano
avvenuti quando la miniera era in attività e, pur essendo produttiva, si decise
di chiuderla per evitare grosse contaminazioni. I dipendenti anziani furono
messi in pensione e i giovani inseriti in organici statali o comunali, ma quelli
che vi lavoravano per conto di ditte esterne rimasero disoccupati. Anche lo
stabilimento petrolchimico di Gela, in cui erano impiegati molti pietrini, è
stato ridimensionato e il problema occupazionale diventa sempre più critico.
E’ una maledizione che si ripete. Fino agli anni Cinquanta, nel
nostro territorio, come in altre parti della Sicilia ma particolarmente nella
provincia di Caltanissetta, c’erano molte miniere di zolfo e furono chiuse in
piena attività perché poco remunerative, essendo condotte con metodi antiquati,
per cui conveniva comperare lo zolfo dagli Stati Uniti d’America. Mi domando se
non fosse stato più corretto adeguare i metodi estrattivi con le nuove
tecnologie adottate nei paesi più avanzati.
Oggi c’è un ritorno all’agricoltura, che si è meccanizzata e un
contadino – non zappa più, usa diserbanti – può coltivare molta più terra ed
avere un maggior raccolto, grazie alle nuove sementi. Purtroppo, con l’abbandono
della coltivazione del grano duro, che qui era il migliore, e l’introduzione
generalizzata di grano tenero, si è costretti ad acquistare annualmente sementi
brevettate dalle multinazionali.
Intanto
rimane la preoccupazione del tempo. Piove sempre meno e, se l’inverno è secco,
la siccità estiva diventa molto preoccupante. I settentrionali ci criticano per
questo come se fosse colpa nostra, ma se da loro piove un po’ meno del solito,
si preoccupano più di noi. Il tempo è cambiato dappertutto. A Torino, che negli
anni Sessanta cadevano anche 30 centimetri di neve, ora non nevica più, se non
qualche velo che presto si scioglie.
[Segnalibro: sederci]
Passeggiare è piacevole ma a lungo stanca. Qualcuno propose di sederci. Ma dove?
Noi “ospiti” non osavamo dire di andare al bar, perché loro non ci avrebbero
permesso di pagare e sarebbe sembrato chiedere che ci offrissero da bere. Anche
se qui ci si può sedere senza obbligo di consumare, ma a noi “forestieri” non
sembrava corretto approfittarne. E’ uso anche sedersi dinanzi ai locali delle
Società di mutuo soccorso per la tomba sociale, sorte quando le masse non
potevano permettersi quella di famiglia. Si chiacchiera e intanto si guarda chi
passa. Certe donne, non sopportando di essere osservate da vecchi oziosi e
pettegoli, evitano di passare dalla piazza, quando possono. Sul marciapiede
davanti alla Società Militari in congedo c’erano delle sedie libere e ci
accomodammo, senza diritto ma con tacito consenso.
Capitai di sedermi vicino a un uomo elegante, con gli occhiali da
sole, anche se eravamo all’ombra, che conoscevo da quando eravamo ragazzi e non
avevo più rivisto da allora. Egli non si ricordava di me, ch’ero un po’ più
giovane di lui. Quando lo aiutai ad andare indietro con i ricordi mi disse, in
modo ricercato ma con qualche carenza:
«Sì, ora che
mi hai “intervistato”, dalla “filosofia” mi pare di ricordarmi». Non si riferiva
al mio modo di parlare, alquanto semplice, ma alla mia fisionomia. E non dubito
della sua intelligenza: a Milano, dov’era emigrato, aveva svolto un buon lavoro
di responsabilità.
Nella lunga
vacanza al paese rividi molti conoscenti e qualche amico. E notai un particolare
curioso: i miei coetanei, che avevo conosciuto ragazzi o giovanotti, li vedevo
in un aspetto più giovanile di quelli della stessa età che non conoscevo, come
se nel loro volto presente trasparisse un po’ di quello del passato.
Stavo seduto
rivolto verso la chiesa di Santa Maria e, guardando la facciata con interesse,
notai un particolare a cui non avevo mai fatto caso: il portale non è
perfettamente in asse come la finestra che gli sta sopra e rimane spostato a
sinistra, verso l’ingresso delle vecchie scuole maschili, ex convento
francescano, che nel secondo dopoguerra ebbe alcuni locali adibiti a sede di un
nucleo di polizia mobile.
Santa Maria e Teatro comunale
-
2003, olio su cartone telato 50x40
«E quelli chi sono?» domanda qualcuno di noi emigranti.
«Saranno due albanesi».
«Ma se qui non c’è lavoro nemmeno per i nativi!…?».
«Vanno in giro con un foglio firmato dal comune a chiedere
l’elemosina».
Più o meno
come quando si girava per raccogliere i fondi per le festività.
Passa un
funerale: una lunga processione, parenti compunti, molte corone, musicanti in
divisa, con gli strumenti, in silenzio, come corpo d’onore. Un tempo invece la
banda eseguiva marce funebri che destavano grande emozione. Ci alziamo in segno
di rispetto e di saluto. Era morta una donna ultraottantenne che aveva i figli
emigrati in varie parti del mondo e lei era rimasta al paese, servita da una
donna estranea alla quale lasciava la casa. Purtroppo l’emigrazione ha portato
anche a questo. Nel passato i vecchi erano serviti dai propri figli e loro
consorti, ma oggi questo è difficile che accada anche qualora stiano insieme
perché, se i figli lavorano, non possono prendersi cura dei genitori. Perciò
molti anziani finiscono in gerontocomio, dove non sempre vengono trattati bene,
e alcuni sono accuditi in casa da badanti immigrate. E’ un lato negativo del
progresso.
Una volta, quando morivano parenti stretti, le donne si sentivano
in dovere di piangere e raccontare fatti privati, per dimostrare di essere molto
addolorati. Meglio lo si faceva e più si dimostrava il proprio affetto;
diversamente gli astanti potevano pensare il contrario. Solo che certe donne
veramente addolorate non sapevano o non osavano gridare il proprio dolore,
mentre altre ne facevano sfoggio, pur senza sentimento, o addirittura avendo
odiato. “Come faremo senza di te? Sei stato/a sempre buono/a. Ci siamo voluti/e
sempre bene. Ti ricordi quando…” e giù a raccontare episodi “commemorativi”,
spesso per “pubblicizzare” la propria immagine. Tutto ciò suscitava curiosità e
malizia e certe frasi dette con vero dolore davano spunti comici. “Come faccio
con questa che ho in mezzo alle gambe?” fu il lamento di un povero uomo
preoccupato della piccola orfanella davanti a sé. Ma la gente maliziosa ne
tramandò la frase pensando ad altro. In certi paesi c’erano i “piagnoni”, pagati
per piangere i morti, ma ovviamente era un pianto recitato, con una cantilena, a
volte alternata dalle frasi rievocative dei parenti, ad ognuna delle quali si
rispondeva, citando il nome: “E daveru daveru iè, giustu dici la gnura
Billò”, oppure, secondo i casi, “daveru fu”.
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