I TEMPI CAMBIANO
di Vincenzo Ballo |
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entriamo - levatrice -
uccisa - pluriomicida].
Un emigrato che torna al paese non può non andare a visitare le
tombe dei propri cari. Noi siciliani abbiamo il culto dei morti, un parente
stretto che se ne va è una grave perdita. Forse un tempo lo era di più e, a
rievocare la loro presenza, nel giorno dei defunti si facevano trovare dei
regalini ai bambini, (magari solo cosette da mangiare), mettendoglieli di solito
dentro le scarpe, per averne la sorpresa al momento di vestirsi, facendo loro
credere che glieli avevano portato i morti durante la notte. Così i piccoli
pensavano con piacere che lassù c’era qualcuno, e poteva essere un parente
stretto, che pensava a loro e li proteggeva. Ora c’è Babbo Natale, c’è la
Befana: c’è la globalizzazione del commercio. Noi seguiamo i consigli della
pubblicità, copiamo dagli altri e perdiamo le nostre tradizioni, emuliamo quelle
dei paesi nordici, assimiliamo i costumi statunitensi e può darsi che, volendo
festeggiare il loro Halloween, ci si riavvicini alla nostra tradizione
modificando alcuni aspetti.
A molti piace immaginare le donne siciliane sempre vestite di
nero con lo scialle sulla testa: è un’usanza totalmente superata. Una volta si
portava il lutto anche per anni, a seconda del grado di parentela dei
trapassati, e una donna che fin da giovane avesse avuto la sventura di perdere
parenti stretti in tempi relativamente ravvicinati, aveva molte probabilità di
passare tutta la vita vestita di nero. Il che da un punto di vista strettamente
economico poteva risultare comodo, non certo sotto l’aspetto della piacevolezza
della vita, senza contare l’inconveniente di possibili allergie e sicuramente
l’aumento del calore apportato sulla pelle, insopportabile nella calda estate.
Durante la quale, in alcuni anni che lo scialle era andato in disuso, alcune
signore non più giovani in cordoglio, se uscivano di casa, mettevano il cappotto
e si coprivano la testa con un fazzoletto annodato sotto il collo, ovviamente
neri. Gli uomini di nero portavano la camicia o solo un pettorale, una fascia
alla manica sinistra della giacca o la cravatta, per sei mesi-un anno. Il lutto
comportava una vita più ritirata, con molta limitazione di rapporti sociali, per
quanto semplici potessero essere, per cui, con tutto il rispetto e il dolore che
si potesse avere per la perdita del parente, era forse maggiore il dispiacere di
dover vivere segregati e ben coperti anche durante il caldo torrido estivo. Ora
non si portano più segni esteriori e non ci sono limitazioni alla vita sociale,
tranne che le prime settimane.
Resta l’usanza, da parte dei parenti prossimi, a turno, di
offrire ai famigliari del defunto un buon pasto. Questo perché una volta, nei
giorni successivi alla dipartita, non si doveva cucinare (far vedere il fumo che
usciva dai comignoli era disdicevole, come se accendere il fuoco significasse
festeggiare) e succedeva che gli afflitti mangiassero molto meglio del solito.
E’
curioso notare che il nero, colore degli abiti di estrema eleganza, era
considerato brutto e inelegante come segno di lutto, ma quando decadde da tale
uso, venne di moda nel prêt-à-porter. Prima di abituarci, incontrando
delle ragazze tutte vestite di nero, a noi meridionali sembravano in gramaglie e
di primo acchito ci facevano compassione, pensando che avessero perso un parente
strettissimo.
Dunque andiamo al cimitero (non lo chiamano più camposanto). Una
volta si andava a far visita ai defunti solo nel giorno a loro dedicato, oppure
la vigilia, festa di tutti i Santi. E in quei tempi nei quali le donne
non uscivano di casa era un’occasione per prendere un po’ d’aria. Poi per le
ragazze da marito divenne un’opportunità per farsi conoscere, anche se non dal
diretto interessato, da qualcuno che avrebbe potuto suggerirne il nome.
Ora invece si portano fiori alle tombe dei parenti stretti
durante tutto l’anno, e sono fiori comuni e vari (rose, garofani, gerbere,
gladioli, eccetera), mentre una volta si portavano rigorosamente crisantemi, i
fiori dei morti, forse perché a quei tempi erano gli unici che si trovassero in
quel periodo. L’andare più spesso al cimitero è forse dovuto anche alla
possibilità di utilizzare la “macchina”, senza la quale il raggiungerlo a piedi
potrebbe risultare stancante.
Ne vidi le mura sul cucuzzolo e ricordai, per averlo sentito
raccontare, che molti anni addietro (sicuramente dopo il 1870, perché prima di
allora i cadaveri venivano sepolti nelle chiese) vi era stato portato un
bambino colpito da morte apparente. Il mattino successivo, i contadini che
andavano a lavorare lo sentirono urlare. Poi arrivò il custode… gli mise le mani
al collo o lo soffocò. Fino ai primi decenni del Novecento capitava spesso di
seppellire vive persone che sembravano morte. Chissà quanti feriti in battaglia,
durante le molte guerre che l’umanità ha dovuto subire, sono spirati dopo essere
stati seppelliti! Mio nonno raccontava un altro fatto riguardante un ingegnere,
in realtà geometra, al paese i geometri sono chiamati ingegneri (io mi ricordo
di un infermiere che lo chiamavano dottore, senza ironia, con senso di
rispetto). Dunque un geometra, durante i lavori in un pozzo nero, a causa delle
esalazioni puzzolenti e venefiche, mentre un operaio moriva, egli svenne e fu
creduto morto. Lo misero in una cassa e lo portarono al cimitero. L’indomani lo
trovarono con le mani ai capelli, strappati, morto di spavento, di rabbia e per
mancanza di ossigeno dentro la cassa col coperchio inchiodato. Forse per evitare
questi errori, oggi i funerali vengono fatti dopo almeno ventiquattr’ore dal
decesso e la bara viene lasciata aperta nella camera mortuaria del cimitero fino
all’indomani, quando avviene la sepoltura. Così, nel caso che il morto
resuscitasse, potrebbe alzarsi e uscire dal feretro, andandosene non da fantasma
ma da uomo vivo fra i morti, certo con molto spavento, in cerca dell’uscita.
Però questa è un’eventualità remota perché ora, appena una persona è dichiarata
morta, le fanno una puntura per ritardare la decomposizione della salma, e
intanto ne impediscono la possibilità di tornare in vita. Infatti quasi
dappertutto l’inumazione viene fatta a conclusione del funerale.
[Segnalibro: entriamo]
Basta. Entriamo al cimitero con i fiori per i defunti che ci sono
più cari. Negli ultimi anni, nonostante la diminuzione degli abitanti del paese,
il cimitero è stato ingrandito. Ora quasi tutti hanno la loro tomba di famiglia,
col diritto che le ossa vi rimangano per novant’anni. Per chi non ce l’ha, i
congiunti rinnovano l’affitto alla scadenza per poter continuare ad esprimere il
proprio affetto. Una volta c’erano solo tombe di proprietà del comune, delle
confraternite o di società mutualistiche costituitesi apposta per costruire e
affittare i loculi ai propri soci e, a parte i combattenti della Grande guerra
che hanno diritto di eterna sepoltura, dopo dieci anni le ossa venivano poste
nella fossa comune. Ma molti non avevano la tomba e venivano inumati. Ricordo le
fila di croci sui cumuli di terra che coprivano le bare, e quei rilievi erano
lasciati apposta affinché non si calpestasse per disattenzione la pietosa
copertura. Sotto uno di essi, durante la guerra e per qualche anno dopo, ci fu
sepolto un soldato tedesco, l’unico che morì dalle nostre parti. Nel giorno dei
defunti molti vi deponevano pietosamente un fiore e il suo tumulo veniva
completamente coperto. Da noi la guerra era passata veloce quando eravamo ancora
alleati dei tedeschi e non c’è stato mai astio contro di essi.
Entrando in quel luogo del silenzio, colpisce la tomba-monumento
al brigadiere Gaspare Farulla, ucciso a Monopoli di Bari il 4 luglio 1963 da un
criminale. La madre per il dolore quasi impazzì, rimase sempre chiusa in casa a
piangere quel suo figlio bravo e bellissimo morto giovane nell’adempimento del
proprio dovere. Si disse allora che Gaspare, dopo aver ferito il bandito, gli si
avvicinò per soccorrerlo, ma quegli ebbe la forza di sparargli e ucciderlo prima
di morire anche lui. Ora, nella motivazione per la medaglia d’argento al valor
militare, leggo che egli, “durante un servizio notturno predisposto per la
cattura di due pericolosi malviventi responsabili di omicidio a scopo di
rapina”, durante il conflitto a fuoco esauriva le munizioni della pistola e,
“imbracciato il moschetto automatico del collega sopraggiunto, continuava
l’inseguimento” al più pericoloso “per una zona disagevole e buia dove si
era diretto e nascosto il malfattore. Ferito da questi mortalmente, prima di
abbattersi esanime al suolo riusciva, (…) a far fuoco sul malvivente,
uccidendolo”. Francamente penso che il collega lo abbia vendicato e abbia
rinunciato al merito dell’azione anche per evitare rogne. Questo senza nulla
togliere al coraggio e al senso del dovere del martire.
Noi eravamo parenti (sua madre e la mia nonna paterna, entrambe
Terramagra, erano cugine di primo grado), quand’ero ragazzo abitavamo vicini ma
non giocavamo insieme in quanto lui aveva qualche anno più di me. Ricordo che
una volta mi rivolsi a lui per avere giustizia nei confronti di un ragazzo che
voleva farmi un sopruso. Un’altra volta invece volevo fare il furbetto con un
altro fanciullo e gli chiesi di giudicare chi aveva ragione, fidando nel fatto
che eravamo parenti, ma lui mi diede torto. Ne ricevetti una buona lezione di
comportamento e da quella volta ho cercato di essere sempre corretto. Era un
ottimo carabiniere e sarebbe stato un buon giudice, se avesse potuto studiare.
[Segnalibro:
levatrice]
Nel vialetto dietro l’angolo, dalla foto su una lapide riconobbi
donna Antonietta Gulino, bella anche nell’età avanzata, che da levatrice aveva
aiutato a nascere due generazioni di compaesani, sacrificandosi con qualsiasi
tempo e a qualsiasi ora. E qui mi piace ricordare il dottor Vincenzo Vitale,
medico chirurgo e ginecologo, a cui si ricorreva per i parti difficili. Visitava
anche i poveri, senza pretendere compenso.
Ora i bambini nascono tutti all’ospedale e i comuni che ne sono
sprovvisti non registrano nascite. Una volta si nasceva in casa e ovviamente
c’erano più rischi, specialmente prima dell’avvento dell’automobile. So di una
partoriente di due gemelli che, dopo aver partorito nel suo letto il primo,
probabilmente con grande difficoltà, per il secondo fu portata all’ospedale di
Caltanissetta. E così i due gemelli nacquero in due località diverse.
Sostando in preghiera davanti alla tomba dei genitori, pensai al
dispiacere che avevo dato loro andando via dal paese, lo capisco meglio adesso
che anch’io ho figli. Mio padre aveva stima di me e mi voleva molto bene, ma era
molto severo. Se non lo si ubbidiva usava la cintura dei pantaloni. Spesso,
quando a tavola noi figli litigavamo, la scioglieva e se la metteva sulle gambe
per ammonirci a stare buoni. Mia madre non aveva bisogno di accessori: la
temevamo per le sue mani pesanti. Quando mio padre tornava dal lavoro faceva un
fischio particolare per avvisare che era arrivato e voleva che andassimo giù ad
accoglierlo col saluto e, se era il caso, aiutarlo a scaricare la mula. Ricordo
che quando eravamo piccoli, mia madre, giovanissima, prendeva in braccio me e
mia sorella, uno per parte, e in più con una lucerna a olio o il lume a petrolio
in una mano, scendeva la scala buia, tortuosa e sconnessa e si andava a ricevere
papà. Io percepivo l’odore del lavoro, un odore che non si sente chiaramente ma
dà un senso di eroico, umile ma tenace, difficile da spiegare. A volte ci
portava qualche lumaca trovata nel terreno mentre zappava, la si metteva nella
brace della cucina o dello scaldino, quand’era inverno, e poi noi bambini la
mangiavamo con gioia.
Proseguendo la visita andammo a portare un fiore anche ai nonni.
I maschi avevano fatto la cosiddetta Grande guerra ed erano tornati illesi,
anche se il nonno paterno era stato sfiorato da una granata e quello materno
aveva compiuto un atto eroico, con la promessa di un premio. Il capitano aveva
chiesto due volontari per andare a mettere dell’esplosivo vicino alla trincea
del nemico e mio nonno era stato uno dei due. Compirono l’impresa ma il premio
non l’ebbero. Anzi ci fu una nuova richiesta di due volontari per ripetere
l’azione e si ripresentarono i due che erano stati gabbati. Questa volta però
misero l’esplosivo sotto un melo carico di frutti. Al mattino il capitano
osservò il risultato col binocolo, vide l’albero saltato in aria e le mele per
terra, capì e tacque. Quando si rifece sera alcuni soldati andarono a
raccogliere le mele abbattute e mangiarono quelle buone.
Lungo il percorso per trovare le tombe dei parenti da visitare si
veniva attratti dalle foto sulle lapidi e quando riconoscevamo i volti
affioravano ricordi. Grande commozione destavano i ritratti di bimbi e di
giovani. Leggevamo le date di alcuni, giorno, mese e anno della nascita e della
morte ma nessuna notizia sulla causa certamente drammatica. Si poteva ipotizzare
malattia o incidente e in alcuni casi c’era stata una tragedia.
Di un giovane sapevo che si era suicidato e non ho mai capito il
perché. Avevamo comuni amici e a volte c’incontravamo in piazza. Era sempre
allegro e sorridente, in buona salute, di bell’aspetto, senza problemi
economici: non gli mancava nulla. Eppure… non l’avrà fatto certo per capriccio.
Più avanti mi attrasse la foto di una bellissima donna che,
sposata e con figli, aveva perso la testa per un giovane e, quando egli espresse
la volontà di rompere il rapporto, ella lo freddò e poi la fece finita accanto a
lui.
[Segnalibro: uccisa]
In una lapide vidi il ritratto di una giovane ventenne accanto
alla tomba del padre che l’aveva uccisa, forse per sbaglio. Lei era innamorata
di un giovane, ma il genitore non era d’accordo perché non riteneva la famiglia
di lui pari alla sua. Del fatto che il ragazzo avesse un buon lavoro non teneva
conto. Una sera, secondo la versione più accreditata, lo vide per l’ennesima
volta all’angolo della strada, decise di affrontarlo minaccioso e uscì armato di
pistola. Intuito il pericolo, la figlia gli corse dietro. Ci fu un diverbio e
l’uomo sparò più volte. La figlia s’intromise per proteggere l’innamorato e fu
colpita pure lei: morirono entrambi. Il Giornale di Sicilia dedicò più
pagine alla tragedia con servizi e molte foto.
Forse c’era una maledizione, un destino crudele che perseguitava
la famiglia. Alcuni anni dopo, un nipote, figlio del figlio, uccise il proprio
fratello. Disse, anche in un’intervista alla televisione, in un programma di
mezz’ora dedicato al fatto, che era stata una disgrazia, lui non aveva voluto
uccidere.
Sembra trattarsi di una famiglia di assassini, ma si dovrebbe
credere alla persecuzione del fato. Per quanto ne sappia erano brave persone: il
padre di questo giovane l’ho conosciuto poco ma ritengo che avesse bontà e
gentilezza; il nonno, che commise il reato più grave, non sembrava uno che
potesse arrivare a tanto.
Sull’amore dei giovani i genitori ormai non s’intromettono più.
Non si oppongono nemmeno quando ritengono che le famiglie siano di diverso
livello, tutt’al più sconsigliano quando sanno che la scelta dei figli è rivolta
verso tipi non raccomandabili, perché si sa che l’amore è cieco e aiutare la
vista non è poi un peccato mortale. Anche al paese ora i giovani si conoscono,
s’innamorano e si sposano, se ritengono bene farlo. Una volta invece erano i
genitori a decidere, e se decidevano per il no i motivi potevano essere dovuti
alla pretesa di un partito migliore, alla mancanza di possibilità economica,
alla giovane età o al fatto che ci fosse una sorella (o fratello) maggiore, per
la quale vigeva il diritto di precedenza: se veniva scavalcata rischiava di
restare zitella, ma se non era “appetibile” diventava un grosso ostacolo per
quelle successive. La risposta negativa era genericamente motivata dicendo che
la ragazza non era ancora da sposare, badando a non offendere l’aspirante e la
sua famiglia, che anzi si ringraziavano per l’onore.
Ricordo due omicidi compiuti da giovani che si erano ritenuti
offesi dalle risposte negative alla domande di matrimonio. In uno era stata
uccisa la madre, nell’altro il padre della rispettiva ragazza che si desiderava
sposare.
Le loro ossa sono in questo cimitero ma insieme ad altre ormai
nell’ossario comune.
[Segnalibro:
pluriomicida]
Riconosco in una tomba di famiglia la foto di un uomo la cui
storia merita di essere raccontata: vi si potrebbe scrivere un libro, farne un
film, una piéce teatrale. Io mi limiterò a tracciarne poche righe. Ho
conosciuto i genitori e i fratelli, tutte brave persone, alle quali egli
somigliava nell’aspetto ma non so quanto nel carattere, poiché lo conobbi
appena. La gente ebbe a dire che fosse lunatico, nel senso che in una fase della
luna perdeva la ragione.
Sposò una bellissima ragazza. La vidi per caso proprio il giorno
delle nozze mentre andava in chiesa a braccetto del padre. (Allora si andava a
piedi da casa fino alla Matrice, che a quei tempi era l’unica parrocchia del
paese). Subito dietro c’era lo sposo accompagnato dalla propria madre. Al
seguito molti parenti in processione. Poiché le famiglie avevano le possibilità
per non badare a spese, fu fatta una gran cerimonia, almeno per quei tempi.
Tutto faceva presagire un matrimonio felice e duraturo. Ma durò solo due giorni;
nel mattino presto del terzo giorno lo sposo uccise la sposa con una doppietta.
Il viaggio di nozze a quei tempi comunemente non si faceva; si
passavano tre giorni in casa, durante i quali la sposa non si affacciava nemmeno
e lo sposo non andava a lavorare, ma dal secondo poteva uscire e incontrarsi con
gli amici.
Qualcuno disse che al bar (allora si chiamava caffè) lo fecero
bere per festeggiare e l’alcol lo indusse a commettere quella pazzia. La verità
non è certa e non la conosciamo, ma non si vedono motivi razionali o comunque
validi per capire, non giustificare, un delitto assurdo e atroce; si potrebbe
supporre di mentalità arcaica o peggio d’ignoranza che a giudizio di certuni
possano legittimare azioni estreme e ingiustificate, ma evitiamo di azzardare
concetti che potrebbero indurre in errore, specie se plausibili. Rimane la
disgrazia di una donna uccisa nel fiore degli anni e della bellezza.
Si disse che la vittima poteva essere salvata, ma i suoceri, coi
quali gli sposini erano andati a convivere, essendo la casa molto grande, si
preoccuparono prima di salvare il figlio, andando a informarsi di cosa era
meglio fare. Fu consigliato di costituirsi. E intanto lei morì.
Al processo l’uxoricida fu condannato a pochi anni di manicomio
giudiziario.
Quando uscì non tornò al paese, forse per paura o per vergogna.
Emigrò al Nord, in un piccolo capoluogo di provincia, dove c’era un suo parente
e forse nessun altro paesano, eccetto una famiglia composta da due coniugi miti
e dalla loro figlia che in passato era stata vivace.
Ai tempi in cui si amoreggiava da lontano, solo con gli sguardi
o al massimo con qualche cenno e difficilmente con qualche parola, ella
s’innamorò di un bel giovanotto con la speranza di sposarlo. Speranza non
infondata in quanto le famiglie erano di pari livello sociale, insieme formavano
una bella coppia e avrebbero potuto avere bellissimi bambini. Purtroppo lei
concesse troppo. Non so se il ragazzo fosse veramente innamorato, ma quando
raggiunse lo scopo non la stimò degna di essere sposata. E dopo qualche tempo
cominciò a tirarsi indietro. Lei chiese il matrimonio riparatore e invece lui la
lasciò. Ma non lasciò il paese. E una sera di festa, sul marciapiede del corso
principale, all’improvviso, lei gli sparò con una pistola e lo uccise.
Vigeva ancora la legge sul delitto d’onore e dopo pochi anni di
carcere fu libera. Ma non tornò al paese, per la vergogna. Emigrò in una
cittadina dove non pensava d’incontrare compaesani. Pare tuttavia che ce ne
siano dappertutto. E lì s’incontrarono i destini di due giovani (lo erano
ancora) con un passato abbastanza simile.
Non sappiamo se sbocciò l’amore, ma si sposarono e presero dimora
coi genitori di lei. (Strano destino quello di lui che, pur potendo permettersi
di avere una casa tutta sua, andava ad abitare coi genitori suoi o della
moglie). Questo avrebbe potuto garantire un certo controllo sulla persona, ma di
fatto non garantiva nulla.
A questo punto credo che venga fuori la patologia del suo
carattere: egli soffriva forse di gelosia morbosa, anche se immotivata. Gli
amici o i colleghi di lavoro lo scoprirono e pensarono di divertirsi,
sfottendolo per farlo arrabbiare: bastava fare apprezzamenti sulla bellezza
della moglie, fare allusioni, o peggio chiamarlo cornuto anche per scherzo.
Piccolezze con le quali i settentrionali si dilettavano, ma offensive per un
siciliano. Forse insinuavano sospetti, magari se non certo infondati,
alimentando però il suo dramma interiore, senza pensare, incoscienti! alla
tragedia che avrebbero potuto provocare.
Egli cominciò a fare scenate di gelosia sempre più sconsiderate.
Non potevano certo calmarlo e rassicurarlo gli interventi dei suoceri, che anzi
giudicava forse corresponsabili, ruffiani. Lui credeva agli estranei che,
insistendo con allusioni, illazioni e semplici sfottò, lo istigavano al delitto,
senza rendersene conto. E fu una strage.
A un’ennesima scenata di gelosia, prese un coltello e si diede a
vibrare fendenti a destra e a manca, deciso a uccidere tutti, la moglie e i
suoceri. Ci riuscì coi poveri vecchi ed ebbe “l’onore” della copertina su La
Domenica del Corriere illustrata da Walter Molino. La moglie riuscì a
salvarsi ma rimase ferita gravemente alle gambe e ne portò per sempre i segni.
Ella fu accolta benevolmente in casa dei suoceri, che però dopo
pretesero espressioni di clemenza verso l’assassino dei suoi genitori. Al che
non volle acconsentire e preferì andarsene via, penso da parenti all’estero.
Il pluriomicida ebbe comunque una condanna mite, forse col solito
riconoscimento dell’infermità mentale, scontò pochi anni e questa volta tornò al
paese.
Probabilmente non sapeva dove andare, o magari pensava che il suo
primo delitto fosse stato dimenticato. Ma certi delitti non si dimenticano, un
genitore non dimentica.
Il padre della prima sposa era ancora vivo. Una sera lo attese
dietro un angolo di strada e gli sparò, uccidendolo. Poi andò a costituirsi dai
carabinieri con l’animo tranquillo di chi ha fatto giustizia. Ma la giustizia
dello stato prevede che gli assassini vadano in carcere. A meno che…
In paese raccolsero delle firme, dichiarando che il padre
vendicatore era pazzo, e in considerazione di ciò e dell’età o forse d’altro, in
breve ottenne la libertà. I compaesani lo accolsero come un eroe e si fece gran
festa.
[Nota: Così avevo sentito raccontare, ma poi
mi è stato detto che le firme furono raccolte per chiedere clemenza e l’omicida
fu scarcerato per ragioni di età].
Finita la visita ci avviammo all’uscita… Ma mi sembra di udire
mormorii di chi legge, delle voci deluse che borbottano: «E la mafia? Possibile
che in un cimitero siciliano non ci siano morti di mafia?».
Può darsi che ci siano, non lo so, ma comunque tralascio di
parlarne. Intanto perché questo è diventato un luogo comune, alimentato dal
cinema e dai media, come se tutti i siciliani fossero mafiosi e tutti i cimiteri
ospitassero morti ammazzati dalla mafia, con la lupara addirittura, ancora oggi
che la lupara quasi non esiste più. Poi perché non conosco fatti eclatanti di
cui valga la pena parlarne. Di certo non ci sono mafiosi di grosso calibro al
mio paese. Una volta forse sì, quando la mafia era connessa al latifondo; ma ora
i tempi sono cambiati, la mafia si è evoluta e i suoi interessi sono rivolti
verso la droga, le grandi opere di costruzione, il turismo, la grande industria,
tutto ciò che è grande, non tralasciando ovviamente il pizzo e l’usura. La mafia
si è spostata in città, a Roma, al Nord. Essa è in mezzo alla società evoluta
che pensa di non averla o lo nega. Mi indispone l’assunto che siciliano sia
sinonimo di mafioso. Mi irrita l’accusa di omertà, quando al Nord nessuno che
abbia visto un incidente è disposto a testimoniare per il bene della giustizia,
senza alcun rischio. Perché oggi anche i settentrionali pagano il pizzo e
nessuno denuncia? Ora la mafia riguarda tutti, essendosi inserita nel tessuto
della società e nel corpo dello stato, non è più un fenomeno, è un elemento
della convivenza. Il mafioso può avere la maschera della persona rispettabile,
di una persona che magari aduliamo per quello che mostra, per quello che dice,
ma non sappiamo quello che fa nella parte nascosta delle apparenze. E purtroppo
i mafiosi fanno paura. Perciò conviene tacere, “mosca” dicono, “taci”; e io
taccio, muto sono, nenti sacciu e nenti vugliu sapiri. Okay? Chiuso. Ho
scherzato sul finale, ma la questione è seria.
Prima di concludere mi voglio soffermare sul cimitero per dare
uno sguardo alla tomba della principessa Deliella e di alcuni suoi parenti. E’
grande ma non è la migliore. Altri ricchi successivamente se la sono costruita
più bella.
La storia della famiglia di questa
principessa sembra una favola, una leggenda, nata nell’Ottocento con suo nonno e
non è stata ancora chiarita. Cercherò di raccontare quello che so nel capitolo
successivo.
Foto delle tombe Drogo e
Farulla (elaborata al computer)
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