I TEMPI CAMBIANO
di Vincenzo Ballo |
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siciliana - conflitto -
straniere - servitù].
L’emigrazione di massa degli italiani ebbe inizio qualche anno dopo l’unità
d’Italia e interessò tutte le popolazioni del Nord, primi i veneti, secondi i
piemontesi. Si trattava però di emigrazione stagionale diretta maggiormente
verso la Francia, seguita a distanza da Svizzera, Germania e Austria. E’
difficile dare delle cifre esatte, perché variano di molto da un autore
all’altro, anche se tutti forniscono i numeri con la precisione dell’unità. E
sicuramente saranno in difetto le cifre delle statistiche ufficiali, delle
quali, per farsi un’idea approssimativa, citiamo la prima, che è del 1876 e
dichiara 108.807 espatri, di cui 34.553 per la Francia, 18.664 per la Svizzera,
20.539 per l’Austria, 9.621 per la Germania e circa ventimila per paesi
extraeuropei, più o meno la stessa cifra degli espatri permanenti.
I quattro quinti degli emigranti erano contadini, per il gran numero della
popolazione del settore e per l’arretratezza dell’agricoltura, trascurata dai
grossi proprietari, che preferivano speculare nella finanza e investire nel
debito pubblico. La terra interessava come proprietà, e infatti acquistarono i
beni della Chiesa espropriati nel 1866, ma non pensavano all’ammodernamento
agricolo.
Gli emigranti italiani non beneficiavano del sistema pensionistico adottato in
Francia e in Germania, benché pagassero regolarmente i contributi, né avevano
assicurazione sugli infortuni. Essi accettavano i lavori più umili e mal
retribuiti, senza mai protestare, lavorando anche nei giorni di sciopero; e da
parte dei locali subivano umiliazioni scioviniste, rancori, odi xenofobi e
spesso attacchi violenti con morti e feriti.
Stavano bene solo le balie, famose quelle feltrine, piemontesi e lombarde, che
venivano assunte per allattare figli di donne ricche e arrivavano a guadagnare
anche il triplo di un operaio. Perciò lasciavano volentieri la famiglia per il
baliatico, durante il quale avrebbero indossato bei vestiti, conosciuto lusso,
comodità e ottima cucina, con l’obbligo però di mangiare carne di cavallo,
ritenuta lattogena, oltre che ematogena. Ma non potevano convivere col marito,
nel caso le avesse seguite.
Nel 1867 iniziò l’emigrazione transoceanica. I poveri emigranti venivano stivati
a centinaia nei bastimenti a vela e su navi “miste” vela-vapore, o carrette
attrezzate per la bisogna, in condizioni più che disumane, con poco cibo
immangiabile e nessuna igiene. Nelle stive l’aria era irrespirabile e al mattino
ci si alzava col mal di testa. Perciò, mare e cielo permettendo, la vita si
svolgeva sul ponte, dove si faceva il bucato, si mangiava, si macellava il
bestiame e si fraternizzava fra corregionali, perché con gli altri non ci si
capiva. A bordo gli ammalati superavano quelli in buona salute. C’erano casi di
morbillo, vaiolo, tifo, difterite eccetera. Li assisteva un solo medico, con
pochi mezzi e tutte le incombenze, dal chirurgo all’ostetrico, al farmacista,
pagato dall’armatore e scoraggiato a fare reclami. Per cui dopo il primo
viaggio non ripeteva più l’esperienza.
Molti morivano di fame o di malattia nella traversata, che durava quaranta
giorni per raggiungere New York e quasi un mese per arrivare a Buenos Aires.
Oltre alle compagnie di navigazione, agivano speculatori e delinquenti che
trasportavano poveri disperati di contrabbando e molto spesso li sbarcavano
nell’America del Nord, anche quando era stato pattuito di trasportarli in
qualche porto dell’America del Sud. E se venivano scoperti dalle polizie
costiere, non esitavano a buttarli in mare per cancellare le tracce.
Gli italiani andavano nei paesi dell’America latina ma soprattutto in Argentina,
a dissodare la pampa per coltivarla a grano o pascolare il bestiame nelle
praterie, e nel Brasile, a fare i carbonai o disboscare le foreste. Vita dura
lontano dai centri abitati e senza comunicazioni, neanche epistolari, in quanto
erano analfabeti, bisognosi di qualcuno che sapesse leggere e scrivere, e spesso
le lettere non venivano loro recapitate. Ma ebbero anche lotti di terreno, che
col tempo pagarono, e furono gli iniziatori della coltivazione intensiva del
baco da seta.
Nel 1888 il Brasile abolì il regime schiavistico e ritenne più conveniente
ricorrere alla manodopera europea. Diede sussidi alla compagnie di emigrazione e
pagò il viaggio a chi vi si trasferiva, promettendo l’assegnazione di lotti di
terreno. Molti veneti, seguiti da campani e calabresi, vi accorsero ma furono
costretti a sostituire gli schiavi nelle piantagioni.
Si racconta di altri veneti che emigrarono in Nuova Guinea, sperando di trovare
il paradiso terrestre, ma rischiarono la morte per fame. Presero il mare per
cercare nuove terre e molti morirono durante una tempesta. I superstiti
approdarono in Australia, nuovo continente con pochissimi abitanti, colonia
penale britannica, in cui da pochi decenni si erano insediati immigrati liberi.
Ma questi erano razzisti e accoglievano solo gente di stirpe anglo-celtica, e li
cacciarono in malo modo. Fino agli anni Sessanta del XX secolo i nostri
connazionali furono discriminati al punto di essere costretti a rinnegare
lingua, cultura, tradizioni e persino a inglesizzare nomi e cognomi.
Il fenomeno dell’emigrazione di massa cominciò a
preoccupare proprietari terrieri e industriali legati al settore agricolo, i
quali chiesero che il governo vi ponesse un freno, appellandosi ipocritamente a
sentimenti umanitari e patriottici, ma in realtà interessati a mantenere il
sistema di bassi salari e alti prezzi alimentari.
Così furono emanate circolari di sostanza
poliziesca che vietavano l’espatrio a chi non aveva mezzi di sussistenza e la
certezza di trovare lavoro.
Il 18 marzo 1876
prese il potere la Sinistra, ma la politica per l’emigrazione non mutò. Poi, con
una legge del 30 dicembre 1888, si riconobbe la libertà di emigrare e furono
stabilite norme di tutela e assistenza, non sempre e mai bene attuate,
riconoscendo agli agenti e subagenti il diritto di reclutare lavoratori
per l’espatrio. Ma gli emigranti restavano abbandonati dal governo
italiano e non protetti da quello dei paesi che li ospitavano.
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siciliana]
L’emigrazione siciliana si era diretta
soprattutto in Tunisia e non era stata elevata, più che altro a causa
dell’arretratezza sociale, ma dopo la repressione dei Fasci del 1896, subì un
rapido incremento e, come l’abruzzese e la campana, si diresse verso gli Stati
Uniti, dove si andava per lavorare nelle campagne, nelle miniere e, come
unskilled (operai senza qualifica) nelle città.
A New York, gli emigranti erano condotti ad
Ellis Island per subire l’esame medico e rispondere alle domande degli ispettori
americani. Se risultati sani, venivano trasportati alla Battery, nei locali del
Barge Office, per essere ammessi negli Stati Uniti d’America. Ma poi dovevano
fare attenzione ai vari truffatori che si offrivano di aiutarli. Su di loro
speculavano datori di lavoro, bosses e affittuari di tuguri miserabili,
dove ne stipavano una decina per stanza. Oltre a ciò subivano lo sfruttamento
camorristico e mafioso anche nei paesi d’origine.
La diffusa delinquenza comune non era alimentata solo dagli italiani, ma essi ne
subivano i pregiudizi, forse per la maggior fama dei mafiosi siculo-campani. Poi
cominciarono a farsi apprezzare per la laboriosità e anche come imprenditori, a
cominciare da quelli agricoli. Alcuni – come altri in Sudamerica – fondarono
città (San Francisco ebbe origine dai liguri, che piantarono anche vigne e
frutteti); con la propria cucina, a cui gli emigranti erano rimasti fedeli,
influenzarono quella americana; i musicanti e la musica lirica conquistarono gli
Stati Uniti.
Ovunque, nelle Americhe, come in Francia e in Inghilterra, fu sfruttato anche il
lavoro minorile, con bambini affittati o addirittura venduti a spazzacamini,
suonatori ambulanti, straccivendoli, che alla frontiera li dichiaravano nipoti.
E molti morivano di patimenti.
Alcuni proprietari di vetrerie francesi, reclutarono bambini del Lazio, Campania
e Basilicata. Ogni emigrato doveva procurare almeno due apprendisti sotto i 13
anni, che costavano il sesto di un adulto. Lo sfruttamento della manodopera
infantile in Francia e Inghilterra e di quello femminile in Svizzera e Germania,
verso la fine del secolo sollevò l’indignazione dell’opinione pubblica. Furono
varate leggi ma il problema sarebbe rimasto a lungo insoluto.
Nel 1900 fu creato un commissario dell’emigrazione e istituito il “nolo di
Stato”, ossia il prezzo massimo fissato dallo Stato, ma non sempre funzionò.
Poi, nel 1901 fu varata una legge per tutelare i momenti iniziali della partenza
e del viaggio. Questa vietava l’attività degli agenti e subagenti, ma essi
rimasero a operare con la nuova qualifica di “vettori” degli armatori e
noleggiatori. Per far fronte alle spese per la tutela degli emigranti, la legge
prescriveva che il vettore dovesse versare alla Cassa depositi e prestiti una
imposta di otto lire per ogni emigrante transoceanico, da devolvere a favore dei
servizi di assistenza all’emigrazione continentale. La tassa, caricata sul
biglietto di viaggio dei meridionali, andava nelle casse dei settentrionali. E i
fondi poi finivano in mano ai politici per altri scopi.
Fra il 1901 e il 1913, anno
di massima espansione del fenomeno migratorio con 873.600 unità,
degli oltre 8
milioni di emigranti, 4 milioni e 750 mila varcarono l’Oceano, il 64% dei quali
verso il Nordamerica.
La maggior parte dei lavoratori partiva con
l’intenzione di tornare dopo aver accumulato un po’ di risparmi per comperare un
pezzo di terra. Ma il suo costo aumentava, vanificando il piccolo capitale, e gli emigranti
preferivano l’acquisto dei titoli pubblici, coi quali però lo Stato sosteneva le
industrie del nord; e queste traevano profitto anche dalla vendita dei loro
prodotti ai meridionali, il cui tenore di vita era migliorato.
Le rimesse, provenienti
soprattutto dagli Stati Uniti e dall’Argentina, coprirono il deficit della
bilancia commerciale e salvarono la posizione valutaria dell’Italia.
Poi la crisi economica del 1907 portò a norme restrittive nei paesi
d’immigrazione e aggravò i rapporti fra i lavoratori, persino tra gl’immigrati
vecchi e nuovi.
L’8 marzo 1908, le operaie dell’industria
tessile Cotton di New York, dopo alcuni giorni di sciopero contro le gravi
condizioni di lavoro, furono chiuse in fabbrica dal proprietario Mr. Johnson,
scoppiò un incendio e le 129 scioperanti morirono tra le fiamme. Rosa Luxemburg
propose quella data come giornata di lotta internazionale in ricordo della
tragedia. Ma il potere industriale, per cancellarla dalla memoria, la trasformò
in festa della donna.
[Segnalibro: conflitto]
Con lo scoppio del primo conflitto mondiale
furono rimpatriati centinaia di migliaia di emigranti, che si riversarono nelle
strade per reclamare pane e lavoro, ma provocarono una dura repressione e
favorirono la propaganda dei nazionalisti per l’entrata in guerra dell’Italia.
Intervennero anche gli Usa e il loro primo
soldato morto in Europa fu un italoamericano.
Coi militari al fronte, il problema della
disoccupazione era momentaneamente risolto, ma nel dopoguerra i reduci si
ritrovarono a protestare per chiedere lavoro. La terra promessa non c’era e i
paesi interessati all’immigrazione avevano adottato misure protezionistiche che
rendevano difficile l’accoglienza. Gli Stati Uniti vietarono l’immigrazione agli
analfabeti e fissarono quote per ogni paese d’emigrazione, favorendo i
britannici e i nordici. Ciononostante vi si recarono l’87% dei 108.718 emigrati
italiani.
La politica del fascismo, riguardo all’emigrazione, inizialmente non mutò, ma
successivamente la rese quasi impossibile. Si pensò di risolvere il problema
della manodopera eccedente con la colonizzazione e fu aggredita l’Etiopia.
L’impresa ottenne ampi consensi nel paese e segnò “il trionfo del regime”, ma fu
l’inizio della sua decadenza.
Durante la guerra civile spagnola, Mussolini
favorì la partecipazione di volontari italiani a fianco di Franco e molti poveri
si arruolarono senza ideali, per non morir di fame. Se fossero morti di piombo
avrebbero lasciato la pensione ai famigliari. Altri italiani, con ideali
antifascisti, parteciparono a fianco della parte avversaria, coi repubblicani.
L'emigrante con la valigia di cartone
Alla fine della seconda guerra mondiale, che
aveva causato 55 milioni di morti e 35 milioni di feriti, la disoccupazione
ritornò grave e ci furono violente manifestazioni di richiesta di terra e di
lavoro molto preoccupanti. Si pensò allora di favorire l’emigrazione, che
sarebbe stata una valvola di sicurezza e avrebbe determinato un vasto movimento
di capitali, ma organizzandola in subordine alle esigenze del mercato
controllato dal profitto privato.
Fu ripercorsa la via dell’America, verso l’Argentina, che dalla guerra aveva
tratto vantaggi per non avervi partecipato. Tra il 1946 e il 1955 vi emigrarono
circa 360 mila persone, 98.262 solo nel 1949. Poiché il viaggio costava caro,
poterono andare quelli che avevano una certa proprietà, i quali vendettero tutto
e partirono, allettati dal miraggio dell’America; ma ormai “l’America“ erano
solo gli Stati Uniti. Negli anni Cinquanta l’Argentina entrò in una profonda
crisi economica e istituzionale, e i nuovi immigrati si pentirono di esservi
andati, anche perché in Europa si aprivano nuovi sbocchi migratori, ma non
avevano i soldi per tornare.
L’Italia aveva stipulato un accordo con il
Belgio per mandare 50.000 italiani nelle sue miniere, con contratti capestro. In
cambio avrebbe ricevuto 24 quintali di carbone all’anno per ogni emigrante. In
parole crude questo significava una compravendita di lavoratori. Dal vicentino
ne partirono 23 mila. In dieci anni vi emigrarono 140.000 italiani.
Il Belgio aveva promesso l’alloggio ai minatori,
ma vivevano ancora nei baraccamenti dei campi di concentramento della guerra,
quando l’8 agosto 1956 vi fu la grave tragedia nella miniera di Marcinelle,
vicino a Charleroi, che causò 262 morti, 136 dei quali italiani. L’emigrazione
non si fermò e nel 1961 i nostri raggiunsero le 200 mila unità, rappresentando
il 44,2% degli stranieri.
In Francia ne emigrarono 560 mila tra il ’46 e
il ’67 e vi sono stati molti matrimoni misti: dei francesi unitisi agli
stranieri, nel 1980 il 28% dei maschi e il 34% delle femmine risultavano sposati
a italiani.
Molti andarono anche in Canada e nella lontanissima Australia. Poi il flusso si
fermò, per nuovi sbocchi in Europa: nel 1956 verso la Germania (Repubblica
Federale Tedesca), che dal ’53 conosceva uno straordinario sviluppo economico, e
successivamente verso la Svizzera. I due Stati (che dopo i trattati di Roma del
57 sulla libera circolazione dei lavoratori e la parificazione con quelli dei
paesi ospiti, furono preferiti dagli italiani) dal 1945 al ’60 assorbirono il
52% della nostra migrazione europea. In Svizzera, nel ’61 gli italiani erano il
71,5 per cento dei lavoratori stranieri; poi la percentuale si ridusse per
l’aumento dei lavoratori jugoslavi e turchi.
Ma la maggioranza emigrò in Italia, nel triangolo industriale del Nord, trovando
lavoro nelle numerose aziende di Milano, alla Fiat di Torino, all’Ansaldo di
Genova e nelle risaie vercellesi. Molti andarono anche a Roma, che offriva
lavoro nell’edilizia, come del resto le altre città succitate. L’emigrazione fu
massiccia e sarebbe stata necessaria l’organizzazione di una decente
accoglienza. I giornali criticavano che all’estero gli emigranti vivevano in
baracche approntate dai datori di lavoro; ma tacevano che in Italia non c’era
neanche questo, e pare che degli operai avessero dormito nelle stazioni
ferroviarie, come i barboni, in attesa di trovare un letto.
Si partiva con la famosa valigia di cartone, legata con una cordicella (rumaniddina)
perché non si sfondasse a causa del troppo peso, ci si portava dietro anche
grossi scatoloni che erano più adatti per mettervi i prodotti alimentari della
propria terra, e si andava sapendo più o meno quello che si sarebbe trovato.
Erano gli anni del boom, non solo italiano, e le offerte di lavoro
superavano la disponibilità di manodopera.
Quelli sposati, partiti da soli, si facevano raggiungere dai famigliari. Ma
purtroppo molti, specialmente all’estero, si accasavano con altre donne nella
terra ospite, causando il dramma di 400.000 cosiddette “vedove bianche”.
Nella seconda metà degli anni ’60 i flussi di uscita si ridussero sensibilmente,
e nel 1973, per la prima volta in Italia, i rientri superarono gli espatri.
Si calcola che in centoquarant’anni siano emigrati circa 29 milioni di italiani,
sette milioni dei quali dal 1945 al 1972. Ma più di un terzo sono rimpatriati.
All’anagrafe degli italiani all’estero (Aire), nel 2000 ne risultavano iscritti
quasi quattro milioni, dei quali più di 688 mila in Germania, quasi 588 mila in
Svizzera, 570 mila in Argentina, 377.777 in Francia, circa 306.700 in Brasile,
poco meno di 287 mila in Belgio, 214.677 negli Stati Uniti, 152.500 in Gran
Bretagna, 132 mila in Canada, 130 mila in Venezuela, meno di 120 mila in
Australia e 38.537 in Sudafrica. (Ma al ministero degli Affari Esteri risultano
un po’ di meno). La Sicilia è la regione più rappresentata in Germania con
215.382 residenti, in Belgio con 91.488, in Francia con quasi 60.000 e negli
Stati Uniti con oltre 55 mila. Nell’emigrazione dell’ultimo dopoguerra i
siciliani sono stati secondi, dopo i calabresi.
Quasi tutti gli emigrati nei paesi europei, negli anni ’70, coi risparmi si
costruirono la casa, una bella casa. Quando tornavano per le ferie, anziché
svagarsi e rilassarsi, lavoravano badando ai muratori. Non pensavano ancora di
comperarsi un alloggio dove risiedevano, sperando che un giorno sarebbero
rimpatriati. Ma poi rimasero all’estero, perché lì erano i loro figli, mentre al
paese non avevano quasi più nessuno, e lasciarono le belle case disabitate.
Alcuni tornarono, illusi di trovare lavoro nella loro terra, ma gl’investimenti
nel Mezzogiorno non avevano determinato condizioni di sviluppo economico, e si
pentirono. Avendo ormai un’età di non facile reinserimento produttivo, si
fermarono, arrangiandosi con lavori saltuari nell’edilizia e coltivando un po’
di terra, in attesa della pensione, per poter vivere finalmente con una certa
tranquillità.
[Segnalibro: straniere]
Intanto, essendo migliorato il tenore di vita in Italia, non si trovarono più
donne disposte a lavorare nelle famiglie come domestiche. E i signori ricorsero
alle straniere, in maggioranza filippine.
Negli anni Settanta cominciarono a vedersi venditori ambulanti nordafricani, che
chiamammo “Vu’ cumprà”. Poi altri vennero a lavorare come stagionali nelle
campagne del centro e del sud, e l’Italia, da paese d’emigranti, si trasformava
in paese d’immigrati. Ma non solo…
Dopo gli scioperi e il contratto di lavoro dei metalmeccanici del ’69, con i
miglioramenti retributivi e di qualità del lavoro, gli imprenditori videro
ridursi i loro profitti e spostarono gran parte dell’attività all’estero, in
paesi con grande disponibilità di manodopera senza pretese, disposta a lavorare
molte ore al giorno per salari irrisori e senza tutela contro gli infortuni e le
nocività.
Per le attività inesportabili (edilizia, agricoltura, ecc.) e per le piccole
industrie, si favorì l’immigrazione clandestina, che consente ai datori di
lavoro l’evasione dei contributi e una retribuzione inferiore. Il clandestino è
a rischio di subire soprusi d’ogni sorta ed essere licenziato in tronco. Ci
guadagnano i piccoli imprenditori e i commercianti, quando non subiscono rapine,
ma lo Stato ci rimette, e ci rimettono i cittadini che vivono nel degrado dei
quartieri di grande criminalità, dove gli alloggi subiscono una preoccupante
svalutazione. Ma con ciò non si vuol dire che tutti gl’immigrati siano
delinquenti; la maggior parte vivono del duro lavoro e si comportano bene,
perciò non si notano e di loro non si parla.
Nel 1990, e ancora di più nel ’91, si videro arrivare navi gremite di albanesi.
Furono accolti a braccia aperte come fratelli, anche per dare un colpo
definitivo al sistema comunista di quel paese, fu concesso loro un contributo
giornaliero superiore all’indennità di disoccupazione (tra l’altro temporanea)
di un italiano e la facoltà di viaggiare gratis sui treni. Essi diedero
un’interpretazione molto ampia di questo diritto e pretendevano di prendere
tutto gratis anche dai negozi.
Poi la situazione si stabilizzò con arrivi di clandestini che pagavano caro il
viaggio della speranza in gommoni e carrette insicure, col rischio di essere
buttati a mare qualora fossero stati scoperti dalla guardia costiera pugliese.
Ora gli sbarchi si sono spostati in Calabria, in Sicilia e nelle sue isole
meridionali. I clandestini provengono dall’Africa e anche dall’Asia, affrontando
rischi di viaggio ancora più gravi. Molti però usano l’Italia come luogo di
transito, per andare in Francia, Germania o altre nazioni del Nordeuropa.
Diversamente da noi che emigrammo fino agli anni Sessanta ed eravamo quasi tutti
più o meno ignoranti e ingenui, la maggioranza di questi immigrati sono
variamente istruiti, furbi e molto intelligenti. Soffrono della situazione che
per vivere devono adattarsi a fare lavori umili, spesso alle dipendenze di
persone incolte, che da sfruttati sono diventati sfruttatori e li trattano
dall’alto in basso, anche se danno loro del “tu”, con falsa democraticità. Essi
ricambiano e salutano col confidenziale “ciao”.
Si cerca comunque di favorire, non tanto
l’integrazione, che comporterebbe l’obbligo per gli stranieri di accettare le
nostre regole di vita e i nostri costumi, bensì il loro inserimento nella nostra
società, con il rispetto reciproco dei propri costumi. Che tuttavia non
impedirebbe una certa osmosi, con arricchimento culturale da entrambe le parti.
Purtroppo sono essi immigrati, particolarmente
quelli di religione musulmana, che rifiutano addirittura i contatti per timore
di contaminare la loro cultura, ritenendola più pura e superiore alla nostra. Ma
la presunzione spesso dipende dal fanatismo, dall’ignoranza, dagli istinti di
difesa e di aggressività. E purtroppo, anziché adeguarsi alle nostre leggi,
taluni vorrebbero imporre le loro.
L’insofferenza che serpeggia fra molti italiani,
è dovuta particolarmente agli atti delinquenziali di alcuni e al comportamento
poco rispettoso della buona convivenza di altri che delinquenti non sono, ma si
prendono molta più libertà di quanta ne era concessa a noi meridionali quando
arrivammo.
I centri di potere manovrano secondo i propri
interessi, mantenendo insicure le masse entro i limiti di controllabilità. Ci
ricordano che anche noi siamo stati emigranti (vero) e che siamo stati bene
accolti nei paesi ospiti (falso), e travisano le reazioni ostili alla
criminalità vestendole di razzismo, facendoci giudicare tali da coloro che essi
umiliano e schiavizzano, ottenendo da questi gratitudine perché li fanno
lavorare (… come bestie).
Il governo si comporta in modo ambiguo con gli
stranieri, fra i quali ci sono delinquenti di vario livello, vietando con le
leggi la clandestinità, ma favorendola con i fatti. Molti arrivano senza
documenti, che spesso buttano via appena messo piede sul suolo italiano o
vengono loro sequestrati dall’organizzazione criminale che gestisce il traffico
e l’inserimento lavorativo. Ebbene, anziché indagare sulla identità di quelli
trovati sprovvisti di documenti e procedere di conseguenza, si dice loro di
tornarsene al paese di provenienza, ma vengono lasciati liberi di andare dove
vogliono.
Gli scafisti, insieme al trasporto di
clandestini per il mercato del lavoro sommerso, fanno contrabbando, trafficano
droga e introducono ragazze, anche minorenni, destinate alla prostituzione. Sono
così arrivate ex jugoslave, nigeriane, sudamericane, albanesi e di altri paesi,
che hanno invaso le strade d’Italia, facendola sembrare un casino a cielo
aperto. Non si erano mai viste tante disgraziate costrette ad offrire il proprio
corpo per arricchire criminali schiavisti, da quando nel ’58 chiusero i casini e
il meretricio fu esposto sulla strada, con più rischio di malattie veneree.
L’emigrazione e le guerre hanno sempre favorito la prostituzione per soddisfare
gl’istinti sessuali di uomini soli. Ma ora è stranamente alimentata da persone
che non avrebbero difficoltà a fare sesso in una società di liberi costumi.
Forse sono attratte dall’esotico, infatti alcuni fanno turismo nei paesi poveri
solo a scopo sessuale, a volte per rapporti ignobili e crudeli, che coinvolgono
anche bambini.
Il racket della prostituzione realizza
elevati guadagni, correndo pochi rischi. Perciò, vista la richiesta di mercato,
il traffico di “materiale” femminile è ovunque in espansione.
Le ragazze vengono raggirate con promesse di
lavori domestici o da cameriere, come è il caso delle nigeriane, oppure con
l’inganno di un rapporto sentimentale, in cui cadono le albanesi. Poi, giunte
sul posto, vengono iniziate al turpe mestiere con ricatti, violenze carnali e
torture.
Nei paesi del Terzo mondo le povere giovani,
illuse di cambiare vita (e la cambiano! ma come?…), contraggono debiti per
pagarsi il viaggio verso un futuro da schiave, oppure sono vendute per pochi
dollari da genitori miseri e incoscienti.
[Segnalibro: servitù]
La nuova emigrazione ha reintrodotto la servitù
a contratto, anche nel campo del lavoro lecito, coinvolgendo uomini o intere
famiglie, maggiormente cinesi, le quali, col miraggio di un futuro di benessere
in una terra lontana ma ricca, per potere emigrare si caricano di debiti che per
estinguerli dovranno lavorare duramente moltissimi anni. E alcuni cadono
letteralmente in schiavitù.
Altri vanno spontaneamente nella tana del lupo,
la quale apparentemente promette bene. Associazioni umanitarie hanno denunciato
addirittura che famiglie agiate del Golfo persico hanno assunto persone, anche
laureate, con regolare contratto di lavoro, ma poi le hanno
“sequestrate” e trattate come schiave, con abusi fisici, violenze sessuali, poco
e dubbio cibo, scarso o nullo compenso. Madornali illegalità ignorate per
ragioni di Stato.
La schiavitù è stata abolita in tutto il mondo
(l’ultimo ad abolirla è stato il Sultanato di Oman nel 1970), ma in molti paesi
gli schiavi esistono ancora oggi e vengono trattati in modo più brutale di
quelli del passato, i quali erano considerati beni di gran valore e perciò dai
proprietari potevano essere trattati con dimestichezza, curati quando si
ammalavano e tenuti in famiglia quand’erano vecchi. Oggi, se deperiscono,
vengono scacciati e facilmente rimpiazzati, perché l’offerta è abbondante.
Persone legalmente liberi possono essere venduti
per pochi dollari, ceduti in dono o come oggetti di scambio. Vengono loro negati
tutti i diritti, compreso quello del matrimonio, e le donne costrette ad avere
rapporti sessuali col padrone.
Molti cadono in schiavitù col tranello dei
contratti per debito, molto in uso nei paesi del Terzo mondo. A causa degli
elevatissimi interessi (anche del 400 per cento annuo) e poiché dal salario
vengono detratte spese di mantenimento, per gli attrezzi di lavoro e multe
comminate per futili motivi, milioni di individui rimangono asserviti per
decenni e talvolta a vita perché non riescono a saldare i debiti, pur lavorando
fino a diciotto ore al giorno. I proprietari possono picchiarli e abusare di
loro, costringere le donne a rapporti sessuali e a far nascere figli destinati a
diventare servi del padre-padrone. Molti vengono trasportati a migliaia di
chilometri di distanza dalla loro residenza in campi di lavoro sorvegliati da
guardie armate, senza possibilità di fuga.
Il “sistema del debito”, molto diffuso nel campo
della tessitura, è un tranello anche per lavoratori autonomi. Il datore di
lavoro offre il prestito per comperare un macchinario con le lusinghe di rapidi
guadagni. Ma poi trova tutte le scuse (di difetti e di ritardi) per non pagare
il giusto compenso. E il lavoratore, costretto a mantenere gli impegni e
guadagnare il necessario per vivere, coinvolge tutti i famigliari, compresi i
bambini, in un lavoro che non riesce a sostenerli.
Lo sfruttamento infantile nei paesi poveri assume aspetti molto drammatici. Si
offre in pegno il lavoro dei fanciulli per debiti che il genitore non riesce a
rimborsare. E il debito può anche essere ereditato.
Succede in altri casi che un padre, raggirato da
ignobili sfruttatori, ceda il proprio figlio con l’illusione che potrà
migliorare la sua condizione e avere successo nella vita. Non sa di venderlo a
poco prezzo come schiavo in un’industria, dove quella dei tappeti è diventata il
simbolo della nuova schiavitù.
Sono oltre 250 milioni i bambini dai cinque ai
dieci anni che vengono sfruttati e maltrattati come bestie. Circa la metà
lavorano anche diciotto ore al giorno e un terzo in condizioni e luoghi
pericolosi e insalubri. Molti lavorano a piedi nudi nelle fornaci del vetro.
Alcuni milioni vengono sfruttati nelle fornaci di mattoni. Altri nelle miniere
per l’estrazione dell’oro. Quasi ovunque sorvegliati da milizie private. La
maggior parte soffre di scoliosi e molti hanno problemi alla vista con rischio
di cecità.
Intanto gli adulti rimangono disoccupati, poiché si preferisce utilizzare
manodopera infantile meno pagata e più indifesa.
Nelle
aree conflittuali, i bambini vengono razziati e venduti come schiavi a prezzi
molto più bassi di un fucile automatico. Centinaia di migliaia di ragazzi, anche
di età inferiore ai dieci anni, sono costretti a combattere in guerre
fratricide, talvolta contro gli appartenenti alla propria etnia.
Fino alla fine dell’Ottocento, il lavoro
infantile era considerato legittimo anche in Europa e i bambini furono
protagonisti passivi dello sviluppo industriale dell’Occidente. Ma se da noi i
tempi sono cambiati, nel mondo povero i tempi non cambiano.
In certi paesi dell’America Centrale ci sono
bambini poveri e abbandonati che vivono per le strade e si arrangiano come
possono. Ogni tanto passa uno squadrone della morte per ammazzarne qualcuno.
“E le stelle stanno a guardare” direbbe Cronin.
Il mondo in un albero -
1999, acrilico su cartone telato 50x50
Note:
Le notizie
per la stesura di questo capitolo sono state ricavate da:
“L’emigrazione
nella storia d’Italia 1868-1975” Vallecchi editore, Firenze 1978. Due volumi di
Zeffiro Ciuffoletti (dal 1868 al 1914) e di Maurizio Degl’Innocenti (dal 1914 al
1975).
“Partono i
Bastimenti” a cura di Paolo Cresi e Luciano Guidobaldi,
Arnoldo Mondadori
Editore, Milano 1980
“Mondi a parte” (Gli
immigrati tra noi) di Ada Lonni, Ed. Paravia, Torino 1999.
Trasmissioni TV.
Internet (grandinotizie.it; italiaestera.net;
emigranti.rai.it; ecc.).
Esperienza personale.
E nel finale “Schiavi” di Pino Arlacchi, Ed. Rizzoli,
Milano 1999.
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