PINK
FLOYD – THE DARK SIDE OF THE MOON
Qualche mese fa, ero in vena di far perdere un po’ di tempo ad amici e colleghi. Inaugurai così un piccolo sondaggio, tanto per innescare qualche conversazione su argomenti che mi stimolano particolarmente: -
dimmi che disco porteresti
con te su un’isola deserta (ammessa solo una risposta). Le
repliche furono le più disparate, a seconda dell’età e delle
esperienze degli intervistati: Beatles, De Andrè, il Vasco nazionale,
Jimi, i Cranberries..?!!. gli U2… Se
avessi però voluto stilare una classifica, la palma del vincitore
sarebbe toccata al disco
che ci occupa. In effetti, quest’incisione conserva un posto speciale anche nella mia personalissima chart, in quanto fu tra le protagoniste della colonna sonora dei miei ultimi anni di scuola, periodo che ricordo sempre con particolare affetto per la spensieratezza e per le continue scoperte che lo caratterizzarono. |
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Ma
che cos’è che rende “The Dark Side” un disco così amato? (è
stato tra i più longevi frequentatori delle classifiche degli album più
venduti in America d’ogni tempo). Credo
che la magia di questo disco sia da ricondurre a quel senso di
completezza ed equilibrio che attraversa tutta l’opera, sensazioni
sottolineate da quel fluire così naturale d’ogni canzone nella
successiva, che letteralmente avvolge l’ascoltatore. Ciò è favorito dalla qualità dei suoni organizzati da Alan Parson (ingegnere del suono che poi intraprese anche una buona carriera solista), che per l’epoca era decisamente stratosferica e può essere definita un “benchmark” anche adesso. La dinamica dell’album è impressionante e la bellezza delle chitarre (che come al solito c’interessa particolarmente) unica ed irripetibile. |
Mi è capitato di leggere alcune recensioni su quest’opera che evidenziavano che nell’occasione i Pink Floyd avevano rettificato ampiamente il tiro rispetto al passato, abbandonando la ricerca psichedelica che permeava le precedenti uscite (dai puristi ritenute i veri capolavori del gruppo), con un occhio ruffiano alle classifiche. Per quanto mi riguarda, l’“ammorbidimento” delle atmosfere rispetto a “Ummagumma” o “Atom heart mother” conferisce una maggiore fruibilità al lavoro, che diventa un ascolto decisamente godibile.
L’album
parte con “Speak to me” – “Breathe in the Air” e subito la chitarra di
Gilmur ci avvolge con un meraviglioso uso di effetti di modulazione (da qualche
parte ho letto che si trattava di un eco a nastro dell’italianissima Binson).
Dopo il famosissimo elicottero di “On the Run”, suoni di sveglia ed orologio
introducono “Time”, uno dei momenti più alti del disco, con un solo di
chitarra da manuale. La magia continua con “The Great Gig in The Sky”, dove
sublimi vocalizzi di soprano emozionano su caldi arpeggi di pianoforte.
Si
volta facciata del vinile (cioè un tempo si voltava facciata del vinile….) ed
ecco partire “Money”, con quel riff di basso assassino e travolgenti assoli
di sax e di chitarra in chiusura del brano. “Us and Them” è uno stupendo
momento intimista, anch’esso nobilitato da un grande sax e poi ecco “Any
Color you Like”, dove rifà capolino una certa “psichedelia” ed a finire
due grandi canzoni, “Brain Damage”, dichiaratamente dedicata a Syd Barret,
ed Eclipse, a chiudere questo grande album.
Poco
altro da dire: cinque meritatissime stelle!