Urania Celeste

sito di Fabia Zanasi

Le traduzioni di Alessandro Natucci

VIRGILIO,  Bucolica I

Meliboeus
Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui Musam meditaris avena;
nos patriae finis et dulcia linquimus arva.
nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas.               5
Melibeo
Titiro, tu, sedendo all'ombra di un frondoso faggio,  
intoni sull’esile flauto un’aria silvestre;    
noi lasciamo la patria e i  campi amati;
noi la patria fuggiamo: tu, Titiro, placido 
all’ombra,                                
fai riecheggiar tra le selve il nome di Amarillide bella.   
Tityrus
O Meliboee, deus nobis haec otia fecit.
namque erit ille mihi semper deus, illius aram
saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus.
ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum
ludere quae vellem calamo permisit agresti.               10
Titiro
Melibeo, questa pace è il regalo di un Dio.
Sempre sarà per me come un Dio; e spesso dai nostri ovili
un tenero agnello tingerà di sangue il suo altare.
Egli, come vedi, permise, ai miei armenti di errare nei prati,
a me di suonar, per diletto, il flauto campestre.
Meliboeus
Non equidem invideo, miror magis; undique totis
usque adeo turbatur agris. en ipse capellas
protenus aeger ago; hanc etiam vix, Tityre, duco.
hic inter densas corylos modo namque gemellos,
spem gregis, a, silice in nuda conixa reliquit.               15
saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset,
de caelo tactas memini praedicere quercus.
sed tamen iste deus qui sit da, Tityre,nobis.
Melibeo
Non ho invidia, credimi, meraviglia piuttosto,  
tale è il subbuglio che regna dovunque tra i campi.
Io stesso, a fatica, spingo le mie caprette, e questa
la porto a stento con me1: qui tra i folti noccioli ha lasciato,
sulla nuda pietra, due piccoli, appena sgravati, speranza del gregge.   
Questa sventura, del resto, se fossimo stati più accorti,
ci era stata predetta, ricordo, dalle querce colpite dal fulmine.
Ma chi è questo Dio: Titiro, dillo anche a noi.
Tityrus
Urbem quam dicunt Romam, Meliboee, putavi
stultus ego huic nostrae similem, cui saepe solemus      20
pastores ovium teneros depellere fetus.
sic canibus catulos similes, sic matribus haedos
noram, sic parvis componere magna solebam.
verum haec tantum alias inter caput extulit urbes
quantum lenta solent inter viburna cupressi.               25
Titiro
Melibeo, la città che chiamano Roma, credevo,
da stolto, somigliasse alla nostra, dove spesso,              
noi pastori, conduciamo i teneri parti del gregge.  
I cagnolini sapevo simili ai cani, i capretti alle madri:                   
così le piccole cose solevo comparare alle grandi.
Ma questa è tanto cresciuta  tra le altre città,
quanto il cipresso tra  i flessuosi viburni.
Meliboeus
Et quae tanta fuit Romam tibi causa videndi?
Melibeo
E quale ragione fu tale da spingerti a Roma?
Tityrus
Libertas, quae sera tamen respexit inertem,
candidior postquam tondenti barba cadebat,
respexit tamen et longo post tempore venit,
postquam nos Amaryllis habet, Galatea reliquit.        30
namque - fatebor enim - dum me Galatea tenebat,
nec spes libertatis erat nec cura peculi.
quamvis multa meis exiret victima saeptis
pinguis et ingratae premeretur caseus urbi,
non umquam gravis aere domum mihi dextra redibat.   35
Titiro
La libertà che, infine, si avvide di me che languivo,
quando la barba, radendomi,  già cadeva più bianca.    
Si avvide infine di me e, dopo tanto tempo, è arrivata,
da quando mi tiene Amarilli, e Galatea mi lasciò.  
Fino a che, lo confesso, ebbi in cuor Galatea,     
di libertà disperavo, né avevo mente al danaro:    
sebbene vittime opime uscissero dai miei recinti  
e cacio in gran copia premessi per l’ingrata città, 
non rincasavo già mai con la destra pesante di bronzo2
Meliboeus
Mirabar quid maesta deos, Amarylli, vocares,
cui pendere sua patereris in arbore poma.
Tityrus hinc aberat. ipsae te, Tityre, pinus,
ipsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant.
Melibeo
E non capivo, Amarilli, perché mesta invocassi gli Dei,
per chi lasciassi dagli alberi pendere i  frutti:                
Titiro era lontano di qui, e i pini stessi e le fonti
e questi stessi arbusti te, invocavano, Titiro. 
Tityrus
Quid facerem? neque servitio me exire licebat       40
nec tam praesentis alibi cognoscere divos.
hic illum vidi iuvenem, Meliboee, quot annis
bis senos cui nostra dies altaria fumant,
hic mihi responsum primus dedit ille petenti:
'pascite ut ante boves, pueri, submittite tauros.'      45
Titiro
Che cosa avrei fatto? Uscir di servitù non sapevo,
né conoscere altrove numi tanto propizi.
Là, Melibeo, vidi quel giovane, in onore del quale 
dodici giorni ogni anno fumano i nostri altari.
Là, non pregato3, mi diede il responso al quale anelavo: 
“Pascete, come prima, gli armenti, aggiogate i tori al lavoro!”
Meliboeus
Fortunate senex, ergo tua rura manebunt
et tibi magna satis, quamvis lapis omnia nudus
limosoque palus obducat pascua iunco.
non insueta gravis temptabunt pabula fetas
nec mala vicini pecoris contagia laedent.               50
fortunate senex, hic inter flumina nota
et fontis sacros frigus captabis opacum;
hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes
Hyblaeis apibus florem depasta salicti
saepe levi somnum suadebit inire susurro;             55
hinc alta sub rupe canet frondator ad auras,
nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes
nec gemere aeria cessabit turtur ab ulmo.
Melibeo
Fortunato vecchio4! Rimarranno i tuoi campi5,    
e grandi abbastanza per te, sebbene la nuda roccia
e  limacciosi giunchi palustri  invadano i prati.  
Inusitati pascoli non tenteranno le femmine gravide 
né alcun male verrà dai  contagi di un gregge vicino.
Fortunato vecchio! Qui, tra  fiumi conosciuti
e sacre fonti cercherai 6 il ristoro dell’ombra.
Là, dalla siepe vicina, dove le api si pascono  
del  salice in fiore,  sentirai spesso, suadente,
giungere il sonno con lieve sussurro.
Là, sotto un alto dirupo, al cielo canterà il potatore,
mentre le roche colombe che ami, e la tortora,  
non cesseranno di gemere dalla vetta dell’olmo.
Tityrus
Ante leves ergo pascentur in aethere cervi
et freta destituent nudos in litore pisces,               60
ante pererratis amborum finibus exsul
aut Ararim Parthus bibet aut Germania Tigrim,
quam nostro illius labatur pectore vultus.
Titiro
Davvero i cervi pascoleranno leggeri nell’aria,
il mare  lascerà  i pesci sulla nuda spiaggia 
e, vagando nelle terre dell’altro, l’esule Parto  
berrà l’acqua dell’Arar, il Germano del Tigri,
prima che dal mio cuore svanisca il volto di lui.
Meliboeus
At nos hinc alii sitientis ibimus Afros,
pars Scythiam et rapidum cretae veniemus Oaxen       65
et penitus toto divisos orbe Britannos.
en umquam patrios longo post tempore finis
pauperis et tuguri congestum caespite culmen,
post aliquot, mea regna, videns mirabor aristas?
impius haec tam culta novalia miles habebit,               70
barbarus has segetes. en quo discordia civis
produxit miseros; his nos consevimus agros!
insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vites.
ite meae, felix quondam pecus, ite capellae.
non ego vos posthac viridi proiectus in antro               75
dumosa pendere procul de rupe videbo;
carmina nulla canam; non me pascente, capellae,
florentem cytisum et salices carpetis amaras.
Melibeo   
Noi ce ne andremo, invece, chi tra  i Libi assetati, 
chi tra gli Sciti, fino all’Oassi7 , rovinoso di fango,
fino ai remoti Britanni, divisi dal mondo. 
Potrò mai, rivedendo dopo lungo tempo la patria,
e la povera capanna dal tetto coperto di zolle,
nel mio regno, contemplare di nuovo8 le spighe?                        
Un empio soldato avrà questi fertili campi,
un barbaro queste messi? A che la discordia ci trasse,
sventurati coloni: seminammo per loro!
Ma innesta ora i peri9,  Melibeo, ordina le viti in filari.
Andate,  gregge felice un tempo, andate caprette:
Non più, ormai, adagiato in un verde riparo,
vi vedrò di lontano, abbarbicate ad un’erta  di rovi.
Non più canterò; non più, pascolando con me,
brucherete il cìtiso in fiore e il salice amaro.
Tityrus
Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem
fronde super viridi. sunt nobis mitia poma,               80
castaneae molles et pressi copia lactis,
et iam summa procul villarum culmina fumant
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.
Titiro
Tuttavia questa notte potevi dormire con me 
sopra morbide fronde; abbiamo frutti maturi,   
tenere castagne e latte rappreso10 in abbondanza.
Ma11 già, lontano, si leva dal sommo delle case il fumo
e cadono l’ombre più grandi giù dagli alti monti.


[1] Non diversamente intese questo passo il Carducci, quando, nel discorso per l’inaugurazione del monumento a Virgilio in Pietole, parlò di Virgilio come del “pastore delle sue ecloghe che si reca in braccio per la dura via dell’esilio la capretta fresca di parto”.
[2] Ossia di monete, che venivano prodotte, di regola, o con il bronzo o con il rame.
[3] Per primo, cioè prevenendo la richiesta di Titiro; non pregato.
[4] Potrebbe essere tradotto correttamente anche con “felice vecchiaia”. E’ sottinteso infatti, “cum, (o dum) eris senex: Titiro non era più giovanissimo (già gli s’imbiancava la barba), ma certamente non ancora vecchio; non avrebbe altrimenti cantato canzoni d’amore alla bella Amarilli, né sarebbe stato conteso tra la stessa Amarilli e Galatea.
[5] Sottinteso, ovviamente, (a te).
[6] “Captabis” non indica una situazione statica: godrai, ma dinamica: secondo il dizionario etimologico di Ernout e Meillet, il significato proprio di  captare” è “cercare di prendere”; e, d’altra parte lo stessa preposizione adoperata: “inter”(flumina nota) dà  un idea di movimento, che, a sua volta, ravviva la scena descritta.
[7] Sembra poco probabile che Virgilio intendesse riferirsi ad un fiume di Creta, isola nota ai Romani, dal clima temperato e senza caratteristiche naturali tali da simbolizzare una regione del mondo lontana, estranea e per qualche verso minacciosa. Più facile pensare ad un fiume  dell’ antica Scizia, corrispondente grosso modo alle regioni  meridionali dell’attuale Europa orientale e dell’Asia centrale. Tra l’Afghanistan e il Tagikistan (Battriana e Sogdiana) scorre il fiume più grande dell’Asia centrale, l’Amudar′ja (il fiume), dagli antichi greci chiamato Ωξοσ (Plutarco, Aless., 57), e attraversato da Alessandro Magno nella sua  conquista dell’Asia...Flumen Oxus,…. quia limum vehit, turbidus semper, insalubris est potui” scrive Curzio Rufo nella Storia delle imprese di Alessandro (libro VII, 13).
[8] “Post aliquot” richiama e specifica “post longum tempus” di due versi prima; con un procedimento tipico di Virgilio,  visens” regge più termini: (oltre che “patrios fines” e “tectum”), “post aliquot” (regna)” e “mea regna”: ossia rivedendo, dopo altri regni, il mio. Quindi: dopo un lungo esilio, potrò rivedere la patria e la mia terra (simboleggiata dalla povera capanna) e lì, nel mio regno, ammirare (di nuovo) le spighe? Sull’interpretazione del “nodo” rappresentato da “post aliquot”, cfr. M. CAVALLI, Virgilio Minore, Mondadori, 2007, p. 11, nota 6.
[9] Sembra detto con la rassegnazione del contadino, comunque legato alla terra e ai suoi riti, non disgiunta da una pur esile speranza; una ripresa di questo tema si trova nell’ecloga VII: “Insere, Daphni, piros, carpent tua poma nepotes”. 
[10] Le verdi (o morbide fronde), i frutti maturi, le castagne tenere e il latte rappreso  (la ricotta) vogliono dare l’idea della dolcezza e della tenerezza, quasi a mitigare lo “sfogo” e l’amarezza di Melibeo.
[11] Gli ultimi due versi, per quanto collegati logicamente con i primi tre dell’ultima strofe, ci sembra che facciano, in un certo senso, parte a sé (un po’ come accade  a proposito della strofe finale dell’egloga IV). Il colloquio e il dramma che si è svolto tra Titiro e Melibeo, tra chi resta e chi parte in esilio, è sostanzialmente finito con l’invito (un po’ di maniera) che Titiro rivolge a Melibeo, già avviatosi insieme al suo gregge. Sul mondo dei pastori calano le ombre della sera e incombe la  notte, e  ciascuno deve far fronte da sé stesso alle proprie difficoltà.