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T R A G Ø D I A
Neo Gothic Metal since 1996
> press <
HM Portal, 30-04-2003 (70 out of 100 points)

"All Our Miseries" è la seconda fatica discografica dei bresciani Tragodia, interessante band dedita ad un originale miscuglio di gothic metal, musica sinfonica, arrangiamenti progressivi e digressioni dal retrogusto black. Il disco in questione è in effetti un demo cd, ma data la lunghezza (che supera i trenta minuti) e la cura riposta nella confezione l'appetibilità commerciale è senz'altro più vicina a quella di un prodotto completo più che a quella di un cd promozionale. Detto questo, parto subito col dire che si tratta di un lavoro non del tutto convincente, ma che al suo interno mostra intuizioni musicali assolutamente illuminate. La ricerca sonora del sestetto dà infatti splendidi frutti soprattutto nella stupefacente "the Desert Call", brano in cui l'afflato decadente dei vecchi Paradise Lost e dei My Dying Bride si unisce ad una raffinatezza sofferente che mi ha sinceramente emozionato. Echi barocchi, profondo gusto romantico e lucida gestione delle influenze più propriamente metal (che spaziano dal prog al death) mettono questa band in una posizione di spicco nel panorama delle nuove leve italiane, in virtù di una complessità e di una profondità artistiche non comuni. Questi sono i punti di forza più evidenti. A questo punto vi starete chiedendo per quale motivo "All Our Miseries" non sia del tutto convincente. Il motivo principale condivide probabilmente la propria genesi con la succitata originalità stilistica: i Tragodia a volte sembrano esagerare, e la compattezza dei brani viene meno in alcuni momenti, come ad esempio in "Painland", buona song che tuttavia crea un fastidioso senso di incompiutezza nell'ascoltatore. La grande fantasia dei musicisti in questione pare quindi difficile da tenere sotto controllo, e ad esempio in alcuni punti del cd il continuo passaggio dalle voci pulite a quelle growl ed a quelle filtrate può disorientare un po'. Per il resto non condivido molto la scelta di caricare troppo le tastiere a scapito degli altri strumenti, in certi momenti affiorava quel fastidioso prolema che affligge oggigiorno le formazioni power, ovvero il temuto "effetto-Bontempi" (avete presente quelle pianole che eruttano suoni squillanti e totalmente di plastica?). A dire il vero non è che questo problema si faccia sentire poi così tanto, ma in una proposta musicale così tragica e ricercata andrebbe comunque evitato come la peste. Sulle chitarre e sul basso non ho molto da dire, ma avrei un paio di appunti da fare a batterista e cantante. Quest'ultimo è protagonista di una prova convincente, sospeso com'è tra echi dei Joy Division (o degli Shadow Dancers) e tratti di aggressività, ma che in un paio di occasioni mi è sembrato vittima di alcune cadute di tono, come nella parte centrale di "To Perceive the Form" - voglio precisare che non si tratta di una questione tecnica, ma piuttosto di una difficoltà nell'accentuare la drammaticità del tessuto musicale con efficacia. Capitolo batteria: le soluzioni adottatte in alcuni passaggi, soprattutto per quanto riguarda i pattern sui piatti, sono davvero intriganti e caricano perfettamente la musica d'insieme, ma il problema sembra più che altro il tocco, un po' troppo legnoso in alcuni stacchi e più in generale poco fluido quando c'è da prendere le redini del fraseggio. Un'ultima nota: mi pare che la band, concentrandosi sui "refrain" (sempre che di refrain si possa parlare), altamente drammatici ed intensi, abbia creato un leggero dislivello qualitativo tra le parti più pompose e ricche e gli stacchi più sonicamente sobrii, ma pur sempre elaborati specialmente sul piano ritmico (che non risultano totalmente convincenti). Per finire, un plauso va ai testi, mai scontati, che mettono in evidenza una colta ricerca artistica. Un interessante album, frutto elegante di sei musicisti artisticamente inquieti, che non riescono tuttavia ad abbracciare totalmente i sublimi lidi cui sembrano puntare. (Alucard)
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