“A-mortali”,
la scienza medica come forma di “hybris”

 

Verrà un'ora in cui la Medicina Moderna avrà vinto la morte – la mortalità che è l'essenza dell'essere dell'uomo.
Per sessanta interminabili minuti, in tutta la terra abitata, in una compattezza mai veduta di tenebre, ci sarà un tremendo silenzio. Nessuno esulterà: tutti saranno, per un'ora,
prigionieri della vita, materialmente a-mortali, però (questo mai) Dii immortales, tra voci americane e pontificie che s'incrociano e cascano. Sarà il vero, supremo cuore della tenebra.” (Guido Ceronetti, Il silenzio del corpo, Adelphi, pag. 227).

Il destino della scienza medica è la guarigione dalla “Malattia Suprema”, la mortalità. La morte è infatti considerata dalla medicina moderna come il culmine di un declino costante, che inizia con la nascita. Il corpo va quindi guarito da questa malattia degenerativa. Oggi i progressi della scienza medica rallentano la degenerazione dell'organismo, ma questo costante rallentare si pone come un obiettivo infinito che pure si auspica una fine, e la fine è la cura della malattia mortale.

In questo la tecnica tende quindi a mutare il senso stesso dell'uomo così come si è formato nella cultura secolare: l'uomo è finito, mortale, rende il suo tempo e il suo corpo all'ineluttabile. Ha un bel dire Heidegger che l'uomo acquista un significato autentico solo in rapporto a questo “finire”, che l'esistenza autentica è un'esistenza di “vita-per-la-morte” e che solo se le nostre scelte sono rapportate a questa finitezza la vita dell'uomo è autenticamente umana. La tecnica non corre in questa direzione, ed oggi è tutto un curare e un protrarre l'esistenza, e l'uomo non sente il bisogno di sottrarsi a queste cure, in condizioni normali, bensì vive lo scopo della scienza medica come una possibilità fortunatamente toccata ai contemporanei.

La scienza medica come tecnica dell'”accanimento terapeutico” (sia detto questo nel suo senso generale) che intende protrarre il più possibile la vita e che ha come obiettivo legittimo il rendere immortale l'uomo, è dunque in questo senso una forma di “hybris”, ovvero una prevaricazione del senso stesso dell'uomo e del destino mortale che rende quel certo significato all'uomo, quel significato che inerisce all'essere umano fin dall'alba dei tempi (“ricorda che polvere sei e polvere ritornerai”).

Nota conclusiva: ho ascoltato oggi alla radio l'intervento di uno studioso di patristica che si pronunciava sui problemi connessi ad un'eventuale dimissione del Pontefice. Questo studioso spiegava come in passato alcuni pontefici avevano dato le dimissioni in vita, e inoltre affermava questo: che il problema delle dimissioni del Pontefice è legato anche all'enorme progresso della scienza medica, che prolunga innaturalmente la vita dell'uomo, per cui può accadere che un pontefice protragga la sua vita ben oltre le reali capacità intellettive.

Questa nota è d'esempio, non intendo qui entrare nel merito della questione pontificia (mi fa comunque piacere vedere il Pontefice ristabilito e confido nelle sue piene capacità intellettive, da laico e da essere umano), noto comunque che la scienza medica, la tecnica, è ormai talmente potente da diventare vero ago della bilancia anche in campi che non erano notoriamente di sua competenza.

Così la Chiesa sarebbe condizionata dalla stessa scienza? Che cosa accadrebbe se la scienza ci rendesse davvero “a-mortali”? Questa eventualità sarebbe dunque un'eresia? Se fosse così allora curarsi secondo i metodi della scienza sarebbe etico finché le cure lascino aperta la porta alla morte, e non oltre. Quanta “hybris” vi è nella scienza medica, e fino a quando la Chiesa potrà tollerarla?


(Synt)


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