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Gli
alberi dei boschi, quelli dei nostri frutteti e dei nostri parchi hanno
una storia lunghissima; essa ha lasciato nel folclore tracce che presto
si perderanno, perché stiamo perdendo il rispetto che i nostri antenati
avevano per loro. Se vogliamo evitare il massacro che minaccia le nostre
foreste, dobbiamo ritrovarlo. Ciò non rappresenta una semplice nostalgia,
ma una necessità di giorno in giorno più pressante. Riconoscere
il ruolo essenziale degli alberi nella vita della Terra, nella nostra e
anche nel nostro inconscio, rammentarsi le loro leggende, quindi le loro
virtù, è forse il modo migliore per salvarli. Le credenze
che le fecero nascere esprimono un'antica saggezza, e quelle che si considerano
superstizioni di solito non sono altro che i frammenti sparsi di una scienza
antichissima, che ha cessato di essere incompatibile con quella moderna
da quando la biochimica ha finalmente spiegato perché l'ombra del
noce poteva essere funesta, perché la corteccia del salice protegge
dai reumatismi, o come mai la linfa della betulla elimina l'acido urico.
La fitoterapia odierna rimette in vigore antichi rimedi, spesso altrettanto
attivi e comunque meno pericolosi delle droghe chimiche. L'etnobotanica
va ancora più oltre, perché si dedica a raccogliere, prima
che sia troppo tardi, la considerevole somma di rimedi vegetali ignoti a
tutti, ma utilizzati con successo da popolazioni che consideriamo selvagge.
La riscoperta di queste pratiche può acquistare tutto il suo significato,
e quindi la sua efficacia, solo se parallelamente si riesumano i principi
loro sottesi. Fondati sul carattere sacro degli alberi, questi costituivano
un sistema coerente, i cui elementi oggi dispersi sono i pezzi di un rompicapo
che si tratta di ricomporre. Questi elementi sono i dati trasmessi dal folclore,
nel quale sussistono in forma di credenze che si sono potute qualificare
come superstiziose, non senza una parvenza di ragione, visto che il loro
fondamento era effettivamente scomparso. Ricordiamo che prima di prendere
il senso peggiorativo che ha in italiano, superstitio voleva dire
in latino "venerazione religiosa, rispetto del sacro", e che il
folclore non è altro che il relitto, spesso irriconoscibile, di un'autentica
tradizione. Se si risale in questa direzione, si ritrovano i lineamenti
di una sorta d'ordine universale che, associando gli alberi agli dei, presentava
in maniera mitologica tutto quanto si sapeva delle virtù proprie
alle diverse essenze, del ruolo complementare che ciascuna di esse svolgeva
nella vita terrestre e poteva svolgere nella vita stessa dell'uomo. Questo
sistema di corrispondenze, che univa il soprannaturale e la natura, risale
alle remote origini della nostra civiltà.
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L'albero
Per quanto
possa sembrare strano, la prima difficoltà si incontra proprio
nel definire che cosa sono gli alberi. Nel linguaggio comune si usano
distinguere le piante superiori in erbe, arbusti e alberi, designazioni
queste di categorie morfologiche che sembrano apparire di ovvio significato.
In realtà, se si esamina più da vicino il vasto poliformismo
del regno vegetale, ci si accorge presto che non esistono distinzioni
nette e inequivoche tra queste categorie, ma che si passa dall'una all'altra
per stadi transizionali non sempre agevolmente definibili, così
che talora riesce difficile ascrivere una pianta all'una o all'altra delle
su menzionate categorie.
Una disamina approfondita del problema ci porterebbe troppo lontani dall'assunto,
ma in termini convenzionali sono da considerare alberi quelle piante legnose
che hanno un fusto perenne ben definito, che a pieno sviluppo presentano
cioè un asse principale (fusto o tronco) prevalente sulla massa
delle ramificazioni, il quale raggiunga un diametro di almeno 5 centimetri
ad altezza di petto e un'altezza di almeno 5 metri; i rami si sviluppano
in alto sul tronco a formare una chioma o corona fogliosa variamente conformata
a seconda delle specie.
In contrapposto sono da considerare arbusti quelle piante legnose che
si presentano ramificate per lo più sin dalla base, nelle quali
cioè la massa dei rami predomina sull'asse principale. In questo
caso il fusto primario può non superare in dimensioni i fusti secondari
e la pianta assume allora un aspetto cespuglioso.
La distinzione tra alberi e arbusti, se pure sancita dall'uso e dalla
consuetudine, è dunque convenzionale, in quanto esistono gradualità
di passaggi tra gli uni e gli altri, non solo, ma variazioni nelle condizioni
di ambiente (clima, terreno) possono a toro volta determinare fluttuazioni
tra queste due categorie: specie che dì norma sono arbustive possono,
in condizioni di particolare favore, assumere sviluppo e portamento arboreo
e viceversa. E altresì riconoscibile uno stadio arbustivo nella
maggior parte degli alberi quando si trovano in stato giovanile.
Tutto ciò spiega la ragione per la quale l'elenco delle specie
arboree non è rigidamente definito, ma subisce variazioni in più
o in meno a seconda degli ambienti per i quali viene redatto e anche dall'interpretazione
dei diversi autori.
L'albero, nel suo più completo sviluppo, è una delle manifestazioni
più imponenti della Natura, che può essere espressa in termini
di longevità, di altezza e di diametri. In termini di longevità,
ricordiamo le età massime raggiunte:
- Sequoia
sempervirens (California): da 5000 a 7000 anni;
- Taxodium
mucronatum (Messico): 4000;
- Juniperus
occidentalis (California): 3000;
e per le
specie indigene:
- Castagno:
da 2000 a 3500;
- Cipresso,
Tasso: 2000;
- Peccio,
Cirmo: 1200;
- Farnia:
1000;
- Abete
(bianco): 800;
- Lance,
Pino silvestre: 600;
- Tiglio:
500;
- Faggio:
350.
In termini
di altezza, le maggiori segnalate sono:
- Sequoia
sempervirens (California): m 120;
- Eucalyptus
amygdalina (Australia): m 112;
e per le specie indigene:
- Abete
(bianco): m 75;
- Peccio:
m 60;
- Larice:
m 57;
- Cipresso:
m 52;
- Pino
silvestre: m 48:
- Faggio:
m 44;
- Pioppo
bianco: m 40.
In termini
di circonferenza, ricordiamo:
e per le
specie indigene:
- Castagno:
m 20;
- Platano:
m 15;
- Tiglio:
m 9;
- Farnia:
m 7:
- Tasso:
m 5;
- Rovere:
m 4;
- Abete
(bianco). Cipresso, Olmo: m 3;
- Peccio,
Faggio: m 2.
Limitatamente
alle nostre specie indigene e in rapporto alle condizioni ecologiche dei
climi temperati, si usano designare alberi di prima grandezza quelli che
raggiungono o superano i 30 m in altezza, alberi di seconda grandezza
quelli che si innalzano da 20 a 30 m, alberi di terza grandezza quelli
che non riescono a superare i 20 (25) m, e piccoli alberi quelli che arrivano
al massimo a 8 (10) m d'altezza.
Gli alberi descritti e illustrati nelle schede sono quelli tipicamente
indigeni della flora legnosa italiana, ma sono state tenute in considerazione
anche alcune specie estranee alla nostra flora aborigena, le quali, da
lungo tempo introdotte nel nostro Paese, vi si sono acclimatate e vi si
riproducono spontaneamente, così da dover essere ormai considerate
come naturalizzate.
La successione e descrizione della specie è fatta in ordine sistematico,
con l'indicazione di caratteri differenziali, scelti tra quelli di più
facile riconoscimento, che possono permettere la classificazione, ove
appena si disponga di materiale idoneo e sufficiente.
Nella parte speciale sono state redatte le descrizioni morfologiche delle
singole specie, abbastanza particolareggiate e su schema conforme ai fine
di agevolare ragguagli comparativi. Per ogni specie illustrata è
precisato l'areale primario e in succinto la distribuzione geografica
in Italia, con informazioni sulle esigenze ecologiche per il più
razionale impiego in selvicoltura, arboricoltura e altre finalità
applicative.
La distribuzione altitudinale è sinteticamente delineata in funzione
dei climax vegetazionali cioè per piani e orizzonti di vegetazione,
secondo l'inquadramento tradizionale.
Seguono informazioni
sui caratteri del legno e le sue applicazioni, nonché su altri
prodotti di pratica utilità.
Per quanto riguarda le utilizzazioni del legno nel l'industria cartaria,
si ricorda che più o meno tutte te specie legnose, in quanto contengono
elevate percentuali di cellulosa, possono essere impiegate. I prodotti
fibrosi impiegati in questa industria costituiscono la "pasta per
carta" e vanno distinti in due grandi settori: la pasta chimica e
la pasta meccanica.
La pasta chimica, a seconda del liscivio impiegato per il trattamento,
si distingue in pasta al bisolfito, al monosolfito, alla soda, ecc.; è
difficile dire quale pasta chimica sia la migliore, perché ciò
dipende sia dalle specie legnose di partenza, sia dalle caratteristiche
della lisciviazione. Per paste ottenute con il processo acido, al bisolfito
di calcio, si usano quasi esclusivamente gli abeti, perché poco
resinosi, e le latifoglie. Con i processi alcalini si possono trattare
tutti i legni disponibili, anche se molto resinosi come i pini. Un tempo
i processi acidi erano preferiti perché il materiale fibroso ottenuto
era più facilmente imbiancabile; oggi si ottiene una buona imbiancabilità
anche con i materiali fibrosi ottenuti mediante i processi alcalini. La
pasta chimica si chiama correntemente "cellulosa" e ciò
per indicare il suo principale componente. Quando la cellulosa non viene
impiegata per l'industria della carta ma per scopi chimici, cioè
viene destinata a diventare nitrocellulosa, acetato di cellulosa o altri
esteri della medesima, dopo l'imbianchimento si effettuano dei trattamenti
alcalini che hanno lo scopo di eliminare le ultime tracce di lignina rimaste
e di elevare il tenore di alfa-cellulosa; questo trattamento sì
chiama "nobilitazione" e "nobile" la cellulosa ottenuta.
La pasta meccanica si ottiene con procedimento esclusivamente fisico;
a tal fine si utilizza solo legno di tronchi mediante sfregamento di questi
contro mole di pietra naturale o artificiale in presenza di acqua. La
pasta meccanica si chiama correntemente "pastalegno". Le specie
preferite sono gli abeti, il pioppo e in genere tutti i legni chiari,
teneri, privi di resina e di odori molesti. Da qualche tempo si sono poi
sviluppate le cosiddette paste semichimiche o mezzepaste, che non sono
da confondere con la mezzapasta di straccio. Queste paste semichimiche
si ottengono con deboli procedimenti chimici ai quali seguono procedimenti
meccanici di ulteriore sfibratura o disintegrazione dei fasci fibrosi.
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