RECENSIONI
Recensione
concerto 8 Marzo 2002 Palavobis Milano da metallus.it
L
inevitabile calcio dinizio porta il nome dei The Dillinger
Escape Plan, penalizzati da un volume inesistente e dalla pigrizia
dei SOAD che arrivano in ritardo abbondante per il soundcheck
costringendoli ad un controllo sommario dei suoni sul palco.Malgrado
le condizioni tecniche proibitive, i cinque, insieme al nuovo
cantante Greg Puciato, più compatto e mobile del precedente,
danno vita a mezzora circa di post-hardcore estremo contaminato
tanto dal grindcore quanto da unattitudine quasi Zorniana.
43% Burnt, Sugar Coated Sour e la più
vecchia The Mullet Burden sintetizzano il suono
e lattitudine di un gruppo assolutamente fondamentale
per gli sviluppi futuri della musica pesante, mentre un paio
di pezzi nuovi eseguiti sottolineano una probabile direzione
più drammatica ed emotiva ma sempre iper-tecnica,
intricata e coscienziosamente progressiva. Non erano le condizioni
migliori, ma anche davanti ad un pubblico egoista ed irrispettoso
il gruppo ha dimostrato la propria folle genialità. Dopo
un cambio-palco quasi infinito è il momento dei System
Of A Down, coi 10.000 del Palavobis che si stringono e cominciano
a fremere e rumoreggiare fino allesplosione di Prison
Song, che fra pieni e vuoti manda immediatamente la partecipazione
alle stelle. Il colpo docchio è monumentale, il
suono confuso e le scelte di mixaggio violentemente virato sui
bassi penalizzano in maniera drammatica limpatto violento
ma armonico e ricercato che si ascolta su disco. Seguono in
ordine sparso episodi tratti principalmente da Toxicity,
ma il suono non migliora ed emerge una sensazione di forte frammentazione,
di cazzeggio ad oltranza che fa calare la tensione (ma non lentusiasmo
del pubblico) di molto. Se si può concedere una risata
ai siparietti di Goodbye Blue Sky dei Pink Floyd
o a Give Peace A Chance, più difficile è
stare appresso alle frivolezze di Daron Malakian, poco concentrato
sullo strumento e molto di più sullesibizione:
non tutti i gruppi hanno in repertorio pezzi come Jet
Pilot, Spiders, P.L.U.C.K., Toxicity
o ancora Psycho e vederli eseguiti in maniera approssimativa
è un peccato. Problematico anche il lavoro alla batteria
di John Dolmayan, costantemente in affanno e dietro
i pezzi, mentre dovrebbe essere il motore trainante di una formula
così secca e dinamica. Si procede per poco più
di unora, con molti pezzi eseguiti, slamdance e pogo a
non finire e un persistente feeling di amaro in bocca. Oggi
i System Of A Down sono stati salvati dalla qualità stellare
delle canzoni che hanno scritto, ma non si sono dimostrati allaltezza
della fama di grande gruppo che ormai li accompagna
stabilmente. Tool e Deftones, che giocano nella stessa divisione,
ci hanno lasciati a bocca aperta, lo stesso non si p uò
dire di loro. E ora che comincino, dal vivo, a tener fede
alla fama che li precede, altrimenti il futuro potrebbe non
essere roseo come immaginano
Fabio
Rodighiero e Teo Segale