TESI 15
I NUOVI ASSETTI DEL MONDO
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Nella fine dell'ordine bipolare, si è consumata non solo l'idea tradizionale di divisione tra un Primo, un Secondo e un Terzo mondo, ma quella, più recente, tra Nord e Sud. Più efficace ci pare il paradigma delle contraddizioni tra i diversi Centri e le diverse Periferie della globalizzazione. Muta la stessa nozione di territorio: oggi è più corretto parlare di "luoghi-mondo", sistemi urbani collegati dalla rete e da flussi stabili di comunicazione
La contraddizioni tra grandi paesi capitalisti non hanno
comportato da tempo e non comportano guerre tra loro, non solo a
causa del superamento dei confini nazionali operato dalle grandi
centralizzazioni capitalistiche, ma anche perché i vari organi di
governo del processo di globalizzazione, seppure dominati
politicamente dagli USA, servono da camera di compensazione dei
contrasti e delle contraddizioni che pure permangono, ed impediscono
che questi giungano alla forma acuta di un conflitto armato.
Il
mondo non è più diviso in blocchi contrapposti, né tripartito tra
Primo, Secondo e Terzo mondo, come veniva analizzato da una parte
importante del movimento comunista internazionale nel secondo
dopoguerra. Tra i paesi che erano inclusi allora nel Terzo mondo,
rilevanti sono state le modificazioni sia dal punto di vista
economico che politico - si pensi all'est dell'Asia - che
renderebbero impossibile proporre unità di condizioni e di
schieramenti del tipo di quelli sperimentati nel passato, cioè dei
cosiddetti paesi non allineati.
Lo stesso contrasto fra Nord e
Sud del mondo va riletto alla luce delle nuove trasformazioni. Pur
avendo la globalizzazione determinato - come abbiamo già visto -
l'aumento enorme delle diseguaglianze tra i paesi più ricchi e
quelli più poveri, appare più giusto e fertile leggere le
contraddizioni mondiali secondo un asse di contraddizione tra Centro
e Periferia del processo di globalizzazione. Anzi tra più centri e
più periferie, poiché gli uni e le altre possono trovarsi su scala
locale entro gli stessi paesi capitalistici più sviluppati.
In
questo senso muta anche la concezione tradizionale di geopolitica.
E' infatti necessaria una ridefinizione dello stesso concetto di
territorio riguardo al processo di globalizzazione, poiché
quaest'ultimo ha bisogno sì di localizzazioni, ma queste anziché
riconoscersi nei territori degli stati, si concentrano in sistemi
territoriali prevalentemente urbani collegati attraverso reti
materiali e immateriali di comunicazione (in luoghi-mondo, secondo
una felice terminologia socio-economica). Indubbiamente la scomparsa
di un campo contrapposto a quello capitalista da un lato e le
necessità economiche del processo di globalizzazione dall'altro,
hanno esposto ulteriormente le periferie del sistema capitalista
mondiale ad una ulteriore depredazione e ad uno stato continuo di
guerre.
Queste ultime sono fomentate o condotte direttamente
dallo stato guida della globalizzazione, gli USA, e dagli organi da
esso dominati, sia per ribadire l'impossibilità di sottrarsi a quel
processo e al governo unipolare del mondo e in questo caso, assumono
le caratteristiche di atti punitivi, di ritorsioni e di rappresaglie
sia per mantenere o conquistare il controllo e il possesso di
fondamentali materie prime, tra cui fonti energetiche quali il
petrolio che continuano ad avere un importanza strategica
fondamentale.
Conseguentemente appare improponibile l'idea della
costituzione di fronti antimperialistici tra stati. Non solo per le
mutate caratteristiche dell'attuale capitalismo, ma per le
indisponibilità degli stessi soggetti. Questo è dimostrato dal
processo di convergenza con gli USA sulla guerra in Afghanistan di
Russia e Cina, dalla disponibilità della prima nei confronti della
Nato e dal comportamento tenuto anche nell'ultimo vertice dei G8 di
Genova. Così come l'ingresso nel WTO della Cina conferma la sua
propensione ad integrarsi nel processo di globalizzazione. In questo
quadro può proseguire l'attuazione di un progetto annessionista
statunitense e dell'annullamento delle sovranità statuali nel suo
"cortile di casa". Dopo la creazione del NAFTA (Area di libero
commercio del nord America), dopo la proposta dell'Accordo
multilaterale sugli investimenti (AMI) e i negoziati
dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC), la creazione
dell'Area di libero commercio delle Americhe (ALCA) dal Canada alla
Patagonia, rappresenta oggi il più avanzato progetto commerciale,
politico e militare che ridefinisce la presenza egemonica degli
Stati uniti su tutto il continente e non solo. Si tratta di un
mercato potenziale di più di 800 milioni di consumatori, di una
riserva strategica di risorse energetiche come il petrolio, ma anche
di acqua e della biodiversità amazzonica. L'ALCA ha nel "Plan
Colombia" il suo braccio armato e nell'Iniziativa andina la sua
estensione regionale.
Questo non significa che nel mondo sia in
corso un processo di omologazione assoluta al sistema capitalista,
né che tra gli stessi stati maggiori e più forti, in Europa come in
Asia, non vi siano contrasti con gli USA: ma questi oggi avvengono
entro questo processo di globalizzazione non contro di esso, e
l'evoluzione futura di questi contrasti, in senso ulteriormente
integrativo o nuovamente conflittuale, è legata all'esito della
crisi nel processo di globalizzazione, di cui ora stiamo avvertendo
consistenti manifestazioni.
TESI 14 (alternativa)
GLOBALIZZAZIONE IMPERIALISTA,
LOTTA PER LA PACE E SCIOGLIMENTO DELLA NATO
(sostitutiva delle tesi 14 e 15)
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globalizzazione
stato
Siamo per lo scioglimento della Nato, strumento di guerra e di espansione imperialista, di condizionamento dell'autonomia dell'Italia e dell'Europa da parte degli Stati Uniti. Siamo per l'allontanamento di tutte le basi militari straniere, di tutte le armi nucleari dislocate in Italia. Siamo per la ratifica degli accordi di Kyoto sull'ambiente, per la difesa del trattato Abm del 1972 che vieta ogni ipotesi di scudo spaziale; per trattati vincolanti e verificabili contro la militarizzazione dello spazio, che vietino nuovi test nucleari e mettano al bando tutte le armi di sterminio: atomiche, chimiche e
batteriologiche, che pesano come un incubo sul futuro dell'umanità.
In nome della "lotta al terrorismo internazionale", gli Usa - che non per caso si oppongono ai trattati sul disarmo - stanno attuando una linea di supremazia militare globale per vincere la competizione per l'egemonia nel 21° secolo. I teatri di guerra dell'ultimo decennio (Iraq, nel cuore del Medio oriente; Balcani e Afghanistan, nel cuore
dell'Eurasia) investono regioni in cui si trovano le più grandi riserve energetiche del pianeta (petrolio e gas naturale) e gli oleodotti e i gasdotti che le trasportano. Il loro controllo assicura posizioni dominanti nell'economia mondiale.
Nel 1945 gli Usa esprimevano il 50% dell'economia mondiale (Pil), oggi sono il 25%, pari all'Unione europea. Il Giappone è all'11%. Secondo
l'Ocse, tra un ventennio le tre maggiori entità del mondo capitalistico - e segnatamente gli Usa - vedrebbero dimezzate le rispettive quote, a vantaggio di nuove potenze regionali emergenti (Brasile, Indonesia, Russia, Cina, India, mondo arabo
). La prospettiva di un mondo sempre più multipolare induce la parte più aggressiva dell'amministrazione Usa a contrastare la possibile perdita del primato economico attraverso il conseguimento di una schiacciante superiorità militare sul resto del mondo, se necessario con la guerra. Sono in primo luogo gli Usa che hanno voluto la guerra in Iraq, in Serbia, in Afghanistan. Gli altri paesi della Nato (e il Giappone), quando vi hanno preso parte anche militarmente, lo hanno fatto consapevolmente, per non rimanere esclusi dalla spartizione delle zone di influenza che ogni guerra comporta. Come dimostrano anche i contrasti connessi alla formazione del nuovo governo di Kabul, non esiste una "coalizione internazionale" con basi strategiche e durature tra Stati Uniti, Europa, Giappone, Russia, Cina, India, Pakistan, paesi arabi (realtà tra loro troppo diverse per struttura sociale, profilo politico e interessi
geo-strategici). Vi sono invece interessi di Realpolitik, fondati su convenienze reciproche e congiunturali, che non prefigurano alcun "direttorio mondiale" unificato.
Non esiste né un mondo né un "capitalismo globale" compatto e omogeneo, privo di contraddizioni tra i grandi capitalismi e imperialismi nazionali o regionali, e tra i rispettivi Stati nazionali o raggruppamenti di Stati (Unione europea) che ne supportano gli interessi nella competizione globale. I capitali di comando delle prime 200 società multinazionali che condizionano l'economia e la finanza mondiale, pur avendo filiali in tutti i continenti, sono in buona parte riconducibili a questo o quel gruppo nazionale, solidamente intrecciate col potere politico del proprio Stato (come è il caso della Fiat in Italia, della Toyota in Giappone, della General Motors negli Usa, della Volkswagen in Germania). Ciò spiega anche la competizione tra dollaro, marco e yen; i forti contrasti che continuamente si ripropongono ai vertici del
Wto, che hanno fatto fallire quello di Seattle e messo in crisi l'ultimo a Doha; i ricorrenti contrasti Usa-Ue (e nell'Unione europea), sulla difesa militare, su
Echelon, sul profilo politico-istituzionale dell'Unione e sul suo allargamento ad Est, sui rapporti con Israele, col mondo arabo, coi Balcani o con l'Africa australe, dove le guerre per procura hanno causati negli ultimi anni tre milioni di morti solo in Congo. La crisi recessiva accentua la competizione per l'egemonia.
Globalizzazione capitalistica, imperialismo e competizione globale sono facce di un'unica medaglia, non categorie interpretative tra loro incompatibili. E' necessario un aggiornamento dell'analisi dell'imperialismo contemporaneo, che tenga conto delle modifiche dei processi di accumulazione. Ma non si giustifica l'abbandono di questa categoria interpretativa, che resta parte essenziale dell'analisi teorico-politica delle forze comuniste e rivoluzionarie del mondo intero (da Cuba alle Farc colombiane, dai comunisti del Sudafrica a quelli indiani e palestinesi, che la realtà dell'imperialismo la vivono quotidianamente e brutalmente sulla loro pelle). Anche il capitalismo dei tempi di Marx era molto diverso da quello attuale, ma continuiamo a definirlo così perché ne conserva le fondamenta "sistemiche", a partire dal conflitto irriducibile tra capitale e lavoro.
Lenin indicava così "i cinque principali contrassegni" dell'imperialismo: la concentrazione della produzione e del capitale in grandi monopoli, divenuti oggi enormi complessi multinazionali; la fusione di capitale bancario e capitale industriale - il capitale finanziario - e la formazione di un'oligarchia della grande finanza (le cui caratteristiche odierne, accentuatesi, sono ben descritte nella Tesi 5); il crescente livello dell'esportazione di capitali rispetto all'esportazione di merci; il sorgere di associazioni internazionali di capitalisti che si spartiscono il mondo e la conseguente competizione tra le maggiori potenze capitalistiche per la ripartizione delle zone di influenza, che è oggi sotto gli occhi di tutti. L'analisi dei tratti più nuovi dell'imperialismo dei giorni nostri è compito imprescindibile di una ricerca aperta che non pretenda di giungere affrettatamente a definizioni conclusive.
La competizione tra paesi capitalistici - che non sempre e non necessariamente produce guerre mondiali (tanto più quando, come oggi, lo strapotere militare di uno di essi è soverchiante) - ha i suoi momenti di concertazione e di coordinamento
(Fmi, Banca mondiale, Wto, G7-G8), volti a preservare gli interessi complessivi del sistema, a mediare i suoi contrasti interni cercando di impedirne una rovinosa precipitazione. Ma questi organismi sono dominati dai maggiori Stati capitalistici del mondo, non già da un anonimo "capitale globale". E quando scoppiano le guerre, sono questi Stati a condurle, da soli o in coalizione con altri. Il punto è che non tutti gli Stati sono uguali: mentre le maggiori potenze imperialistiche, a partire dagli Usa, vedono un rafforzamento della loro funzione politica e militare nella competizione mondiale (anche attraverso il controllo di governi "amici" e subalterni), la grande maggioranza degli Stati nazionali piccoli e medi soffre una crisi profonda, vede una crescente riduzione di ruolo e di effettiva sovranità in un mondo sempre più dominato dall'imperialismo.
Il pericolo di una guerra globale nel 21° secolo (evocato anche dal Papa), della cui possibilità parlano apertamente alcuni dei dirigenti più oltranzisti dell'amministrazione
Bush, e di un allargamento della guerra in corso ben oltre i confini dell'Afghanistan, ripropone l'imperativo non più rinviabile della costruzione di un nuovo movimento mondiale per la pace, che comprenda forze politiche e sociali, sindacali e religiose, popoli e governi di ogni continente. Un movimento di cui sia forza propulsiva il nuovo movimento "no global", che assuma la lotta contro la guerra come asse portante della propria identità e unità e rafforzi il suo legame col movimento operaio. Capace di integrare e connettere le aspirazioni convergenti dei "popoli di Seattle" e di Porto Alegre con quelle dei "popoli di Durban".
Vi è qui un compito primario per i comunisti, per tutte le forze rivoluzionarie, antagoniste e antimperialiste del mondo, che - nel rispetto delle diversità e dell'autonomia di ognuno - debbono rafforzare solidarietà e impegno comune, superando chiusure nazionali e tentativi artificiosi di divisione, di fronte a gravi minacce alla pace e a fondamentali libertà democratiche. Sapendo che la lotta contro la guerra impone la costruzione di uno schieramento mondiale il più largo possibile, che sappia concentrare le forze contro i settori più aggressivi dell'imperialismo, soprattutto americano, che puntano al peggio. Quando vediamo che, in nome della lotta al terrorismo, cominciano a operare negli Stati Uniti tribunali speciali, non vincolati al rispetto della Costituzione, dove si comincia a distinguere tra i diritti dei cittadini americani e quelli degli immigrati (per lo più di colore), una riflessione si impone sull'intreccio perverso di autoritarismo politico, razzismo e spinta alla guerra, che questa nuova fase dello sviluppo imperialistico può portare in grembo nel 21° secolo che ci attende.