TESI 14 
IL SUPERAMENTO DELLA NOZIONE CLASSICA DI IMPERIALISMO
 (approvata dal Comitato Politico Nazionale)

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globalizzazione
stato
(TESI 15  i nuovi assetti del mondo)
tesi alternativa

La nozione classica di imperialismo, nei termini definiti da Lenin, Luxemburg e Hilferding, appare oggi inadeguata. Essa "sintetizzava" fenomeni quali la centralizzazione capitalistica al crescente livello dello Stato, la fusione tra capitale industriale e finanziario, gli scontri anche militari tra potenze imperiali per il controllo di risorse, territori, mercati. Oggi, all'opposto, il capitalismo si muove su straordinarie concentrazioni trans e sovranazionali, che condizionano le scelte e la politica degli Stati, anche i più forti, ed è cresciuta l'autonomia dei mercati finanziari. Ma soprattutto, nella generale accettazione della globalizzazione capitalistica che coinvolge tutte le potenze a livello mondiale, i contrasti tra gli Stati non producono di per se né la costruzione di un campo antimperialista né dirompenti contraddizioni di tipo interimperialistico. Come del resto, paesi aggrediti delle grandi potenze, non si trasformano per questo in soggetti antimperialisti.

In questo quadro così mutato la nozione classica di imperialismo appare inadeguata per caratterizzare l'attuale fase dello sviluppo capitalistico. Conseguentemente catalogare i contrasti e i conflitti internazionali fra stati come effetti delle contraddizioni interimperialistiche sarebbe totalmente fuorviante. Il processo di accumulazione capitalistica ha avuto sin quasi dagli inizi una dimensione sovrannazionale. L'imperialismo, nei termini definiti da Lenin e da Rosa Luxemburg, come pure, con le distinzioni necessarie, da Hilferding, si è sviluppato a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo ed ha raggiunto il suo culmine con la Prima guerra mondiale. Dopo la Seconda guerra mondiale, ha assunto nuove forme per cui è stata pertinentemente usata la categoria di neocolonialismo o neoimperialismo. L'analisi del fenomeno imperialista, come si presentava nella prima parte del secolo scorso, si basava essenzialmente sull'osservazione della fusione tra il capitale finanziario e il capitale industriale, sulla tendenza alla creazione di monopoli, su processi di centralizzazione capitalistica che avvenivano a livello statale ed attraverso gli stati esercitavano la loro potenza a livello internazionale, sull'esportazione di merci e capitali verso nuove terre, sull'utilizzo di scontri armati e delle guerre fra stati imperialisti e capitalisti per il controllo di territori, di risorse, di mercati.
Oggi le condizioni sono radicalmente mutate. I processi di centralizzazione e concentrazione capitalistica hanno assunto un carattere sovranazionale senza precedenti con mutazioni nella strutturazione della proprietà dei mezzi di produzione e di scambio, con una diversa distribuzione territoriale e con un ruolo enormemente accresciuto dei mercati finanziari che tendono ad operare con una relativa autonomia. Le varie funzioni del denaro, quale mezzo di scambio, di risparmio e di investimento vengono strettamente compenetrate per un più totale dominio dei mercati globali. La presenza dei centri decisionali del capitale in determinati stati piuttosto che in altri - e fra i primi in modo preminente negli Stati Uniti d'America - non significa che essi si muovono sulla forza degli stati ma, al contrario, che essi ne condizionano e ne determinano non solo la politica, ma anche modi di funzionamento.
Queste tendenze contemporanee e il nuovo contesto segnato dal crollo dei paesi del "socialismo reale" e dalla fine della "guerra fredda", autorizzano la conclusione che non è affidabile ai contrasti tra paesi capitalisti e alle contraddizioni interimperialistiche la crisi e la sconfitta della globalizzazione capitalistica e che è improponibile l'ipotesi di guerre interimperialistiche. Di conseguenza i conflitti di questa fase e quelli in prospettiva non possono essere interpretati in funzione di contrapposizione tra le maggiori potenze. Vanno e andranno collocati entro l'esigenza di gestione della globalizzazione capitalistica e di salvaguardia del sistema nel suo insieme, al quale si oppone il movimento no-global.

TESI 14 (alternativa)
GLOBALIZZAZIONE IMPERIALISTA,
LOTTA PER LA PACE E SCIOGLIMENTO DELLA NATO

(sostitutiva delle tesi 14 e 15)

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globalizzazione
stato

Siamo per lo scioglimento della Nato, strumento di guerra e di espansione imperialista, di condizionamento dell'autonomia dell'Italia e dell'Europa da parte degli Stati Uniti. Siamo per l'allontanamento di tutte le basi militari straniere, di tutte le armi nucleari dislocate in Italia. Siamo per la ratifica degli accordi di Kyoto sull'ambiente, per la difesa del trattato Abm del 1972 che vieta ogni ipotesi di scudo spaziale; per trattati vincolanti e verificabili contro la militarizzazione dello spazio, che vietino nuovi test nucleari e mettano al bando tutte le armi di sterminio: atomiche, chimiche e batteriologiche, che pesano come un incubo sul futuro dell'umanità.
In nome della "lotta al terrorismo internazionale", gli Usa - che non per caso si oppongono ai trattati sul disarmo - stanno attuando una linea di supremazia militare globale per vincere la competizione per l'egemonia nel 21° secolo. I teatri di guerra dell'ultimo decennio (Iraq, nel cuore del Medio oriente; Balcani e Afghanistan, nel cuore dell'Eurasia) investono regioni in cui si trovano le più grandi riserve energetiche del pianeta (petrolio e gas naturale) e gli oleodotti e i gasdotti che le trasportano. Il loro controllo assicura posizioni dominanti nell'economia mondiale.
Nel 1945 gli Usa esprimevano il 50% dell'economia mondiale (Pil), oggi sono il 25%, pari all'Unione europea. Il Giappone è all'11%. Secondo l'Ocse, tra un ventennio le tre maggiori entità del mondo capitalistico - e segnatamente gli Usa - vedrebbero dimezzate le rispettive quote, a vantaggio di nuove potenze regionali emergenti (Brasile, Indonesia, Russia, Cina, India, mondo arabo …). La prospettiva di un mondo sempre più multipolare induce la parte più aggressiva dell'amministrazione Usa a contrastare la possibile perdita del primato economico attraverso il conseguimento di una schiacciante superiorità militare sul resto del mondo, se necessario con la guerra. Sono in primo luogo gli Usa che hanno voluto la guerra in Iraq, in Serbia, in Afghanistan. Gli altri paesi della Nato (e il Giappone), quando vi hanno preso parte anche militarmente, lo hanno fatto consapevolmente, per non rimanere esclusi dalla spartizione delle zone di influenza che ogni guerra comporta. Come dimostrano anche i contrasti connessi alla formazione del nuovo governo di Kabul, non esiste una "coalizione internazionale" con basi strategiche e durature tra Stati Uniti, Europa, Giappone, Russia, Cina, India, Pakistan, paesi arabi (realtà tra loro troppo diverse per struttura sociale, profilo politico e interessi geo-strategici). Vi sono invece interessi di Realpolitik, fondati su convenienze reciproche e congiunturali, che non prefigurano alcun "direttorio mondiale" unificato.
Non esiste né un mondo né un "capitalismo globale" compatto e omogeneo, privo di contraddizioni tra i grandi capitalismi e imperialismi nazionali o regionali, e tra i rispettivi Stati nazionali o raggruppamenti di Stati (Unione europea) che ne supportano gli interessi nella competizione globale. I capitali di comando delle prime 200 società multinazionali che condizionano l'economia e la finanza mondiale, pur avendo filiali in tutti i continenti, sono in buona parte riconducibili a questo o quel gruppo nazionale, solidamente intrecciate col potere politico del proprio Stato (come è il caso della Fiat in Italia, della Toyota in Giappone, della General Motors negli Usa, della Volkswagen in Germania). Ciò spiega anche la competizione tra dollaro, marco e yen; i forti contrasti che continuamente si ripropongono ai vertici del Wto, che hanno fatto fallire quello di Seattle e messo in crisi l'ultimo a Doha; i ricorrenti contrasti Usa-Ue (e nell'Unione europea), sulla difesa militare, su Echelon, sul profilo politico-istituzionale dell'Unione e sul suo allargamento ad Est, sui rapporti con Israele, col mondo arabo, coi Balcani o con l'Africa australe, dove le guerre per procura hanno causati negli ultimi anni tre milioni di morti solo in Congo. La crisi recessiva accentua la competizione per l'egemonia.
Globalizzazione capitalistica, imperialismo e competizione globale sono facce di un'unica medaglia, non categorie interpretative tra loro incompatibili. E' necessario un aggiornamento dell'analisi dell'imperialismo contemporaneo, che tenga conto delle modifiche dei processi di accumulazione. Ma non si giustifica l'abbandono di questa categoria interpretativa, che resta parte essenziale dell'analisi teorico-politica delle forze comuniste e rivoluzionarie del mondo intero (da Cuba alle Farc colombiane, dai comunisti del Sudafrica a quelli indiani e palestinesi, che la realtà dell'imperialismo la vivono quotidianamente e brutalmente sulla loro pelle). Anche il capitalismo dei tempi di Marx era molto diverso da quello attuale, ma continuiamo a definirlo così perché ne conserva le fondamenta "sistemiche", a partire dal conflitto irriducibile tra capitale e lavoro.
Lenin indicava così "i cinque principali contrassegni" dell'imperialismo: la concentrazione della produzione e del capitale in grandi monopoli, divenuti oggi enormi complessi multinazionali; la fusione di capitale bancario e capitale industriale - il capitale finanziario - e la formazione di un'oligarchia della grande finanza (le cui caratteristiche odierne, accentuatesi, sono ben descritte nella Tesi 5); il crescente livello dell'esportazione di capitali rispetto all'esportazione di merci; il sorgere di associazioni internazionali di capitalisti che si spartiscono il mondo e la conseguente competizione tra le maggiori potenze capitalistiche per la ripartizione delle zone di influenza, che è oggi sotto gli occhi di tutti. L'analisi dei tratti più nuovi dell'imperialismo dei giorni nostri è compito imprescindibile di una ricerca aperta che non pretenda di giungere affrettatamente a definizioni conclusive.
La competizione tra paesi capitalistici - che non sempre e non necessariamente produce guerre mondiali (tanto più quando, come oggi, lo strapotere militare di uno di essi è soverchiante) - ha i suoi momenti di concertazione e di coordinamento (Fmi, Banca mondiale, Wto, G7-G8), volti a preservare gli interessi complessivi del sistema, a mediare i suoi contrasti interni cercando di impedirne una rovinosa precipitazione. Ma questi organismi sono dominati dai maggiori Stati capitalistici del mondo, non già da un anonimo "capitale globale". E quando scoppiano le guerre, sono questi Stati a condurle, da soli o in coalizione con altri. Il punto è che non tutti gli Stati sono uguali: mentre le maggiori potenze imperialistiche, a partire dagli Usa, vedono un rafforzamento della loro funzione politica e militare nella competizione mondiale (anche attraverso il controllo di governi "amici" e subalterni), la grande maggioranza degli Stati nazionali piccoli e medi soffre una crisi profonda, vede una crescente riduzione di ruolo e di effettiva sovranità in un mondo sempre più dominato dall'imperialismo.
Il pericolo di una guerra globale nel 21° secolo (evocato anche dal Papa), della cui possibilità parlano apertamente alcuni dei dirigenti più oltranzisti dell'amministrazione Bush, e di un allargamento della guerra in corso ben oltre i confini dell'Afghanistan, ripropone l'imperativo non più rinviabile della costruzione di un nuovo movimento mondiale per la pace, che comprenda forze politiche e sociali, sindacali e religiose, popoli e governi di ogni continente. Un movimento di cui sia forza propulsiva il nuovo movimento "no global", che assuma la lotta contro la guerra come asse portante della propria identità e unità e rafforzi il suo legame col movimento operaio. Capace di integrare e connettere le aspirazioni convergenti dei "popoli di Seattle" e di Porto Alegre con quelle dei "popoli di Durban".
Vi è qui un compito primario per i comunisti, per tutte le forze rivoluzionarie, antagoniste e antimperialiste del mondo, che - nel rispetto delle diversità e dell'autonomia di ognuno - debbono rafforzare solidarietà e impegno comune, superando chiusure nazionali e tentativi artificiosi di divisione, di fronte a gravi minacce alla pace e a fondamentali libertà democratiche. Sapendo che la lotta contro la guerra impone la costruzione di uno schieramento mondiale il più largo possibile, che sappia concentrare le forze contro i settori più aggressivi dell'imperialismo, soprattutto americano, che puntano al peggio. Quando vediamo che, in nome della lotta al terrorismo, cominciano a operare negli Stati Uniti tribunali speciali, non vincolati al rispetto della Costituzione, dove si comincia a distinguere tra i diritti dei cittadini americani e quelli degli immigrati (per lo più di colore), una riflessione si impone sull'intreccio perverso di autoritarismo politico, razzismo e spinta alla guerra, che questa nuova fase dello sviluppo imperialistico può portare in grembo nel 21° secolo che ci attende.