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Il Teatro | |
28-mag-2007
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Il Teatro Il teatro (dal greco theatron) è la particolare arte con cui viene rappresentata, sotto forma di testo recitato o drammatizzazione scenica, una storia (un dramma, nel senso etimologico del termine). Una rappresentazione teatrale si svolge davanti ad un pubblico utilizzando una combinazione variabile di parola, gestualità, musica, danza, vocalità, suono e, potenzialmente, ogni altro elemento proveniente dalle altre arti performative. Oltre al teatro di prosa in cui la parola (scritta o improvvisata) è l'elemento più importante il teatro può avere forme diverse, come l'opera lirica, il teatro-danza, il mimo, il kabuki, la danza katakali, l'opera cinese, il teatro dei burattini, la pantomima. In molte lingue (francese, inglese, russo, tedesco e nelle lingue nordiche) il verbo "recitare" coincide con il verbo "giocare"; il termine italiano, invece, pone l'accento sulla finzione, sulla ripetizione del gesto o della parola ("citare due volte"= "recitare"). Come qualsiasi altra forma artistica e culturale, anche il teatro si è evoluto dalle origini ad oggi, nelle diverse epoche e luoghi. La Storia del teatro pone come origine di questa disciplina la rappresentazione teatrale nella cultura dell'antica Grecia: i precedenti esempi teatrali (Egitto, Etruria...) ci aiutano a comprendere la nascita di questo genere, ma non vi sono sufficienti fonti per delinearne le caratteristiche. Da Aristotele ai nostri giorni, il termine ha subito diverse interpretazioni e sviluppi, ed è certo che il dibattito intorno ad una definizione esaustiva dell'evento teatrale continuerà in futuro. Sintetizzando i punti di convergenza dei diversi insegnamenti che hanno attraversato il teatro contemporaneo negli ultimi decenni, da Peter Brook a Giorgio Strehler a Eugenio Barba, possiamo trovare elementi comuni per una definizione: il teatro è quell'evento che si verifica ogni qual volta ci sia una relazione tra uno 'spettacolo vivente' e un 'pubblico vivente' (vale a dire tra almeno un attore che agisca dal vivo in uno spazio scenico e uno spettatore che dal vivo ne segua le azioni). In senso lato può avvenire anche fuori dagli spazi consueti, in ogni luogo dove sia possibile raccontare una storia o catalizzare l'attenzione di un pubblico. Gli elementi essenziali che distinguono un evento teatrale da, per esempio, una conferenza o dal vociare di un mercato pubblico, sono, nella pratica teatrale: -La scelta consapevole din una forma (nella finzione drammatica il personaggio o la maschera); -La definizione di uno spazio nel quale tale forma possa agire (il palcoscenico, tradizionale o improvvisato); -Il tempo stabilito dell'azione (l'elemento drammaturgico, la durata di un testo o di una partitura gestuale). (E' utile notare come spesso l'improvvisazione renda variabili le costanti di cui sopra, anche se è opinione corrente dei maestri di questa disciplina che solamente il rigore di uno schema predefinito renda l'attore libero di variarlo). Più in generale, ciò che separa il teatro da altri avvenimenti che coinvolgono un pubblico, è il carattere di compiutezza dell'azione scenica che la rende classificabile come arte e la distingue dagli altri eventi sociali, didattici o semplicemente quotidiani. Ciò non esclude del tutto che l'evento teatrale (la 'magia' di Eduardo) si possa temporaneamente manifestare anche in altri contesti: nella parentesi narrativa di un insegnante durante una lezione scolastica, o nella performance di un giocoliere in una piazza affollata. LE ORIGINIMolti sono i punti oscuri sull'origine della tragedia, a partire dall'etimologia stessa della parola trago(i)día (τραγῳδία): si distinguono in essa le radici di "capro" (τράγος / trágos) e "cantare" (ᾄδω / á(i)dô), sarebbe quindi il "canto del capro", forse in riferimento al premio che in origine era consegnato al vincitore dell'agone tragico (per l'appunto, un capretto), o al sacrificio di questo animale, sacro a Dioniso, che spesso accompagnava le feste in onore del dio; una teoria più recente fa derivare "tragedia" dal vocabolo raro traghìzein (τραγὶζειν), che significa "cambiare voce, assumere una voce belante come i capretti", in riferimento agli attori. Secondo la tesi di D’Amico tragoidía significa più semplicemente «canto dei capri», dai personaggi satireschi che componevano il coro delle prime azioni sacre dionisiache. Quello che è possibile affermare con certezza è che la radice trag- (τραγ-), anche prima di riferirsi al dramma tragico, fu utilizzata per significare l'essere "simile ad un capro", ma anche la selvatichezza, la libidine, il piacere del cibo, in una serie di parole derivate che gravitano intorno alla «zona» linguistica del rito dionisiaco. Scrive Aristotele che la tragedia nasce dall'improvvisazione, precisamente "da coloro che intonano il ditirambo" (ἀπὸ τῶν ἐξαρχόντων τὸν διθύραμβον, apò tōn exarchòntōn tòn ditýrambon), un canto corale in onore di Dioniso. All'inizio queste manifestazioni erano brevi e di tono burlesco perché contenevano degli elementi satireschi; poi il linguaggio si fece man mano più grave e cambiò anche il metro, che da tetrametro trocaico divenne trimetro giambico. Il Ditirambo, in origine improvvisato, assume poi una forma scritta e prestabilita. Il coro s'indirizzava alla thymele (θυμέλη), l'ara sacrificale, e cantava in onore di Dioniso disponendosi in cerchio intorno ad essa. Ad un certo momento dal coro si staccò il corifeo, il capocoro, e cominciò o a dialogare con questo, diventando così un vero e proprio personaggio; in seguito il coro stesso, sdoppiandosi in due semicori, diede vita a un dialogo tra i due corifei, e venne introdotto un hypocritès (ὑποκριτής, risponditore, in seguito significherà attore), che pronunciava le parole di Dioniso, rivolte al coro: è la nascita del dramma. Da canto epico-lirico, il ditirambo diventa teatro. Mentre nasceva e si strutturava la tragedia vera e propria, lo spirito più popolare dei riti e delle danza dionisiache sopravvissero nel dramma satiresco. Soggetto della tragedia è la caduta di un grande personaggio. Il motivo della tragedia greca è lo stesso dell'epica, cioè il mito, ma dal punto di vista della comunicazione essa sviluppa mezzi del tutto nuovi: il mythos (μύθος, parola, racconto) si fonde con l'azione, cioè con la rappresentazione diretta (δρᾶμα, dramma, deriva da δρὰω, agire), in cui il pubblico vede con i propri occhi i personaggi che compaiono come entità distinte che agiscono autonomamente sulla scena (σκηνή, in origine il tendone dei banchetti), provvisti ciascuno di una propria dimensione psicologica. La tragedia antica non era solo uno spettacolo, come lo intendiamo oggi, ma piuttosto un rito collettivo della pòlis. Si svolgeva durante un periodo sacro, in uno spazio consacrato (al centro del teatro sorgeva l'altare del dio). Il teatro assunse la funzione di cassa di risonanza per le idee, i problemi e la vita politica e culturale dell'Atene democratica: la tragedia parla di un passato mitico, ma il mito diventa immediatamente metafora dei problemi profondi della società ateniese, riuscendo a veicolare messaggi di tale rilievo d'interesse civile e sociale da coinvolgere il pubblico in maniera diffusa attraverso la "catarsi" (κάθαρσις, purificazione), concetto elaborato da Aristotele, secondo cui la tragedia pone di fronte agli uomini gli impulsi passionali e irrazionali (matricidio, incesto, cannibalismo, suicidio, infanticidio...) che si trovano, più o meno inconsciamente, nell'animo umano, permettendo agli individui di sfogarli innocuamente, in una sorta di esorcizzazione di massa. Le rappresentazioni delle tragedie ad Atene si svolgevano in occasione delle grandi Dionisie, feste in onore di Dioniso celebrate verso la fine di marzo. Le Dionisie erano organizzate dallo Stato e l'arconte eponimo, appena assunta la carica, provvedeva a scegliere tre dei cittadini più ricchi ai quali affidare la "coregia", cioè l'allestimento di un coro tragico: nell'Atene democratica i cittadini più abbienti erano tenuti a finanziare servizi pubblici come "liturgia", cioè come tassa speciale. Durante le Dionisie si svolgeva un agone tragico, cioè una gara fra tre poeti, scelti dall'arconte eponimo, ognuno dei quali doveva presentare una tetralogia composta di tre tragedie e un dramma satiresco; ogni tetralogia veniva recitata nello stesso giorno a partire dal mattino, così che le rappresentazioni tragiche duravano tre giorni, mentre il quarto giorno era dedicato alla messa in scena di tre commedie. Alla fine dei tre giorni di gara si attribuiva un premio al miglior coro, al miglior attore e al miglior poeta. La giuria era formata da dieci persone (una per tribù) estratte a sorte, che al termine delle rappresentazioni ponevano in un'urna una tavoletta in cui scriveva i nomi dei tre poeti in ordine di merito, infine venivano estratte cinque tavolette sulla base delle quali veniva proclamato il vincitore.
LE PRIME TRAGEDIELa tradizione attribuisce a Tespi la prima rappresentazione tragica. Delle sue tragedie sappiamo poco, se non che il coro era ancora formato da satiri e che fu certamente il primo a vincere un concorso drammatico. Gli altri drammaturghi dell'epoca furono Cherilo e Pràtina di Fliunte autore di trentadue drammi satireschi, che da quel momento affiancarono la rappresentazione delle tragedie. I più importanti e riconosciuti autori di tragedie furono Eschilo, Sofocle ed Euripide, che in diversi momenti storici, affrontarono i temi più sentiti della loro epoca.ESCHILO. Sarebbe stato Eschilo a fissare le regole fondamentali del dramma tragico. Regista e poeta, a lui viene attribuita l'introduzione della maschera, dei coturni e del secondo attore (rendendo possibile la drammatizzazione di un conflitto). La rappresentazione della tragedia assunse una durata definita (dall'alba al tramonto, nella realtà come nella finzione), e nella stessa giornata veniva presentata una trilogia, nella quale le tre parti erano "puntate" della medesima storia. Nonostante i suoi personaggi non fossero sempre unicamente eroi, quasi tutti avevano caratteristiche superiori all'umano e i pochi elementi reali non erano mai rappresentati nella loro quotidianità, ma in una suprema sublimazione. SOFOCLE. Le innovazioni che Sofocle introdusse riguardarono molti aspetti della rappresentazione tragica, dai dettagli più insignificanti (come i calzari bianchi e i bastoni ricurvi) fino a riforme più dense di conseguenze: introdusse un terzo attore, che permetteva alla tragedia di moltiplicare il numero dei personaggi possibili, aumentò a quindici il numero dei coreuti, ruppe l'obbligo della trilogia, rendendo possibile la rappresentazione di drammi autonomi, introdusse l'uso di scenografie. Rispetto a Eschilo, i cori tragici sofoclei si defilano dall'azione, partecipano sempre meno attivamente e diventano piuttosto spettatori e commentatori dei fatti. È di Sofocle l'introduzione del monologo, le lunghe 'tirate' che permettono all'attore di mostrare la sua abilità, e al personaggio di esprimere compiutamente i propri pensieri. La psicologia dei personaggi si approfondisce, emerge una inedita analisi della realtà e dell'uomo. Sofocle tentò di togliere l'enfasi (ónkos / ὄγκος) ai suoi personaggi, per restituirgli completamente la drammaticità, in un mondo descritto come ingiusto e privo di luce. EURIPIDE. Le peculiarità che distinguono le tragedie euripidee da quelle degli altri due drammaturghi sono la ricerca di sperimentazione tecnica attuata da Euripide in quasi tutte le sue opere e la maggiore attenzione che egli pone nella descrizione dei sentimenti, di cui analizza l'evoluzione che segue il mutare degli eventi narrati. La novità assoluta del teatro euripideo è comunque rappresentata dal realismo con il quale il drammaturgo tratteggia le dinamiche psicologiche dei suoi personaggi. L'eroe descritto nelle sue tragedie non è più il risoluto protagonista dei drammi di Eschilo e Sofocle, ma una persona problematica ed insicura, non priva di conflitti interiori. Le protagoniste femminili dei drammi, come Andromaca, Fedra e Medea, sono le nuove figure tragiche di Euripide, il quale ne tratteggia sapientemente la tormentata sensibilità e le pulsioni irrazionali che si scontrano con il mondo della ragione. STRUTTURA DELLA TRAGEDIALa tragedia inizia generalmente con un prologo (da prò e logos, discorso preliminare), che ha la funzione di introdurre il dramma; segue la parodo (ἡ πάροδος), che consiste nell'entrata in scena del coro attraverso dei corridoi laterali, le pàrodoi; l'azione scenica vera e propria si dispiega quindi attraverso tre o più episodi (epeisòdia), intervallati dagli stasimi, degli intermezzi in cui il coro commenta, illustra o analizza la situazione che si sta sviluppando sulla scena; la tragedia si conclude con l'esodo (èxodos). Inizialmente l’attore era subordinato al Coro e interagiva con esso, anziché con un altro attore; così facendo si riflette la struttura connettiva di una comunità, in cui il singolo si rapporta con la collettività. Ma ben presto prende importanza l'attore (il "protagonista"), che viene affiancato da un secondo attore ("deuteragonista") e poi (ad opera di Sofocle) da un terzo ("tritagonista"). A causa dell'interazione tra gli attori il baricentro dell'azione si sposta sul loro dialogo e il Coro tende a diventare quasi uno sfondo scenico, o per lo meno a perdere la funzione originaria. Gli attori parlano in trimetri giambici e non sono accompagnati da musica, mentre il Coro è continuamente accompagnato dal suono del flauto. Il compito del Coro è, anche, quello di spiegare al pubblico azioni e reazioni che avvengono sulla scena, le quali non sono di facile e immediata comprensione; è neutrale rispetto agli attori e alle loro azioni, e svolge la funzione di "narratore". LA TRAGEDIA NELLA STORIALa tragedia greca si stempera nel periodo romano. I Romani preferiscono infatti generi come la Commedia e le rappresentazioni teatrali sono represse duramente in epoca cristiana, sia per certe valenze sensuali proprie delle commedie, ma ancor più per la celebrazione di dèi e di valori pagani. Il medioevo è caratterizzato da molte rappresentazioni, per lo più a sfondo sacro ed edificante, ma difficilmente possiamo scorgervi un legame o una parentela con la tragedia, la quale rinasce, invece, in tempi più moderni, riallacciandosi in qualche modo alle epoche precedenti, ma anche trasformandosi e a volte fondendosi in forme nuove. Negli ultimi secoli il cammino della tragedia si diversifica: vi è quella che mantiene un rapporto stretto con la scena (es. Brecht) quella che diviene un genere letterario, quella che confluisce nell'opera lirica ("La Clemenza di Tito" musicata da Mozart o, senza più ambizioni di imitazione del teatro classico, l'"Elettra" di Strauss), quella che, al contrario, riafferma la sua vicinanza alla poesia pura (es. Alessandro Manzoni e Oscar Wilde), quella che reinterpreta i miti greci, o che rappresenta le tragedie sociali del presente (per esempio, I Cattivi pastori, di Octave Mirbeau), e così via.
La Commedia dell'Arte è un genere di rappresentazione teatrale che si sviluppò in Italia nel corso del Cinquecento. In origine veniva identificata con vari nomi: commedia
all'improvviso, commedia a braccio o commedia degli Zanni.
La definizione di Commedia dell’Arte compare nel 1750 ne “Il Teatro
Comico” di Carlo Goldoni. L' autore veneziano parla di quegli attori che
recitano "le commedie dell' arte" usando delle maschere e improvvisano
le loro parti, riferendosi al coinvolgimento di attori professionisti
(per la prima volta nel Teatro Occidentale abbiamo compagnie di attori
professionisti, non più dunque dilettanti), ed usa la parola "arte"
nell' accezione di professione, mestiere, ovvero l’insieme di quanti
esercitano tale professione. Commedia dell' Arte dunque come “Commedia
della professione" o "dei professionisti”. In effetti in italiano il
termine "arte" aveva due significati: quello di opera dell' ingegno, ma
anche quello di mestiere, lavoro, professione (le corporazioni delle
Arti e dei Mestieri). La recitazione assunse una nuova struttura e i testi da recitare si limitavano ad un canovaccio, dove veniva data una narrazione di massima indicativa di ciò che sarebbe successo sul palco. In Italia la Commedia dell'Arte sostituì la commedia erudita del quattro-cinquecento e molte tragedie e pastorali furono invase dalla presenza delle maschere. Arlecchino e gli altri zanni si trasformavano, in queste occasioni, in servi del tiranno o pastori arcadici, portando sempre e comunque il loro spirito irriverente dei buffoni di corte o quello dei poveri diavoli come già avevano fatto i giocolieri nelle sacre rappresentazioni medievali. La fortuna della Commedia dell'Arte riprende nell'ambito delle
avanguardie teatrali del Novecento come mito di riferimento di una "Età
dell'Oro" dell'attore. Negli anni Sessanta Dario Fo grazie al sodalizio con Franca Rame, figlia di una famiglia di commedianti itineranti che possedevano ancora vecchi canovacci, ebbe la fortuna di poter studiare tali documenti, testimonianze di un'antica cultura ormai estinta, di verificare la loro efficienza e di adattarli alle nuove esigenze, creando una serie di commedie e di monologhi tra cui “Mistero buffo”. Negli anni Ottanta, a seguito del grande successo della reinvenzione del carnevale di Venezia da parte di Maurizio Scaparro la Commedia dell'Arte italiana ritrovò successo in tutto il mondo con la Famiglia Carrara e il Tag di Venezia diretto da Carlo Boso. Grazie alla parallela attività di formatore, diverse compagnie di Commedia dell'Arte si formano in base agli insegnamenti di Carlo Boso. Tra queste vale forse la pena di ricordare, in Italia, l'Associazione Luoghi dell'Arte di Roma, la Compagnia Pantakin da Venezia e il Teatro Vivo di Ravenna.
Spazi teatrali e recitazione Le scenografie erano molto semplici con una piazza al centro del palcoscenico e due quinte praticabili sullo stile di quelle delle prime commedie del '500. Alla metà del secolo vennero costruiti dei veri e propri spazi teatrali dedicati a questo genere teatrale. Vennero costruiti, nelle principali città italiane i Teatri degli Zanni dei quali sono rimasti alcuni esempi non più funzionanti come il Teatrino di Baldracca a Firenze, il Teatro di Porta Tosa a Milano e l'ancora funzionante San Carlino a Napoli. A Parigi, che ospitò i comici dell'arte fin dal primo '600, le compagnie si esibivano all' Hotel de Bourgogne e in seguito nei Teatri della Foire. Le maschere L'artigianato della maschera da commedia riprende vita nel '900 a ridosso dell'esperienza strehleriana. Amleto Sartori, scultore, re-inventa la tecnica di costruzione della maschera in cuoio su stampo di legno. La maschera, che insieme al costume caratterizza fortemente lo stile di recitazione, viene spesso ad essere sinonimo stesso di personaggio. Le 'maschere' più celebri della Commedia dell'Arte sono:
Arlecchino Brighella Colombina
Pulcinella Pantalone Balanzone
Gli attori e le CompagnieGli attori della Commedia dell'Arte provenivano dai saltimbanchi e i ciarlatani di piazza che, per favorire i loro commerci, improvvisavano scenette comiche, in genere dialoghi, tra due attori. Nacquero da questa esigenza di attrazione commerciale i primi contrasti comici fra il padrone (chiamato in genere Magnifico) che rappresentava il prototipo del borghese, il mercante avaro e lussurioso, e il servo (denominato Zanni dal veneto-lombardo Zuan, Zane una contrazione del nome Giovanni come Gianni in italiano) che rappresentava il tipo del contadino inurbato furbo e malizioso, ma talvolta anche sciocco e pasticcione. Col trascorrere degli anni questi spettacoli popolari recitati nelle piazze e nelle fiere, cominciarono a strutturarsi con delle vere e proprie trame e i saltimbanchi in compagnie comiche. La compagnia più famosa, fra quelle antiche, fu la Compagnia dei Gelosi, formata da due vecchi, Pantalone e Graziano, due coppie d'innamorati, due zanni (Pedrolino e Arlecchino); infine c'erano le cosiddette parti mobili cioè che non sempre erano indispensabili alla trama come il Capitan Spavento, la Servetta (che poi assumerà il nome di Colombina) e la ruffiana.
Il termine mimo deriva da mimus, un prestito latino dal greco μῖμος (mîmos, imitatore), deverbativo da μιμεῖσθαι (mimêisthai, imitare), indica l'imitazione della vita reale e si riferisce sia al genere artistico sia all'attore che lo esercita. Nell'antichità tale etichetta copre sia forme di letteratura piuttosto sofisticata, non sempre destinata alla recitazione, sia generi di spettacolo più simili all'avanspettacolo o al cabaret, con numeri slegati fra loro, non sempre basati su veri e propri testi, con componenti di improvvisazione e largo spazio a musica, danza e a quella che oggi è intesa specificamente come "arte mimica". Per i greci il mimo era una breve rappresentazione realistica e buffonesca di vicende e caratteri tratti dalla vita quotidiana; al genere del mimo appartenevano le farse popolari spartane, quelle dei fallofori e quelle dei fliaci della Magna Grecia. Forme comiche popolaresche di mimo si ebbero anche a Roma, dove erano giunte con il culto della Magna Mater Cibele. Erano piccole scene comiche alle quali potevano prendere parte anche le donne. In epoca imperiale questo genere trionfò sugli altri generi comici, sostituendosi gradualmente all’atellana, ormai in decadenza. La fortuna del mimo si basava su canovacci schematici, improvvisazioni, canzoni, capriole e anche numeri di spogliarello delle mime. Sembra che le situazioni base fossero delle scenette a sé stanti, con equivoci piccanti, amori boccacceschi, o litigi clamorosi, lo spettacolo aveva spesso un finale brusco e a sorpresa, con un comico incidente conclusivo e un fuggifuggi generale. Gli attori del mimo recitavano sempre senza maschera, dunque la loro arte doveva ancora basarsi più sulla gestualità facciale e corporea che sulla voce e si chiamavano planipedes, perché recitavano senza calzari.Originariamente la rappresentazione di mimi era limitata quasi esclusivamente ai ludi florales (verso la fine di aprile). In seguito il mimo divenne una forma di spettacolo assai richiesta. La crescente voga di questi spettacoli nell'età di Cesare si ricollega al diffondersi di un gusto veristico che si distacca dalle tradizioni arcaiche. In un periodo di "letterarizzazione" della letteratura romana, il mimo e le atellane sono le prime forme d'arte di ascendenza italica ad essere poste per iscritto: non è casuale che generi considerati inferiori guadagnassero terreno quando i generi ritenuti elevati ne persero.Successivamente il mimo si distaccò sempre più dalla commedia, evolvendo verso forme di balletto e di recitazione muta: fu il grande successo del pantomimo (recitazione solo gestuale). Le forme tradizionali del teatro latino, la tragedia e la commedia erano ormai decadute: infatti, era venuta meno la capacità di rinnovamento, erano mancati validi autori di teatro, poco a poco si era verificata una dicotomia nei gusti del pubblico. L'élite colta pretendeva un'espressione letteraria sempre più elaborata, raffinata e problematica, esigenze soddisfatte soprattutto dalla letteratura di consumo privato, mentre, la massa urbana, cresciuta a dismisura, aveva subito un processo di degradazione culturale, che rendeva gradite quasi esclusivamente forme di spettacolo assai più semplici e spesso banalmente lascive, fino a perdere dignità letteraria Nel teatro moderno, con il vocabolo mimo, si è indicata una forma di spettacolo nata in Francia nei primi decenni del XX secolo in cui si fa a meno dell’espressione verbale, affidando al gesto e alla mimica la rappresentazione di stati d’animo, sentimenti e azioni. Il mimo moderno si basa quindi essenzialmente sulla comunicazione non verbale, spesso accompagnata dalla musica, dal ritmo o dalla danza. Questa nuova forma nasce dalla rivendicazione dell’assoluta autonomia espressiva del gesto, del segno visivo, non più considerato come surrogato della parola. Negli anni Trenta il mimo assunse particolare importanza grazie alle sperimentazioni di Etienne Decroux, Jean Dasté e Marcel Marceau. Come molti generi teatrali il mimo possiede inoltre una sua forma di coreografia. Rilevante è l’apporto che l’arte mimica ha fornito al cinema fin dai tempi del muto attraverso l’opera di attori come Charlie Chaplin, Buster Keaton e Jacques Tati. Al genere mimico possono appartenere anche altre forme di spettacolo, come quello dei clown, i pagliacci del circo, la cui comicità si basa essenzialmente sul gesto.
La sacra rappresentazione è un genere teatrale di argomento religioso sviluppatosi in Italia nel XV secolo. Con questo termine si intende la narrazione di un "fatto religioso" compiuta in maniera più articolata rispetto alla semplice lettura o declamazione di un testo. Fin dagli albori della civiltà l'uomo sentì l'esigenza di rappresentare, mediante il linguaggio gestuale e la danza, i propri sentimenti religiosi. Con riferimento alla cultura occidentale si può iniziare a parlare di “sacra rappresentazione” quando, durante la lettura di un testo religioso, compaiono due o più lettori dialoganti o con ruolo di narratore (come nella lettura della "Passione di Gesù Cristo" per la religione cattolica). Le caratteristiche che la distinguono da una normale lettura sono l'intento didascalico e il desiderio di immedesimazione nell'evento. Per la religione cristiana la prima rappresentazione sacra, che prevedeva l'intervento di esseri umani "figuranti", fu il presepe vivente di San Francesco d'Assisi del 1223 a Greccio. Tale tradizione sopravvive tutt'oggi e molti sono gli esempi di presepi viventi in tutto il mondo. Una delle prime testimonianze del teatro medievale sacro è del 970, quando il Vescovo di Winchester descrive una sacra rappresentazione vista probabilmente a Limoges, in Francia. La mattina di Pasqua un monaco, che interpreta la parte dell'Angelo, va a sedersi presso il Sepolcro; qui viene raggiunto da tre monaci che impersonano le tre Marie e si aggirano in cerca di qualcosa. Il monaco che simula l'angelo canta: "Quem quaeritis?" (Chi cercate?); 'azione prosegue con l'annuncio della Resurrezione e termina con il canto corale del Te Deum. Questa primitiva rappresentazione del testo evangelico s'inserisce all'interno della principale celebrazione cristiana, la messa di Pasqua. Questo tipo di rappresentazione nasceva dal bisogno dei fedeli che non conoscevano il latino di avvicinarsi alla Chiesa. Le prime prove fatte all'interno delle chiese ben presto ebbero bisogno di uno spazio scenico capace, poiché le più importanti sacre rappresentazioni erano costituite da scenografie multiple, dove apparivano contemporaneamente le varie scene della vita di Cristo. La testimonianza iconografica più importante, in questo senso, è la raffigurazione della cosiddetta Passione di Valenciennes dove convivono la casa della Madonna per l'Annunciazione, il Tempio della Presentazione, il Palazzo di Erode, il Paradiso e l'Inferno in una lunga sequela di costruzioni effimere (edicole). Inizialmente gli attori, in genere abitanti delle città in cui la rappresentazione si svolgeva, recitavano la loro parte immobili davanti al pubblico che si assiepava di fronte ai vari "quadri viventi" e si muoveva da una scena all'altra in una specie di Via Crucis. In seguito la rappresentazione prese vita e conquistò il centro della scena. In Francia si cercò di recuperare lo spazio rappresentativo degli antichi teatri romani e ciò aprì la stagione anche del teatro profano medievale che ripropose ai cittadini le antiche commedie di Plauto e Terenzio che, in seguito tradotte in lingua volgare dagli Umanisti, furono gli spettacoli antesignani del teatro rinascimentale Non si può parlare di rappresentazione sacra senza passare attraverso la descrizione della lauda drammatica. Tale rappresentazione racchiudeva in sé già tutte le caratteristiche di uno spettacolo teatrale con attori, costumi e musiche. La lauda trae le sue origini dalla ballata profana e, come la ballata, è composta da "stanze" per lo più affidate ad un solista o ad un gruppo da intendersi anche come coro. Il precursore della forma dialogica che porterà alla nascita della lauda drammatica fu Jacopone da Todi. La sua lauda più celebre è la "Donna de paradiso" (o "Pianto di Maria"), scritta in versi settenari e in cui, oltre alla Madonna, compaiono numerosi personaggi, come Gesù, il popolo e il nunzio fedele. A rappresentare le laude erano le cosiddette "fraternite" (poi "confraternite") composte spesso da chierici, ma anche da laici. Dalle fraternite si svilupparono poi successivamente i laudesi, i battuti, i disciplinati etc..La chiesa, intesa come spazio architettonico, diventò ben presto un ambiente troppo stretto per lo svolgimento delle rappresentazioni sacre, sia dal punto di vista volumetrico sia dal punto di vista riguardante la libertà espressiva. Si iniziò presto a costruire "palcoscenici" nei sagrati, all'esterno delle chiese, e la conseguenza fu proprio la nascita di rappresentazioni teatrali con tematiche profane (dal greco pro fanòs che significa proprio prima/fuori dal tempio). La musica divenne ben presto protagonista nelle rappresentazioni sacre; linee melodiche antiche lasciarono presto il posto prima a monodie accompagnate da strumenti musicali finché, nel Cinquecento, la polifonia diventò la protagonista di ogni produzione musicale. Emilio de' Cavalieri nel 1599 scrisse "Anima e corpo", portata in
scena nel 1600 nella chiesa di Santa Maria in Vallicella. Fu una vera e
propria rivoluzione musicale e da questo nuovo modo di intendere la
rappresentazione sacra proposto da de' Cavalieri nacque il genere
musicale denominato oratorio. Contemporaneamente in ambito profano si era sviluppato il melodramma,
genere caratterizzato da tematiche per lo più mitologiche, che veniva
rappresentato all'interno delle corti. Nell'oratorio, a differenza del
melodramma, non vi era l'esigenza puramente estetica di mostrare la
bravura dei compositori e degli interpreti mediante esecuzioni virtuose
e complesse, ma erano la semplicità e la linearità le vere protagoniste. La prassi compositiva dell'oratorio si divise in due correnti di pensiero: la prima legata alla lauda medioevale con il mantenimento della lingua volgare; la seconda utilizzò la lingua latina, considerata più elegante e meno legata all'immanenza della situazione umana. Il genere dell'oratorio toccò il proprio apice nel 1700. La struttura dell'oratorio in tale secolo diventò alquanto complessa e articolata e prevedeva organici strumentali notevoli e le composizioni in stile mottettistico contrappuntisco sostituirono i recitativi in stile monodico. In questo periodo il tema maggiormente preso in considerazione per la creazione degli oratori fu la "Passione di Cristo", con la nascita di due generi particolari di oratorio: la passione oratoriale, in cui i testi venivano presi direttamente dai Vangeli ed erano separati da corali arie ed interventi strumentali, e la Passione oratorio composta su di un libretto che teneva in considerazione le sacre scritture come spunto tematico, ma il cui testo era totalmente libero. Il maggiore esponente della Passione oratorio fu Johann Sebastian Bach. L'oratorio può essere accostato ad un altro genere sacro, praticato da molto più tempo: la Messa . Inizialmente le varie sezioni della Messa venivano cantate su musiche di autori diversi. Il primo compositore a scrivere autonomamente tutte le sezioni dell'Ordinarium Missæ fu Guillaume de Machaut, con la sua Messa eseguita nel 1364 in occasione dell'incoronazione di Carlo V. In seguito il genere divenne fonte inesauribile di ispirazione per tutti i musicisti. Basti pensare alle messe scritte da W.A. Mozart, alla Messa in SI minore scritta da J.S. Bach o alla "Missa solemnis" in RE maggiore di L. van Beethoven. In epoca tardo romantica, dopo l'esempio di Mozart, la Messa da Requiem divenne la variante più diffusa. Esempi straordinari sono il Requiem di J. Brahms (Ein deutsches Requiem), di G. Verdi e, nei primi del '900, di G. Fauré.
Teatro dell'assurdoIl Nuovo Teatro o Teatro dell’Assurdo è un genere teatrale sviluppatosi tra gli anni '40 e 60' del secolo scorso in America e in Europa. Il termine è stato coniato dal critico Martin Esslin, in riferimento a tre testi rappresentati all'inizio degli anni '50: "La cantatrice calva" di Ionesco, "La grande e la piccola manovra" di Adamov e "Aspettando Godot" di Beckett. Per Esslin è chiaro il riferimento al concetto filosofico di assurdità dell'esistenza di Albert Camus, come affiora dai suoi celebri romanzi. L'assurdo è anche legato alla filosofia esistenzialistica e alle considerazioni di Jean-Paul Sartre, Martin Heidegger, Karl Jaspers, e Gabriel Marcel e all'arte surrealista e dadaista. Verso l'inizio degli anni '50 la spinta
politica dell'immediato dopoguerra si esaurisce e i valori vengono
ribaltati a causa della modifica sociale e della liberazione delle
colonie. Alcuni drammaturghi abbandonano ogni logica per poter
descrivere la nuova sensazione che si sta rapidamente diffondendo tra
gli animi: il teatro cessa di seguire le regole convenzionali e diventa
"assurdo". Tra i maggiori esponenti del Teatro dell'Assurdo vanno ricordati, oltre a Beckett, Ionesco, Jarry e Adamov, anche Tom Stoppard, Jean Genet, il premio Nobel Harold Pinter e Dino Buzzati, quest'ultimo seppure in misura minore
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