Non voglio entrare
immediatamente nel merito delle polemiche e delle accuse reciproche
che si sono avute tra maggioranza ed opposizione riguardo alla legge
elettorale. Non perchè non abbiano una loro fondatezza, infatti già
immediatamente si capisce che più che di una legge elettorale si
tratta di una legge pre-elettorale (con il vago intento di limitare
i danni di una votazione sicuramente sfavorevole, se non addirittura
di conquistare la maggioranza parlamentare con la minoranza dei voti
grazie al sistema degli sbarramenti), ma perché è altrettanto
importante che si faccia contestualmente una ricognizione
politologica sul sistema elettorale che la sorregga, tanto più in
quanto a questo punto la sinistra, se salirà al governo, dovrà
inevitabilmente riaprire la questione che subì un colpo d’arresto
nel 1999.
Vorrei, con estrema
modestia, concentrarmi su questo punto e aprire una discussione
all’interno della sinistra giovanile perché penso sia importante
che –anche se senza pretese- la si apra anche tra di noi, svolgendo
se non altro il compito di familiarizzarci con i basilari fondamenti
della democrazia moderna, rispondendo così ad un aspetto importante
della questione generazionale: la riappropriazione della
cittadinanza politica da parte delle nuove generazioni. Questo
articolo, naturalmente non pretende di essere nulla di esauriente
ma soltanto un’introduzione al problema.
1. La
Costituzione
Innanzi tutto una
questione preliminare: il centrodestra sta portando avanti la
riforma elettorale in Parlamento con i suoi soli voti. Può un
sistema elettorale essere cambiato a colpi di maggioranza? Sì,
formalmente si.
E’strano che quel
capolavoro giuridico della nostra Costituzione abbia sorvolato su
questo punto. Sembra un basilare criterio di democrazia che le
‘regole del gioco’ siano concordate dalla stragrande maggioranza
(tradotto in forma: almeno 2/3 o referendum come previsto per le
leggi costituzionali). Che la legge elettorale non fosse una legge
tra le altre tuttavia era evidente, ma l’unica eccezionalità legale
che la Costituzione gli aveva riconosciuto era soltanto quella
relativa al divieto di procedura abbreviata per la sua modifica
(come per le leggi costituzionali). In ogni caso per sessant’anni
quel criterio democratico (che per cambiare la legge elettorale si
doveva coinvolgere l’opposizione) aveva agito sotto forma di legge
non scritta, alla quale paradossalmente, si appellò in Parlamento
Berlusconi in persona- con tono di solennità morale- facendo
abbandonare l’intenzione della sinistra di cambiare la legge
elettorale (1999).
Ma le leggi non
scritte soccombono facilmente ad una forza parlamentare che si è
distinta in tutti questi anni per mancanza di educazione politica e
così è avvenuto quel che avvenuto. Le dimissioni di una vecchia
guardia come Follini –aldilà delle strategie sottese- è estremamente
significativa da questo punto di vista, dato che una delle sue
motivazioni è stata appunto il mancato coinvolgimento della
sinistra.
Follini a parte,
l’Italia non è l’Inghilterra o la Germania e le regole devono essere
chiare e scritte. Non a caso erano i ‘nostri’ romani a dire verba
volant.
2. La
questione storico-politica
Aldilà del problema
costituzionale, che pure ora si è dimostrato importante, cerchiamo
di riannodare i fili della questione politica.
Se nella storia della
Prima Repubblica non sono mancati tentativi di ritoccare la legge
elettorale (la “legge truffa” del ‘53), è soltanto da un decennio
che la legge elettorale è diventata una questione politica primaria.
Più precisamente essa si impose dal basso contro il sistema
politico.
Nel 1991, quando Mario
Segni ed altri proposero il primo referendum sulla preferenza
unica, Craxi disse agli italiani“andate al mare”. Invece essi
votarono in gran numero(62,5%) e portarono alla vittoria il
referendum. La politica iniziò a sentire che s’iniziava a muovere
qualcosa dal basso, che la gente era stufa del potere
autosufficiente della politica e dei partiti, del sistema dei soliti
noti e ora richiedeva indietro la sovranità. Così si cercò di
correre ai ripari mentre gli scandali di Tangentopoli incrinavano
ulteriormente la credibilità della politica. Ma fu ancora un
referendum a imporre una svolta. Nel ’93 un nuovo referendum
(stavolta appoggiato da importanti esponenti politici come Augusto
Barbera e Franco Bassanini del Pds oltre che dai Radicali) impose il
maggioritario che poi diede vita all’attuale sistema misto (il
mattarellum, 75% maggioritario, 25% proporzionale).
Ma la questione non si
spense e ritornò urgente quando si evidenziarono le contraddizioni
del sistema vigente: la intatta possibilità dei ribaltoni (primo
governo Berlusconi: la Lega eletta nella coalizione di centrodestra
appoggia il governo Dini di centrosinistra) e la precarietà dei
governi (la caduta del governo Prodi nel 1996 con l’uscita di
Bertinotti). Nasce così il progetto della Bicamerale (1996)
presieduta da D’Alema. Essa aveva il progetto -che si insediava in
quel lungo processo di riforma della politica- di una organica e
condivisa riforma costituzionale del sistema di governo. Ma nel 1999
con l’abbandono dei tavoli da parte della destra il progetto fallì e
scaturì una nuova iniziativa referendaria intenzionata ad abolire il
proporzionale, che stavolta però non raggiunse il quorum.
3. La questione
attuale
Ora, la questione è
questa: una coscienza politica seria non può leggere quest’ultimo
risultato referendario come l’acquietarsi della crisi emersa negli
anni ’90 nel sistema del mattarellum e le intelligenze più
coerenti della sinistra lo sanno bene. Il problema sussiste e come !
La politica italiana –e non solo- non ha conquistato la credibilità
e la partecipazione quale si richiede ad uno stato moderno, cosa
che emerge amaramente nella resistente sfiducia della gente, e dei
giovani in particolare, nei confronti della politica. Certo il
compimento del progetto della modernità politica iniziata con la
Rivoluzione Francese (come la chiama Habermas) non può risolversi
con una legge elettorale e questa non può risolvere da sola un
problema che non è solo italiano, ma certamente in Italia è un
problema basilare a cui bisogna dare delle risposte, visto anche che
siamo l’unico paese in cui convivono tre sistemi elettorali
completamente diversi (Politiche, Regionali, Europee) con la
conseguente confusione che porta.
Il programma della
Bicamerale –aldilà dei limiti che ebbe- è ancora attuale: bisogna
trovare un sistema che garantisca da un lato la stabilità e
dall’altro rappresentanza ( pluralismo e peso contrattuale dei
cittadini rappresentati).
4. Perché la
riforma della casa delle Libertà non è una risposta?
Stiamo seguendo in
questi giorni l’iter parlamentare di una nuovo tentativo di riforma
elettorale voluta dalla sola destra. Oltre alle questioni di metodo
cui si è accennato, vi è una fondamentale questione di merito. Essa
introduce un proporzionale puro senza indicazione del candidato e
con una serie di sbarramenti che impongono coalizioni di partiti.
Per quanto riguarda il
requisito più importante (la rappresentanza) c’è un problema
di fondo: certo il proporzionale è una proiezione matematica delle
scelte dei cittadini, ma l’assenza di preferenze aumenta
smisuratamente e antidemocraticamente il peso dei partiti. Ciò
significa che le logiche interne dei partiti -che hanno una
struttura naturalmente gerarchica- vengono a prevalere in maniera
assoluta. Si toglie infatti al partito la preoccupazione di
scegliere il candidato giusto e ai cittadini la possibilità di far
valere il proprio dissenso. La politica si risolve in una loggia di
politicanti, la gente si allontana.
E’ vero che per
esempio anche in Germania c’è un proporzionale senza indicazione di
preferenza, ma bisogna dirla tutta: lì vi è un sistema di doppio
voto in cui oltre al voto al partito c’è -nella scheda elettorale-
il voto al proprio candidato nonché i partiti scelgono insieme agli
elettori i rappresentanti.
Nell’impossibilità di
una democrazia diretta un criterio democratico fondamentale è
quello che gli americani chiamano checks and balances
(controlli e bilanciamenti), cosa che non vale solo per il sistema
delle istituzioni ma anche per il rapporto cittadini-rappresentanti.
Con il sistema che vuole introdurre la Casa delle Libertà, invece,
la bilancia pende in maniera schiacciante dalla parte dei partiti.
Questo fa male alla partecipazione democratica della gente e anche
ai partiti stessi che –storia insegna- quando hanno mani libere
entrano in fisiologiche degenerazioni. Scriveva Montesquieu, che di
democrazia un po’ se ne intendeva: “il potere corrompe, il potere
assoluto corrompe assolutamente”.
L’istanza della
stabilità (che coinvolge anche la rappresentanza) è quella per
cui il cittadino deve poter, in una certa misura, scegliere un
programma di governo completo che sia effettivamente portabile a
termine, al quale il governo e la maggioranza è vincolato. Certo,
così si riduce un po’ la libertà di mandato del rappresentante, ma
ciò è certamente preferibile al corporativismo dei partiti cui
abbiamo assistito nella Prima Repubblica e che ha generato una
dinamica antidemocratica e antimoderna cui negli anni novanta la
gente a cominciato a rispondere. Questo requisito sembra essere
garantibile- con qualche rinuncia in termini di giustizia
matematica- in una maniera abbastanza accettabile dal bipolarismo.
I suoi vantaggi sono: creazione -prima del voto- di coalizioni di
governo con un programma definito cui i cittadini danno la loro
preferenza; quindi implicito vincolo dei partiti alla coalizione con
la quale sono stati votati; nonché la creazione di una dissociazione
di interessi (tra le due coalizioni) che gioca in favore della
democrazia. Il bipolarismo è ciò che produce certamente un sistema
elettorale maggioritario puro –in cui cioè in ogni collegio il
candidato più votato va direttamente in Parlamento. Ma in un paese
come l’Italia in cui non esistono solo due partiti (come
praticamente accade negli U.S.A. e nel Regno Unito), un sistema del
genere schiaccerebbe i partiti piccoli –e quindi anche il
pluralismo- a meno che non vi siano misure ad hoc studiate affinché
anche i partiti piccoli abbiano il peso che gli spetta (es. un
maggioritario che richieda la maggioranza assoluta dei voti o il
doppio turno come in Francia). La destra ha cercato di preservare
il bipolarismo con il sistema degli sbarramenti al di sotto dei
quali non si entra in Parlamento (10% per le coalizioni, 4% per i
partiti non coalizzati e 2% per i partiti coalizzati), con il premio
di maggioranza e con la legge “antiribaltone” introdotta nel
progetto di Riforma Costituzionale (che tralaltro è un altro
capolavoro politico).
Aldilà della bassezza
politica di una norma della riforma che incomprensibilmente non
conteggia ai fini del premio di maggioranza i partiti al di sotto
del 4% e che ha come fine neanche tanto implicito di danneggiare il
centrosinistra (vedi specchietto) dal punto di vista politologico non si capisce come dei
partiti che fanno una corsa elettorale separata, possano poi trovare
un accordo di governo stabile nel vero senso della parola. Se la
legge ‘antiribaltone’ (che manda a casa i parlamentari con la caduta
del governo) garantisce certo contro i ‘balletti’ della Prima
Repubblica e galvanizza la durata dei governi, la durata –come
ripete Sartori- non significa stabilità. Infatti, uno dei più
grandi difetti di questa legislatura è stata l’alta litigiosità di
una maggioranza duratura ma caratterizzata da ricatti e contentini
tra i vari partiti e che si è risolta -aldilà del merito- in
immobilismo politico se non per alcune leggi ad hoc (tra cui questa
elettorale).
Concludo questa modesta introduzione al problema, dicendo che
trovare una legge elettorale che risponda alle esigenze di
stabilità e rappresentanza non è semplice, ma quel che è sicuro è
che quello della legge elettorale è un problema serio di cui la
sinistra dovrà farsi carico: perché siamo in un periodo di grandi
cambiamenti (la globalizzazione economica, l’hi-tech ecc.) e di
grandi sfide (le nuove povertà, i nuovi disagi, i nuovi tipi di
conflitti) che se da un lato necessitano governi in grado di
governare e di incidere, dall’altro l’essenza della sinistra impone
che ciò non sia fatto a discapito della uguaglianza, della equità e
della partecipazione democratica.
di Antonio Albanese (Sg di Lauria)
SPECCHIETTO
2006: un
esito possibile, due risultati diversi |
Risultato
delle votazioni
Secondo alcuni recenti sondaggi pubblicati sulla stampa
ad oggi l'Unione otterrebbe complessivamente il
50% dei voti mentre la CdL conquisterebbe
il 45%
Con il sistema attuale questo risultato si tradurrebbe
nella seguente suddivisione di seggi:
Unione 363 seggi
CdL 263
(NB: da questo conteggio sono esclusi i Radicali
Italiani e Alternativa sociale di Alessandra Mussolini,
ancora non inseribili in una delle due coalizioni. In
particolare l'ipotesi di accordo tra Radicali/Sdi e
Nuovo Psi con la costituzione di un soggetto politico
che in teoria supererebbe il 4% potrebbe
controbilanciare i conteggi a favore dell'Unione) |
Distribuzione dei voti all'interno delle coalizioni
Queste percentuali di voto sarebbero così suddivise
all'interno dei poli:
Unione |
Ds |
21% |
Margherita |
12% |
Rifondazione Comunista |
5,5% |
Verdi |
3,5% |
Sdi |
3% |
Pdci |
2 |
Di Pietro |
1,5% |
Udeur |
1% |
Repubblicani - Sbarbati |
0,5% |
|
CdL |
Forza Italia |
18,5% |
An |
12,5% |
Udc |
6,5% |
Lega |
5,5% |
Nuovo Psi |
1% |
Repubblicani - la Malfa |
1% |
|
*in
grigio i partiti che rimangono sotto la soglia
del 4% e non parteciperebbero al conteggio per
il premio di maggioranza |
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Risultato
finale
In questa proiezione l'Unione perderebbe dunque
l'11,5% dei voti raccolti dai 6 partiti sotto il 4%,
mentre la CdL perderebbe solo il 2%.
Ai fini del premio di maggioranza dunque l'Unione
scenderebbe al 38,5% mentre la CdL al
43%, conquistando così il premio di maggioranza.
L'esito finale vedrebbe 340 seggi assegnati alla
CdL e 290 all'Unione. |
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