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La legge elettorale.

 

di Antonio Albanese

 

Non voglio entrare immediatamente nel merito delle polemiche e delle accuse reciproche che si sono avute tra maggioranza ed opposizione riguardo alla legge elettorale. Non perchè non abbiano una loro fondatezza, infatti già immediatamente si capisce che più che di una legge elettorale si tratta di una legge pre-elettorale (con il vago intento di limitare i danni di una votazione sicuramente sfavorevole, se non addirittura di conquistare la maggioranza parlamentare con la minoranza dei voti grazie al sistema degli sbarramenti), ma perché è altrettanto importante che si faccia contestualmente una ricognizione politologica sul sistema elettorale che la sorregga, tanto più in quanto a questo punto la sinistra, se salirà al governo, dovrà inevitabilmente riaprire la questione che subì un colpo d’arresto nel 1999.

Vorrei, con estrema modestia, concentrarmi su questo punto e aprire una discussione all’interno della sinistra giovanile perché penso sia importante che  –anche se senza pretese- la si apra anche tra di noi, svolgendo se non altro il compito di familiarizzarci con i basilari fondamenti  della democrazia moderna, rispondendo così ad un aspetto importante della questione generazionale: la riappropriazione della  cittadinanza politica da parte delle nuove generazioni. Questo articolo, naturalmente  non pretende di essere nulla di esauriente ma soltanto un’introduzione al problema.

 1. La Costituzione

Innanzi tutto una questione preliminare: il centrodestra sta portando avanti la riforma elettorale in Parlamento con i suoi soli voti. Può un sistema elettorale essere cambiato a colpi di maggioranza? Sì, formalmente si.

E’strano che quel capolavoro giuridico della nostra Costituzione abbia sorvolato su questo punto. Sembra un basilare criterio di democrazia  che le ‘regole del gioco’ siano concordate dalla stragrande maggioranza (tradotto in forma: almeno 2/3 o referendum come previsto per le leggi costituzionali). Che la legge elettorale non fosse una legge tra le altre tuttavia era evidente, ma l’unica eccezionalità legale che la Costituzione gli aveva riconosciuto era soltanto quella  relativa al divieto di procedura abbreviata per la sua modifica (come per le leggi costituzionali). In ogni caso per sessant’anni quel criterio democratico (che per cambiare la legge elettorale si doveva coinvolgere l’opposizione) aveva agito sotto forma di legge non scritta, alla quale paradossalmente, si appellò in Parlamento Berlusconi in persona- con tono di solennità morale- facendo abbandonare l’intenzione della sinistra di cambiare la legge elettorale (1999).

Ma le leggi non scritte soccombono facilmente ad una forza parlamentare che si è distinta in tutti questi anni per mancanza di educazione politica e così è avvenuto quel che avvenuto. Le dimissioni di una vecchia guardia come Follini –aldilà delle strategie sottese- è estremamente significativa da questo punto di vista, dato che una delle sue motivazioni è stata appunto il mancato coinvolgimento della sinistra.

Follini a parte, l’Italia non è l’Inghilterra o la Germania e le regole devono essere chiare e scritte. Non a caso erano i ‘nostri’ romani a dire verba volant.

 2. La questione storico-politica

Aldilà del problema costituzionale, che pure ora si è dimostrato importante, cerchiamo di riannodare i fili della questione politica.

Se nella storia della Prima Repubblica non sono mancati tentativi di ritoccare la legge elettorale (la “legge truffa” del ‘53), è soltanto da un decennio che la legge elettorale è diventata una questione politica primaria. Più precisamente essa si impose dal basso contro il sistema politico.

Nel 1991, quando Mario Segni ed altri proposero il primo referendum  sulla preferenza unica, Craxi disse agli italiani“andate al mare”. Invece essi votarono in gran numero(62,5%) e portarono alla vittoria il referendum. La politica iniziò a sentire che s’iniziava a muovere qualcosa dal basso, che la gente era stufa del potere autosufficiente della politica e dei partiti, del sistema dei soliti noti e ora richiedeva indietro la sovranità. Così si cercò di correre ai ripari mentre gli scandali di Tangentopoli incrinavano ulteriormente la credibilità della politica. Ma fu ancora un referendum a imporre una svolta. Nel ’93 un nuovo referendum (stavolta appoggiato da importanti esponenti politici come Augusto Barbera e Franco Bassanini del Pds oltre che dai Radicali) impose il maggioritario che poi diede vita all’attuale sistema misto (il mattarellum, 75% maggioritario, 25% proporzionale).

Ma la questione non si spense e ritornò urgente quando si evidenziarono le contraddizioni del sistema vigente: la intatta possibilità dei ribaltoni (primo governo Berlusconi: la Lega eletta nella coalizione di centrodestra appoggia il governo Dini di centrosinistra) e la precarietà dei governi (la caduta del governo Prodi nel 1996 con l’uscita di Bertinotti). Nasce così il progetto della Bicamerale (1996) presieduta da D’Alema. Essa aveva il progetto -che si insediava in quel lungo processo di riforma della politica- di una organica e condivisa riforma costituzionale del sistema di governo. Ma nel 1999 con l’abbandono dei tavoli da parte della destra il progetto fallì e scaturì una nuova iniziativa referendaria intenzionata ad abolire il  proporzionale, che stavolta però non raggiunse il quorum.

 3. La questione attuale

Ora, la questione è questa: una coscienza politica seria non può leggere quest’ultimo risultato referendario come l’acquietarsi della crisi emersa negli anni ’90 nel sistema del mattarellum e le intelligenze più coerenti della sinistra lo sanno bene. Il problema sussiste e come ! La politica italiana –e non solo- non ha conquistato la credibilità e la partecipazione  quale si richiede ad uno stato moderno, cosa che emerge amaramente nella resistente sfiducia della gente, e dei giovani in particolare, nei confronti della politica.  Certo il compimento del progetto della modernità politica iniziata con la Rivoluzione Francese (come la chiama Habermas) non può risolversi con una legge elettorale e questa non può risolvere da sola un problema che non è solo italiano, ma certamente in Italia è un problema basilare a cui bisogna dare delle risposte, visto anche che siamo l’unico paese in cui convivono tre sistemi elettorali completamente diversi (Politiche, Regionali, Europee) con la conseguente confusione che porta.

Il programma della Bicamerale –aldilà dei limiti che ebbe- è ancora attuale: bisogna trovare un sistema che garantisca da un lato la stabilità e dall’altro rappresentanza ( pluralismo e peso contrattuale dei cittadini rappresentati).  

 4. Perché la riforma della casa  delle Libertà non è una risposta?

Stiamo seguendo in questi giorni l’iter parlamentare di una nuovo tentativo di riforma elettorale voluta dalla sola destra. Oltre alle questioni di metodo cui si è accennato, vi è una fondamentale questione di merito. Essa introduce un proporzionale puro senza indicazione del candidato e con una serie di sbarramenti che impongono coalizioni di partiti.

Per quanto riguarda il requisito più importante (la rappresentanza) c’è un problema di fondo: certo il proporzionale è una proiezione matematica delle scelte dei cittadini, ma l’assenza di preferenze aumenta smisuratamente e antidemocraticamente il peso dei partiti. Ciò significa che le logiche interne dei partiti -che hanno una struttura naturalmente gerarchica- vengono a prevalere in maniera assoluta. Si toglie infatti al partito la preoccupazione di scegliere il candidato giusto e ai cittadini la possibilità di far valere il proprio dissenso. La politica si risolve in una loggia di politicanti, la gente si allontana.

E’ vero che per esempio anche in Germania c’è un proporzionale  senza indicazione di preferenza, ma bisogna dirla tutta:  lì vi è un sistema di doppio voto in cui oltre al voto al partito c’è -nella scheda elettorale- il voto al proprio candidato nonché i partiti scelgono insieme agli elettori i rappresentanti.

Nell’impossibilità di una democrazia diretta un criterio democratico fondamentale  è quello che gli americani chiamano  checks and balances (controlli e bilanciamenti), cosa che non vale solo per il sistema delle istituzioni ma anche per il rapporto cittadini-rappresentanti. Con il sistema che vuole introdurre la Casa delle Libertà, invece, la bilancia pende in maniera schiacciante dalla parte dei partiti. Questo fa male alla partecipazione democratica della gente e anche ai partiti stessi che –storia insegna- quando hanno mani libere entrano in fisiologiche degenerazioni. Scriveva Montesquieu, che di democrazia un po’ se ne intendeva: “il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente”.

 L’istanza della stabilità (che coinvolge anche la rappresentanza) è quella per cui il cittadino deve poter, in una certa misura, scegliere un programma di governo completo che sia effettivamente portabile a termine, al quale il governo e la maggioranza è vincolato. Certo, così si riduce un po’ la libertà di mandato del rappresentante, ma ciò è certamente preferibile al corporativismo dei partiti cui abbiamo assistito nella Prima Repubblica e che ha generato una dinamica antidemocratica e antimoderna cui negli anni novanta la gente a cominciato a rispondere. Questo requisito sembra essere garantibile- con qualche rinuncia in termini di giustizia matematica- in una maniera abbastanza accettabile dal  bipolarismo. I suoi vantaggi sono: creazione -prima del voto- di coalizioni di governo con un  programma definito  cui i cittadini danno la loro preferenza; quindi implicito vincolo dei partiti alla coalizione con la quale sono stati votati; nonché la creazione di una dissociazione di interessi (tra le due coalizioni) che gioca in favore della democrazia. Il bipolarismo è ciò che produce certamente un sistema elettorale maggioritario puro –in cui cioè in ogni collegio il candidato più votato va direttamente in Parlamento. Ma in un paese come l’Italia in cui non esistono solo due partiti (come praticamente  accade negli U.S.A. e nel Regno Unito), un sistema del genere schiaccerebbe i partiti piccoli –e quindi anche il pluralismo- a meno che non vi siano misure ad hoc studiate affinché anche i partiti piccoli abbiano il peso che gli spetta (es. un maggioritario che richieda la maggioranza assoluta dei voti o il doppio turno come in Francia). La destra ha cercato di preservare  il bipolarismo con il sistema degli sbarramenti al di sotto dei quali non si entra in Parlamento (10% per le coalizioni, 4% per i partiti non coalizzati e 2% per i partiti coalizzati), con il premio di maggioranza e con la legge “antiribaltone” introdotta nel progetto di Riforma Costituzionale (che tralaltro è un altro capolavoro politico).

Aldilà della bassezza politica di una norma della riforma che incomprensibilmente non conteggia ai fini del premio di maggioranza i partiti  al di sotto del 4%  e che ha come fine neanche tanto implicito di danneggiare il centrosinistra (vedi specchietto),  dal punto di vista politologico non si capisce come dei partiti che fanno una corsa elettorale separata, possano poi trovare un accordo di governo stabile nel vero senso della parola. Se la legge ‘antiribaltone’ (che manda a casa i parlamentari con la caduta del governo) garantisce certo contro i ‘balletti’ della Prima Repubblica e galvanizza la durata dei governi, la  durata –come ripete Sartori- non significa  stabilità. Infatti, uno dei più grandi difetti di questa legislatura è stata l’alta litigiosità di una maggioranza duratura ma caratterizzata da ricatti e contentini tra i vari partiti e che si è risolta -aldilà del merito- in immobilismo politico se non per alcune leggi ad hoc (tra cui questa elettorale).

Concludo questa modesta introduzione al problema, dicendo che trovare una legge elettorale che risponda alle  esigenze di stabilità e rappresentanza non è semplice, ma quel che è sicuro è che quello della legge elettorale è un problema serio di cui la sinistra dovrà farsi carico: perché siamo in un periodo di grandi cambiamenti (la globalizzazione economica, l’hi-tech ecc.) e di grandi sfide (le nuove povertà, i nuovi disagi, i nuovi tipi di conflitti)  che se da un lato necessitano governi in grado di governare e di incidere, dall’altro l’essenza della sinistra impone che ciò non sia fatto a discapito della uguaglianza, della equità e della partecipazione democratica.

di Antonio Albanese (Sg di Lauria)

 

SPECCHIETTO 

2006: un esito possibile, due risultati diversi

Risultato delle votazioni

Secondo alcuni recenti sondaggi pubblicati sulla stampa ad oggi l'Unione otterrebbe complessivamente il 50% dei voti mentre la CdL conquisterebbe il 45%

Con il sistema attuale questo risultato si tradurrebbe nella seguente suddivisione di seggi:
Unione 363 seggi
CdL 263
(NB: da questo conteggio sono esclusi i Radicali Italiani e Alternativa sociale di Alessandra Mussolini, ancora non inseribili in una delle due coalizioni. In particolare l'ipotesi di accordo tra Radicali/Sdi e Nuovo Psi con la costituzione di un soggetto politico che in teoria supererebbe il 4% potrebbe controbilanciare i conteggi a favore dell'Unione)

Distribuzione dei voti all'interno delle coalizioni

Queste percentuali di voto sarebbero così suddivise all'interno dei poli:

Unione

Ds

21%

Margherita

12%

Rifondazione Comunista

5,5%

Verdi

3,5%

Sdi

3%

Pdci

2

Di Pietro

1,5%

Udeur

1%

Repubblicani - Sbarbati

0,5%

 

CdL

Forza Italia

18,5%

An

12,5%

Udc

6,5%

Lega

5,5%

Nuovo Psi

1%

Repubblicani - la Malfa

1%

 

*in grigio i partiti che rimangono sotto la soglia del 4% e non parteciperebbero al conteggio per il premio di maggioranza

 

Risultato finale

In questa proiezione l'Unione perderebbe dunque l'11,5% dei voti raccolti dai 6 partiti sotto il 4%, mentre la CdL perderebbe solo il 2%.

Ai fini del premio di maggioranza dunque l'Unione scenderebbe al 38,5% mentre la CdL al 43%, conquistando così il premio di maggioranza.

L'esito finale vedrebbe 340 seggi assegnati alla CdL e 290 all'Unione.

Fonte: rainews24.it



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