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La prima guerra globale |
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Dunque “ancora tuona il cannone […] e ancora ci porta il vento”. I
propositi di pacificazione dell’umanità, che ad ogni ulteriore
manifestazione del lugubre orrore della guerra sembrano radicarsi con
sorprendente fermezza nei progetti di ogni politica internazionale, si
sono nuovamente dissolti nei palazzi che contano. All’emergere di una
nuova condizione di criticità in una delle tante ancora irrisolute e
tormentate questioni internazionali, quale quella irachena, il ricorso
alle armi è stata ancora una volta immediato e peraltro da tempo
premeditato.
Tuttavia le nefandezze di quest’ennesimo evento bellico è nelle
condizioni di evidenziare particolari eccezionalità. Si configura in,
primo luogo, come una iniziativa militare di compiuta e ampliamente
riconosciuta illegittimità. Manifestazioni di contrarietà emergono in
riferimento non solo a conosciute convinzioni morali, ma anche sulla
base di concrete ragioni politico-giuridiche. Sono infatti diverse e
in linea generale piuttosto effimere, le motivazioni addotte dalla
coalizione anglo-statunitense a giustificazione dell’azione bellica,
in particolare la più sostenuta delle tesi difensive (la dotazione di
armi di distruzione di massa da parte del regime iracheno) oltre a non
fruire del credo della maggioranza dell’opinione pubblica mondiale, è
stata pesantemente invalidata dall’ONU. Per quanto dettagliate
verifiche avevano effettivamente appurato l’esistenza in Iraq di tali
armamenti, l’ispettorato dell’ONU era stato in grado d’ottenere dal
governo iracheno l’impegno ad una loro rapida distruzione. Aleatori e
deficitaria di fondati indizi si sono invece rilevati i sospetti sul
coinvolgimento della dittatura di Hussein nelle attività del
terrorismo islamico. Proprio in merito alle ragioni finora trattate,
le Nazioni Unite non ha riconosciuto validità giuridica all’iniziativa
statunitense, accrescendone ulteriormente l’ignobiltà. Un ignobiltà,
del resto, che una porzione estesa e variegata dell’opinione pubblica
avveva già evidenziato di concepire nelle manifestazioni della sua
netta contrarietà. Proprio l’ampiezza e l’eterogeneità del dissenso
sono tra i più interessanti elementi di novità dell’evento bellico.
Testimoniano l’enorme progresso della “cultura della pace”,
suffragando un impegno più concreto per la sua attualizzazione. Al
tempo stesso, tuttavia, tutto questo rappresenta un ulteriore conferma
della distanza permanente tra l’attività dell’ambito istituzionale
della politica e la volontà della cittadinanza.
Viene da chiedersi, sulla base delle considerazioni effettuate, se non
sia pura follia a muovere l’operato politico di George Bush.
L’assurdità della strategia della guerra preventiva emerge evidente,
nell’ambito di una prospettiva di valutazione sinceramente democratica
dei rapporti interumani di qualsiasi livello. Tuttavia il frenetico
ardore belligerante di George e soci sembra poter essere contemplato
in una logica imperialistica desumibile dalla sua finalizzazione alla
costruzione, da parte degli Stati Uniti, di un’ “egemonia benevola”
(l’espressione non è mia, ma di autorevoli analisti americani), in
grado di garantire attività di monitoraggio della politica mondiale,
orientate alla tutela di una pace di interessi parziali e di benessere
esclusivo.
Un ulteriore elemento di caratterizzazione dell’evento bellico è la
sua globalità; particolare diverso dalla mondialità. La globalità si
riferisce, infatti, all’ ampiezza del sistema di interessi, che
muovono attorno alla guerra. In primo luogo, come già sottolineato,
l’azione militare per gli USA sazia un appetito di supremazia in stile
principesco, con la quale il governo repubblicano tenta di
interpretare l’angoscia nichilista dell’intera nazione. Ad accentuare
ulteriormente tale ardore, si pone la voracità di un economia che
divora risorse e che pertanto non può permettersi lo sperpero di
un’allettante “geologia” come quella dell’antica terra di Mesopotamia.
Non si eccede in un’ espressione di cupo pessimismo, prospettando per
la guerra nefaste conseguenze. Ogni guerra è foriera elusivamente di
orrore e devastazione. La caduta del regime di Hussein è stata pagata
con un sacrificio immane della popolazione civile e difficilmente
garantirà la costruzione di uno stato democratico in Iraq. Mancano
infatti imprescindibili pressuposti socio-culturali e una sincera
intenzione della coalizione anglo-statunitense. Al contrario è
concreta ed elevata la probabilità di una recrudescenza della ferocia
terroristica, dalla quale nessun Paese può ritenersi immune. Inoltre
in una sorta di circolo viziosi, questo potrebbe consolidare in
Occidente la radicalità di quella tendenza, ottusamente reazionaria e
in parte ispiratrice della stessa iniziativa militare, di
contrapposizione al fondamentalismo islamico l’integralismo di
un’insulsa superiorità di religione e di civiltà.
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