Orfani e adozioni
Senza padre e madre: “Arrangiarsi e
lavorare”. Nonno Oreste racconta la sua adolescenza durante lo
sfollamento verso i paesi vicini
di Federica Vicalvi e Rosa Gatta
“Un
terribile ricordo che ancora oggi mi porto nel cuore”. Così
definisce nonno oreste, 73 anni, lo scenario del dopoguerra. Un mare
di lacrime. Come unici rumori bombe che scoppiano ancora e urla
della gente afflitta dalla morte dei cari. L’abbiamo intervistato.
Il suo racconto comincia così. “E’ il febbraio 1944, ho 13 anni. Da
Cassino mi trasferisco con la mia famiglia ad Aquino. La nostra
abitazione è una casa di campagna abbandonata. Ci sono tante
persone, dormiamo per terra”. Come è ricominciata la vita a Cassino?
Beh! Questa è una domanda un po’ difficile perché per capire
veramente le mie sensazioni e quelle degli altri bisogna viverle.
L’unica cosa che posso fare è raccontarvi la mia vita o almeno ciò
che ricordo. Sai, un diario personale io non l’ho mai avuto, eppure
è come se quel diario nel mio immaginario esistesse ancora dato che
alcuni eventi che non avrei mai voluto vedere non si tolgono davanti
ai miei occhi. Così ritorno a Cassino, vivo male. Pensa un po’: 15
persone in una stanza! L’ U n i c a cosa che è rimasta della mia
vecchia casa. Sono poche le terre coltivabili, dovunque cammino
trovo reperti bellici. Per fortuna non li ho mai toccati ma un mio
compagno di infanzia, purtroppo si. Muore davanti ai miei occhi:
stava giocando ingenuamente con una bomba. Ed è passato anche quest’anno.
Mia madre è rimasta sola con 7 figli. Si dà da fare, ma purtroppo la
malaria colpisce anche lei che muore dopo tre mesi. Rimango solo con
i miei fratelli e le mie sorelle. Ho 14 anni e già sono
responsabile, maturo, devo pensare alle faccende di casa, devo darmi
da fare per assicurare un pasto al giorno. Il problema che ci
affligge e ci preoccupa è come riuscire a ricostruire la nostra
casa. Qualche volta siamo riusciti a prendere un po’ di calce, altre
volte abbiamo preso la paglia per dare rifugio al bestiame. Man mano
tutto comincia a ritornare alla normalità. Ricomincia la scuola
nelle baracche svizzere, c’è solo una maestra. Anche le strutture
sanitarie ed alcuni negozi sono in baracche. Riprende anche il
mercato. Si vendono il bestiame, la frutta, la verdura, i legumi ed
il vestiario. Si acquista la stoffa e le donne cuciono gli
indumenti. Alcuni di noi hanno per vestiti delle coperte dei
tedeschi morti. Arrangiarsi e lavorare: queste sono le parole
d’ordine del nostro tempo. Come dicevo prima ci sono alcuni aneddoti
che non dimenticherò mai, sono orribili e spaventosi.
Un
giorno, mentre stavo andando a San Silvestro con alcuni miei amici
per prendere la calce, sono entrato in una camera. Ho visto uno
scenario spaventoso, un incubo: corpi bruciati e nudi uno sopra
l’altro come oggetti, teste disperse. Non riesco a cancellarlo dalla
mia mente. Un’altra volta, invece, mentre giocavo nei campi, sono
passati alcuni tedeschi che volevano il nostro bestiame. Ho cercato
di impedirglielo ma hanno sparato. Per fortuna non mi hanno colpito.
Ne ho passate tante, io, durante la guerra. Ero piccolo ed ingenuo.
Avevo la vostra età eppure ricordo tutto, ricordo soprattutto con
molta amarezza e dolore quando uno dei miei fratelli fu chiamato per
combattere all’estero. Non è tornato più: sarà dichiarato disperso,
noi abbiamo sempre cullato il sogno di riabbracciarlo”.
Intervista a Domenica Tronchi.
Il dramma del dopoguerra: lutti, disgrazie e malattie mentre ci
si arrangia per sopravvivere
di Cecilia Di Vincenzo
Ottantuno anni, capelli corti e bianchi, voce affaticata, sull’
espressione il marchio atroce della sofferenza: la vediamo così,
Domenica Tronchi, protagonista cassinate della nostra intervista.
Nasce nel 1922, in una famiglia numerosa e immersa nella guerra.
Vive anni bui la sua generazione: di odio, di povertà, di perdita
delle libertà civili ed in molti casi di quella individuale. In
questi anni contrae l’ epatite, numerose infezioni e la malaria, che
la fa cadere in coma – di cui ricorda ogni cosa - . Ma a breve si
risveglia da questo viaggio infernale. “Morta e resuscitata”, la
definiscono i dottori. “Qualcuno, lassù, avrà compiuto un miracolo”,
ci dice. E’ da questa agghiacciante esperienza che Domenica ci
trasmette la sua paura nei confronti della morte e il suo forte
attaccamento alla vita. Nel 1944 si rifugia con i familiari in una
grotta a Montecassino. Naturalmente non c’è luce, né riscaldamento;
l’ acqua è sporca e il cibo è razionato al massimo; spesso la notte
con la sorella ruba al papà un po’ di cibo nascosto.
Nell’ estate di quell’ anno la guerra passa oltre e Domenica ha già dovuto assistere
a numerose disgrazie familiari, che farebbero venire la pelle d’ oca
anche al più grande regista di film drammatici. Il 22 ottobre sposa
Luigi De Santis, l’ attuale marito, che lavora quando capita come
muratore. Insieme vanno a vivere in una baracca al Colosseo. Nel ’46
nasce il primo figlio. Ma la guerra, seppur cessata, continua a
mietere vittime all’ interno della sua famiglia. La ricerca delle
“schegge di guerra” è un “lavoro” molto diffuso a quei tempi perché
fonte di guadagno seppur modesto: dalle bombe, infatti, si ricava la
polvere da sparo che viene poi venduta, il rame e l’ ottone. Nel ’49
un fratello adottivo, Antonio, rimane senza l’ avambraccio sinistro
a causa dell’ esplosione di una di quelle bombe. Sempre nel luglio
dello stesso anno, un altro fratello, Giuseppe, 26 anni. Accade
tutto in un tragico attimo: l’ esplosione che disintegra il corpo,
il silenzio improvviso, le grida dei familiari che già avevano
intuito tutto. Poi lo shock. E con un coraggio sovrumano la madre
che raccoglie pezzo per pezzo i resti dell’ adorato figlio. Li
poggia con cura nella sacca del grembiule e poi, sempre con la
stessa ardua attenzione, nella bara. Un dolore immenso, infinito. L’
anno dopo, altra paura. Un secondo fratello, Antonio, rimane anch’
egli mutilato dalle schegge, che non gli risparmiano gli occhi
(resterà cieco per il resto della vita), una mano e tre dita dell’
altra. Insomma, una tragica storia quella di Domenica. Quella di una
donna forte e coraggiosa, che non ha esitato a dare un grande
contributo nel rivivere, attraverso i ricordi, la sua dolorosa
esperienza.
Nelle foto: Oreste Nardone, i figli di Cassino in
partenza affidati a famiglie del Nord Italia, giovani, che,
per sopravvivere, si danno alla raccolta di materiale bellico e la
signora Tronchi, con i figli, nel 1957
![pag. 6](images/button60.gif) |