Il ritorno, increduli, nella città scomparsa
Sono i contadini
i primi che rientrano a Cassino
Incontro a scuola con un ragazzo e un bambino di allora: l'ex
sindaco Antonio Ferraro e il maestro Sergio Saragosa
di Ilaria Burmo
“Furono i contadini i primi a tornare nella Cassino ormai
distrutta- dice il dottor Antonio Ferraro. Non potemmo trattenere le
lacrime alla vista di quella che fino a poco tempo prima era stata
la nostra amata città.” Oggi il dottor Ferraro ha 77 anni. E’ venuto
nella nostra scuola a raccontarci quella che a noi potrebbe sembrare
una storia irreale, ma che purtroppo molti hanno vissuto con
angoscia. Traspare dalle sue parole una velata tristezza ed una
sottile amarezza riguardo ad allora, ma nei suoi occhi c’è anche una
forte nostalgia della sua giovinezza. Così l’ex sindaco di Cassino
inizia a parlare della città ormai fantasma. Anche se proibito, dopo
la liberazione, fecero ritorno a Cassino anche i cittadini che si
erano allontanati per sfuggire la guerra. Abitazioni distrutte;
negozi, edifici un tempo caratteristici della città, piazze erano
entrate a far parte dei tristi ricordi degli sfollati cassinati.
L’unica cosa che rimaneva era la malaria. Si distingueva in maligna,
che portava sicuramente alla morte, e benigna. Ma anche per quella
benigna molte volte si moriva: la sanità non aveva fatto ancora
buoni progressi ed era a livelli molto bassi dappertutto. Medici e
medicine scarseggiavano. I campi erano incolti e colmi di mine e
granate interrate. Per questo furono in molti a perdere purtroppo la
vita, mentre cercavano di far tornare il campo come una volta o
coltivare qualcosa. Ma tutto era inutile: ormai la città era
diventata una palude e, quindi, il cibo per le famiglie scarseggiava
sempre di più. La città era stata dichiarata zona infetta. In alcune
famiglie il cibo che si consumava era base di erbe selvatiche,
mentre solo i più fortunati avevano le riserve di scatolette donate
dai soldati. Del famoso monastero, in cui da tantissimo tempo
c’erano stati i più importanti tesori religiosi, libri e reperti
storici, non era rimasto che un enorme ammasso di macerie. Ora ci si
doveva dedicare alla ricostruzione di Cassino e dell’Abbazia. Solo
più tardi, però, il Consiglio dei Ministri stanziò contributi per la
ricostruzione di molte città italiane, tra cui la nostra. Per
dirigere tutto furono nominati dal Prefetto un sindaco, Gaetano Di
Biasio, e un vice sindaco, Tancredi Grossi. Come sede del comune fu
scelta provvisoriamente una casa colonica a S.Antonino. Nell’
“ufficio” il minino indispensabile: un modesto scrittoio con un
calamaio, un pennino e qualche sedia. Le stanze del comune erano
spartane, come tutto lo era allora. Ogni giorno nella sede del
comune si presentavano casi davvero seri di gente ammalata che
reclamava i propri diritti, lamentava il cibo mancante, e
addirittura l’assenza di un posto dove vivere. Solo più tardi si
cominciarono a montare le baracche in diverse zone della città. Il
problema più grande nelle famiglie era la fame, oltre un luogo dove
alloggiare. Mancavano olio e sale, oggi fondamentali per la cucina.
Il sindaco, attraverso la radio, lanciò un grido d’aiuto al mondo.
Fu così che nacque la famosa “campagna del latte”: arrivarono dal
Brasile mucche da latte(che saranno assegnate ai contadini) e mais.
Assidui erano i pacchi dall’ America: gli emigrati, generosi, dal
grandissimo Paese mandavano ai parenti in difficoltà abiti, scarpe e
generi di prima necessità. L’enorme quantità della disoccupazione
determinava un’ alimentazione insufficiente e l’immediato insorgere
di malattie causate dalla scarsa igiene. L’acqua potabile era poca
e, per questo, si doveva andare a prenderla dai pozzi delle
campagne. Un’ altra questione da risolvere era quella degli orfani.
Molti di loro furono mandati in colonia al Nord del nostro Paese,
dove poi trovarono sistemazione. Venivano affidati a famiglie
benestanti. Alcune volte, però, erano anche i più poveri ad
adottarli: allora, infatti, davano a queste famiglie una determinata
quota di denaro al mese. L’adozione di un orfano aiutava una
famiglia a sopravvivere. Durante la ricostruzione della città
cominciarono a sorgere nuove scuole. Una delle prime fu l’Istituto
delle Suore Stimatine, seguita poi da un’altra scuola situata dietro
l’attuale chiesa di S. Antonio. Anche tra le baracche nacquero un
asilo e una scuola elementare. Come non rattristarsi alla vista di
quella città un tempo tranquilla e che ora era solo fonte di grande
dolore per i suoi abitanti che, in quelle condizioni, non la
riconoscevano più e che rivolevano a tutti i costi la Cassino di
sempre: accogliente, gioiosa, serena… Il dottor Ferraro, terminando
il suo discorso, ci ha detto: “Non è stato facile ricostruire. E’
stato un processo lento ma progressivo. La città di oggi è il frutto
della volontà e della tenacia dei cittadini. Amatela, è la nostra,
la vostra città.”
Riprende la scuola
Le tabelline sul palmo della mano
Ci si riscalda col carbone portato da casa
di Lorella Palombo e Flavio Lena
“E’ l’aratro che traccia il solco e la spada lo difende”. Sulla
copertina dei quaderni dei bambini che frequentavano le scuole
elementari, di solito, c’era scritto così. Il dopoguerra? Beh,
naturalmente anche i bambini lo hanno vissuto. Uno di questi è il
maestro Sergio Saragosa, che a quei tempi frequentava la scuola
elementare. Oggi è un anziano signore, gentile, simpatico... ma nei
suoi occhi mentre ci parla di quei tempi si leggono chiaramente
stanchezza e paura. Occhi che hanno visto immagini raccapriccianti,
che hanno buttato lacrime, che hanno visto l’orrore e la sofferenza
della guerra. Ma, nonostante ciò, sono occhi che hanno ancora la
forza e la voglia di guardarne altri e di testimoniare un’esperienza
maledettamente unica. A noi, che per fortuna non viviamo e non
abbiamo vissuto da vicino un’esperienza cosi tragica, il maestro ce
l’ha voluta testimoniare perché è giusto che anche i giovani la
conoscano, che non si ripeta più un errore tremendamente
imperdonabile. Il 10 settembre del ’43 viene bombardata per la prima
volta Cassino. Case distrutte, continua sofferenza, condizioni di
via disumane. In brevissimo tempo tutto ciò fa sì che i cassinati
vivano nella paura, nella speranza che quelle crudeltà abbiano fine
al più presto. Certo, “la speranza è sempre l’ultima a morire”, come
si suol dire, ma la fine di quelle frustrazioni, di quelle ingiuste
morti e di quelli orrori, avverrà ancora tra due lunghissimi anni.
Anni di miseria, di carestia, di ingiustizie. Ma pur sempre anni che
vengono vissuti con timore, nostalgia di pace, paura di morire, ma
soprattutto con coraggio. Alla fine della guerra questo sentimento
spinge la gente a ricominciare da zero, a tirare avanti quel poco
che si ha. Certo, gli adulti fanno tutto il possibile per mandare
avanti una famiglia, per far crescere i propri figli, per mandarli a
scuola. Ma, considerate le circostanze, erano pochissimi coloro che
andavano a scuola: non c’era abbastanza denaro, per cui solo chi
poteva permetterselo ci andava, i più ricchi. A volte però, le
famiglie povere, erano costrette ad indebitarsi purché i figli
andassero a scuola, per assicurarli un futuro migliore. Il maestro
Saragosa ci racconta che le scuole erano prive di riscaldamenti,
perciò ognuno si portava da casa una “scatoletta” con del carbone-
In prima elementare, le materie erano pressappoco quelle di oggi,
però c’ era anche la cosiddetta “bella scrittura”, e il voto in
condotta. I compiti per casa erano esercizi alternati e riassunti.
In quarta elementare si ripetevano ogni giorno le tabelline e chi
non le aveva imparate doveva riscriverle dieci, venti, trenta volte
sul quaderno. Sul banco c’era il calamaio che conteneva inchiostro.
Col pennino si intingeva nell’inchiostro e spesso capitava di
macchiare il quaderno. Al contrario di oggi, l’insegnante poteva
picchiare gli alunni con la tanto temuta bacchetta. Di solito,
quando gli alunni venivano interrogati alla cattedra, si scrivevano
le tabelline sul palmo della mano. Come oggi, i ragazzi per paura di
sbagliare, di prendere un brutto voto, usano strategie particolari.
Forse le nuove generazioni le hanno imparate da quelle precedenti.
D’altronde ogni età ha i suoi pregi e le sue difficoltà che poi si
modificano col passare del tempo. Ma bisogna ricordare ed ammettere
che i bambini e i ragazzi di quegli anni erano molto meno
avvantaggiati di noi eppure si accontentavano di poco o niente. Oggi
forse si pretende un po’ troppo, ma di certo non dipende da noi
bensì dalle possibilità di cui godiamo e dalla nostra sempre più
avanzata società.
Nelle foto il dr Antonio Ferraro e il maestro Sergio
Saragosa
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