VERSI DI-VERSI

(di Roberto Sensoni)

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Roberto Sensoni - 2005

 

 

 

 

PREFAZIONE

Ho incontrato Roberto Sensoni, già apprezzato scrittore noir/fantapolitico, in occasione della presentazione della sua ultima fatica letteraria: “Ulisse Schittzer – 2005… La Svolta”. Discutendo con lui, mi disse che scriveva anche poesie. Gli chiesi di mostrarmele. Fu una rivelazione! Mai, nella vita, avevo incontrato tanto denso coagulo di duro realismo, misto ad umana dolenza: nessuna mezza misura, autentica espressione moderna ed attuale di dolore esistenziale legato al quotidiano vivere di tutti noi.

In queste liriche, colpisce la veemenza, la forza distruttiva della parola, che scava nel profondo dell’anima alla ricerca di quei colori d’ombra, oscuri ed insopportati, che appartengono comunque all’imperfezione umana, valori e sentimenti comunemente definiti negativi, ma che, per un effetto catartico, vengono esorcizzati, metabolizzati, infine escreti in un moto di vera ed infinita liberazione, e l’uomo, finalmente, prende coscienza di sé e accetta anche le sue parti peggiori, in un atto di grande responsabilità.

Ma la vera grandezza di Sensoni sta nell’incastonare queste gemme di morte e dolore in un fulgido gioiello fatto di nobile ed antico metallo, visibile solo a chi, tra le righe, riesce a cogliere il grido dell’uomo che, di fronte a tale conflitto, accetta di vivere fino in fondo la sua condizione di umana imperfezione, in un grande atto di trascendenza e di rispetto verso il Superiore, il Divino, L’Assoluto.

E tutto ciò, nei tempi nostri, tempi moderni, è veramente cosa rarissima!

 

(La Spezia, 25/11/02 - Marino Tomà).

 

 

 

 

 

 

"La postazione da cui Roberto Sensoni osserva e descrive la realtà è sicuramente quella dell'esperienza maturata nel corso di una vita, ma anche quella di un poeta deciso a parlare, a comunicare se stesso e quindi a rapportarsi col mondo attraverso la sua lirica. Una sensazione, questa, che si ha sin dalla prima lettura dei testi inclusi in questa raccolta dal titolo suggestivo "Versi Di Versi"; titolo che in qualche modo racchiude il senso profondo del lavoro di questo autore, teso proprio a creare un continuo gioco di rimandi tra una poesia e l'altra, tra un verso e l'altro, costruendo così un filo rosso di ricerca non solo letteraria, ma personale e umana. La strada intrapresa da Sensoni, infatti, è quella difficile e tortuosa della conoscenza che passa attraverso un viaggio interiore e una profonda riflessione rivolta verso se stesso, ma anche attraverso una continua dialettica con la realtà, spesso raffigurata nella sua accezione più dura e arida. Penso per esempio a "La terra assetata e riarsa,/ mostra crepe che s'aprono ovunque,/ e preludono al nulla,al vuoto deserto.../ i rari cespugli d'erba ingiallita,/ esausti,/ s'inchinano sotto l'iniqua potenza del maglio di fuoco..." (da Miraggio) in cui alla descrizione nitida di una realtà spoglia si contrappone l'immaginifico, l'onirico del "maglio di fuoco"; oppure a "Lontano, presso un blindato colpito,/torme di cani si contendon carogne/ che, d'umano, ormai, han soltanto le forme.../ Più da presso, sulle rive sassose d'un lago di fango,/ morenti,/ d'illusione bevono un sorso,/ le ultime creature esistenti..." (da Tramonto), in cui la raffigurazione poetica travolge anche il sentimento, il desiderio di fuga e l'impossibilità di farlo. Il tutto senza dimenticare l'aspetto più puramente lirico del testo che si confronta anche con una possibile ricerca di musicalità, in grado di recuperare ove possibile l'assonanza e un ritmo morbido, completamente in sintonia con l'iter descrittivo del verso. Tanto che questo diventa un altro dei motivi centrali della raccolta, insieme ad un'impostazione classicheggiante, sia per ciò che concerne il linguaggio poetico, che l'aggettivazione molto ricercata. Penso a versi, come "Non più concitazion mi coglie donna.." (da L'umana miseria) oppure "Ma dell'altro ignorando d'Amor le esigenze.." (da Come un treno che passa) o infine "A lungo vagai per tal vastità, che d'uomo conoscer non parea presenza.." (da Parlar d'un sogno); immagini, ritratti di vivida trasparenza che si rifanno ad una tradizione lirica novecentesca. Tuttavia non mancano spunti di originalità come la scelta di tornare nel caso di alcuni testi ad una poesia-racconto che trova una lunga tradizione anche nel novecento italiano e che si basa su una formula descrittiva completamente diversa da quella comunemente utilizzata dai poeti; una cifra stilistica in cui il narrato prevale sull'aspetto lirico e la volontà di dire prevarica il non detto, l'accennato tipico della poesia contemporanea. Ne sono un perfetto esempio testi, come "Parlar d'un sogno" oppure "Il vecchio e il muro" in cui addirittura l'autore inscena un dialogo tra i due protagonisti e che rappresenta sicuramente una delle parti più interessanti dell'intera raccolta. In conclusione un lavoro poetico che pur portando con sè la tradizione poetica e letteraria di un secolo ricco come il Novecento, tenta la difficile strada di un'attualizzazione di certi temi e stili, con la consapevolezza e la necessità di ritrovare una strada personale di espressione artistica".

 

(Giulio Perrone, 28/06/03)

 

 

 

ROBERTO SENSONI
VERSI DI-VERSI


Miraggio.

Da ore, feroce martello, implacabile s'abbatte,
il sole...
Tutto abbaglia, scalda, ed infiamma,
l'astro malevolo…
In fondo alla distesa di sabbia,
basse magioni dai muri di calce,
ne riflettono i raggi assassini…
La terra, assetata e riarsa,
mostra crepe che s'aprono ovunque,
e preludono al nulla, al vuoto deserto….
I rari cespugli d'erba ingiallita, esausti,
s'inchinano sotto l'iniqua potenza del maglio di fuoco…
Di presso ad un muro, un cane, annoiato, riposa
nell'ombra,
scacciando le mosche maligne che gli suggon voraci la
pelle,
con sferze indolenti, portate di coda…
Dal vicolo stretto, un uomo,
vecchio e sfibrato,
rapido, emerge alla luce,
ma, come di nibbio fauce, ratta,
l'inghiotte di scuro una macchia...
La fonte d'acciaio, al centro del tutto,
calde distilla d'acqua le gocce,
che cadono al suolo senza bagnarlo…
Dovunque io miri,
son serpi, son ragni, formiche, ed insetti volanti…
Tutto tace, in quel luogo;
solo, vi è il canto di vacue cicale,
luce abbagliante,
mortale calore…
Ma…ecco!
Infine, la vedo…
E' fresca, azzurra, infinita, e ventosa,
e, stupenda, m'attende,
l'inesausta superficie del mare...
E, forte, in avanti mi spinge,
di certo, verso la fine,
quell'inganno dei sensi,
quel raggiro fatale,
quel miraggio tombale...
Ma…
Deciso, io proseguo!
Ché,
con mia mano, tutto, vo' toccar…

(Marzo, 1999)


Tramonto.

Da molto tempo, mi trovo per via,
ed essa è vasta, e lunga, e rettilinea,
e, agli occhi e alle gambe,
appare infinita...
Del sole, i raggi maligni e malati,
ardon, di trànsfuga, la schiena mia nuda …
Ai lati, solo cubiche case imbrattate di calce.
Dovunque, rovine e detriti e vestigia d'umane
esistenze...
Lontano, presso un blindato colpito,
torme di cani si contendon carogne
che, d'umano, oramai, han soltanto le forme...
Più da presso, sulle rive sassose d'un lago di fango,
morenti,
d'illusione bevono un sorso,
le ultime creature esistenti…
Bagliori di fiamme ormai spente,
tenui,
rischiarano l'ombra incalzante,
e il silenzio diviene padrone del mondo.
Procedo.
Lo faccio da giorni…!
Ma i miei passi solo m'addentran nel caos!
Non posso fuggir dalla morte,
le macerie, la rovina,
e dal fuoco, che, sempre, porto con me,
laggiù,
dell'anima negli spazi profondi…

(Novembre 1998)


L'oblio.

Trascorre lungo e vuoto il giorno,
e la notte e' tenebra e silenzio infinito.
Le ore son ventiquattro gemelle:
gocce d'acqua che cadono,
incessanti,
dalla volta del tempo…
Laggiù, nei recessi dell'anima,
sta un baratro,
e nessuno, mai, lo colma…
solo maligni frammenti di memoria,
e voglie remote,
e sogni impossibili
si agitano nello scuro,
portandomi allo stremo,
affinché, nella barca, i remi
io ritragga, esausto.
Ma lasciamo andare…!
L'incognito destino,
che, indifferente, governa noi tutti,
decidera' secondo il suo capriccio.
Ecco! Or ora, è giunta un'altra sera:
allungo la mano,
smorzo la luce,
e, con amaro piacere,
mi calo giù,
nel buio assoluto,
dove l'oblio m'e' sempre soccorso…

(Agosto 2002)


Quando viene il dì.

Quando viene il dì che tutto il mondo
addosso cade,
quando anche il cielo stellato
vomita sciagure,
ed il vento, d'intorno,
intona il requiem,
quando degli altri
non ti rimane che l'ombra,
quando il pensiero s'aggroviglia
su tutto quel che ti spacca il cuore,
prendi il pugnale,
e squarcia il tetro sipario,
sciogli le vele,
e vola là dove l'inganno dei sensi,
e l'infido vento della mente bugiarda
ti enfiano l'io di pace serena...

(Luglio 2002)


Inganno.

Molto di quel che un dì scivolò
nella tua mente curiosa,
sulla pelle nervosa,
dentro la vita confusa,
oggi s'è perduto col vento,
è pasto d'oblio,
sparito nel gorgo del tempo,
ingoiato da sua poca pregnanza…
E, molto di quel ch'è restato,
bonario un filtraggio ha subito,
o uomo,
che, ora, lontan da passioni
e deterso del peggio,
indugi verso il ricordo stupendo,
verso il costrutto mendace
di quel che mai, certo, vi fu,
e anneghi nel tuo dolce dolor,
che inganno t'è, senza posa...

(Gennaio 2002)


La pesa.

Mi trovai un dì a gettar della pesa sui piatti
il buono ed il gramo,
il buono alla dritta, il gramo alla manca.
Il lavoro fu immane,
e non sempre fu chiaro dove porre le cose,
ma tosto compresi qual piatto fosse il più greve…
Guardai fuor di casa...
Era una sera di maggio
e tenue una brezza spirava dal mar tra le case del
borgo...
Rosso, il disco del sole s'andava nell'acque a posare...
Le strade si venivan vuotando,
e tutte s'accendean le luci d'intorno...
Dovunque v'era dei fiori il sentore,
e d'aria salmastra,
e di buona cucina.
E le grida d'uccelli marini,
e il rumor di campane
scandivan nel vento l'ora ormai tarda…
D'improvviso, la mala pesa gettai,
e solo tornai a pensar del presente,
ad esperire il momento,
ché il passato non è,
e il futuro nemmanco...
E della vita il bello,
infine,
iniziai a goder...

(Maggio 2002)


Alzati, uomo.

Alzati, uomo.
Passa di sventura i baratri aspri
aperti nel petto.
Alzati...
Fuggi le rovinose crepe
che il tempo ha inciso nel cuore.
Alzati al di sopra di tutto,
uomo.
Librati là dove l'aria è più tersa,
là dove mai giunge il suon d'umana miseria,
e perditi,
perditi nella maestosa grandezza
degli spazi infiniti...

(Dicembre 2001)


Non capite.

C'eravate quasi tutti,
tutti quelli che ho conosciuto…
Procedevate lentamente, vestiti di scuro,
con i volti mimando il dolore.
Scambiavate rare parole, belle parole...
e quelle parole eran per me.
Lacrime d'artificio rigavan le guancie, le vostre…
e i pensieri correan su strade concrete, terrene.
Qualcuno contava i denari che il fato gli dava, gentile…
Altri già occupavan lo spazio che in terra si apriva.
Procedevate lentamente.
Anzi, procedevamo…
Io in testa e voi in coda,
come sempre è successo sinora.
Vorrei odiarvi, distruggervi, rovinarvi, diseredarvi…!
Ma non posso...
Non sono tra voi (come mai lo fui).
Mi limiterò a non piangervi,
perché io, come sempre, vedo e so…
mentre voi, come al solito…
non capite.

(Febbraio 1999)


T'ho cercato.

Ti ho cercato là dove il vento soffia più forte,
dove la pioggia non cessa…
Ti ho cercato nei dirupi più aspri,
nelle caverne più buie,
nelle foreste più fitte,
nel più tempestoso dei mari,
sulle cime più alte,
t'ho cercato…
Della vita e della morte,
il mistero ho studiato,
ho frugato nell'anima dell'uomo,
ho scrutato il cielo stellato,
tentando di carpirne i segreti,
la dinamica sua astrusa,
e 'l misterioso influsso sul fato,
ho vegliato per anni,
ascoltando il silenzio della notte,
che nulla ha rivelato…
Ho viaggiato per paesi lontani,
conosciuto genti bizzarre, popoli estinti, d'altri mondi le
vestigia…
Riti proibiti ho praticato,
e perduto me stesso nell'estasi dell'alcool,
di esotiche droghe,
ho esperito l'amor di donne d'ogni contrada…
Infine, pazzo, vecchio, disperato,
lontano da tutti,
mi sono fermato,
ho chiuso gli occhi,
e ho smesso di cercarti…
Tu eri lì, accanto a me,
ma io non ero più…

(Giugno 1999)


Il vecchio saggio.

Dopo i grandi tormenti,
inquietudini ed ansie
di una vita tutta sbagliata,
qualcuno, infine, mi diede speranza.
Vai, disse, alla montagna incantata,
là dove il fiume fa il gran salto
e la foresta, aprendosi, mostra il lago selvaggio.
Nella capanna ch'è sulla vetta,
troverai un grand'uomo.
Chiedi a lui,
che tutto ti disvelerà…
Così, nel giorno in cui luce e tenebre
s'eguaglian per lunghezza
e l'estate lascia il posto alle brume,
quando il gallo inizia sua canzone
e gli uccelli riprendono il volo,
mi decisi a partir….
Traversai la cupa foresta,
percorrendo una strada
che più lunga ed aspra non v'è.
Guadai infine il gran fiume,
là dove grandi pietre vischiose
gettate sono a ponte
attraverso l'acqueo suo corpo,
prima ch'ei compia il gran salto,
gettandosi nell'immenso bacino al di sotto.
Infin, di lontano, apparve il massiccio del monte,
con la vetta coperta da nubi,
e battuta da pioggia,
e dal soffio scossa di rabbiosa tempesta.
Affrontai allora la tortuosa via,
con rinnovato vigor,
come ad uomo accade, se prossimo a meta…
Dopo gran tratto, la nebbia mi prese
e, nascondendomi al mondo,
compagna mi fu sino alla cima.
Là, sotto il folto di alberi scuri,
vidi, a sera, ciò che cercavo:
la capanna del saggio!
Entrai, lo confesso, tremando un bel poco.
Ma, non appena fui dentro,
gran calma e stupore mi presero presto…
Al centro, seduto sulla pelle d'un orso,
le gambe incrociate al di sotto,
giaceva un lurido vecchio,
di cui, al centro del volto,
gran spicco facean,
tra barba e capelli che mai conobbero un taglio o uno
shampoo,
due vacui occhi di fesso…
Per tre giorni e tre notti
cercai di parlar,
di ottenere risposta,
ma egli le nude pareti a guardar seguitò,
con fisso sorriso, e con sguardo svanito,
con mente perduta nel vuoto assoluto,
ed il corpo immoto di statua …
Fu così che tornai al villaggio
Felice, tranquillo, e più saggio…
Compresi che di follia ci vuole un assaggio,
che, privo di tormento, soltanto, è lo stolto,
e che, sempre dell'uom di valore,
l'inquietudine compagna sarà…

(Luglio 1999).


La merda.

"Ho perso la mia allegria,
la voglia di vivere,
il sorriso che avevo stampato sul viso, vecchio.
Dove cazzo sono andati a finire?".
"Son sepolti nella merda della vita, figliolo!
E, neppure se togli il tappo alla gran vasca,
dove tutto il liquame ristagna,
li rivedrai venir su.
La merda è più forte di tutto:
ti trascinerà con sé nelle fogne,
e, lì, affogherai tra terribili miasmi".
"Un futuro non propriamente roseo, vecchio… ".
"Ascolta il mio consiglio:
non togliere il tappo alla vasca.
E' normale che il mondo sia coperto di merda.
Tuffatici dentro,
sguazzaci e cerca,
adattati al comune andazzo,
uniformati alla media dei tuoi simili,
impara ad apprezzarne il profumo.
Così, di sicuro, ritroverai quel che hai perduto…

(Settembre 2002)


Il vecchio e il muro.

Un giorno, un viandante vide un vecchio seduto a terra
ed appoggiato ad un muro di mattoni.
"Che fai lì, vecchio?" - disse l'uomo, ormai di mezza
età - ".
"Sto appoggiato al muro, straniero - rispose il vecchio - ".
"Ti serve qualcosa? Stai chiedendo l'elemosina, se non
sbaglio... ".
"Ti sbagli, straniero, anche se, in fondo, qualcosa sto
chiedendo... ".
"Ho fatto tanta strada per venire sin quassù, ed ora che
trovo?
Un vecchio appoggiato ad un muro!".
"Eh, da giovane ne ho fatta tanta anch'io di strada, ma
ora sono qua".
"Quando hai cominciato il viaggio, vecchio?".
"Da bambino! Allora, non avevo ancora percorso un
solo metro di questa strada, e tutto era così meraviglio-
so...
Il mondo era pieno di possibilità, di occasioni, di avven-
ture... ".
"E poi?".
"Poi, ho percorso tratti piani, tratti in discesa, in salita;
tratti col bel tempo, con la pioggia ed il vento; tratti ben
costruiti, tratti sconnessi, sterrati.
E sai cosa ti voglio dire? Via via che procedevo lungo la
strada, mi lasciavo alle spalle, quasi senza accorgermene,
tutto quello a cui tenevo, comprese le illusioni... ".
"E allora?".
"E allora, sto qui, davanti al muro, e aspetto... ".
"Cosa c'è di là, vecchio? Di là dal muro, intendo".
"Nessuno lo sa, straniero, ma una cosa è certa.
Tu ed io siamo giunti alla fine della nostra pista".

(Marzo 2002)


Il Treno.

Guardo a destra. Il binario c'è e corre lucido.
Rettilineo, si perde nelle brume della distanza.
Guardo a sinistra. Stessa storia, stesso perdersi:
inghiottito dall'infinito…
Un soffio di vento porta la pagina di un vecchio
quotidiano ad incollarsi sui miei pantaloni.
La raccolgo, ne faccio una palla,
e la getto sulle traversine.
Mi guardo intorno. Non un viaggiatore
a farmi compagnia, nessun ferroviere,
neppure il capostazione, edicola chiusa…
Decido di attendere.
Per fortuna, c'è una panchina dove sedersi.
Comincia a piovere.
Il fenomeno cresce d'intensità,
sino a creare ovunque pozze di fango.
Poi, torna il sole e le pozze si asciugano…
Niente! Il treno non passa.
Recupero il foglio di giornale,
che avevo appallottolato,
e comincio a leggere.
E' esattamente di un anno fa.
Curioso!
Non ricordo una sola notizia, fra quelle che leggo…
Decido di scendere sul binario.
Tenendo la direzione nord, percorro un certo tratto.
Nulla!
Torno sui miei passi,
mi risiedo al solito posto, e attendo.
La luce del giorno sta scemando velocemente
ed una grossa luna, rosso vermiglio,
si colloca al centro della volta celeste.
Mi guarda, la luna.
Chissà che vuole, da me…
Abbottono il colletto del cappotto
e mi sdraio sulla panchina.
Il sonno mi assale improvviso.
La stazione, col suo unico binario,
scompare ai miei sensi…
Il giorno seguente, al risveglio,
vedo un vecchio seduto a terra, accanto a me.
Aspetta il treno!
Attendiamo, tacitamente solidali,
tutto il giorno e tutta la notte.
Ancora niente!
Così, pure, il terzo, il quarto, il quinto,
il trentesimo giorno…
Nell'atto di uno dei tanti risvegli,
un mattino, decido di guardarmi di nuovo attorno.
Una composita moltitudine mi accerchia.
Tutti attendono il treno…
Intanto, vicino al binario, è cresciuta, copiosa,
la gramigna.
Che fare?
Ovvio! Bisogna attendere.
Prima o poi…
Improvvisamente, il mio primo compagno,
accennando un inchino,
se ne va camminando sulle traversine!
Sino a scomparire…
In men che non si dica,
ogni persona che occupava la stazione
mi abbandona mimando il solito inchino,
e mettendosi a seguire il vecchio…
Attendo.
Un uccello, forse un'allodola,
ha nidificato sul binario,
a trenta metri dalla mia postazione.
Mi sposto e vado a vedere.
Sì, è proprio un'allodola.
Dunque, è sopraggiunta la Primavera,
finalmente!
Mi risiedo. Tolgo il cappotto
e mi sistemo in modo tale
da prendere un po' di sole sul viso.
Mi toglierà il pallore invernale…
Sì, ma il treno?
Che importa più, oramai?
Io, qua, sto bene e…
spero non passi mai!

(Agosto 2003)


Sopra i tuoi resti voglio danzar.

Voglio che il maglio divino,
giusto e impietoso,
cali dall'alto
e con furia inaudita,
con ferocia assoluta
sul tuo squallido corpo
si abbatta,
e sulla tua mala persona,
e che tutte schiacci tue menzogne
e raggiri
e astuzie meschine…
Voglio che, benefico, riduca te a brani,
e voglio che l'atto s'abbia a ripeter più volte,
ché sicura dev'esser tua fine.
Voglio che tutto accada a ritmo di valzer,
e, della festa, anch'io vo' far parte.
Voglio godermi la scena…
aggirarmi tra le membra tue sparse
e scansar di te ogni putrido pezzo,
in punta di piedi
e col naso tappato…
Voglio che la musica
discenda dal cielo
e rapisca la mia anima tutta.
Voglio esser felice,
oggi almeno,
e sopra tuoi resti voglio danzar…

(Febbraio 1999)


La paga dell'avvoltoio.

Schifosi avvoltoi
persone rapaci
mi giran d'attorno.
Mi seguono ovunque,
con moto a spirale s'appressano a me.
Un odor li richiama,
un odor li scatena:
è l'odor del denaro…
Ma non voglion ch'io muoia,
chè lor fonte non s'abbia a seccar...!
Non cercano amore,
né affetto, né amicizia.
Di parole non voglion conforto,
né d'un gesto d'aiuto,
ma voglion sempre e soltanto…
dei soldi...!
Osservate un po' il mondo:
al ricco lo sciame di perfidi uccelli
mai fa difetto,
attorno al povero…
il deserto!
Ma le torme orrende,
che tutto depredano,
che si posano ovunque vi sia da mangiar,
e la vittima sino ad osso scarnifican feroci,
da oggi avranno lor paga…
Pagheran con la morte,
con la morte per fame,
ché stanco son io di dar…

(Marzo, 1999)


La Limosina.

Grande è la tua ostinazione,
sadica la tua perseveranza,
immenso il tuo desiderar di ferro.
Sempre chiedi d'amor conferma,
ma… amor, ahimè, non dai!
Molte son le cose che, in abbondanza, ottieni,
ch'io son molle siccome il burro fuso,
e disponibile oltre misura…
Quando t'avvicini a me appresso,
dispensando di tenerezza illusion,
sempre, occulto, v'è 'l desiderio d'ottener vantaggi,
che, invariabili, son di materia, e non di spirto: mai!
Ma il dì verrà che muterò
l'indole mia lassa,
e, per strada, ti caccerò, malvagio,
agli affrettati passanti a chieder…
limosina!

(Novembre 2002)


L'umana miseria.

Non più concitazion mi coglie,
donna.
Ciò, mill'anni fa m'avrebbe preso,
ma or, la calma e il poter d'attesa
con l'animo mio forman tutt'uno...
No, non ti risparmierò,
che no 'l meriti affatto,
e, la macabra danza condurrò d'un Dio Olimpico alla
maniera,
che, sereno e forte, dall'alto del Monte Suo,
di niun mortal si prende cura,
né di lor pene, e pianti, o morbo alcuno,
e solo, abbassa il regal lanoso capo a terra,
se d'ilàre umor gl'ha preso voglia,
e dell'umana, eterna, miseria,
certo della tua assai più lieve,
di sorrider gl'aggrada...

(Gennaio 2003)


Come un treno che passa.

Dove son finite le tue braccia accoglienti,
il sorriso che il cuor mi scaldava al ritorno,
delle pelle tua il contatto stupendo…?
Dove s'è rifugiata la tua gioia d'infante
che sempre, nel rivedermi, t'assaliva?
E le tenere effusioni, e le dolci parole,
i progetti di vita…
Tutto è finito nel gorgo tuo orrendo,
che brucia, risucchia e dissolve ogni bene più caro,
del calcolo solo seguendo ragione…
Ma dell'altro ignorando d'Amor l'esigenze,
gran tratto di vita non passa,
e la noia, la rabbia, il tenero pianto per ciò ch'è perduto
s'insinuano al posto di quel che un dì fu l'Eterno...
Come un treno che passa,
e lontano sen fugge tra 'l rumore del ferro,
così, tra clamori d'inutili grida,
s'è perso Amor Nostro,
che Immenso era,
pari all'acque del mare….

(Maggio 2001)


Una storia che mai compresi.

Nel ventre di mille roventi fanciulle,
t'ho cercato,
e nei dolci recessi dei loro giovani corpi.
T'ho cercato là dove il piacere supremo all'uomo
frantuma dell'anima i resti.
Nel volto e nel gesto d'ogni donna,
per strade e per case,
t'ho cercato...
Fra montagne d'ignobili carni, della tua pelle ho cercato
il ricordo,
del tuo amor le vestigia
fra ciò che, di quello, non era che l'ombra.
Il suono del riso tuo argentino sui loro stupidi volti,
ho cercato,
e dei tuoi baci il calore divino
su luride labbra d'infame...
Ma oggi, che di te finalmente il ricordo ho perduto,
sciogliendolo fra cumuli di fetido sterco,
rimembro,
di una storia che mai non compresi,
tutto il bello che, forse, vi fu...

(Agosto 2001)


Ombre.

Per tempo a me assai lungo,
sian giorni sian mesi sian anni,
l'ombra tua, impalpabile,
ho veduto occupare il vacuo posto
a me, nel talamo, accanto.
Sempre, capitò per vera scambiarla,
sì forte era il desiar,
nei lassi brevi che gl'incubi
orrendi e avari,
rari, concedevano al terror loro...
Ed or, che t'ho (vera!) di nuovo accanto,
e d'amor, febbrile, mi desto colmo,
nel cercarti, assurda e vòta, ancor
quell'ombra mendace pari,
un'ombra maledetta,
pronta a svanir col giorno...

(Marzo 2003)


La Grande Madre.

Dell'alberi frondosi e verdi,
che movon lor chiome al vento;
dei monti, maestosi e dritti,
di nevosa massa oberati;
delle dolci acque ferme,
solcate da lievi e silenziosi navigli;
del salato mar che s'agita
sotto la rabbia d'ostili tempeste;
de' fulmini che lucon la notte,
e l'udir sconquassano col rombo lor terrifico;
di tutto questo, io,
che uomo son contro ogni prova,
mi movo a commozion e maraviglia,
ché il mio progenitor,
e di tutta maledetta specie,
da un serpe ingannator,
un dì, straniato fu da natura;
da un demone callido e sottil,
per vano amor di conoscenza,
da quella sradicato per l'eterno…
Ed or, davanti al mondo,
che vedo, sento, uso,
posseggo, e muto a mio piacer,
-ché io son altro -
come perduta amante,
come simbiotico amor smarrito,
la Grande Madre piango
e, nel suo ventre immenso,
nel seno suo accogliente,
vorria tornar...

(Dicembre 2002)


I Chitarristi.

Son giorni e son notti,
forse son mesi,
o, forse, è tutta una vita
che attendo squillar l'apparecchio...
Talvolta, distratto, mi par di sentirlo,
ma, se aguzzo l'orecchio,
il trillo, maligno, se n' fugge,
ingoiato dal nulla,
succhiato dentro le spire d'una mente
forse un poco malata,
di sicuro assetata, stremata e tremante,
e ai capricci tuoi appesa
come l'impiccato al suo cappio.
Infine, quando ormai scomparsa è speranza,
in un giorno radioso di maggio,
il telefono trilla,
e la bella tua voce,
di note d'argento composta,
m'invita per cena
là dove gli estrosi gitani
allietan con tango e chitarra gli avventori presenti...
Dal troppo aspettare reso impaziente,
mi getto allora sul posto,
ma il locale è deserto,
e tu non ci sei…
Attendo fumando e bevendo un bel poco,
e mirando, sulle bianche pareti,
del tuo splendido volto il riflesso,
di pensiero prodotto...
Dopo le dieci, due svogliati gitani,
che portan le chitarre d'appresso,
entrano, e siedono,
mangiano, bevono,
ma, del suonar non s'accenna…
Qualcuno mi chiede se attendo…
Bella domanda!
"Certo! Qui, serva per due… ".
I chitarristi, con i ventri ben gonfi,
d'improvviso, del silenzio spezzan la calma,
e, con ritmo vivace ma caldo,
mi portan su lidi di pace e di sogno…
Infine, ti vedo arrivare:
mi scosto, ti faccio sedere, t'ordino il cibo.
La gente mi guarda un po' strano…
La musica è bella,
la cena è decente,
Il fumo mi piace,
l'alcool fa effetto…
Poi, mi guardo d'intorno: d'un tratto, tu più non ci sei…
Per sincerarmi, son qua che mi tocco del viso le carni,
Son vivo? Reale? Presente? Senz'altro di sì! Ma ciò, a
che serve…?
Dicono in tanti ch'abbia vagato per notte
sul greto del fiume, e che, il giorno d'appresso facessi
figura di morto,
laggiù galleggiando, tra i massi del molo.
Ma io non li credo,
m'inebrio di tango,
di whisky,
e di fumo,
e, qui, l'attendo,
finché a me pare…

(Gennaio 2003)


La Ruota Della Macina.

Da lungo tempo, avida,
la macina s'appressa,
tutto ingoiando quel che s'oppone,
e, ratta, sputando i pezzi a tergo,
a me procede incontro senza sosta alcuna...
Remota un dì,
ed oggi assai vicina,
s'infuria a sbriciolar
di strada ultimo tratto,
feroce abbattendo il dietro,
e, presta, anche il davanti,
sì che la sorte c'incontri a breve…
Che voglia è facile intuir, l'orrenda rota;
più arduo saper ragione, o chi la mandi…
Ma... ai teneri germogli che seguiranno,

e ch'ella tanto apprezza,

sempre opporrò il duro mio legname,

anche se questo, so, non fermerà

la rota...

(Luglio 2003)


Il Mondo Mio Carissimo.

Che ne faccio
di posti, in tutto il mondo eguali;
dell'aria corrotta, che a respirar m'ammala;
del cielo azzurro, che mano mai puo' toccar...
Che ne faccio
d'un mar, che pare fogna;
d'uomini, che solo studian come raccattar danaro;
di te, che fuggi amore per timor di dare...
Che ne faccio
di me, che sol lavoro per non crepar d'inedia;
degl'ideali, che gettai per esservi conforme;
della vita intera, ch'è nata per finir tra' vermi...
Che ne faccio
del mio sguardo folle, che cerca invano il bello,
dell'intelletto vivo, ch'ho spento per somigliarvi,
del nobile sentir, che dentro al cor sempre rinserro...
Che ne faccio
di tutto questo, se ancora è, purtroppo o per fortuna,
… il mondo mio carissimo?

(Settembre 2003)


Seguimi.

Seguimi, donna.
Seguimi là dove la risacca s'infrange,
dove la spuma s'alza nell'aria scura della notte,
dove il vento ti muove le vesti ed i capelli.
Seguimi.
Immergi i tuoi piedi nell'umida sabbia,
e vienimi dietro.
Ti condurrò sino al faro, e, laggiù, ti avrò tra le braccia,
come successe una volta, e come sempre accadrà,
d'ora in avanti...

(Ottobre 2002)


Questa Notte.

Ti avvolgerò con il lento ed armonico suono di un
violoncello,
questa notte.
Poi, mi avvicinerò mostrandoti la ruota distesa,
come fa il pavone.
E solleverò sul tuo viso le mani mie sinuose,
ipnotizzandoti con la studiata nenia che usano i maghi,
questa notte.
Ti circonderò come fanno le tribù di lemuri australi,
divorandoti con occhi di spettro,
e ti raggiungerò, silenzioso e sibilante, come il serpente la
preda.
Infine, ghermirò il tuo candido collo con i miei denti di
felino,
e ti entrerò dentro, prendendomi l'anima tutta,
ed il corpo,
come fa l'uomo che affoga nel desiderio,
questa notte...

(Novembre 2002)


Vorrei.

Vorrei, talvolta, alle tue labbra farmi più accosto;
a quei rilievi, enfiati e tinti dal Dio dell'Eros,
vorrei poggiar mia bocca ardente,
e goder del dolce tuo sapor per un tempo senza fine.
Vorrei poi, con man lieve, attraversare il groviglio dei
ricci tuoi, che, sapiente, stregon contorse con l'arte sua
segreta.
La pelle tua, di candidi colli irta e sdrucciola al fremente
tatto,
vorrei sfiorar leggero in ogni punto,
e di passion sentir travaso.
Infine, ti vorrei levar lento con le braccia mie,
e, di poi, adagiarti, cauto, nel talamo,
dove l'anima mia vorrei sentir perduta,
dall'abisso inghiottita degli occhi tuoi di strega,
e dilaniata nel profondo gorgo d'un amor di fuoco.
Ma...
Solo son qui a ricordar quello che fu,
mentre tu,
del pensier nobile prodotto,
ti sei persa nella nebbia
con la quale il tempo copre,
per sempre,
ogni cosa...

(Gennaio 2003)


L'onda.

Seduto su spiaggia petrosa,
osservo rapito il moto dell'onda.
Il moto dell'onda infuriata
che, senza pietà, si abbatte
su scogli,
su spiagge,
su barche,
su tutto ciò che ne ostacola il moto…
Quell'onda,
spinta da vento rabbioso,
ad ogni impatto, strillar fa i gabbiani
che rotean di sopra sciamando.
Quell'onda,
che un po' mi somiglia,
che schiuma,
ruggisce
e combatte,
come l'animo mio
anela alla calma,
alla pace,
al riposo
che sempre consegue a tempesta,
alla quiete del dopo…
ché stato più bello non v'è.

(Aprile 1999)


Nubi.

Spinti da soffio impetuoso,
rotean gli ammassi gassosi,
e, dai monti che cingono il golfo,
cadon giù, sino al vasto bacino.
Cadono,
e, del lampo recan lucor,
e del tuono lo schianto,
e di pioggia il frùscio,
le nubi,
che vibrar fanno il core ai viventi
ed il mondo scòton tutto d'intero.
Copron la valle,
ed il pelago chiuso,
avvolgon le case,
ingoian la gente…
Ma dannate sono a sparir col sole,
le nubi,
a divenir aria nell'aria,
e a morir nel corpo intangibile del vento
che, maligno, in un procelloso dì,
ce le soffiò d'incontro…

(Giugno 2003)


Naufrago.

Dolce, da poppa, soffia brezza di lontana terra,
mentre, di fuoco,le prime lingue dell'astro remoto
che, a mane, sorge alla dritta,
disperdono mortali i rigori notturni,
e la mia nuda pelle, livida e riarsa,
riprende il color della rosa...
D'intorno, acque calme di cristallo
mi cingon per ogni dove...
Di gabbiani gracchianti torme sciamanti,
alte,
s'aggiran sul mio perpendicolo,
e, or uno, or l'altro,
s'affrettan la preda a toglier dal mare
e, ratti, a deglutirla voraci...
Il giorno, ormai fatto,
a tender lo sguardo m'induce,
e miro in avanti,
d'indietro, ed ai fianchi,
ma nulla mi rende speranza:
solo liquida acqua,
vento tenace,
uccelli rapaci,
e nubi lontane
mi sono compagne,
sul legno in disarmo,
che vaga da tempo,
spinto dall'oscuri gorghi
che, da sempre, movono i flutti...
Strano destino, quello del naufrago,
che si perde ad ammirar della natura
i fenomeni stupendi:
l'albe,
i tramonti,
gli zefiri dolci,
le maestose procelle,
e dell'acque, che saran sua tomba,
la pura e vasta immensità...

(Dicembre 2002)


Mostri di mare e di terra.

Da ore scrutavo l'oceano
ed il moto incessante dell'onda
dal color di cristallo.
Accecato, non vedevo né il sole radioso,
che, sul capo, infieriva rovente,
né i gabbiani gracchianti,
che, sempre, seguon le navi
alla ricerca utopica d'un pasto.
Della bestia,solo,
un segno cercavo,
un qualcosa che mi facesse trovarla...
Infine, quando l'astro di fuoco
discese nell'acqua color del cobalto,
essa, con balzo furente, uscì dal ventre marino,
torcendosi completa sull'asse,
sul corpo gibboso e potente,
mirando il vascello con occhio maligno.
Poi, sbuffando vapore,
nel pelago vasto si reimmerse imperiosa.
Fu allora che alzai le vele ad enfiarsi del Greco,
e misi il legno in sua scia...
La caccia fu lunga, e, del tempo, persi il ricordo,
vagando per rotte incognite ed infìde.
Ma, nell'alba in cui la bruma del cielo si confuse con
l'acque, e tutti i colori furon gradi del grigio,
nelle carni ficcai l'arpione assassino,
al mostro del mare,
che parve morir chiedendo ragione
al mostro di terra,
all'uomo sul ponte,
lordato, nel corpo e nell'anima, del sangue d'un
giusto...

(Aprile 1999)


Il viaggio.

Da tempo, ogni sera, tornavo alla spiaggia
e dei marosi il moto incessante scrutavo.
Dell'onde ponderavo l'impatto,
lo schiaffo che davan, violente, ai sassi del molo.
Miravo le nubi gonfie di pioggia
e lor direzione di marcia.
Del vento valutavo la forza
e, del soffio maligno, m'auguravo la fine,
ch'aveo da partir,
da mettere il legno nel mare,
e rotta far verso il pelago aperto,
ed errar, per tempo assai lungo,
per lidi remoti e diversi,
ché i noti, oramai, mi davano angoscia…
E venne alfin la sera
che il vento s'acquietò…
Tutto accadde in lasso assai breve.
Là dove l'acqua par finire ed il cielo iniziar,
si apriron le nubi
e passar lasciarono del sole gli ultimi raggi,
quei raggi che tosto si spensero,
nel ventre del mare affondando.
E si calmaron le onde,
che ora appena carezzavano i poveri scogli,
a lungo sferzati da lor furia assassina.
E tutto, sin l'animo mio,
divenne tranquillo e sereno.
E la pace, sul litorale,
riprese giusta dimora.
Fu allora che scesi nell'acqua il leggero vascello,
alzando la vela a gonfiarsi del vento di terra,
che, fausto, verso il largo mi spinse…
Quel giorno tutta lasciai alle spalle
la mia vita passata
e, di questa, anche i ricordi.
Quel giorno, infine, affrontai il viaggio,
a scoprir del mondo aspetti diversi,
a cercar della mente stimoli nuovi.
Un viaggio dal quale più non feci ritorno…

(Maggio 1999)


Compenso o castigo?

Dopo le piogge assassine,
dopo tempeste mai viste,
dopo che il livido cielo
mai più sperai veder chiaro,
dopo che l'acqua fu padrona del mondo,
e tutto, malvagia, sommerse,
dopo che ogni vivente fu morto,
infine, quando così fu deciso,
un qualche chiaror comparve là in fondo,
poi, tosto, si estese a me sopra,
e, da un picciolo squarcio del tetto di nubi,
timido un raggio la strada si aprì.
Con calma infinita, poi, mano mano,
l'astro di fuoco la notte cacciò
e tutto a vista mirar si poté
l'immenso, acqueo universo…
Passarono i giorni,
ed intorno non v'era che mare,
non volo d'uccello,
non suono qualunque,
né segno d'umano.
Ma, come dell'acqua il livello,
enfiato pria dai rovesci,
salendo tutto allagò,
or, poco a poco, andava calando,
le cime liberando dei monti
che, come isole sparse,
dall'umido letto s'andavano alzando.
Comparve poi il mondo:
libero, bello, pulito, e…
Deserto!
Io ne fui il re,
ed a lungo regnai
su tal vastità,
che più inutil non v'è,
e mai compresi il senso di ciò.
Compenso o castigo?
Non so…

(Luglio 1999)


Notturno.

Quando il cielo si fa rosso
ed il sole fiammeggiante
si posa sul mare
preparandosi ad esserne inghiottito,
quando poi la tenebra diffonde
e fa sua ogni cosa
ed ogni creatura,
quando il perfido vento della sera si alza
e tutto gela
con le sue spire di ghiaccio,
quando l'ultimo uomo serra la porta
e spegne la luce,
quando ogni animale si rifugia per la notte,
io alzo gli occhi alla luna,
ascolto il silenzio,
e ringrazio, non so chi, di tutto questo...

(Marzo 1999)


Parlar d'un sogno.

Voglio parlar d'un sogno,
di cosa paratami dal destin benigno,
che un dì mi spinse giù, nel pelago remoto,
su isola perduta e di sol bagnata e d'acqua…
S'infranse la prora un dì su quello scoglio,
dove a discender fui pronto, pria che 'l mar
m'inghiottisse.
A lungo vagai per tal vastità, che d'uom conoscer non
parea presenza,
ma sol d'animai e vento e piagge…
Di poco in poco, il penser sgombrossi del duro carco di
civiltà maligna,
e di bronzo le pelle assunse il color,
mentre il nerbo, potente, tornò a presidiar mio corpo
lasso,
e tutto natura rese a me più caro, sino il mio dolor…
Infine, dopo tempo sì lungo di cui non tengo memoria,
t'incontrai per strada diserta,
ignuda, come donna primigenia,
il crine scuro scosso da lingue di brezza.
Subito fu amor sanza parola,
ma lungo, totale e forte
come solo può esser in artifizio,
e dolce, e bello, sublime come se disposto da un Dio.
Infine, dopo tant'anni, quando la morte colsemi
improvvisa,
sforzai la mente a ricordar del mondo mio antico
l'apparenza.
Disteso a terra e dall'astro di foco baciato per l'ultima
volta,
maledissi l'origin mia e tutti i suoi rovinosi orpelli,
e, nel crepar, di vita fui tanto sazio, da nulla più
desiderar,
fuor che il labbro tuo sull'occhi…

(Gennaio 2003).

 

 

 

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Roberto Sensoni - La Spezia
Terza Edizione: Marzo 2005.