ROBERTO SENSONI

 

Ulisse Schittzer...

 

"ANCHE I FLOPPY HANNO UN'ANIMA"

 

Il fatto

Nella mia non breve carriera, tutti i casi più rognosi mi sono sempre piombati addosso di primo mattino... Quella volta andò in maniera diversa: la rogna mi piombò tra capo e collo verso l'imbrunire. Se ciò mi evitò un brusco risveglio, ebbe tuttavia l'inconveniente di farmi saltare la cena. Stavo infatti rientrando a casa dopo una giornata trascorsa in mare e, quando si va girovagando per il liquido elemento su una barca a vela, credetemi, non si pensa poi molto a nutrirsi. Semplicemente, si pospone l'atto, lo si rimanda cioè al momento dello sbarco. Anche lo stomaco, creatura generalmente quanto mai capricciosa ed insaziabile, in quei casi, generosamente, si adegua: attende... Il risultato è che, quando finalmente sbarcate, il vostro famelico organo inizia immediata mente,senza alcun rispetto per il luogo o la situazione, a reclamare i propri diritti. Ora,se una malefica telefonata del commissario Degan vi invita a precipitarvi sul luogo di un delitto appena commesso, proprio nel momento in cui posate il primo piede a terra, che fate? Vi rifiutate? No. Ci andate,visto che, quello, fa parte dei vostri compiti, ma maledirete senz'altro il dispettoso dèmone che vi perseguita, rendendovi la vita molto simile al suo ambiente naturale... un inferno! E questo fu esattamente ciò che feci: maledissi il dèmone e la sfortuna che continuava a perseguitarmi, ma ci andai. Non potevo evitarlo…

Quello che vidi servì, se non altro, a tenere a bada le voglie anarchi che ed incoercibili del mio apparato digerente... mi fece, in altre parole, scappare l'appetito. L'avvocato Tiberi, un uomo della stazza di oltre centoquaranta chilogrammi, giaceva riverso a terra, sulla moquette del suo studio, straziato da una buona trentina di coltella- te, ed immerso letteralmente in un lago di sangue. Una visione vera mente poco simpatica...

"Che te ne pare?- mi disse Degan, guardandosi le punte delle scarpe e trattenendo a stento uno sbadiglio di noia - ".

"Una brutta faccenda. Ed anche un brutto cadavere... ".

"Già, veramente malridotto, il cadavere di questo povero Cristo. Chi l'ha ucciso doveva odiarlo non poco... ".

"Sospetti? ".

"Tutti e nessuno, come al solito… Il nostro caro avvocato, pace all’anima sua, non era, come dire… un angioletto. Lavorava con la malavita organizzata: forniva assistenza legale, ma anche coperture, alibi, e Dio solo sa cos’altro, ad una schiera infinita di furfanti della peggior specie… Trovare l’assassino sarà come frugare in un pagliaio. Credimi, Ulisse, la vedo molto dura".

"Un onesto professionista, insomma…".

"Un delinquente! Ma molto furbo, almeno fino ad oggi".

"Già, pare però che, oggi, la sua fama di furbo abbia subito un tracollo... ".

"Un tracollo definitivo, caro Ulisse. Questa montagna di carne ha finalmente smesso di far danni".

"Ci sentiamo domani? Sono curioso di ascoltare le conclusioni dell'autopsia".

"Vieni al commissariato nel primo pomeriggio. A quell'ora, il dottor Coppola dovrebbe aver terminato l'esame del cadavere".

"Ne siamo sicuri? Guardi che è proprio grosso, commissario...!".

Lo sguardo che ricevetti in risposta fu come una saetta scagliata da Zeus... letteralmente, mi fulminò. E mi indusse a farla finita: anche ai cadaveri dei mascalzoni è dovuta una qualche forma di rispetto, almeno fino a prova contraria…

Lo studio dell’avvocato Tiberi era situato in una delle vie principali della città, esattamente a metà strada fra la caserma dei Carabinieri, la Questura, e il <Palazzo di Giustizia>. Un luogo strategico, che l’esperto leguleio aveva scelto ad arte per intrappolare nella sua rete quanti avessero delle faccende da sbrigare in quei luoghi

sinistri.

Uscendo finalmente all’aperto, mi soffermai un attimo ad osservare l’intenso traffico veicolare… centinaia di automobili percorrevano il viale in ambedue le direzioni di marcia, intersecandosi con quelle che si immettevano sul raccordo autostradale, situato proprio lì di fronte. Accesi un avana, aspirai due lunghe boccate, e sputai con rabbia il fumo azzurrino nell’atmosfera…l’orologio situato sul frontale dell’edificio della banca posta sull’altro lato della strada mi diceva che erano le ventitré passate: un’ora sballata per mettersi alla ricerca di un ristorante dove avessero ancora voglia di cucina- re. Non restava che avviarsi mestamente verso casa. Lì, sicuramente, sarei riuscito a buttare nello stomaco almeno una scatoletta di tonno sott’olio, un paio di pomodori ed una lattina di birra. Non il massi- mo nella vita, ma il massimo, sicuramente, per quella serata, viste le premesse…

Mi avvicinai alla macchina, un vecchio <Maggiolino> che non avevo il coraggio di rottamare, vi montai su e avviai il motore. In quell’istante, come d’abitudine, guardai nello specchietto retroviso- re… un uomo, vestito di scuro, uscì di corsa dal portone di Tiberi. Poco dopo, quello stesso uomo, ritornò conducendo un carro funebre fin sotto al porticato. Sei uomini, anch’essi vestiti di scuro, apparve- ro quasi subito. Con evidente fatica, portavano a spalla la cassa contenente l’ormai inutile avvocato. Una donna sulla quarantina, anch’essa proveniente dall’interno del fabbricato, contemplò pazien- temente tutta la scena con le mani intrecciate sotto il mento. Una sola lacrima rigava il suo volto. Piangeva, se così posso esprimermi, con un occhio solo: evidentemente, anche il dolore, pensai, può esse- re parziale, incompleto…

A quel punto, il primo uomo aprì il portellone posteriore del mezzo, permettendo agli altri di introdurvi il loro pesante carico.

Fu in quel momento che decisi di andarmene: avevo visto anche troppo. Per quel giorno, poteva bastare…

 

Contatto

La mattina seguente, di buon’ora, un insolitamente cauto e dis- creto Agostino venne a bussare alla porta della mia camera da letto.

Aprii un occhio, il destro credo, e, con quello, esplorai l’ambiente circostante… A causa, forse, dei neuroni cerebrali ancora impastati di sonno, feci molta fatica a riconoscerlo. Soltanto dopo l’apertura del secondo occhio, sicuramente il sinistro, la situazione mi divenne finalmente chiara.

"Ago?- dissi con un filo di voce -".

"Alzati, socio… abbiamo visite. Clienti nuovi ed interessanti".

"Dì loro di venire più tardi in ufficio. Che maniera è questa di presentarsi all’alba in casa della gente?".

"A parte che ormai sono quasi le dieci, pare che abbiano molta fretta e molto denaro da spendere… ".

"Va bene, visto che la faccenda assume toni più interessanti, vuol dire che li riceverò immediatamente… Falli entrare".

"Ma… Ulisse! Sei ancora a letto!".

"Non me ne frega proprio niente! Sono venuti in casa senza preav- visare, mi pare. Mi piglieranno come sono. Apri le persiane, dà un po’ d’aria alla stanza, e falli entrare, ti ho detto… ".

Agostino, che condivideva con me casa e lavoro ormai da circa sei o sette anni, non mi aveva ancora compreso del tutto… Schiavo della sua perfetta educazione piccolo-borghese, si ostinava a dare sempre troppo spazio ed importanza a questioni che, per me, erano del tutto marginali. Le soluzioni, tuttavia, non erano che due, vista la sua im- mutabilità: tenerlo così, o gettarlo… Finora me lo ero tenuto, e non me ne ero affatto pentito. In fondo, era il mio naturale complemento, oltre che un lavoratore instancabile.

"Dottor Schittzer, è permesso? - disse una voce maschile dal profon- do accento siciliano - ".

"Avanti, avanti! - risposi- Entrate pure. Voi avete fretta, ed io ho sonno… cosa c’è di meglio che ricevervi senza costringermi a lasciare il letto? E poi, tra uomini, non ci formalizzeremo mica,

no? ".

"Noi non ci formalizziamo mai, dottor Schittzer. Badiamo sempre e solo alla sostanza - rispose un secondo uomo, anch’egli siciliano, a giudicare dall’idioma - ".

Improvvisamente, mi si pararono davanti due individui piuttosto insolitamente accoppiati. Il primo, di circa trent’anni, era completa- mente vestito in nero, cappello compreso. Un gonfiore, una specie di tumefazione sotto l’ascella sinistra faceva chiaramente sospettare che il tipo usasse andare in giro armato. Il secondo, di circa cin- quanta - sessant’anni, vestiva invece un completo grigio-gessato e, dei due, era sicuramente quello che dava gli ordini.

"Ok, posso fare qualcosa per voi?".

"Come saprà, ieri sera - disse il più anziano - , è stato ucciso l’avvo- cato Tiberi… ".

"Certo, certo, e allora?".

"E allora, vista la sua fama, vogliamo che lei conduca le indagini per conto nostro, e ci consegni, vivo o morto, quello squallido assassino".

"Forse vi siete rivolti alla persona sbagliata… Non sono un killer professionista, io. Sono soltanto un investigatore privato e, se becco un delinquente, ho l’obbligo di consegnarlo alla polizia. Non posso fare i cazzi miei. E nemmeno i vostri… ".

"Comprendiamo, comprendiamo. Lei ha bisogno di essere invoglia- to, dottore…Qui ci sono duecento milioni in contanti. E’ un antici- po. I restanti trecento, le verranno consegnati alla conclusione dell’indagine… Contento? ".

Una pesante valigetta <ventiquattr’ore> fu, in quel momento, ap- poggiata ed aperta sul letto per mostrarne l’interessante contenuto…

Detti un’occhiata alla mercanzia ed un’altra ai due uomini. Mi sfug- gì un segno di assenso. Che volete farci, la vita, al giorno d’oggi, si è fatta molto costosa…non si può rifiutare la manna che cade dal cielo!

"Bene, dottor Schittzer. Sapevo di poter contare su di lei… all’interno troverà una busta con il mio nome ed i numeri di telefono ai quali può rintracciarmi. Aspetto una sua chiamata. Addio".

"Addio,signori… Ago, per favore, accompagnali alla porta. Poi richiudi le persiane. Sono ancora stanco ed ho bisogno di dormire".

Il mio fedele collaboratore eseguì alla lettera i compiti che gli erano stati assegnati. Quando ebbe, finalmente, chiuso la porta della stan- za, abbracciai la valigetta e mi addormentai. Che stessi diventando venale?

 

 

L’autopsia

A metà pomeriggio, dopo aver dormito, in tutti i sensi, sogni d’oro, mi recai al commissariato per incontrare Degan. Ero molto curioso di conoscere la dinamica dell’omicidio ed, inoltre, avevo il desiderio di dare il via alle indagini che, questa volta, avrei condotto in con- temporanea per due diverse istituzioni: la polizia, da una parte, e la mafia, dall’altra… Se non mi sbagliavo, ed era difficile, i due visita- tori mattutini erano, infatti, degni rappresentanti del noto istituto di beneficenza siciliano. Un unico dubbio tormentava, ma in maniera molto relativa, credetemi, il mio povero cervello: la mafia era realmente interessata a scoprire l’assassino di Tiberi, o,affidandomi l’incarico, cercava soltanto una copertura? Mi dissi che l’avrei scoperto con comodo.

Tenendo la mente occupata con queste vane elucubrazioni, percorsi quasi mezza città senza rendermene conto. In maniera del tutto automatica, le mie gambe, mi avevano condotto davanti al commis- sariato. Varcai la soglia, salii due piani di scale, percorsi un lungo corridoio ad elle con la guida di velluto rosso, e mi trovai al cospetto dell’ufficio di Degan. Bussai.

"Avanti! E’ aperto - rispose una voce dal tono burbero, che riconob- bi come quella del commissario - ".

Entrai. Il capo era seduto con le spalle appoggiate allo schienale della poltrona posta dietro la sua scrivania, ed osservava con atten- zione un grosso fascio di fotografie.

"Ah, sei tu, Ulisse? Vieni, vieni… notizie interessanti! ".

Mi squadrò sollevando gli occhi al di sopra delle sue lenti da presbite e, assumendo quell’aria sorniona che ben conoscevo, mi gettò il materiale davanti.

"Tieni… ti aspettavo. Guarda bene. Io non ho fretta. Attendo un tuo illuminato parere".

Presi il fascio di foto e le analizzai attentamente una per una. Non fu un lavoro breve… quei maniaci della scientifica avevano fatto le cose in grande. Dopo una buona mezz’ora, ributtai sul tavolo quel pacco, mi accesi con calma un <Romeo y Julieta>, diffusi nell’am- biente una discreta quantità di fumo azzurrino, che andò a mesco- larsi con quello prodotto dalla pipa di Degan, ed iniziai a parlare.

"Il cadavere presenta numerose ferite da taglio a livello di ambedue gli avambracci e un paio di ferite penetranti al dorso, più o meno all’altezza delle scapole. Ma è soprattutto la parte anteriore del corpo a mostrare la più alta percentuale di lesioni. Una coltellata, micidiale ma non mortale, ha fatto praticamente esplodere il bulbo oculare destro al nostro avvocato. L’assassino ha poi infierito con particolare ferocia sul torace e sull’addome, per arrivare a finirlo con un profondo taglio alla gola che gli ha reciso di netto le due arterie carotidi, provocandogli una rapida morte per dissangua- mento".

"Giusto! E allora?".

"Beh, intanto, non sembra l’opera di un professionista. E’ come se i due si conoscessero… Forse, Tiberi ha accolto nel suo studio quello che reputava un suo normale cliente e, questi, in seguito ad un alterco, ha estratto il coltello ed ha iniziato a colpirlo. All’inizio, Tiberi è riuscito a ripararsi opponendo le braccia alle furia

dell’uomo, ma, ben presto, colto dal terrore, ha fatto l’errore di voltarsi per fuggire ed è stato raggiunto da due micidiali stilettate alla schiena che gli hanno tolto le forze, facendolo cadere a terra in posizione supina. A questo punto,accecato dall’ira, l’assassino ha iniziato ad affondare i colpi a caso, fino ad esaurire la sua aggres- sività nella ossessiva ripetizione dell’atto. Forse perché l’avvocato dava ancora qualche segno di vita, o forse perché conscio di aver commesso l’irreparabile, il nostro uomo ha deciso infine di assicurarsi una sorta di impunità ficcandogli profondamente la lama nella gola e aprendogli uno squarcio che definirei devastante".

"E’, più o meno, un’opinione coincidente con quella del nostro perito…".

"Una curiosità… quante sono, esattamente, le coltellate?".

"Trentasette".

"Un bel numero…!".

"Già…un bel numero, veramente. Quindi, se ho ben capito, non pensi che l’avvocato Tiberi abbia subito una sorta ,che so, di ese- cuzione premeditata, di punizione per qualche sgarro nei confronti della malavita organizzata, o cose simili…".

"Non direi, anche se nulla può essere escluso, in questo momento. La dinamica dei fatti mi porta, tuttavia, a ritenere di essere di fronte all’opera di un <cane sciolto>, di un individuo che ha agito, cioè, per conto proprio, spinto da un irrefrenabile impulso omicida asso- lutamente non premeditato".

"Se queste sono le tue conclusioni, sappi che mi trovo abbastanza d’accordo con te. Come poliziotto, però, ho il dovere di seguire, almeno all’inizio, tutte le piste".

"Più che giusto, commissario…".

"Bene. Se ci sono novità, mi farò premura di comunicartele. Lo stesso farai tu. Sei ancora al soldo del Ministero,non dimenticar- lo…".

"Non lo dimentico, commissario. Conosco fin troppo bene il ruolo che mi avete riservato…".

"Sei il nostro consulente psichiatrico preferito, Ulisse… nulla di più".

"Già… ufficialmente, non sono nulla di più che un consulente psichiatrico. Ufficiosamente, invece… ".

"Taci! Qui anche i muri hanno orecchie".

"Bene, ho capito… me ne vado. Ci terremo in contatto".

"Arrivederci a presto, dottor Schittzer".

"A presto, commissario Degan".

Spensi il mozzicone nel portacenere, misi ambedue le mani nelle tasche dei pantaloni e guardai per qualche istante attraverso il vetro della finestra. Là fuori, da qualche parte, si aggirava una strana specie di assassino. Un assassino il cui delitto, in un certo senso, aveva contribuito a ristabilire una maggiore legalità nella nostra città, uccidendo un avvocato che, invece, operava per la diffusione della criminalità. Paradossi della vita…

Mi sorpresi a scrollare quasi involontariamente la testa in senso di diniego. Guardai alle mie spalle. Degan rovistava freneticamente in un mucchio di scartoffie alto mezzo metro. Me ne andai in punta di piedi, senza far rumore…

 

 

A colloquio con la vedova

Appena uscito dal commissariato,accesi il cellulare e chiamai Agostino. Erano circa le diciotto e trenta e, se eravamo fortunati,

ci attendeva una chiacchierata con una persona interessante.

"Ago?".

"Ulisse! Ci sono novità?".

"Non molte, in verità. Raggiungimi subito al bar <Prestige>. Ma fai presto… voglio andare a parlare con la vedova dell’avvocato".

"Ti pare una buona idea?".

"Certamente! Anzi, visto che hai una voce più rassicurante della mia, chiamala subito e avvertila della nostra visita".

"Ok, ok! Lo faccio, non temere. Ma cosa vuoi ricavare dalla moglie di un tipo come quello? Come minimo, è implicata in almeno la metà dei traffici del marito".

"Non credo, Ago. Ieri sera, mentre uscivo dallo studio di Tiberi, sono stato involontariamente spettatore di una scena molto signifi- cativa che poi ti racconterò. Dai, sbrigati, non perdiamo tempo inutilmente!".

"Ti trovo un tantino nervosetto, socio… problemi esistenziali?".

"Sì, ho il dubbio se uccidere o meno un collaboratore sfaticato e rompicoglioni… ".

Terminai la comunicazione. Nell’attesa, mi consolai con un bel whisky <on the rocks>.

Quando l’effetto dell’alcool stava finalmente iniziando ad asportare il malumore dalle mie povere cellule cerebrali stressate, ed un po’ di artificiale leggerezza si andava insinuando anche negli angoli più tormentati della mia psiche, comparve Agostino. Lo intravidi scrutando attraverso i rari ed instabili spazi che si formavano e sparivano, con una dinamica esasperata e snervante, fra i corpi di mille persone in frenetico movimento. Come al solito, pareva aver esagerato… nell’ottica della visita alla moglie del defunto avvoca- to, si era vestito con un impeccabile completo blu scuro. Sembrava un commesso viaggiatore, oppure uno di quei moderni truffatori che, facendo leva sull’abito elegante, sottraggono capitali agli ingenui che si fidano del loro aspetto rassicurante e della loro apparente competenza in operazioni finanziare che si riveleranno, poi, invaria- bilmente sballate.

"Ago, sono qua! – gridai - ".

Il mio socio si guardò intorno disorientato da quella bolgia inferna- le, e penò non poco prima di rendersi conto della direzione da cui proveniva la voce.

"Ago! - ripetei urlando fragorosamente e sventolando in alto una mano - , sono qua, non mi vedi? Accidenti a te… ti vuoi decidere a venire quaggiù?".

Finalmente, allargando le braccia in segno di scusa, mostrò di aver percepito qualcosa e si avvicinò rapidamente alla mia postazione.

"Tutto a posto? Trovata la vedova? ".

"Trovata, trovata… Tutto fatto! Ci aspetta per le venti e trenta a cena".

"A cena? Interessante… ".

"Già, interessante ed insolito".

"Questo dimostra che non mi ero sbagliato… ".

"Non capisco".

"Capirai più tardi. Bevi qualcosa?".

"Una birra scura, grazie".

Il cameriere portò la birra ad Agostino con insolita sollecitudine, e lui la bevve, altrettanto sollecitamente, tutta d’un fiato. A quel punto, visto che anch’io avevo terminato il mio drink, non avevamo più alcuna ragione per restare. Uscimmo.

Era una di quelle serate in cui un violento Libeccio, soffiando a raffiche impetuose dal mare, spingeva dense nubi in rapido movimento e cariche d’acqua verso la terraferma, facendo presagire l’arrivo imminente di una burrasca.

Salimmo in auto, e ci dirigemmo verso l’abitazione dei Tiberi. Pur conoscendone esattamente l’ubicazione, al momento di suonare il campanello, ci trovammo spiazzati: quel cognome non appariva sulla pulsantiera, e non ci rimase altro che telefonare alla sventurata moglie.

"Ah, sì, sì! Dottor Schittzer… le apro subito".

"Grazie, signora. Eravamo un po’ disorientati, ci perdoni".

"Capisco… è per via del campanello, vero? E’ una delle tante manie di mio marito.

Non voleva essere rintracciato con facilità. Diceva che il mondo è pieno di scocciatori e, questo, era solo un piccolo stratagemma per tenere alla larga gli importuni.

Venite, vi aspetto".

Il tono della voce, come previsto, non era quello di una donna disperata. Feci un segno di assenso al mio socio, e salimmo…

Dopo aver scalato due ripide rampe di scale, ci trovammo di fronte ad una porta semiaperta dalla quale fuoriusciva un intenso fascio di luce. Udito il rumore dei nostri passi, ci venne incontro una donna sui quarant’anni, non bella e non brutta, ma molto curata nell’as- petto fisico e nell’abbigliamento. Una di quelle persone che suppliscono alle carenze della natura, insomma, con una cura maniacale dei dettagli. Mi bastò un solo sguardo per riconoscerla: era, senza alcun dubbio, la donna che piangeva con un occhio solo. Ancora una volta, non mi ero sbagliato…

"Buonasera… prego, prego, accomodatevi. Sono Lunezia Baracco Tiberi. Molto piacere - disse tendendo la mano - ".

"Ulisse Schittzer. E questo è il mio socio Agostino Guelfi, signora".

"Un nome interessante - disse a quel punto il mio collaboratore - ".

"Si riferisce a Lunezia, vero?".

"Sì, certamente".

"Beh… è colpa di mio padre. Era un idealista, e pensava che, un giorno, la nostra città si sarebbe scissa dalla Liguria, andando a formare, con altri capoluoghi confinanti, una nuova regione che avrebbe portato, appunto, il nome con il quale sono stata battez- zata".

"Uno splendido nome… ".

"Via, via… non faccia troppi complimenti - rispose la signora all’indirizzo di Agostino - . Entrate. Se tergiversiamo ancora un po’, la cena si raffredderà".

Entrammo. La dimora era all’altezza del volume di affari del caro avvocato ormai estinto. Mobili di antiquariato erano sapientemente mescolati a pezzi moderni e funzionali, e quadri di un certo pregio ricoprivano quasi tutte le pareti. A quel che sembrava, la scorrettez- za professionale rendeva. Rendeva un sacco di soldi, ma rendeva anche cadaveri…

La gentile ospite ci guidò immediatamente verso la sala da pranzo e ci fece sedere ad un lungo tavolo rettangolare del quale era apparec- chiata solo la parte che avremmo occupato. Una collaboratrice di colore iniziò immediatamente a servire le portate. Terminata dopo un paio d’ore abbondanti quella pantagruelica cena adatta, a ben pensarci, alla mole di chi ci aveva ( ahimè! ) abbandonato, ci accomodammo tutti in poltrona. Con un bicchiere di whisky in una mano ed un buon sigaro nell’altra, iniziai, finalmente, a sentirmi a mio agio.

"Bene! - dissi a quel punto - . Lei saprà perché siamo qui, signora Tiberi… ".

"Non faccio fatica ad immaginarlo. Voglio informarvi, tuttavia, che ho già subito un pesante interrogatorio da parte del commissario Degan, questa mattina, e non ho alcuna intenzione di farmi torchiare anche da voi".

"Non è questa la nostra intenzione, Lunezia - rispose Agostino - ".

"Lo spero bene! Sappiate che nel pool dei vostri finanziatori ci sono anch’io… ".

"Nel pool? - dissi stupito - ".

"Già, crede che non abbia interesse a sapere chi ha ucciso quella fabbrica d’oro che era mio marito? Vede, dottor Schittzer, io non ho mai voluto nemmeno lontanamente sapere di quali affari lui si occu- passe, ma la vita agiata che mi offriva non era una cosa sulla quale sputare, se mi passa l’espressione… ".

"Gliela passo senza alcun problema. Non creda che io sia poi un tipo così delicato… ".

"Quindi, per il momento, lei non ha nessun sospetto, nessun suggerimento da darci, nessuna traccia dalla quale possiamo iniziare a muoverci, Lunezia? - intervenne Agostino - ".

"Ne avrei fin troppe, in realtà… ".
"Si spieghi meglio - dissi io - ".

"Beh… è inutile negarlo, con voi. Non siete stupidi, a quanto mi risulta. Avrete già capito che tra me e mio marito l’amore era finito da un bel pezzo. Lui era un uomo, come dire, così avido di denaro e così egocentrico che non trovava il tempo di occuparsi di me e dei miei sentimenti, dei miei stati d’animo, dei miei problemi esistenzia- li, di tutto quello cioè che riguardasse la mia normale vita psichi- ca… si preoccupava soltanto di dimostrarmi le sue enormi capacità di guadagno. Lecito o illecito che fosse. Penso che fosse affetto da una sorta di peculiare narcisismo patologico… il suo amor proprio, lui, lo quantificava in base al denaro che riusciva ad incamerare. Ecco… questo era, forse, il suo tratto distintivo: se non riusciva a mettere le mani su un nuovo affare lucroso ogni giorno, si deprime- va, si sentiva inutile. E’ questa la molla che lo ha spinto costante- mente in avanti, sempre più avanti, fino alla morte, come avete potuto constatare".

"Sì, certo, comprendo… Ma chi può aver avuto interesse ad assassinarlo?".

"Qualcuno che ha subito un danno dalle sue attività, evidentemen- te… ".

"E lei, non conoscendo i traffici di suo marito, ovviamente, non è in grado di collaborare… ".

"Ovviamente… ".

"Non ci è di molto aiuto… ".

"Adesso sbaglia, dottor Schittzer. Per dimostrarle le mie intenzioni, le metterò a disposizione l’archivio dei contatti che mio marito cus- todiva, gelosamente celato, in una cartella crittografata sul compu- ter di casa. L’ho copiato su questo floppy. Lo prenda. Non dovrebbe essere difficile, per lei, trovare la chiave per decifrarlo".

"La ringrazio… La polizia, di certo, non ne saprà nulla".

"Infatti, la polizia non ne è al corrente".

"Bene! Lo prendo molto volentieri. Spero sia di qualche utilità… ". "Lo sarà, non dubiti… ".

"Prima di andarcene, però, voglio chiederle un ultimo favore, signora Tiberi… ".

"Dica pure, dottor Schittzer. Per me è un piacere esaudirla".

"Avrei bisogno di usare il suo bagno… ".

"Lourdes! Lourdes! - urlò Lunezia, a quel punto - . Ma dove ti sei cacciata? Quando servi, non ci sei mai".

Si aprì una porta e la collaboratrice di colore arrivò tutta trafelata.

"Agli ordini, signora. Mi scusi, ma stavo riordinando la cucina… ". "Ok, ok, non fa niente… Mostra il bagno al dottore".

Seguendo la donna, raggiunsi finalmente la stanza agognata. Il mio intestino, invero piuttosto abitudinario, a quell’ora, era arrivato al limite di sopportazione e, per giunta, nessun delegato poteva sosti- tuirmi in quel compito. Fu così che mi trovai costretto ad abbando- nare provvisoriamente la gradevole compagnia. Non avendo fretta, presi la cosa con comodo. Quando uscii, tuttavia, non erano passati che quindici, venti minuti al massimo. Percorrendo a ritroso la strada fatta all’andata per ricongiungermi ai miei commensali, mi resi però improvvisamente conto di essere del tutto solo… Una situazione veramente insolita. Iniziai allora ad esplorare, una ad una, le stanze limitrofe e a tendere le orecchie nella speranza di captare qualche rumore: nulla di nulla! Che fossero usciti? Non potevo credere ad un’ipotesi del genere. Agostino non mi avrebbe mai abbandonato in quella maniera… Ed infatti, dopo affannose ricerche, guidato da uno strano mugolio ritmato, scoprii che era proprio come pensavo: Ago era ancora in quella casa. Nella stanza da letto, per l’esattezza, e teneva impegnata la povera vedova in un vigoroso amplesso. I due, per la fretta probabilmente, non si erano nemmeno preoccupati di chiudere la porta, così che fui praticamente costretto a dare una breve sbirciata all’interno (molto breve: non ho proprio lo spirito del voiyeur, sapete). La breve sbirciata fu tuttavia sufficiente a mostrarmi una Lunezia molto diligente ed indaffarata al punto giusto: non doveva essere molto facile soddisfare le brame di Agostino, considerata la rarità dei suoi congiungimenti carnali, in effetti… A quel punto, forse a causa di un moto di compassione per il povero Tiberi, o forse per disgusto, me ne andai.Lo feci con discre- zione: in punta di piedi. La padrona di casa stava celebrando il rito della <liberazione>, ed io non volevo interromperlo…

 

(Segue...)