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Norah Jones - Come away with me - Blue Note Records

Dopo Cassandra Wilson e Rachelle Ferrell, un'altra voce femminile pare destinata a calamitare l'interesse di chi apprezza una musica non necessariamente "impegnata" e difficile, tuttavia non banale e scontata. Non è jazz (cioè bop o swing), non è soul o blues, ma qualcosa che, pur raccogliendo linee melodiche e sviluppi armonici comuni a questi generi, si presenta con alto tasso di originalità, garantito da una strumentazione professionalmente impeccabile ovvero, in altre parole, da musicisti con le palle, capaci di accompagnare e ben consapevoli di cosa viene richiesto in contesti di questo tipo: nessun eccesso virtuosistico e solistico, ma una presenza misurata.
Del resto, basta sentire il disco per rendersene conto. Valga ad esempio il breve assolo di chitarra in Shoot the moon. Ci voleva, ma non doveva essere più lungo ed invadente.

Può sorprendere, ma ormai è un elemento comune alle citate Wilson e Ferrell, che manchino i "fiati" in un contesto comunque prossimo al jazz. Sax e tromba sono, si sa, il sale e le speziatura aromatica di questa musica, tanto quanto la ritmica di basso, batteria e percussioni ne forgia l'ossatura. Eppure l'assenza non si avverte. Tutto scorre ugualmente senza lo screamin' sound del trombettista di turno o l'acuto fraseggio di un alto.
Certo, mi piacerebbe risentire queste canzoni live, in un locale soft non troppo affollato, con tanto di sax e flugehorn, magari più mosse. Ma questo, depone a favore del disco e delle sue qualità, e non va preso come una critica.

In un intervista parzialmente raccolta da Ezio Guaitamacchi sulle colonne di Jam, Norah ha detto di non sentirsi, per ora, una cantante di jazz, come le emergenti Diana Krall, Jane Monheit e Patricia Barber. "Loro cantano standard e lo fanno benissimo. Io mi muovo maggiormente a mio agio nel territorio della canzone d'autore."
Ma chi è Norah Jones?
Diciamo, intanto, che ha ventitrè anni, essendo nata il 30 marzo del 1979. E' figlia del musicista indiano Ravi Shankar, ma sembra non gradisca lo si sappia in giro, non sappiamo se per oscuri motivi di conflittualità familiare ,o per più consistenti timori di confronti e pesanti eredità artistiche, sempre difficili da portare.
Comunque, crescere in un ambiente nel quale si fa musica ogni giorno ( e che musica), se non ogni ora, di certo aiuta a sviluppare i talenti più riposti e Norah ne ha da vendere.
Dopo il diploma, raccoglie premi e consensi, frequenta l'università del North Texas e si laurea in piano jazz. Il che depone a favore di una preparazione di base, scusate se è poco.
Sarebbe ora che la musica cominciassero di nuovo a farla i musicisti e non quelli che sanno solo pestare tre accordi (come il sottoscritto!) o confezionare campionature.
Nel '99, si trasferisce a New york e qui ha modo di conoscere numerosi musicisti, tra i quali quelli che formano oggi l'ensemble che è solito accompagnarla. Il bassista Lee Alexander ed il chitarrista Jesse Harris sono tra questi e firmano numerosi brani del disco.

I paragoni sono sempre antipatici ma, qualche volta aiutano a capire. Norah Jones ricorda Natalie Merchant, che mi piace un sacco, ma Norah è musicalmente molto più varia e più brava, secondo me, anche se la bella Natalie è, per ora, più forte, rigogliosa e matura sotto il profilo dell'interpretazione tout court.

Tutti i brani sono "belli", ma qualcuno, ovviamente, è più bello degli altri.
Assolutamente prezioso ed imperdibile Turn Me On, un classico di J.D. Loudermilk, che Norah canta con una certa grinta (che manca negli altri brani) ed una erre moscia affascinante e graziosa.
L'iniziale Don't know why, dovuto alla sapiente calligrafia di Jesse Harris, anticipa perfettamente tutta l'atmosfera del disco e se presti attenzione alle parole ci trovi qualcosa di intrigante, pericoloso, una deriva che si può cantare, ma guai a seguirla.

Out across the endless sea
I would die in ecstasy
But I'll be a bag of bones
Driving down the road alone

My heart is drenched in wine
But you'll be on my mind
Forever

Mi piace terribilmente la track numero 9, ancora a firma di Jesse Harris.
I've Got To See You Again è introdotta da un violino vagamente gipsy e la ritmica è un po' sgangherata, a metà tra un film felliniano sullo stile Dolce vita (Roma anni '50, via Veneto, Anitona semidesnuda nella fontana di Trevi) e un tango da balera romagnola d'entroterra. Una canzone così ti mette addosso qualche brivido.

Altri pezzi forti della raccolta sono Cold Cold Heart di Hank Williams (il capostipite), interpretato sulla scia di Dinah Washington, quindi non in chiave country, e la track 11, One Flight Down, sempre di Jesse Harris, un brano che si potrebbe ballare se non allacciati, quanto meno in posizione classica, con un braccio che sorregge la schiena e la mano che stringe l'altra.


Guido Marenco - © Mystery Train - 12 maggio 2002