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Dianne Reeves - The Calling (celebrating Sarah Vaughan) Blue Note Records - 2001 -------------------------------------------------------------------------------- Presentato pomposamente con tanto di etichetta Disco del Mese appiccicata sulla confezione, spinto dalla solita stampa e dai soliti giornalisti con la solita enfasi, pubblicizzato a suon di dollari su spazi patinati, The Calling non si presentava con le migliori credenziali. Diffido sempre delle anteprime celebrate come evento dell'anno, se non del secolo, e dei prodotti troppo pubblicizzati. Ma, a conferma che non ci sono regole fisse, chi ha speso i quasi venti euro necessari per l'acquisto, si sarà convinto che non sono stati soldi gettati. Tutt'altro. A volte è oro anche quel che luccica di più. Dischi così sono, in fondo, necessari per diversi motivi. Ti può capitare la serata storta, quella nella quale non hai voglia di leggere, vedere la tv, uscire con qualche amico, nemmeno i più veri, quelli con cui discuti facilmente di tutto, dai massimi sistemi all'arte del bere, dal bricolage all'alpinismo, dalle donne alla situazione politica. Non hai nemmeno voglia di musica impegnata oltre una certa soglia. Andrebbe bene una sonata di Schubert, ma l'idea di stare in compagnia di un solo pianista, sia pure del calibro di Alfred Brendel, ti mette un po' d'angoscia ed un po' di freddo nelle ossa. Ed ecco che l'occhio cade su questo prodotto commerciale, sulla splendida e matronale figura di Dianne, ecco che metti il cd sul lettore, poi ti ficchi in poltrona con un bicchiere di scotch tra le mani, e chiudi gli occhi. Rilassati: la partenza è magnifica, sontuosa. Lullaby Of Birdland, orchestrata a meraviglia. E' un brano ampio, denso di respiro, di fiati incandescenti che swingano, di colori discreti e luminosi. Shappararararara shapparararara, la voce si presenta così, nitida, chiara, padrona di ogni singola nota, tenera quanto basta, più che altro salda, come un massiccio montuoso, un vecchio mobile di vero legno, un locomotore in testa al treno in partenza per Mystery Town. Ma, anche mobile, dinamica, capace di arresti improvvisi, ripartenze e scatti, sostenuta da un soffio interiore che fa pensare a polmoni da delfinista. Grande questa Dianne, per sensibilità, timbro, possanza vocale, senso del tempo, duttilità. Grande, perchè anche bella, da contemplare, da omaggiare con fiori, da baciamano senza cadere in un ridicolo cicisbeismo. E torniamo alla musica. Il jazz a volte se ne va, altre ritorna imperioso. Certi brani sono musica leggera nel vecchio senso del termine, musica retrò, anni '50 e '60, da Bruno Canfora e orchestra RAI. Insomma; non è tutto jazz, ci sono vocalizzi orientaleggianti, arabismi e turcherie di maniera, tanti violini, un'arpa, sottofondi ritmici tra il samba e il caraibico, intrisioni nel vocalese, viole che si aggiungono ai violini, violoncelli che corteggiano le viole, ciclamini e rose rosse che sbocciano ovunque. Il jazz vero, dammi retta, è un'altra cosa, che però a tratti riappare, si impone, si fa sentire. Sfogliando le note di copertine, rigorosamente in inglese, anzi, americano, ( e te pareva che ti regalassero, na vorta, la traduzione) veniamo a sapere che "Dianne has fondness for crossing musical borders as if they didn't exist." Siamo alle solite frasi fatte del tipo: non esiste il jazz, esiste la musica. Ma in questo caso, pare a me, è possibile affermare proprio il contrario: non esiste la "musica", esistono tipi di musica, e quello contenuto in questo disco si presterebbe a diverse definizioni, ma una prevale sulle altre. E' musica leggera di classe, frutto di un mestiere consolidato, che utilizza fior di musicisti, i quali, in genere, fanno jazz a grande livello, come il trombettista Clark Terry, e qui ripropongono parte del loro talento, utilizzandolo, finalizzandolo ad un prodotto adatto ad un pubblico più largo del ristretto cenacolo degli amatori del jazz. Certo, se pensi a che significa più "largo", ti potrebbe prendere uno scrupolo politico-sociologico. Questa è proprio la musica più tartassata dalla critica militante. E' arte borghese d'intrattenimento, il sound soporifero che non fa pensare, che riporta tutto all'indistinto benessere della società opulenta, dove anche il poveraccio si può permettere di consumare il prodotto stile Cadillac, firmando cambiali o privandosi di un week end. Pensieri cattivi. I hate this music, na vorta. Adesso l'apprezzo perchè sono, in fondo, un integrato. O perchè affronto il problema musica senza pregiudizi, senza cercare a priori cosa veicola ideologicamente. Cioè, sono solo me stesso, solo con me stesso, di fronte all'evento. Perchè dovrei dire che preferisco la musica dei cubani, quando non è vero? Forse che a Cuba si fanno dischi in modo differente? No, la vera differenza è che a Cuba sono pochi gli ascoltatori passivi. A Cuba c'è tempo per suonare ed oziare. Il sistema lo consente senza importi il marchio d'infamia di lavativo, drogato, frequentatore di centri sociali. Qui il musicista d'occasione, quello che non passa per i conservatori, rischia l'emarginazione, la vita del diverso e dell'eccentrico, e solo se ha successo, diventa qualcuno. Bah... Se metti The Calling sul lettore in una serata così, non lo levi se non per ascoltare l'originale, cioè Sarah Vaughan, e magari istituire paragoni, che non sempre sono antipatici, tra omaggiata ed omaggiante. Ma devi averlo, altrimenti rimani inchiodato alla poltrona, ti fai un altro scotch e ti accendi il sigaro, abbandonandoti completamente alla seduzione di questa musica. Embreaceble You, ad esempio, classico di Gershwin e Gershwin, un tempo maltrattato da Charlie Parker e Dizzy Gillespie nel loro furore bop, ritorna qui nella veste che gli è più consona, quella della ballad lenta e confidenziale. Non mi entusiasma l'accompagnamento chitarristico di Russell Malone. A mio avviso il tizio cicca l'entrata, che "stona" con l'intro sviluppato dalla sezione orchestrale. Poi si riprende, ovvio, ed è godibile. Ma, fatto l'appunto, bisogna dire che il brano è eseguito in maniera impeccabile e Dianne mi sembra molto ok. Altra chicca Speak Low, dovuta all'estro di Kurt Weill e O. Nash. Ma il mio brano preferito è Obsession, di Caymini, Peranzetta e Mann. Dura la bellezza di 7'37" ed è un pezzo che consente a Dianne di mostrare tutta la gamma delle sue possibilità vocali, variando dal vibrante cantato su un ritmo sudamericano, al più incalzante vocalese. Questo è tutto quello che avevo da dire. -------------------------------------------------------------------------------- gm - da appunti presi a dicembre 2001 o forse gennaio 2002 - 20 settembre 2002 |
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