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Miles Davis - Bitches Brew - Columbia - 1970


Si era in un'epoca definibile come "il tempo dei grandi tradimenti."
Bob Dylan aveva appena scelto di elettrificare le proprie ballate, suscitando lo sdegno dei puristi del folk e dei fans della canzone militante, ed ecco che nel breve volgere di una stagione anche Miles Davis trovava il coraggio di rivoluzionare il linguaggio del jazz.
Già con il precedente album In A Silent Way (vedi) erano state poste solide basi allo sconvolgimento, ma fu con in Bitches Brew che il "misfatto" venne consumato fino in fondo. Nasceva un tipo di musica del tutto diverso da quelli conosciuti: il cosiddetto jazz-rock, un sound costruito su una base ritmica mai utilizzata in precedenza dai musicisti jazz. Ritmi tribali ossessivi, scuri, per certi aspetti inquietanti, fornivano una trama percussiva scandita dal gioco delle tastiere elettriche, dal basso e dalla chitarra a tratti davvero sciamanica di John Mc Laughlin. Su tale tessuto a trama fitta si innestavano le invenzioni a volte geniali, e sempre, comunque, sorprendenti, del soprano di Wayne Shorter, del clarinetto basso di Bennie Maupin e della tromba di Miles.
Molti critici hanno visto la cosa solo dal lato della storia del jazz, evidenziando enfaticamente o la degenerazione negativa o, al contrario, l'evoluzione verso strutture sempre più ibride, un imbastardimento che spalancava nuovi orizzonti. Quasi nessuno, però, sottolineava che il maggior beneficiato era lo stesso rock, che veniva così a trarre linfa vitale ed idee nuovissime, sicuramente molto più sostanziose rispetto a certe cervellotiche elucubrazioni che cominciavano a prendere forma nel genere che molto pomposamente si sarebbe, poi, autodefinito come progressive-rock.
Non ho mai nutrito alcuna passione per il progressive che, per la verità, mi ha sempre annoiato anche quando ero ispirato dal massimo della curiosità. Mi viene quindi facile dire che se il genere si è sostanziato, qualche volta, in qualcosa di più significativo, è perchè i musicisti progressive hanno tratto ispirazione dalle riuscite alchimie di Davis e soci.
Bitches Brew fu certamente il lavoro che nel tempo venne a vantare il maggior numero di tentativi di imitazione. Pochi riusciti, moltissimi falliti, ed altri semplicemente giustificati dal fatto che dopo Bitches Brew molta gente chiedeva a gran voce quel tipo di musica.
E qui il lettore alle prime armi deve essere avvisato. Il jazz-rock di Bitches Brew non è affatto musica di facile suggestione e di ascolto distratto e rilassato, come tante sue imitazioni. Tutt'altro. A prescindere dall'ultimo brano contenuto nel secondo cd, che non compariva negli ellepì originali, il davvero sperimentale Felo, tutti i pezzi non vanno così distante, come spesso - al contrario - si è detto, dal suono delle avanguardie free più radicali.
Con questo, non voglio dire che siamo al free-jazz, ci mancherebbe. Ma, a ben guardare, il sound davisiano è più vicino ai territori della black music rivoluzionaria che a quelli del jazz tradizionale ed il risultato finale suona, è il caso di dirlo, più prossimo ad Eric Dolphy e Ornette Coleman che al bop ed al cool che in quegli anni imperavano ancora.
Dunque, bando ai fraitendimenti, Bitches Brew non conteneva musica volgare e di bassa cucina, ma offriva una serie di portate di turgida e raffinata qualità, una ghiotta squisitezza in cui mordere ancora.

Il neofita farebbe bene a mettere sul lettore subito il secondo cd ed avviare la traccia numero 3, Miles Runs The Voodoo Down. Certamente è il brano più intrigante e più "facile". Ma a chi trovasse il tempo di spegnare la luce ed adagiarsi comodo e rilassato in poltrona, andrà benissimo partire dall'inizio: Pharaoh's Dance, una suite di 20' che apre le danze in perfetta sintonia con quello che promette il disegno in copertina, è lo scossone che aspettavi per rivedere molti dei tuoi pregiudizi sulla musica. Sembra l'ideale per accompagnare un viaggio mentale nel continente Africa alla ricerca di quelle ancestrali radici che sembrano rappresentare l'autentica origine della specie umana.
Ascolto sovente questo pezzo, al punto da conoscerlo come le mie tasche, ma ogni volta ci scopro qualcosa di nuovo, ed ogni volta non riesco a sottrarmi al fascino di un abbandono alla visioni dell'Africa ed al libero scorrere dell'immaginazione sugli scorci più riposti e segreti: un ippopotamo immerso nel fango, un coccodrillo appostato al guado, una mandria di grossi mammiferi con le lunghe e pesanti corna, un leone ed una leonessa addormentati ai margini della savana, lunghi watussi impegnati in una danza con la testa ciondolante e la riccia capigliatura ricoperta di piume bianche strappate a qualche uccello sconosciuto, insetti fastidiosi e letali che ti avvolgono in una fitta nebbia, nuvole di cavallette, la lotta per la vita che ovunque si svolge con crudele e spietata insistenza, iene ed avvoltoi che finiscono i cadaveri spolpando ogni osso. Tutte le strade portano a Timboctou, alle gialle mura che la circondano, al deserto di sabbia attraversato da carovane da mercanti arabi di carne umana, schiavi da vendere al mercato.

Ecco, se possibile, al di là probabilmente delle stesse intenzioni, la musica di Miles Davis racconta tutto questo e anche dell'altro.
Nella seconda suite del primo cd, Bitches Brew, le cose sono ancora più esplicite. La tromba di Miles fende l'aria con un suono tagliente e glorioso, come per annunciare eventi grandiosi e cantare un'epica sconosciuta e dolente.
E vabbé, non so perchè mi sono perso in tali suggestioni. Questa musica parla da sé, come tutta la buona musica di sempre. Non ha bisogno di enfasi e frasi che dicono niente, alla fin fine, per essere ascoltata, compresa, metabolizzata. L'ascolto ci rende più sensibili, più aperti, più intelligenti, se possibile. Che altro? Ah, dimenticavo, procura un immenso piacere al corpo, alla mente, al cuore.



gm - 20 febbraio 2003