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Miles Davis - In A Silent Way
cd - CBS 450982 2


18 febbraio 1969: vanno in studio Miles Davis, Herbie Hancock, Chick Corea, Wayne Shorter, Dave Holland, Josef Zawinul, John Mc Laughlin e Tony Williams.
Una overdose di tastieristi; un'esagerazione. Che ci facevano insieme anche Corea ed Hancock, visto che sarebbe bastato Josef Zawinul? Mistero, che l'ascolto non aiuta a chiarire, anche perchè non troviamo un diluvio di note. Anzi, come spesso accade con Miles, i suoni sono parchi e parsimoniosi; John Mc Laughlin, il chitarrista, si prese un certo giusto spazio, mentre Wayne Shorter, al sax tenore, non stava certo a guardare.
Tre pianisti, ovvero sei mani, per suonare un plin plin che avrei potuto fare anch'io ( relativamente, s'intende) sembrano uno spreco inenarrabile.

Ma, a prescindere da questa singolare situazione, il disco emanava ed emana un fascino particolare, anche a distanza di anni.
Un collezionista dovrebbe avere questo cd, o questo disco. Che, tra l'altro, ed è la cosa più importante, è anche bello! Non si rischia di metterlo nello scaffale e dimenticarselo.
Ma poichè i dischi di questo genere (cioè anche belli) sono tanti, vediamo di spiegare perchè, secondo me, fu storico.

Qui nacque la fusion, cioè quella musica che mescolava jazz e ritmiche rock, e il disco anticipò in larga misura l'incisione storica che tutti considerano tale, Bitches Brew, registrata nell'agosto dello stesso anno.

Ora si tratta di capire: fusion non significa volgarizzazione; significa in primo luogo elettrificazione ed amplificazione, cioè ricorso alla tecnologia, a chitarre, basso e tastiere amplificate, perdita della naturalezza del suono degli strumenti acustici a favore di sofisticazioni rese possibili dall'organo elettrico, dal piano elettrico, dal basso amplificato.
Ciò non era una novità: Bill Evans aveva già suonato il piano elettrico.
La chitarra elettrica era entrata da tempo nelle formazioni jazz, anche se nessuno dei jazzisti l'aveva suonata alla maniera di Jimi Hendrix o di Eric Clapton, od anche solo di bluesmen come Freddy King o Samuel Maghett.
E non aspettetatevi che Mc Laughlin faccia il verso ai sopraddetti. La sua chitarra continuava a suonare jazzy. Ciò che cambiava, con la fusion, non era l'anima della musica, ma il volume delle sonorità, che risultava udibile anche in enormi spazi aperti, e che piaceva alle masse raccolte in un campus od in uno stadio per la sua potenza e solennità evocativa.

Miles svoltava, dunque, in una direzione che molti puristi bollarono come commerciale. Secondo loro tradiva il jazz per un pugno di dollari. Discorso che si sente spesso a proposito ed a sproposito, ancor oggi.

Certo: i dati parlano chiaro: prima di In A Silent Way, anche capolavori come Miles Ahead o Filles De Kilimanjaro non avevano venduto più di trentamila copie. Bitches Brew volò a mezzo milione di copie, un successo da rock star.
Mentre la critica jazz (americana) si ostinava nel lodare musicisti puri come il pianista Mc Coy Tyner o l'ancora più ostico, puro e duro, Cecil Taylor, il pubblico votava i dischi di Miles come i migliori, e li comprava.

Nell'agosto del '69, mentre si celebrava il festival di Woodstock, Miles era in tutt'altro affaccendato.
Ma, nel '70 il nostro venne acclamato al rock festival dell'Isola di Wight come un dio, un profeta del nuovo verbo musicale. Abbandonato il classico smoking del bopper dolente nei night in bianco e nero frequentati da Philip Marlowe ed Humphrey Bogart, il nostro vestiva con giacca di pelle rossa, stivaletti argentati ed occhiali scuri. Era uno di loro, una stella del business music system immortalata con cori da stadio, sotto un diluvio di luce e psichedelia, fumo di hashish e tenerezze da bassi fondi.
Wight, sotto un certo aspetto, fu anche sconcezza. Un presentatore chiamò pigs la gente che stava là sotto a rotolarsi nel fango, impegnata in danze lascive. Ragazze furono violentate o si fecero violentare; i confini tra il bene ed il male furono nientificati per alcune ore, comprese quelle in cui Miles fece del suo meglio per spiegare quale musica si poteva suonare, senza strapazzare le chitarre e demolire gli strumenti in un dionisiaco furore, com'era di moda allora.
Già questo sarebbe notevole come risultato: attraverso Miles, e più tardi Mc Laughlin, Zawinul e Shorter, i giovani ebbero la chance di una musica diversa, che portava al jazz anche se non era più solo jazz dei tempi andati.

Ma, detto questo, il problema rimane: si può bollare come degenerazione commerciale una buona musica che aveva il torto di piacere ad una massa che non si accontentava dei Deep Purple e cercava qualcosa di meno rozzo e tonitrante, realizzato però con nuove tecnologie?
I gusti son gusti, ed in musica più che mai, le valutazioni soggettive hanno un peso indiscutibile.
Ognuno di noi arriva al giudizio in base alle proprie esperienze, a ciò che ha ascoltato in precedenza ed anche rispetto a ciò che lo ha eccitato ed appagato. Nessuno di noi chiede alla musica qualcosa di esattamente uguale ad un altro. E nessuno riceve nella stessa misura. Chi ha orecchio, coglie sfumature che un altro si perde, e chi ha orecchio addestrato e rotto ad ogni esperienza, arriva ancora più lontano.
Trovare, dunque, un metro di valutazione oggettiva e dare un voto è non solo difficile, ma rischioso perchè si potrebbe instaurare la convinzione che esiste una scala di valori per generi. Prima, ad esempio, viene il vero jazz, poi la fusion, che è una sottospecie.
Tutto questo non è accettabile, se non a posteriori, ovvero partendo dalla constatazione che i grandi dischi di fusion non sono stati moltissimi.
Il seguito è una ripetizione assai stanca. Potremmo salvare i Weather Report, qualcosa degli Steps Ahead, qualcosa della Mahavishnu di Mc Laughlin, ancora qualcosa di Yellowjackets, ma gli stessi Hancok e Corea produssero indubbiamente pessima musica, si persero letteralmente per anni.

Questo mi sembra l'unico discorso onesto su luci ed ombre della fusion.

Ma veniamo al nocciolo.
La durata del disco è poverella: due suites di circa 20 minuti, totale 40' di musica, anzi, un po' meno. La prima , Shhh/Peaceful è a firma dello stesso Miles Davis. La seconda, In A Silent Way/It's About That Time fu firmata da Josef Zawinul, l'austriaco che si era fatto le ossa suonando con il sanguigno Cannonball Adderley.

Shhh/Peaceful è la gemma imperdibile per chi ama situazioni musicali non scontate. C'è da notare il drumming di Tony Williams, subito. Williams costruì una spinta uniforme, persino monotona, ma leggermente sbilanciata in avanti, quanto bastava a a dare un ground dinamico.
Giocava molto sui piatti e poco (quasi niente) sui tamburi, il sottofondo era più il risultato di un magico sfregamento di coltelli e forchette che di un picchiare con le bacchette sulla pelle dell'asino.
Se hai orecchio, puoi divertirti a trovare il basso di Dave Holland. Rimetti il cd da capo. Sicuro, hai perso qualcosa. C'è un da dum che rilancia dopo ogni ripiegamento, energetico quanto serve, ed è Holland a darlo.
One, two, three...da dum.
Poi nota gli arpeggi di Mc Laughlin, sono di grande livello. Ma è la tromba di Miles che da quel di più, che in altri dischi di fusion non troverai mai.
Secondo me, in questa suite Miles si superò. Non vorrei sembrare pedante, ma, tutte le volte che entra la tromba accade qualcosa di magico. Il suono è esile, acuto e disteso; non ha il corposo vibrato di tanti altri trombettisti.
Il contesto esalta questo tipo di sonorità, anche se, poi capisci che non basta il timbro del tutto inusuale: Miles è grande perchè pesca dal suo mondo interiore idee musicali che altri non hanno, o non sanno di avere.

Dicono di questa musica, la fusion inventata da Miles Davis, Wayne Shorter e Josef Zawinul, che fu un misto di improvvisazione jazz e di stilemi rock non dozzinali.
Vorrei capire dove sta l'improvvisazione jazz. Sfoglia l'album con certosina cura e dimmi dove, secondo te, c'è improvvisazione.
Secondo me, qui è tutto costruito e programmato, o quasi, e questo non leva una virgola al valore della musica.
I musicisti eseguono seguendo un copione. Tutt'al più improvvisano sul tema, ma il tema è dato, con precisione.
la vera differenza tra questo jazz e quello precedente è che c'è meno improvvisazione in tutti i sensi del termine.
La fusion gioca a zona, applicando schemi, mentre il jazz precedente giocava a uomo, lasciando i fuoriclasse in tutta libertà di espressione, di agire in contropiede e variare a piacimento.
Era molta più vicina allo spirito del rock-jam, dei grandi concerti anni '70, il jazz-spettacolo varato da Norman Granz ai vari festival di Montreaux, riciclando vecchie glorie come il diluviante Oscar Peterson o l'inarrestabile Dizzie Gillespie. E' quel tipo di musica che si ascolta nei dischi della Pablo, molto commerciali, a mio avviso, anche se andrei cauto a definirla una degenerazione a sua volta. Il problema, in questi casi, è che una certa vena creativa si era esaurita e che i grandi degli anni '40 e '50 facevano solo più il verso a sé stessi, gigioneggiando.

In A Silent Way, dunque, segnò la fine del culto dell'improvvisazione. .
Secondo me ce n'era bisogno. Bisognava limitare l'estro per ridargli un valore. Miles fu capace di questo, insieme a Shorter. La composizione meditata tornava ad avere il giusto peso, ed era in fortissima controtendenza.
Mentre il jazz più tradizionale era ormai votato alle jam organizzate da Granz, e quello d'avanguardia si era gettato nell'avventura del free, cioè dell'assoluta libertà concessa agli strumentisti di suonare indipendentemente da un contesto armonico (con risultati a volte eccezionali, e tantissime solo irritanti) Miles & company seppero parlare con la musica alla massa di ignoranti (a cui mi onoro di appartenere) cresciuti a rock'n'roll, vitamine e proteine.


gm - 10 settembre 2002