salernostoria/dossier il delitto di via Masuccio Salernitano
cronaca, immagini, documenti |
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tutti i particolari dell’orrore | la vittima | l’eliminatore | il palo |
Circa alla metà del Cinquecento, lungo la via della Giudaica, oggi Masuccio Salernitano, su preesistenze urbanistiche di cui mai conosceremo l’identità a causa dello sciagurato agire di due soggetti già noti alle cronache del sacco urbanistico del centro storico cittadino, il sindaco Vincenzo De Luca (l’eliminatore) e il soprintendente per i Beni Architettonici Giuseppe Zampino (il palo), la famiglia d’Avossa edificò un immobile (la vittima) in tre piani e terranei nella tipica edilizia frammentaria dell’epoca. Due secoli dopo, i Lauro Grotto, subentrati nella proprietà con Andrea Filippo, che aveva sposato donna Diodata, figlia di Giacomo d’Avossa, arricchirono il palazzo di un piano nobile, il quarto. |
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In alto: prospetto In basso: immagini dal quarto piano
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Pervenuto alla famiglia Renna, una parte minoritaria fu ceduta ai Di Donato mentre la parte maggioritaria, ancora per linea ereditaria femminile, fu appannaggio delle signore Maria Sofia e Concetta Desiderio. Istauratasi una complessa vicenda giudiziaria fra le dette signore (delle quali diventeranno eredi i signori Sabbetta, figli e donatari della prima, nipoti della seconda e da lei acquirenti), l’amministrazione del condominio e alcune imprese nel tempo incaricate di eseguire interventi di ristrutturazione in realtà mai condotti a termine, l’immobile fu portato ad essere un pericolo per la pubblica incolumità. Nel 1992 (ordinanza sindacale 35) fu intimato alla proprietà l’esecuzione di lavori di messa in sicurezza di somma urgenza, ma, in presenza dell’impossibilità pratica dell’esecuzione stante la lite giudiziaria di cui sopra, le Amministrazioni succedutesi con sindaci ad elezione diretta (due mandati De Luca, uno De Biase) non si attivarono per una esecuzione coatta di quell’ordinanza e di altre che seguirono (145 e 145b del 1998, 35 del 2002) con il recupero statico dello storico edificio in danno dei proprietari inadempienti, né l’intervento pubblico fu sollecitato dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici, che nel tempo mai si interessò all’immobile e mai lo sottopose ad alcun vincolo storico, artistico e/o architettonico perché assolutamente privo di ogni caratteristica di pregio (!). Il 6 settembre 2006 l’amministrazione del condominio ottenne dallo Sportello Unico per l’Edilizia il permesso di costruire (n. 204), ed in effetti lavori di ristrutturazione furono intrapresi, ma, nell’impossibilità pratica di rapportarsi con la proprietà in presenza della lite giudiziaria che mai ha avuto sbocco, la direzione dei lavori, con protocollo 210184 del 31 dicembre 2008, sollecitava un intervento diretto dell’Amministrazione comunale nel completamento dell’opera, con la definitiva messa in sicurezza dell’immobile. Il 12 maggio 2009, il prof. ing. Ciro Faella, Ordinario di Tecnica delle Costruzioni presso l’università di Salerno, redige, su incarico del Comune, una perizia che consiglia la demolizione parziale o totale del fabbricato (in pratica aperta a qualsiasi soluzione). Il 23 giugno, con protocollo 114307, la perizia è trasmessa alla proprietà con diffida a porre in essere ad horas gli interventi tecnici indicati (quali?, demolizione parziale o totale?). Ma il sindaco Vincenzo De Luca, da un triennio entrato nel terzo mandato, dopo minacce di demolizione ormai annose e dopo patetici appelli dei bimbi residenti nella via (di cui uno indirizzato addirittura al Papa), ha già politicamente venduto l’impegno per la creazione di una nuova piazza al servizio del commercio locale (quindi nessuna intenzione di intervento pubblico per la tutela del patrimonio storico-urbanistico della città, ma delitto premeditato). |
Infatti, il 24 giugno (ma gli interventi tecnici sollecitati il giorno prima alla proprietà dovevano essere avviati nella notte?), la Giunta Comunale, con delibera 797, approva il progetto esecutivo per la messa in sicurezza dell’immobile (costo € 633.000,00) che prevede, come recita il protocollo 9220 del 24 luglio emesso dalla Direzione Opere e Lavori Pubblici del Comune, il preconsolidamento di alcuni elementi dell’edificio per garantire le minime condizioni di sicurezza delle successive fasi lavorative; e la demolizione delle parti non recuperabili del fabbricato partendo dalla copertura e procedendo verso i piani più bassi. Il 17 luglio, la Soprintendenza per i beni Architettonici, con nota 20154, aveva chiesto al Comune che, a fronte dell’annunciata completa demolizione del palazzo (evidentemente si riferivano ai proclami estemporanei del Sindaco, visto che gli atti ufficiali parlavano solo di demolizione delle parti non recuperabili), ravvisando la possibile perdita di beni di interesse culturale, si procedesse alle sole rimozioni delle parti pericolanti e non si eseguissero demolizioni generalizzate. Il 31 luglio rappresentanti del Comune e della Soprintendenza effettuano un sopralluogo congiunto finalizzato alla individuazione della eventuale presenza di parti di interesse storico o architettonico, sopralluogo che non fa emergere alcun “interesse culturale” (!); quindi, non avendo visto niente di “interesse culturale”, in data 26 agosto, la Soprintendenza comunicherà alla proprietà, che aveva invocato la vigilanza sull’immobile: l’edificio non è oggetto di alcun provvedimento di tutela emesso da questo Ministero, né di dichiarazione di interesse culturale: pertanto, non sussistendo i presupposti di legge, per questo Ufficio non ricorrono obblighi di vigilanza. |
In alto: volte In basso: immagini dai piani cinquecenteschi
Elementi architettonici di nessun interesse culturale (!) secondo gli esperti della Soprintendenza per i Beni Architettonici e il direttore dei lavori. |
Intanto, a demolizione avviata (freneticamente condotta giorno, notte e festivi), il 21 luglio la proprietà ottiene dal TAR il decreto 1796 che accoglie l’istanza di provvedimenti cautelari ante causam fissando la camera di consiglio per il successivo giorno 30, quando esclude ogni ipotesi di abbattimento generalizzato e rimanda al consolidamento statico delle parti recuperabili. Il 3 agosto, protocollo 139965 del giorno successivo, il sindaco, furbescamente, emette una nuova ordinanza ove si parla della necessità di eseguire immediatamente le attività di demolizione per parti (?), ma la proprietà, ravvisando l’inghippo, ricorre ancora al TAR che il 7 agosto, con decreto 1957, ordina il sequestro del cantiere in attesa che, a seguito di perizia d’ufficio commissionata al Genio Civile la stessa Magistratura amministrativa deliberi sul da farsi. Il 3 settembre, con ordinanza 1984, il TAR, atteso che la perizia tecnica d’ufficio, redatta dall’ing. Sansone, recita che non è indispensabile la demolizione totale poiché è possibile raggiungere la finalità della salvaguardia della pubblica e privata incolumità attraverso la demolizione parziale dell’edificio, accoglie la domanda di sospensione della proprietà ordinando alla stessa di depositare presso l’Amministrazione comunale un progetto di risanamento dell’immobile oggetto di causa nel termine perentorio di quindici giorni. Il 7 settembre su Cronache del Mezzogiorno compare una lettera del curatore di questo sito con la quale si pone in evidenza l’identità del palazzo, il fatto che contiene manufatti che andrebbero studiati, datati e identificati in relazione alla loro funzione originaria, il suo rilievo quale parte integrante del continuum urbanistico lungo via Masuccio Salernitano. A questo punto, miracolosamente (qui non si vuol sostenere a seguito di tale lettura), la Soprintendenza muta parere e il 14 settembre invia proprio personale sul luogo allo scopo di eseguire una prima documentazione fotografica; a tale personale, però, è impedito dalla direzione dei lavori di poter effettuare qualunque ripresa. Il 15 settembre la Soprintendenza emette il protocollo 24617 avente per oggetto l’avvio del procedimento per la dichiarazione dell’interesse culturale del palazzo, contro il quale il Comune produrrà ricorso al TAR portando a sostegno una relazione del 23 settembre del direttore dei lavori che attesta come nel corso dei lavori non è stato rinvenuto nessun elemento di interesse culturale. Il 24 settembre la Soprintendenza, con protocollo 25064, riscontra una comunicazione del 18 precedente del Comando del Nucleo di tutela del patrimonio culturale dei carabinieri che chiedeva notizie a seguito di denuncia da parte dei signori Desiderio e Sabbetta. Le argomentazioni svolte dall’Ente diretto da Giuseppe Zampino sono semplicemente pietose e farsesche poiché, avendo certificato il 31 luglio il non interesse culturale dell’immobile e avendo tanto comunicato ai denuncianti il 26 agosto, adesso denuncia l'asportazione delle tegole (ma va!) e minaccia addirittura sanzioni penali contro i soggetti esecutori di opere non preventivamente autorizzate dalla Soprintendenza. Il 6 ottobre la vicenda giunge davanti al Consiglio di Stato per ricorso del Comune avverso la disposizione del TAR del 3 settembre. In quella sede, la proprietà, avendo ottemperato al disposto dello stesso TAR, che aveva fissato il termine di quindici giorni per la presentazione di un proprio progetto di recupero dell’immobile, sostiene, sulla scorta della perizia elaborata dall’ing. Renato Sparacio, professore presso la facoltà Conservazione dei Beni Culturali dell’università Suor Orsola Benincasa e presso la facoltà d’Ingegneria dell’università Federico II, quanto già riconosciuto dal Tribunale Amministrativo a seguito di perizia d’ufficio, cioè la recuperabilità del fabbricato. Di contro il Comune sostiene l’irrecuperabilità e la necessità di continuare nella demolizione. Il Consiglio di Stato delibera, con ordinanza 04983, in sostanziale conformità a quanto già stabilito dal TAR della Campania, che la difesa della pubblica incolumità deve essere perseguita secondo criteri di proporzionalità e di contemperamento con l’interesse privato e che, quindi, la demolizione dell’immobile deve essere attuata nei limiti in cui è tecnicamente necessaria secondo il prudente e responsabile giudizio dell'Amministrazione. L'ordinanza, quindi, riconosce al Comune, come già il TAR, la salvaguardia della incolumità pubblica, ma ne respinge di fatto due capisaldi dell’azione fin qui svolta, ovvero la necessità della demolizione totale e l’esclusione dalla vicenda dell’interesse della proprietà. L’Amministrazione, dice il Consiglio di Stato, può demolire, ma soltanto per quanto tecnicamente necessario. Bene, ma chi vigilerà su quanto è tecnicamente necessario? Ci si affida al prudente e responsabile giudizio della Amministrazione, ossia al giudizio di quegli stessi signori che vogliono la rasura al suolo della cinquecentesca Casa d’Avossa. Questa ordinanza, pur nel suo pilatesco puntare sull’equivoco, ove coscienziosamente applicata, potrebbe salvare almeno la parte cinquecentesca dell’immobile, la maggiore per interesse, ma il Primo cittadino, in perfetta cattiva fede, la propaga ai residenti e commercianti di via Masuccio Salernitano come l’autorizzazione a demolire del tutto il palazzo, ottenendo in cambio ovazioni e portata in trionfo. Il 15 ottobre va in scena l’ultimo atto. Si tratta della discussione, ancora una volta davanti al TAR (questa volta presso la sezione salernitana, mentre le volte precedenti le udienze si erano tenute a Napoli), del ricorso proposto dal Comune avverso il protocollo del 15 settembre con il quale, come abbiamo visto, la Soprintendenza per i Beni Architettonici aveva avviato il procedimento per la dichiarazione dell’interesse culturale dell’immobile. In previsione di questa udienza, la famiglia Desiderio-Sabbetta aveva affidato al curatore di questo sito la stesura di una relazione storico-urbanistica da presentare alla Soprintendenza affinché la utilizzasse per sostenere l’interesse culturale dell’edificio; alla relazione sono allegate le immagini già apparse su questo sito, immagini che il personale della Soprintendenza avrebbe potuto scattare il 14 settembre, se, a suo dire, ma circostanza smentita dal Comune, non ne fosse stato impedito dalla direzione dei lavori. All’udienza, l’avvocatura dello Stato, che avrebbe dovuto tutelare gli interessi della Soprintendenza, non è presente in aula (?), ma ha depositato una generica memoria redatta da un funzionario della Soprintendenza stessa (quello che aveva sottoscritto i protocolli relativi al caso come Il Funzionario Responsabile) noto, oltre per il non distinguere un convento da un monastero, per la totale ignoranza in materia di storia urbanistica e topografica cittadina, al punto di credere che i Canali facessero parte dell’Orto Magno. In tale memoria non compare neppure un capoverso della relazione de Simone, che era stata posta a disposizione gratis e senza nessun obbligo di citazione dell’autore, al solo scopo di rendere un servigio alla memoria storica cittadina (ma la dotta Soprintendenza poteva mai mostrare di aver bisogno di un consulente esterno per acquisire cose che dovrebbe conoscere?), per cui è il legale della famiglia Desiderio-Sabbetta a farla accludere agli atti, ma, evidentemente, con perdita di rilievo. La sorte delle immagini non è chiara (forse mai pervenute, forse andate smarrite, forse temute in quanto non autorizzate, forse troppo imbarazzanti). L’abile legale del Comune fa notare l’inconsistenza del tutto, pone in grande rilievo il fatto che durante il sopralluogo del 31 luglio i tecnici della Soprintendenza e la direzione dei lavori nulla di “interesse culturale” avevano notato, fa notare il mutato atteggiamento della Soprintendenza a seguito di notizie di stampa (si riferisce forse alla lettera pubblicata da Cronache del Mezzogiorno il 7 settembre?), addirittura qualifica l’intervento della Soprintendenza come lesivo della Costituzione, fa notare che la mancata demolizione di questo edificio privo di qualsiasi rilevanza e fatiscente pone in pericolo l’incolumità pubblica. E amen. Il delitto è servito. |
Gli imbrici e i coppi il cui asporto è denunciato dalla Soprintendenza ai carabinieri del Nucleo di tutela del patrimonio culturale il 24 settembre. E, di grazia, tutto il resto (fregi, colonne, capitelli) dove è finito? |
in alto: elaborazione grafica del prospetto di Casa d’Avossa realizzata da Massimo La Rocca ponendo in evidenza il portale originario dell’immobile, tompagnando il quale si ottenne l’ex negozio Di Donato con il balcone anomalo corrispondente al soppalco in esso realizzato che si vede nel suo ultimo aspetto. Se il portale, forse cinquecentesco, esisteva ancora sottotraccia prima della demolizione non lo sapremo mai, poiché i materiali di risulta sono stati indiscriminatamente (o forse no?) condotti in discarica. in basso: vista, nel corso della demolizione, del negozio ex Di Donato ancora con il soppalco, demolito il quale sono emersi dal fondo archi a sesto acuto che non è stato possibile fotografare a causa delle minacce dei mastri demolitori. |
Due immagine inedite giunte a questo sito via e-mail il 14 dicembre 2009; a lato: volta e parete a stucco; sopra: elemento decorativo. |
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dicembre 2009,
grafici di Palazzo Sabbetta elaborati da Filippo Brindisi
a lato: sezione verso est sulla rampa d'ingresso
in basso: volte sulla scala
i disegni sono stati inviati al curatore di questo sito con il testo che segue: con Massimo La Rocca si discuteva su Faceboock dell'identificazione dell'ambiente voltato riprodotto in una delle foto di palazzo Sabbetta pubblicate sul suo "Salernostoria". A me sembra che Massimo La Rocca abbia ben individuato il vano scala come soggetto della foto. Le invio due grafici che alla fine ho ricostruito e che a me sembrano confermare l'ipotesi di Massimo. In particolare la sezione, anche se non ricavata da un rilievo diretto bensì ricostruita da stralci di grafici altrui, presenta una tipologia di scala davvero originale, con dimensioni e proporzioni peculiari.
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16 gennaio 2010, Ieri, la Guardia di Finanza ha sequestrato all'interno del cantiere demolitorio di Palazzo Sabbetta la colonna con capitello medievale la cui presenza fu documentata su questo sito, insieme ad altri elementi architettonici di rilievo, fin dall'11 ottobre scorso. Conseguentemente, il direttore dei lavori (che, ricordiamo, aveva attestato in documento avente valore di atto pubblico l'assenza di elementi di interesse culturale nell'immobile) è stato deferito all'Autorità Giudiziaria. Ci pare, però, che anche gli enti Comune (nella persona del sindaco De Luca) e Soprintendenza per i Beni Architettonici (nella persona del soprintendente Zampino) avessero prodotto la stessa attestazione.
a sinistra: il reperto in deposito provvisorio immagine di Filippo Brindisi. |
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in alto: 23 gennaio 2010, da Massimo La Rocca "Con il Portone d'Ingresso aperto a svelare la magnifica Fontana, ecco come sarebbe apparso il demolito Palazzo Sabbetta a Salerno - il Palazzo quattrocentesco dei d'Avossa, poi dei Lauro Grotto - una volta restaurato, e quindi riportato al suo antico splendore". |
4 maggio 2010. Risultato finale
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7 giugno 2010. Il tocco degli artisti Come documentano le immagini qui sopra, il progetto finto-faraonico di una piazza in luogo di Casa d’Avossa destinata a collegarsi alle contigue piazze Piantanova e Giacomo Matteotti, per la soddisfazione di un comitato che pregustava di sorbire caffè in tale spazio insieme al primo cittadino, sotto luminarie natalizie, magari accanto all'immancabile fontana non ha preso corpo. |
In corso d'opera ecco l'intoppo che un modesto studente di prima geometri avrebbe potuto immaginare, ma che i tecnici comunali non avevano considerato: l’impossibilità pratica di demolire l’ala occidentale dell’immobile che si incastra nell’edificio limitrofo e comprende la copertura urtante sul vicolo Piantanova; il problema si risolve con degli orrendi barbacani di sostegno che poggiano i loro ampi piedi su quella che doveva essere la piazza: quindi niente piazza, niente luminarie, niente fontana, niente caffè. Anzi, è necessario anche conservare il muro perimetrale del piano terraneo, il tutto orribile da vedersi. Che fare? Arriva in soccorso il ricordo di una tragedia: quella di un giovane graffitaro investito da un’auto mentre era intendo ad applicare la sua arte ad un muro di Ogliara. Ecco, dunque un nuovo progetto: un murales che, ricordandolo, dia colore al clamoroso insuccesso delle raffinate menti. Viene interessato un gruppo di allievi di un istituto d'arte cittadino e una docente è chiamata a coordinarli. La squadra si pone all’opera su quanto resta di Casa d’Avossa e il capolavoro prende forma. Peccato che l’articolo 639 del Codice Penale, che punisce l’imbrattamento di muri, con aggravante se ciò avviene nei centri storici, non faccia distinzione fra sgorbi di scugnizzi e opere di Picasso. I Carabinieri, essendo obbligatoria l’azione penale, sono stati invitati, con regolare denuncia, ad identificare i responsabili e a deferirli all’Autorità Giudiziaria. |
Gazzetta di Salerno 21 giugno 1970 |
Raffaele Moscati narra di Palazzo Sabbetta, in particolare di quello che fu il suo ingresso originario, prima trasformato in autorimessa, poi in negozio di calzature. Significativa e premonitrice la sua critica agli amministratori cittadini.
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