Vincenzo de Simone

consulenze storiche

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Palazzo Sabbetta

Identità dell’edificio.

 

La storia documentata del palazzo comunemente detto Renna, oggi nella quasi totalità della famiglia Sabbetta, inizia con un atto notarile dell’8 marzo 1588 dal quale risulta che parte di esso era in possesso di Giovanni Camillo de Avossa.

Il 19 dicembre 1602 si citano le case di Giovanni Marino de Avossa, nella parrocchia di Santa Maria de Domno, confinanti con beni del detto Giovanni Camillo de Avossa, con beni della chiesa di Santa Maria della Pietà (ossia il monastero detto della Piantanova), con via pubblica.

Il 23 novembre 1604 il palazzo è citato come la casa grande di Casa d’Avossa. Nell’atto compaiono due generazioni della famiglia, ossia Francesco, fratello dei citati Giovanni Camillo e Giovanni Marino, Cesare, loro padre, e il defunto Giovanni Tommaso, loro zio, del quale Cesare e i suoi tre figli erano eredi. Ciò evidenzia che il possesso del palazzo da parte dei d’Avossa (e, forse, la sua edificazione stessa) doveva risalire almeno alla metà del Cinquecento.

Il 26 marzo 1608 si conferma che il palazzo competeva ai fratelli Giovanni Camillo, Giovanni Marino e Francesco de Avossa, giusta la divisione fatta fra di loro dell’eredità paterna (che comprendeva anche l’eredità dello zio Giovanni Tommaso); essendo morto nel febbraio precedente Giovanni Camillo, la sua parte era toccata in eredità ai figli Giovanni Gregorio, Giovanni Battista e Matteo. Il documento ci fornisce una sommaria descrizione della disposizione relativa delle parti: l’appartamento inferiore era quello dei figli di Giovanni Camillo, posto sotto l’appartamento del loro zio Giovanni Marino, mentre in altra parte del palazzo abitava l’altro loro zio Francesco.

L’8 novembre 1655, descrivendosi l’eredità di un altro Giovanni Camillo de Avossa, di cui era erede il figlio Giovanni Battista, in essa risulta compresa una parte del palazzo grande detto Casa d’Avossa, nella parrocchia di Santa Maria de Domno, confinante con il monastero della Pietà.

L'11 dicembre 1664 il palazzo è descritto come consistente in più membri inferiori e superiori, magazzini, cellari e altro, di Didaco de Avossa, figlio ed erede di Giovanni Tommaso, a Portanova, detto Casa d’Avossa, confinante con il monastero della Pietà e vie pubbliche.

Il 20 novembre 1751 l’immobile detto Casa d’Avossa risulta interamente della signora donna Diodata d’Avossa, moglie del signor d. Andrea Filippo Lauro, quale figlia ed erede di d. Giacomo. Con la signora Diodata termina il possesso dei d’Avossa, infatti nel Catasto Onciario del 1753-1754 la proprietà di Casa Avossa è attribuita al magnifico d. Andrea Filippo Lauro Grotti ed è così descritta: un palazzo consistente in cortile coverto con tre appartamenti in ventisette stanze. Confina da Mezzogiorno con la strada publica, da Levante col Magnifico D. Nicola Gagliardi e clausura del Venerabile Monistero della Piantanova, da Tramontana con la detta clausura, da Ponente col vicolo e Magnifico D. Emmanuele Marotta.

Il 6 gennaio 1768 il palazzo, ancora denominato Casa Avossa, risulta del signor d. Gaetano Lauro. Nel 1807 Palazzo di Lauro, sito nella parrocchia di Santa Maria de Domno, è descritto, oltre i terranei, in tre piani per cinque appartamenti; consistenza e proprietà sono confermati dal Catasto Provvisorio (1812-1860).

Successivamente l’immobile perverrà alla famiglia Renna, quindi, per successione in linea femminile, alle signore Desiderio, delle quali la famiglia Sabbetta è erede.

 

Ambito urbanistico.

 

Palazzo Sabbetta si colloca nell’area detta in epoca longobarda l’inter murum et muricinum, ossia nella stretta striscia di terreno compresa fra il muro pre-arechiano della città antica (molto probabilmente il muro romano) e l’antemurale longobardo (il Muricino). Questa striscia di terreno andava dal luogo che poi sarà della porta dell’Annunziata al meridione del luogo che poi sarà del monastero di Santa Maria della Pietà detto della Piantanova ed era interamente percorsa da un asse viario ancora oggi riconoscibile, da via Porta Catena a via Masuccio Salernitano.

Nella parte orientale dell’inter murum et muricinum, dalla via della porta di Mare al muro della città che calava verso il mare sfiorando la zona absidale dell’attuale chiesa del Santissimo Crocifisso, si stabilì una numerosa colonia ebraica, per cui l’area fu denominata la Giudaica. In tale ambito, il sito che sarà di Palazzo Sabbetta occupava un’area delimitata a settentrione dal muro antico della città (che poi sarà il limite fra il giardino del monastero di Santa Maria della Pietà e lo stesso palazzo); ad oriente dal citato muro della città che calava verso il mare; a meridione dalla via detta prima Carraria, poi della Giudaica, oggi Masuccio Salernitano.

Molto probabilmente su parte dell’area, prima che la costruzione del Muricino la farà divenire interna alla città, dovette sorgere la torre d’angolo della difesa cittadina alla connessione fra il muro meridionale e l’orientale. Pare che tracce di tali difese (chi scrive non ha avuto la possibilità di accedere ai luoghi) siano riconoscibili in muri di spessore inusitato presenti nei locali terranei dell’immobile. Altre tracce (nemmeno queste osservate direttamente da chi scrive per l’impossibilità di accedere, stante l’occupazione del sito da parte del Comune), quali archi, colonne, capitelli, sarebbero riconducibili a qualche antico complesso architettonico sul quale Casa d’Avossa sarebbe stata innestata.

È stata ipotizzata l’antica presenza di un monastero con relativa chiesa, ma si tratta di illazione priva di fondamento, poiché tutti i luoghi di culto documentati da Arechi II in poi sono stati ubicati sulla topografia attuale della città e nessuno di essi risulta aver insistito sull’area di Palazzo Sabbetta.

Nello studio della Giudaica una lacuna irrisolta riguarda l’ubicazione della sinagoga. Nessun documento fra quelli giunti fino a noi la nomina, quasi non sia mai esistita, ma appare inconcepibile che la prospera comunità ebraica salernitana non possedesse in città un proprio tempio. Qualche studioso ha ipotizzato sorgesse sul luogo che poi sarà della chiesa di Santa Lucia de Giudaica, ma si tratta di frutto di fantasia, poiché nessuna fra le fonti giunte fino a noi autorizza nemmeno lontanamente una simile illazione. Si affaccia, quindi, l’ipotesi che i resti monumentali (evidentemente da datare e, nel caso si tratti di materiali di spoglio, attentamente valutare il loro livello di stratificazione nel sito), ove dovessero risultare posti in opera antecedentemente all’edificazione di Casa d’Avossa e dovessero essere riconosciuti come parti di un luogo di culto, potrebbero essere riconducibili proprio alla sinagoga.

Al di là delle evidenze architettoniche di estremo interesse per la ricostruzione delle vicende urbanistiche dell’area sulla quale insiste che Palazzo Sabbetta potrebbe conservare, è da considerarsi il suo ruolo nel continuum della cortina di immobili su via Masuccio Salernitano.

La strada presenta, se letta con attenzione alla luce della documentazione giunta fino a noi, uno spaccato dell’evoluzione urbanistica della Giudaica, dall’epoca della sua urbanizzazione, culminata con l’edificazione della chiesa di Santa Maria de Domno (989-990), ai primi dell’Ottocento, quando la caduta delle mura cittadine portò alla riqualificazione degli edifici posti al meridione della strada con la creazione di nuovi prospetti verso il mare.

Quest’ultima fase urbanistica è testimoniata dal civico 57 che è costituito da un portale settecentesco che nel secolo successivo, mutato l’accesso al palazzo, fu tompagnato con la realizzazione di un portale più piccolo, essendo divenuto quello che era stato il cortile coperto dell’edificio un semplice magazzino. Recentemente, con operazione apprezzabile, il portale settecentesco è stato riportato a vista pur conservando la sua funzione il portale più piccolo in esso inserito.

Lungo lo stesso lato della strada, i civici dal 63 al 69, pur appartenenti oggi ad un fabbricato della seconda metà dell’Ottocento, rappresentano il sito occupato fra il 989-990 e il 1822, anno della sconsacrazione, dalla chiesa parrocchiale di Santa Maria de Domno. Di essa sopravvive il campanile, contrassegnato dal civico 71, oggi utilizzato come tromba delle scale.

Il civico successivo, il 73, è costituito da un portone ricavato nella tompagnatura di un enorme arco che con il suo piedritto sinistro aderisce all’ex campanile. Si tratta dell’ingresso al portico che permetteva l’accesso sia alle case sovrastanti che alla chiesa, la cui porta si apriva sotto di esso guardando all’occidente. Anche questo notevole elemento architettonico, documentato dal 1609, è stato opportunamente lasciato in vista in occasione del restauro dell’immobile nella cui facciata è inserito.

Sul lato opposto della via, il civico 56 è costituito da un portale quattrocentesco che, essendo di fronte al campanile superstite di Santa Maria de Domno, testimonia come la strada conservi nell’attuale larghezza quella medievale.

Determinante per la conservazione della memoria storica dell’impianto viario medievale rimane lo stesso Palazzo Sabbetta, poiché la sua estremità occidentale si estende sopra un vicolo coperto (vicolo Piantanova) che soltanto a livello dei locali terranei lo separa dall’edificio limitrofo. Si tratta di uno degli ultimi esempi rimasti in città di strectula, ossia un passaggio lasciato fra due isolati per consentire il passaggio pedonale. La tipologia costruttiva longobarda, a cui le strectule risalgono, prevedeva che i proprietari dirimpettai avanzassero dai piani superiori delle case delle balconate chiuse, i mignani, allo scopo di ampliare le stanze superiori rispetto ai locali terranei; queste balconate, ove si protendevano su strectole o anditi, congiungendosi, creavano i caratteristici vicoli coperti, di cui, come ripeto, quello sotto Palazzo Sabbetta, citato il 23 novembre 1604, quando due camere e due camerini di Casa d’Avossa sono detti posti supra strettolam, è fra gli ultimi rimasti in città.

 

Conclusioni.

 

È del tutto evidente che la demolizione di Palazzo Sabbetta costituirebbe un enorme nocumento per la memoria storico-urbanistica della città, non solo per la distruzione delle evidenze architettoniche che pare custodire (ripeto che chi scrive non ha avuto la possibilità di accedere all’immobile) e che, se rilevanti come sembra, andrebbero attentamente studiate; non solo per la distruzione della strectula; ma sopratutto per l’interruzione del continuum della cortina di immobili lungo la strada.

È impensabile che nell’epoca attuale, quando l’attenzione per la tutela dei centri storici è considerata prioritaria nell’azione dei governi cittadini, in una realtà già fortemente depauperata da abusi e manomissioni di ogni tipo come quella di Salerno, l’Amministrazione comunale proceda alla demolizione di un immobile di origini cinquecentesche, parte integrante del continuum delle cortine lungo una strada di rilievo storico-urbanistico come via Masuccio Salernitano, tanto più che il progetto di risanamento architettonico depositato dalla proprietà dell’immobile nei tempi dettati dal Tribunale Amministrativo Regionale supera ogni perplessità residua circa la volontà di agire fattivamente da parte della stessa.

Il Centro storico di Salerno per secoli si è stratificato lungo il reticolo viario della capitale longobarda fatto di strade (che attualmente giudichiamo anguste), di vicoli, di anditi, di strettole, non di piazze. Storicamente, la città, in un tessuto urbano estremamente compatto come quelli di tutti gli insediamenti a forte caratterizzazione longobarda, non ebbe, quali spazi aperti, che largo Campo e largo Dogana Regia; il largo davanti alla Santissima Annunziata Minore fu creato soltanto nel Settecento; altri spazi aperti, spesso riqualificati in modo del tutto improprio, furono determinati da eventi traumatici nel corso dello scorso secolo (piazza Sant’Agostino, largo Barbuti, piazzetta Francesco Cerenza e, nell’area prossima a Palazzo Sabbetta, piazza Giacomo Matteotti e piazzetta Piantanova).

È del tutto evidente che la creazione di un ulteriore slargo sull’area di risulta di Palazzo Sabbetta, che andrebbe spazialmente a collegarsi alla piazzetta Piantanova, determinerebbe una frattura antistorica non solo nel continuum lungo via Masuccio Salernitano, ma nel continuum dello stesso centro antico, completando lo scellerato sventramento già realizzato da piazzetta Francesco Cerenza, attraverso piazza Giacomo Matteotti e piazzetta Piantanova, per portarlo fino a via Luigi Cannoniere e, quindi, a via Roma.

Un pugno nell’occhio costituirebbe, poi, il dotare tale spiazzo di qualche fontana di improbabile fattura postmoderna.

Vincenzo de Simone

Salerno, 9 ottobre 2009.