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a cura di Vincenzo de Simone

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Rassegna Storica Salernitana, 28, 1997, pp. 7-21

NUOVE ACQUISIZIONI SULLA CHIESA MEDIEVALE DI SANTA MARIA DE DOMNO IN SALERNO

 

La principessa Sichelgaita, consorte del principe Giovanni, regnante in Salerno fra il 983 e il 999, edificò una chiesa sotto il titolo di Santa Maria, detta successivamente de Domno1, in un suo terreno posto inter murum et muricinum, ossia nell’ampliamento urbano realizzato munendo di un antemurale la cortina verso il mare della Salerno prelongobarda. Tre documenti2, datati rispettivamente febbraio 990. aprile 990 e ottobre 991, completandosi a vicenda, ci permettono una ricostruzione di estremo interesse, per gli elementi urbanistici che pongono in evidenza, del sito di tale chiesa e delle sue adiacenze. Questa, naturalmente disposta sull’asse ovest-est, aveva occupato solo parte dell’area disponibile, per cui si era creato uno spiazzo fra il suo ingresso e un corso d’acqua che limitava il suolo verso occidente; aveva tre absidi che, verso oriente, si protendevano in un terreno del conte Guaimario, figlio di Guaiferio detto Imperato, a sua volta confinante con un altro terreno del principe Giovanni. Sia la chiesa che la proprietà di Guaimario erano addossate coi loro lati meridionali all’antemurale, mentre erano delimitate verso settentrione da una strada oltre la quale correva l’antica cortina difensiva; sia quest’ultima che la nuova muraglia erano attraversate dal corso d’acqua che abbiamo visto tramite apposite luci aperte in esse.

 

1Il titolo di Santa Maria de Domno compare per la prima volta in un documento dell’agosto 1092 (Archivio della Badia di Cava, pergamena C-40; trascritta in S. Leone, Diplomata tabularii cavensis, dattiloscritto presso lo stesso archivio, C, 1963, f. 69). Nelle relazioni cinquecentesche e seicentesche delle visite pastorali (in Archivio Archidiocesano di Salerno) la chiesa è detta generalmente Santa Maria de Dominabus, mentre nel 1725 compare per la prima volta la forma singolarmente volgarizzata in Santa Maria delle Donne.

2Archivio della Badia di Cava, pergamene IV-45; A-15; IV-64; edite in M. Morcaldi, M. Schiani, S. De Stefano, Codex Diplomaticus Cavensis, II, Milano-Pisa-Napoli 1875, rispettivamente, pp. 289-295; 297-300; 320-321.

L’importanza di queste informazioni non poteva sfuggire a Michele de Angelis, essendo evidente che, individuata l’ubicazione della chiesa, la disposizione degli elementi urbanistici recuperati sulla topografia novecentesca della città avrebbe evidenziato non solo le altezze latitudinali del muro e dell’antemurale, ma anche un punto oltre il quale, verso est, cercare i limiti orientali dei nuclei urbani relativi. La sua attenzione fu attratta dalla bottega di un fruttivendolo, la seconda verso est dall’angolo nord-occidentale del palazzo Trucillo, successivamente distrutto, a oriente dell’edificio allora delle Prefettura, oggi della Provincia, ove si osservavano due colonne antiche con capitelli corinzi di marmo sostenenti un arco. Egli identificò tali reperti come resti delle strutture fra la navata settentrionale e quella centrale della nostra chiesa; conseguentemente, tracciò le due difese, l’una a valle del sito individuato, l’altra a monte dell’attuale largo Dogana Regia e riconobbe il corso d’acqua che limitava lo spiazzo innanzi all’ingresso della stessa nell’attuale via Antonio Genovese e suo proseguimento verso sud3.

  3M. de Angelis, Studio sui muri di Salerno verso il mare, in «Archivio Storico della provincia di Salerno», 1923, pp. 100-116; Conferme sulle antiche cinte di Salerno e il Labinario dfi Santa Maria de Domno, in «Archivio Storico per la provincia di Salerno» , 1932-1933, pp. 111-125.

La ricostruzione dei luoghi così ottenuta fu accolta acriticamente dagli autori successivi, compreso che scrive4, ma la ricerca storica è spesso illuminata da fortuiti ritrovamenti che, indirizzando nella giusta direzione, portano a sgombrare il campo anche dalle più radicate illazioni. È il caso occorso all’amico Francesco Manzione che ci ha segnalato l’esistenza di un documento ottocentesco casualmente capitatogli fra le mani.

 

 

4V. de Simone, La “forma urbis” prelongobarda e altre questioni si topografia salernitana, in «Rassegna Storica Salernitana» , 19, 1993, pianta a p. 206, particolare 10.

Si tratta di una perizia commissionata dal tribunale civile di Salerno ed espletata il 4 gennaio 1862 dall’architetto Michele Santoro5 a seguito di una lite giudiziaria vertente fra due privati entrati in possesso delle strutture residue della chiesa dopo la sua sconsacrazione avvenuta nel 1822. Da essa trascriviamo: “Descrizione della vecchia Chiesa in quanto al suo stato materiale. Si giace la indicata Chiesa in questa Città nella strada che dal largo Dogana Regia conduce all’altro di Portanova che ne limita il suo lato settentrionale, il solo che si ha interamente scoverto, mentre negli altri suoi lati vien sempre circoscritta da altrui private proprietà, salvo una parte del lato di occidente ove nel solo pianterreno si apre la principale porta d’ingresso, e corrisponde in un compreso coverto, laterale alla pubblica strada, che reputo di privata proprietà, e del quale nulla potrei dire circa il diritto che vi rappresenta la Chiesa in concorso delle altre vicine e sovrastanti case, che vi hanno ugualmente l’accesso. La istessa è distribuita in tre navi, ma disuguali e non in corrispondenza simmetriche, mediante tre pilastri di fabbrica isolati e quattro vani arcuati in ciascun lato, terminate le navi medesime verso levante, quella di mezzo da un abside semicircolare, l’altra verso la strada da una picciola sacristia coverta da volta, la quale insieme coll’abside vengono in parte sovrastate da altre diverse particolari proprietà. Presso l’angolo nord-ovest sonovi le fabbriche di un picciolo campanile che si avanza sporgente poco più di tre palmi verso la detta strada, il tutto come si osserva dall’annessa pianta. Tre picciole finestre nel muro alla strada, altre tre nel partimento della nave di mezzo da questa parte la rischiaravano; ed altra picciola finestrina anche nel muro esteriore in corrispondenza della sacristia. Erano altra volta le ripetute tre navi da un soffitto di travi e tavole di legname, di cui non ne resta pur una, e quindi sormontate da un tetto, a riserba del primo compartimento nell’angolo sud-ovest di quella più meridionale che trovasi coverta da un’antica volta a croce, la di cui area superiore ritiene il Signor Ferretti (uno dei due privati fra i quali verteva la lite giudiziaria) essersi occupata in danno della Chiesa da’ vicini, ed essere perciò abusive le costruzioni che vi si son fatte al di sopra. Allo stato il rimanente di quest’ultima nave laterale trovasi interamente scoverta, solo restandovi quattro puntoni, o cavalli dell’antico tetto che in una falda la copriva, del quale la gronda si appoggiava in sulla parete meridionale che si eleva a maggiore altezza, e la cresta sul muro della nave intermedia. In questa poi vi restano solo quattro travi dell’antico soffitto, sui quali sono montati altrettanto puntoni sostenenti due riposi; e del tetto, che si componeva di un’altra falda colla cresta in coincidenza di quella opposta nel lato sud, sono di avanzo dieci cavalli e circa la metà della covertura di tegoli e canali. E l’ultima picciola nave verso la strada rimane coverta dal solo tetto sostenuto da dieci piccioli debolissimi cavalli, colla covertura di tegoli e canali in parte mancanti, i quali legnami sono tutti degradatissimi e per quanto si puol giudicare dalle apparenza, ancora inservibili. Mi dispenso discendere a maggiori dettagli di descrizione, potendosi rilevare dalla enunciata pianta e dall’altro sciografico disegno. Il pavimento è di vecchio lasctrico, e l’unico altare che vi esisteva nel sito dell’abside è pure di fabbrica inservibile”6.

   

5Archivio di Stato di Salerno, Perizie del Tribunale Civile, 937, ff. 194-210.

6Dai disegni dell’architetto Santoro, dopo averli liberati dal progetto delle fabbriche da innalzarsi per rendere il sito utilizzabile, abbiamo tratto la tavola I allegata a questo scritto. Naturalmente, la pianta della chiesa nulla aveva in comune con quella puramente di fantasia che si vede in A. R. Amarotta, Salerno romana e medievale, Salerno 1989, p. 196; altrettanto fantasiosa risulta l’opinione dello stesso autore secondo la quale, “forse in età angioina”, l’ingresso fu spostato ad est (ivi, p. 195).

I disegni dell’architetto Santoro sono corredati da una scala in palmi napoletani, utilizzando la quale procediamo a due misurazioni della chiesa nel senso della larghezza: la prima dal fronte lungo la strada, escluso il ringrosso del campanile, alla faccia interna del muro meridionale; la seconda della sola aula. Nel primo caso rileviamo quarantaquattro palmi, nel secondo quarantuno e quattro decimi, salvo, naturalmente, piccoli errori possibili sia da parte del disegnatore nel realizzare la pianta o la scala che da parte nostra nell’utilizzarle. Attribuendo a ciascun palmo cm 26,4557 abbiamo, rispettivamente, undici metri e sessantaquattro centimetri e poco più di dieci metri e novantacinque centimetri. Il documento del febbraio 990 assegna all’area sulla quale la chiesa fu edificata una larghezza di trentasei piedi, compresa fra la strada e l’antemurale; ma il piede longobardo era un concetto estremamente variabile, per la qual cosa troviamo contratti stilati su pergamene la cui larghezza si utilizzava per la misurazione dell’immobile di cui si  trattava che considerano un piede tale dimensione e citano la circostanza nella scrittura. Questo non è il caso del nostro documento, anche perché le misure dell’area non sono contenute nel testo principale ma in un inserto del marzo 986; invece è il documento dell’ottobre 991 che ci fornisce il dato mancante. Esso è l’atto con il quale l’abate di Santa Maria de Domno permuta un terreno, di cui tratteremo successivamente, con quello del conte Guaimario che abbiamo visto a oriente della chiesa e ad essa contiguo. Tale terreno misurava, nel senso della larghezza, lungo il fronte delle absidi che vi prospettavano, dalla strada all’antemurale, esattamente dal cantone orientale della posterola che si apriva nella muraglia per permettere il transito fra i terreni interni alla città e quelli lungo il mare, gli stessi trentasei piedi che abbiamo visto misurare il suolo della chiesa. Il documento precisa che il piede utilizzato per la misurazione corrispondeva alla larghezza della pergamena al suo margine superiore, che è di trentuno centimetri e un millimetro; per cui questi trentasei piedi corrispondono a undici metri e quasi venti centimetri, misura che si pone fra le due da noi rilevate sulla pianta dell’architetto Santoro, permettendoci di concludere che la chiesa occupò completamente la larghezza dell’area disponibile; salvo ringrossi dei muri dovuti a opere di consolidamento o a ricostruzioni, questa dimensione non subì variazioni nel corso dei suoi oltre ottocentosettanta anni di esistenza. Applicando la stessa scala alla maggiore lunghezza dell’edificio, che corrisponde al prospetto verso la strada a causa del ringrosso all’angolo nord-occidentale del campanile, compresi entrambi i muri perimetrali, ancorché quello orientale, che abbiamo considerato della stessa consistenza dell’altro, non sia perfettamente reso nella pianta dell’architetto Santoro, rileviamo sessantasei palmi e otto decimi, pari a diciassette metri e sessantotto centimetri. Ritornando al documento del febbraio 990, troviamo che la lunghezza dell’area sulla quale la chiesa fu edificata era di novanta piedi, pari a ventotto metri con l’arrotondamento di un centimetro8; dunque, Santa Maria de Domno fu edificata, sull’asse est-ovest, su poco più della metà del suolo disponibile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7Con una legge del 6 aprile 1840 si fissarono i rapporti fra le misure del sistema napoletano e quelle del metrico decimale usato in Francia dal 1801; al palmo furono attribuiti cm 26,455. Tale legge, con le tavole comparative fra i due sistemi, è riportata in C. Salvati, Misure e pesi, Napoli 1970, pp. 34-38.

8M. de Angelis, Studio sui muri cit., p. 103, attribuisce all’area sulla quale la chiesa fu edificata le stesse misure in metri trovate da noi. A. R. Amarotta, Salerno cit., p. 62, si esercita nella ricerca di un piede longobardo medio fra quelli che rileva dalle dimensioni di nove pergamene che indicano nella propria larghezza l’unità di misura; il risultato è trentatrè centimetri e nove millimetri che egli arrotonda a trentaquattro, per cui attribuisce all’area di Santa Maria de Domno (ivi, p. 194) dodici metri e venticinque centimetri per trenta metri e sessanta centimetri, dimenticando di aver già scritto (ivi, p. 63) che la distanza fra il fronte settentrionale della chiesa e l’antemurale era di undici metri e venti centimetri.

Nelle nostre misurazioni abbiamo utilizzato metodi diversi: nel caso della lunghezza della chiesa vi abbiamo compreso lo spessore di entrambi i muri; nel caso della larghezza, invece, del solo muro settentrionale. Tanto perché è nostra convinzione che l’edificio non ebbe un suo muro meridionale, ma per tale incombenza fu utilizzato lo stesso antemurale, sul quale fu poggiata la travatura del tetto della navata destra. Riscontro a tale tecnica costruttiva troviamo in documenti9 coi quali gli abati di Santa Maria de Domno concedevano terreni addossati alla cortina difensiva con facoltà di ampliare le case esistenti o erigerne di nuove manomettendo la muraglia per poggiarvi o inserirvi i legni necessari. Con un successivo ampliamento, intervenuto in quest’area sul finire degli anni cinquanta dell’XI secolo, l’antemurale sarà travalicato dal tessuto urbano e una ulteriore difesa sarà edificata verso il mare, lasciando alla vecchia cortina il ruolo di muro della chiesa e delle proprietà limitrofe; ma anche nei confronti del nuovo muricino continuerà la pratica di utilizzo come struttura portante di costruzioni10.

Al di là della dettagliata descrizione e dei preziosi disegni, il passo di straordinaria importanza della perizia dell’architetto Santoro è quello che precisa il sito della chiesa: “nella strada che dal largo Dogana Regia conduce all’altro di Portanova”, ossia l’attuale via Masuccio Salernitano; ma, ove trovare l’altezza, lungo tale via, ci viene suggerito da documenti settecenteschi. Fra glia altri citeremo due atti notarili fra di loro collegabili, il secondo dei quali, facendo riferimento a un punto immediatamente individuabile, l’angolo del largo Dogana Regia con la via Masuccio Salernitano, ci permette un rapido riconoscimento del sito. Il primo di essi, del 20 novembre 1751, ci informa che Domenico Marchese e Domenico Antonio Bruno erano comproprietari di un palazzo posto di fronte alla chiesa parrocchiale di Santa Maria delle Donne. Il secondo, del 6 settembre 1755, è l’atto con il quale una casa della chiesa della Santissima Annunziata viene venduta a Domenico Marchese; essa è così confinata: da levante con beni di Domenico Antonio Bruno, dello stesso Domenico Marchese e dei figli Bernardo e Nunziante, da tramontana con beni posseduti da Gaetano Errico, da mezzogiorno con strada, da ponente col largo della Dogana Regia11

 

9Archivio della Badia di Cava, pergamene VIII-24, aprile 1035; X-99, febbraio 1056; edite in M. Morcaldi, M. Schiani, S. De Stefano, Codex cit., rispettivamente, VI, Milano-Napoli-Pisa 1884, pp. 31-33; VII 1888, pp. 280-281. In tale edizione, la pergamena VIII-24 è erroneamente indicata come VIII-25 e la X-99 come X-96.

10Archivio della Badia di Cava, pergamena XI-49, agosto 1060; edita in M. Morcaldi, M. Schiani, S. De Stefano, Codex cit., VIII, 1893, pp. 117-119. In tale edizione, aalla pergamena viene attribuita la data dell’agosto 1059; la correzione in agsto 1060 si legge in M. Galante, La datazione dei documenti del Codex Diplomaticus Cavensis, Salerno 1980, pp. 149-150. In questo documento, l’appellativo muricino è chiaramente riferito all’antemurale, ancorché il citato sia il nuovo e non quello a ridosso del quale era stata edificata Santa Maria de Domno. Nei documenti anteriori, la parola compare esclusivamente nella locuzione inter murum et muricinum, utilizzata per indicare la striscia di terreno compresa fra le due cortine, mentre queste, citate singolarmente, vengono nominate come “muro superiore” o “muro vecchio che fu della città”, la prelongobarda, e “muro inferiore” o “muro della città”, l’antemurale. M. de Angelis, Studio cit., p. 109, seguendo il ragionamentosecondo il quale l’antemurale fosse stato edificato per migliorare le difese e quindi doveva essere più alto e poderoso del muro che veniva a sostituire, ritiene che con il diminutivo “muricino” si intendesse il muro vecchio; era, invece, il contrario. A. R. Amarotta, Salerno cit. p. 195, lasciandosi ingannare da questo stesso documento, che cita un terreno posto nella città, a meridione della chiesa, fra questa e il muricino, suppone che Santa Maria de Domno non fosse stata edificata a ridosso dell’antemurale, nonostante ciò risulti chiaramente dai citati documento del febbraio 990 e dell’ottobre 991; egli non si rende conto che quella qui citata è una nuova cortina, mentre non spiega come sarebbe stato possibile, nel caso contrario, che in uno spazio di undici metri e venti centimetri trovassero posto la chiesa, alla quale, se interpretiamo bene la scala con la quale correda la pianta che pubblica (ivi. p. 196), assegna più di dieci metri, un andito e un terreno edificabile.

11Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 5221, anno 1751, f. 217t e ss.; 5223, anno 1755, f. 219t e ss.

Dunque, lungo il lato settentrionale della via Masuccio Salernitano, l’edificio d’angolo con il largo Dogana Regia rappresenta la casa della Santissima Annunziata venduta a Domenico Marchese, mentre l’antico portale contrassegnato dal civico 56 è l’ingresso al palazzo che fu parte dello stesso Domenico Marchese e parte di Domenico Antonio Bruno. Qui di fronte vi era la chiesa di Santa Maria de Domno; e qui, in effetti, essa ha lasciato il segno nell’edificio che la sostituisce. Questo si compone di due elementi architettonicamente distinti: il primo, consistente in tre piani superiori e quattro locali terranei contrassegnati dai numeri civici dal 63 al 69, allineato al fronte delle costruzioni contigue verso est; il secondo, consistente nella sola tromba delle scale con il portoncino contrassegnato dal numero civico 71, allineato, con un avanzamento rispetto al primo di circa un metro, al fronte del palazzo contiguo verso ovest. Questo secondo elemento è il campanile di Santa Maria de Domno e il portone del palazzo al suo lato occidentale, aperto nella tompagnatura di un ampio arco, il cui piedritto sinistro aderisce al campanile stesso, rappresenta l’accesso al “compreso coverto” osservato dall’architetto Santoro, e da lui ritenuto di proprietà privata, attraverso il quale si accedeva all’ingresso della chiesa e alle “vicine e sovrastanti case”12. Verso oriente l’edificio si incastra sotto l’ala occidentale del palazzo adiacente che occupa qualche metro della sua area superiore: siamo nella zona absidale di Santa Maria de Domno, già sovrastata da costruzioni nel 1862.

 

12Il possesso di questo atrio fu oggetto di una lunga contesa di cui troviamo traccia nelle relazioni delle visite pastorali: il 14 aprile 1609 si ordinava ai privati che l’avevano occupato con pietre di liberarlo; nell’ottobre 1692 si asseriva essere di Matteo Clarizia, che vi aveva l’ingresso alle proprie case, per cui, constatato che la chiesa aveva anche una porta verso la strada, si ordinava all’economo di tenere chiusa quella che vi corrispondeva; il 10 marzo 1699 fu detto pubblico, anche se posto sotto le case di Sebastiano Clarizia; il 13 febbraio 1707 fu detto dello stesso Sebastiano Clarizia (Archivio Archidiocesano di Salerno, Visite pastorali, R 49; R 34; R 45.

Nota aggiunta: attualmente le cartelle Visite pastorali in Archivio Archidiocesano di Salerno, con il trasferimento dell’archivio stesso, hanno mutato collocazione.

Procediamo alla misurazione del prospetto comprendendovi la sottile lesena che lo conclude verso est e il piedritto dell’arco costituente il ringrosso all’angolo nord-occidentale del campanile disegnato sulla pianta dell’architetto Santoro: rileviamo diciassette metri e cinquantaquattro centimetri contro i diciassette metri e sessantotto centimetri calcolati sulla pianta, con una differenza di quattordici centimetri, pari a meno dell’uno per cento dell’intera misura. Dalla stessa lesena misuriamo ventotto metri verso occidente arrivando nel terraneo contraddistinto dal numero civico 77: siamo al limite dell’area su cui fu edificata Santa Maria de Domno, ove, dall’interno della città verso il mare, correva il corso d’acqua che Michele de Angelis volle riconoscere nella via Antonio Genovese; di esso non rimane traccia nemmeno nelle dividemti catastali, logicamente, secondo noi, se, come lo stesso autore sostiene13, già in epoca normanna il suo corso fu deviato nel fossato realizzato per proteggere le mura orientali della città.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

13M. de Angelis, Conferme cit., p. 118 e 124.

Lungo la via Masuccio Salernitano, il prospetto dell’edificio in cui è incastonato il sito di Santa Maria de Domno è una linea spezzata, la cui parte più arretrata è proprio quella dell’edificio che sostituisce la chiesa. Qui la strada raggiunge la massima ampiezza, circa tre metri e trenta centimetri, all’altezza dell’angolo formato dal campanile sulla facciata, mentre si riduce a poco meno di tre metri all’altessa del portale di palazzo Marchese-Bruno, che assumiamo come riferimento più antico. L’ampiezza della strada che sfiorava la chiesa fu valutata fra i cinque e i dieci metri da Michele de Angelis14, misura che ci pare eccessiva per una strada longobarda ancorché dell’importanza che lo stesso autore volle attribuirle; più realistica appare l’ipotesi di Arcangelo R. Amarotta che la valuta intorno ai quattro metri15. Tale ampiezza assume importanza in relazione al terreno, cui accennavamo innanzi, che l’abate di Santa Maria de Domno cedette nell’ottobre 991 al conte Guaimario in permuta di quello posto a oriente della chiesa. Esso era sito a occidente del corso d’acqua che abbiamo visto, ma a nord della strada, lungo la quale si sviluppava per quarantanove piedi, pari a circa quindici metri e ventiquattro centimetri; la sua larghezza era di trentuno piedi, pari a nove metri e sessantaquattro centimetri, ed era compresa fra la stessa strada e il muro prelongobardo che ne costituiva il confine settentrionale. Molto approssimativamente, dunque, in relazione al sito ove abbiamo individuato la chiesa, possiamo dire che il muro prelongobardo correva circa alla metà dell’ampiezza latitudinale del largo Dogana Regia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

14M. de Angelis, Studio cit., p. 106.

15A. R. Amarotta, Salerno cit., p. 63.

Ma se l’individuazione di Santa Maria de Domno a circa settanta metri verso oriente dall’ubicazione del de Angelis non produce, naturalmente, che effetti irrilevanti circa la latitudine del duplice muro meridionale, ben più notevoli conseguenze porta circa la posizione delle difese orientali. Nel già citato lavoro intorno alla forma urbis prelongobarda scrivevamo che la città si allungava in senso longitudinale dal torrente Fusandola ad una linea orientale non perfettamente identificabile, data la mancanza di documentazione, ma che certamente raggiungeva, e forse superava, il largo Dogana Regia16. Tale dichiarazione di ignoranza da parte nostra fu oggetto di sottile ironia da parte di Arcangelo R. Amarotta17. Bene, oggi possiamo asserire di aver compiuto un piccolo passo sulla strada della conoscenza e affermare che il duplice muro che correva lungo il lato meridionale della città superava abbondantemente il largo Dogana Regia; anzi, conoscendo che ad est di Santa Maria de Domno si estendeva per quaranta piedi, pari a dodici metri e quaranta centimetri, il terreno del conte Guaimario poi passato alla chiesa e che questo aveva al proprio confine orientale un altro terreno del principe Giovanni, anche volendo supporre che oltre quest’ultimo non vi fosse altro che il muro orientale ortagonale all’antemurale, possiamo affermare cha la città longobarda raggiungeva certamente, e molto probabilmente superava, l’attuale via Luigi Cannoniere. Rimane non definibile, nemmeno approssimativamente, la questione della difesa prelongobarda, anche perché i documenti giunti fino a noi non ci dicono nemmeno se il duplice muro correva anche lungo il lato orientale della città, relativamente alla parte bassa, o se ciò fu una peculiarità del lato meridionale.

   

 

 

 

 

 

 

 

 

16V. de Simone, La “forma urbis” cit., p. 204.

17A. R. Amarotta, Questioni di topografia salernitana altomedievale, in «Rassegna Storica Salernitana» , 20, 1993, pp. 187-188.

Michele de Angelis ipotizzò il muro prelongobardo volgente a nord alle spalle di palazzo Marchese-Bruno, lungo la direttrice dell’allora vicolo Storto, oggi via Matteo Fiore; il longobardo lungo il vicolo Giovanni Ruggi18.

Arcangelo R. Amarotta fa risalire il primo lungo la via Antonio Genovese; il secondo lungo la direttrice via Antonio Mazza-vicolo Pietro Barliario19, affinché incontri il sito ove generalmente si riconosce il castello di Terracena, attribuendone l’ubicazione a Carlo Carucci20; il quale Carucci, però, assolutamente non volle identificare tale castello con l’edificio a nord della piazzetta Francesco Cerenza famoso per le tarsie policrome, bensì con l’attuale sede del museo provinciale, ex Castelnuovo, ove alloggiò la regina Margherita di Durazzo, ed ex palazzo badiale di San Benedetto. Egli, infatti, scrisse che, avendo papa Alessandro IV donato ai monaci di San Benedetto il suolo su cui era stato edificato castel Terracena, essi “dovettero fabbricarvi un palazzo, perché più tardi lo diedero, perché vi abitasse, alla regina Margherita di Durazzo21. Conferma del fatto che Carucci immaginò il famoso castello nel sito del museo provinciale ci viene dalla relazione della commissione per la revisione dei nomi delle strade della città, istituita dal podestà onorevole Mario Iannelli nell’aprile 1931, di cui faceva parte lo stesso Carlo Carucci, che propose di sostituire la denominazione di vicolo Castel Terracena a quella di vicolo Nuovo22 allora attribuita alla gradinata che rasenta il lato settentrionale del museo provinciale, generalmente riconosciuto come il palazzo di Margherita di Durazzo, e al suo prolungamento verso la via dei Mercanti. Il travisamento dell’opinione di Carlo Carucci è un altro luogo comune della storiografia salernitana che crediamo sia giunto il momento di sfatare, mentre è appena il caso di rilevare come il recupero del sito di Santa Maria de Domno rivaluti fortemente la tesi del de Angelis circa il tracciato del muro orientale della città, rendendo improponibile quella di Amarotta.

 

18M. de Angelis, La porta Elina di Salerno, in «Archivio Storico della provincia di Salerno», 1924, p. 131. Precedentemente (Il passato di Salerno a traverso gli antichi archi, in «Archivio Storico della provincia di Salerno», 1923, p. 355) aveva ipotizzato che i due muri meridionali fossero ortagonali ad un unico muro orientale risalente per il vicolo Giovanni Ruggi.

19A. R. Amarotta, L’Ortomagno nelle fortificazioni longobarde di Salerno, in «Atti della Accademia Pontaniana», XXX, 1981, p. 205; Salerno cit., piante alle pp. 42, 66, 69, 72, 76.

20A. R. Amarotta, Salerno cit., p. 99.

 

 

 

 

 

 

21C. Carucci, La provincia di Salerno dai tempi più remoti al tramonto della fortuna normanna, Salerno 1923, p. 292.

 

 

 

 

 

22La relazione di questa commissione, composta da Matteo Fiore, Francesco Alario, Francesco Cantarella, Carlo Carucci, Michele de Angelis, Domenico Lorito, Andrea Sinno, Paolo Vocca e Nicola Telesca, si legge in «Archivio Storico per la provincia di Salerno», 1932-1933, pp. 64-86. La sostituzione di denominazione che ci interessa è la numero 49 ed è riportata alla p. 72.

In apertura di questo scritto notavamo come la ricerca sia spesso illuminata da fortuiti ritrovamenti; ma è evidente che lo studioso non può rimanere in attesa di questi, così come è evidente che non può pensare di limitare la propria indagine alle edizioni di un numero relativamente limitato di pergamene cavensi affidandosi, per il resto, al proprio presunto intuito o alla fantasia. Crediamo di non errare sostenendo che molti documenti, fra le migliaia giacenti presso gli archivi, debbano ancora essere consultati prima di poter asserire di esserci avvicinati, con sufficiente approssimazione, alla realtà della storia topografica di questa città.

Vincenzo de Simone

 

TAVOLA I

TAVOLA II

Didascalie alla Tavola II

1: Largo Dogana Regia.

1-2: Via Masuccio Salernitano.

3: Casa della Santissima Annunziata venduta a Domenico Marchese.

4: Palazzo parte di Domenico Marchese, parte di Domenico Antonio Bruno.

5: Chiesa di Santa Maria de Domno.

6: Portico dal quale si accedeva alla chiesa; all’inizio del Settecento sotto le case di Sebastiano Clarizia.

7-8: Tracciato del corso d’acqua che limitava a occidente l’area della chiesa.

9-10: Tracciato presunto del muro prelongobardo meridionale.

11-12: Tracciato dell’antemurale. 12: via Luigi Cannoniere.

13-14: Tracciato presunto del secondo antemurale.

 

Secondo Michele de Angelis:

15: Chiesa di Santa Maria de Domno.

16-17-18: Tracciato del corso d’acqua che limitava a occidente l’area della chiesa. 17-18: Via Antonio Genovese.

19-20-21: Tracciato del muro prelongobardo orientale. 20-21: via Matteo Fiore.

23-23: Tracciato del muro longobardo orientale. Via Giovanni Ruggi. 

 

Secondo Arcangelo R. Amarotta:

16-17-18: Tracciato del corso d’acqua che limitava a occidente l’area della chiesa e del muro prelongobardo orientale.

24-25-26: Tracciato del muro longobardo orientale. 24-25: via Antonio Mazza; 25-26: vicolo Pietro Barliario.

27: Piazzetta Francesco Cerenza.

28: Sito ove generalmente si riconosce Castel Terracena.

 

Secondo Carlo Carucci:

29: Sito di Castel Terracena, poi Palazzo della Regina di Durazzo.

30-31: Vicolo Castel Terracena, già vicolo Nuovo. Sostituzione di denominazione molto probabilmente proposta alla commissione per la revisione dei nomi delle strade della città dallo stesso Carlo Carucci.

 

 

La pubblicazione di questo articolo provocò una lunga diatriba con Arcangelo R. Amarotta.

Si veda il caso di Santa Maria de Domno.