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a cura di Vincenzo de Simone

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il caso Santa Maria de Domno

 

«Rassegna Storica Salernitana», 29, giugno 1998, pp. 245-257

Arcangelo R. Amarotta, Le due chiese di S. Maria de Domno nel centro storico di Salerno

(Scritto di contestazione all’articolo di Vincenzo de Simone Nuove acquisizioni sulla chiesa medievale di Santa Maria de Domno in Salerno apparso sul numero 28 della stessa pubblicazione).

 

Sono ricorrenti, nelle relazioni delle visite pastorali compiute dagli arcivescovi di Salerno nel medioevo e in età moderna1, le osservazioni negative sulla imperfetta o sospesa funzionalità degli edifici religiosi.

Nel 1314 l’arcivescovo Onofrio denuncia l’occupazione di chiese durante il periodo di sede vacante seguito alla morte del suo predecessore, tenacemente difesa dagli usurpatori con falsi titoli di proprietà2.

Nella visita pastorale durata dal 1570 al ’73 l’arcivescovo Marco Antonio Colonna annota: a) la chiesa di S. Benedetto prope hospitium de li cornuti è quasi tota ruinosa; b) quasi diruta et tota diruitur, nihil ea extat et est in loco dissoluta, S. Martino de coriariis; c) è necessario riparare con urgenza S. Maria de dominabus, S. Salvatore de dogana e S. Maria de Ortomagno; d) minaccia di crollare S. Maria del cantaro; e) S. Pietro in camerellis è stata trasformata in taverna3. Due secoli dopo S. Pietro in camerellis è ridotta ad formam speluncae latronum. Sarà abbandonata nel 17314.

Nel 1598 l’arcivescovo Bolognini ricostruisce dalle fondamenta la chiesa di S. Lorenzo de strata5.

In un altro biennio di sede vacante (1662-’64) il vicario capitolare annota che la chiesa di S. Eufemio è in condizioni di dissesto statico. Inoltre interdice al culto la chiesa di S. Maria de alimundo, dichiarata pericolante6. Che infatti crollerà e sarà ricostruita dall’arcivescovo de Capua nel 17317.

Nelle trattative condotte tra l’arcivescovo Alvarez e l’Ordine di Malta per l’acquisto della penisola di S. Giovanni a mare (1692-’99) si legge che la chiesa di S. Maria di Porto Salvo è diruta8.

Nei sei anni di residenza a Salerno l’arcivescovo de Vilana Perlas (1723-’29) abbatte il seminario, perché angusto e inadatto, e ne costruisce uno nuovo9.

Nel 1731 l’arcivescovo Fabrizio de Capua, a Salerno da un anno, visita l’ospizio dei pellegrini abbattuto nel 1720 per la costruzione di una strada e trasferito altrove10. L’edificio durerà poco più di mezzo secolo: nel 1785 l’arcivescovo Pignatelli lo definirà «quasi diruto, cadente e senza comodi»11.

Ancora nel 1731, la chiesa di S. Bartolomeo in plano montis «è ridotta in tale miserevole stato che non si può abbastanza descrivere se sia piuttosto una cantina», annota il de Capua12.

Otto anni dopo il suo successore, Casimiro Rossi, rileva che due delle tre navate sono crollate, l’altra si regge come può13.

Adibita ad usi agricoli risulta nel 1735 la chiesa di S. Maria di capopiazza, che sarà interamente ricostruita cinquanta anni dopo14.

Non è andata meglio a chiese di maggior prestigio (S. Pietro a corte fa storia a sé): un elenco lunghissimo dal quale stralcio tre casi emblematici, utili alla comprensione di quanto sarà detto più avanti.

Il monastero di S. Benedetto, distrutto dai saraceni nell’884 e riedificato due anni dopo, resse fino alla prima metà del sec. XI, quando fu adibito ad uso di civili abitazioni, chiesa compresa, naturalmente. Restituito alla Chiesa alla fine del secolo XII, risulta qualche tempo dopo utilizzato come deposito per “macchine da guerra”. Segue un periodo piuttosto lungo in cui è documentata una successione di abati, concluso nel primo decennio del secolo XIX quando il monastero è soppresso e la chiesa trasformata in teatro. Con ampie opere di adattamento al nuovo uso, s’intende.

Il teatro funziona per più di un trentennio, la chiesa anche per il ventennio successivo. Segue una nuova requisizione per imprescindibili necessità militari durata dieci anni. Finché, nel 1878, le strutture sono rimodificate e l’edificio restituito alla destinazione originaria15.

Non furono meno tormentate le vicende di S. Lorenzo de monte, monastero di obbedienza cassinese dall’ultimo quarto del secolo X alla metà del XII, quando i monaci ne furono allontanati da Giovanni da Procida, che ristrutturò l’edificio, ricostruì interamente la chiesa e affidò l’istituto alla figlia Giovanna, badessa di suore clarisse. Siamo nel 1295.

Tra il XV e il XVI secolo l’edificio fu ampliato da Ferrante Sanseverino. Le clarisse continuarono ad abitarvi fino al 1586, quando se ne allontanarono per ragioni non storicamente determinate, deducibili tuttavia dal fatto che a sostituire le suore provvide un nucleo di latitanti, che asportarono colonne, stemmi gentilizi e soprattutto il legname del tetto.

Seguirono, tra il 1620 e il 1707, la ricostruzione del convento e, tra il 1659 e il 1679, la ricostruzione della chiesa su una nuova pianta. Infine, dopo un periodo di vacanza durata un cinquantennio, provocato dalle leggi eversive degli Ordini monastici, l’istituzione fu annessa all’attiguo istituto Umberto I16 . Un ultimo intervento di trasformazione esterna è stato effettuato nel 195417.

Infine S. Grammazio, scoperta nel 1989 in via dei Canali: uno dei pochi casi a Salerno, forse l’unico, in cui l’archeologo e il ricercatore d’archivio hanno lavorato di comune accordo. Sul piano archeologico sono state ricostruite quattro fasi: costruzione alla fine del X secolo; una serie di rifacimenti e ristrutturazioni; rinnovamento costruttivo; abbandono del sito in seguito al terremoto del 1454. Dopo il terremoto il suolo è stato utilizzato per edilizia residenziale privata, infine per la costruzione del conservatorio.

Nella certe d’archivio di età moderna il titolo di S. Grammazio, attribuito ad una chiesa parrocchiale, riappare in una relazione dell’arcivescovo Carafa (1664-’75), che giudica l’edificio, situato in piazza Abate Conforti, in pessime condizioni statiche, tant’è che un suo successore, il de Ostos (1692-’95), decide di abbatterlo, con la contemporanea elevazione a parrocchia della vicina S. Maria dei Barbuti. Decisione duramente contestata dai fedeli, che ottengono la ricostruzione della chiesa nella stessa piazza, a pochi metri di distanza da quella abbattuta18.

In questo quadro di rinnovamento dell’edilizia religiosa salernitana, che uscirebbe a dir poco decuplicato dalla estensione della ricerca, desta sorpresa la notizia, recentissima, di un edificio rimasto inalterato nel centro antico di Salerno dall’ultimo scorcio del X secolo alla seconda metà del XIX. Si tratta della chiesa longobarda di S. Maria de Domno, la cui pianta originaria, leggibile tra il 990 e il 991, in due documenti del Codex Diplomaticus Cavensis, appare simile a quella rilevata da un perito giudiziario nel 1862 in via Masuccio Salernitano, nel quartiere detto Ortomagno nel Medioevo19. Nella perizia la chiesa è detta S. Maria delle donne.

Un fatto d’interesse storico eccezionale, meritevole di ampia diffusione, se lo spazio temporale tra i due documenti fosse sia pure parzialmente coperto dalle vicende strutturali ed istituzionali vissute dalla chiesa in nove secoli: tantissimi, in una città attraversata da dominazioni, guerre, rivoluzioni, carestie, pestilenze, alluvioni, terremoti e quant’altro producono la natura in genere e l’avidità degli uomini in particolare. È dunque necessario controllare se i nove secoli di immobilismo strutturale e funzionale dell’edificio, fondati soltanto sulla uguaglianza, più affermata che dimostrata20, di due aree edificate, siano documentabili.

Anzitutto il nome della chiesa: originariamente S. Maria, poi S. Maria de Domno, poi de Dominabus, infine delle donne, secondo l’autore dell’articolo citato in nota 19, che trascura la variante de Dompno, documentata particolarmente nel XIII e XIV secolo, e data al 1725 la variante S. Maria delle donne retrodatabile almeno al XVII secolo, come vedremo più avanti. Il sovrapporsi dei titoli invita alla prudenza, prima di riconoscerli in un solo edificio.

Ha richiamato per primo l’attenzione sulla chiesa il De Angelis nel 1923riconoscendone i resti in un arco sostenuto da due colonne con capitelli corinzi nella bottega di un fruttivendolo lungo il vicolo II Prefettura, poi di S. Maria de Domno, ad oriente del palazzo della Prefettura, poi della Provincia21. Oggi la situazione dei luoghi è profondamente mutata per gli effetti di un bombardamento aereo (agosto 1943) e della ricostruzione postbellica: il vicolo è ridotto a meno della metà, ma s’intuisce tuttavia il sito del reperto archeologico.

Ho condiviso la tesi del De Angelis nel 1989, limitando la ricerca agli anni in cui la chiesa fu costruita (986-989) e al periodo di attività nei secoli longobardi, documentato dalle pergamene della Badia di Cava22. In questi anni l’edificio è costantemente detto Inter murum et muricinum, il quartiere meridionale della città, urbanizzato tra le due fortificazioni verso il mare.

Tra gli anni Trenta e Quaranta del XII secolo al toponimo originario se ne affianca un altro: Hortus Magnus, italianizzato in Ortomagno23. Ma ben presto i due toponimi si fondono nelle espressione In Ortomagno inter murum et muricinum. E qui conviene utilizzare direttamente le carte d’archivio.

1165, in un atto notarile: parla Centurio «pro parte ecclesie Sancte semperque virginis et Dei Genitricis Marie que de Domno dicitur, et constructa est intra hanc predictam civitatem in Orto magno inter murum et muricinum, a super et prope litus maris»24.

1202, in un contratto di compravendita: casa «que constructa est intra hanc Salernitanam civitatem, in Ortomagno inter murum et muricinum, et prope ecclesiam Sancte Marie de Dompno»25.

1217, ancora in un contratto di compravendita: «casa solarata que constructa est in terra ipsi monasterio [la Badia di Cava] pertinente, intra hanc Salernitanam civitatem, in Ortomagno inter murum et muricinum, prope ecclesiam Sancte Marie de Dompno»26.

1243, in un contratto d’affitto: «casa fabricata uno solario solarata cum scalis fabricatis ipsi fratarie [la frateria del duomo] pertinentem, que est infra hanc Salernitanam civitatem, in Ortomagno ubi a lu Campitiellu dicitur, prope ecclesiam S. Marie de Dompno»27.

1272, in un contratto di cessione: «Integram terram cum casa fabricata solarata et scalis fabricatis ipsi monasterio [la Badia di Cava] pertinentem, intra hanc Salernitanam civitatem, in Ortomagno, prope suprascripte ecclesie S. Marie de Dompno. Que videlicet terra cum casa a parte septentrionis platee que, eundo in orientem, exit per portam istius civitatis que dicitur Elini»28.

Dall’Inter murum et muricinum dei secoli longobardi ereditato dall’età normanna, l’espressione composita del 1165 protrattasi fino al primo ventennio svevo apre un periodo di duplicazione nella toponomastica cittadina che si conclude verso metà del secolo XIII col definitivo toponimo Ortomagno accolto dagli Angioini.

Proiettiamo i toponimi sull’attuale panorama della città. Nella seconda metà del XII secolo Salerno era situata fra i torrenti Fusandola, ad ovest, e Rafastia, lungo il versante meridionale del Bonadies, la collina del castello; ma sul lato orientale l’urbanizzazione si arrestava alle falde del colle, su una linea definita dal muraglione incombente sulle vie S. Benedetto e Velia. Il quartiere era detto Ortomagno, toponimo che comprendeva anche il territorio disabitato verso il mare.

Fittamente urbanizzato era invece il lato occidentale, dal Fusandola a via Antonio Mazza, nei pressi di Porta Elinia, difeso verso il mare da una doppia murazione che recingeva il quartiere detto Inter murum et muricinum, in cui sorgevano numerosi edifici tra i quali il monastereo di S. Giorgio e la chiesa di S. Maria de Domno.

Territori contigui, dunque, l’Inter murum et muricinum e l’Ortomagno, con S. Maria de Domno nei pressi della linea di confine come afferma la successione dei toponimi di riferimento e soprattutto il fatto che mentre la chiesa viene detta continuamente in Ortomagno, il monastero, cento metri circa ad occidente, mantiene l’originaria collocazione nella versione aggiornata Inter veteres muros29.

La conclusione che si deve trarre da questi obbiettivi dati di fatti è univoca: se i toponimi Inter murum et muricinum e Ortomagno si sono avvicendati sul locus ove sorgeva S. Maria de Domno, ma non sul locus di S. Giorgio, dobbiamo accettare una dilatazione ad occidente dell’Ortomagno, con l’inglobamento della chiesa e dell’adiacente Campitello, citato nel 1243, oggi largo Dogana Regia30.

La situazione durò fino all’età sveva, quando il territorio al piede della scarpata, oggi quartiere della Piantanova, fu inglobato nel centro cittadino, e la porta spostata sulla piazza Sedile di portanova. Seguì l’urbanizzazione del territorio, con l’ulteriore espansione del toponimo Ortomagno31.

Eventuali, residue perplessità su quanto s’è detto fin qui sono superate da una questione di ordinaria prepotenza cittadina descritta in un ricorso a re Roberto.

1328, nel testo del ricorso: il milite Pietro Comite, cittadino salernitano, è accusato dai conterranei di avere «ad puplica occupanda tendens illicite manus suas, quandam viam puplicam qua ante ecclesiam Sancte Marie de Dompno transeuntibus accessus parabatur ad maritimam civitatis eiusdem claudi, certumque inibi edificium construxit seu construi fecit pro sue inordinate arbitrio voluntatis, viam puplicam taliter occupans in preiudicium reipuplice et dispendium dictorum exponentium et aliorum eciam vicinorum»32.

Chi percorre, «con occhio puro e mente serena», il vicolo dichiaratamente medievale di S. Maria de Domno, che da via dei Mercanti raggiunge piazza S. Agostino e, al di là delle trasformazioni post-belliche, il lato orientale del palazzo della Provincia, vedrà ancora oggi la gente inviperita per non poter andare a prendere una boccata d’aria pura al lungomare dopo aver ascoltato la messa in S. Maria de Domno. In via Masuccio Salernitano potrà intravedere S. Maria delle donne, ma in nessun caso il documento del 1328.

Due chiese, dunque, succedutesi nei secoli, entrambe parrocchiali: la prima tra il vicolo S. Maria de Domno prolungato verso il mare e il largo Dogana Regia, datata all’ultimo decennio del X secolo e attiva nel 1328 (il che non significa fino al 1328); l’altra in via Masuccio Salernitano posteriore al 1328 e durata fino al 1822, quando fu sconsacrata. Perfettamente inserite nel quadro strutturale e funzionale qui delineato.

La (presunta) uguaglianza delle superfici può essere attribuita al caso, ma anche al comprensibile desiderio di mantenere inalterata una tradizione perpetuatasi nei secoli. E la breve distanza tra gli edifici, circa sessanta metri, si può spiegare con l’opportunità di acquisire nuovi parrocchiani senza perdere i vecchi; ciò per prevalenti motivi di carattere finanziario: un particolare di cui ci si può rendere conto scorrendo la documentazione d’archivio, dove sono frequentemente citati i parroci di Santa Maria de Domno come gestori in proprio e/o in rappresentanza della Badia di Cava, da cui la chiesa dipendeva, di numerose, ampie proprietà immobiliari e fondiarie nel centro e nella foria di Salerno.

Resiste, puntellato da sei inequivocabili documenti, l’arco notato dal De Angelis nella bottega del vicolo II Prefettura. E resistono le conclusioni successivamente tratte dal sottoscritto cui altre sono state aggiunte in questa circostanza, che hanno consentito la messa a fuoco di particolari finora inediti nella vita sociale della chiesa. Il caso di S. Maria de Domno rientra nella regola dell’edilizia religiosa salernitana attraverso i tempi, in cui non trova spazio lo scritto citato in nota 19.

Questi i fatti, per chi preferisce leggerli nelle fonti.

 

Addendum. La chiesa fondata nell’ultimo ventennio del X secolo dai principi longobardi Giovanni e Sichelgaita fu detta Ecclesia Dei genitricis semper virginis Marie, cui in un secondo tempo fu accostata l’espressione pertinentes suprascripto domni principi. Il titolo durò con varianti di poco conto, fino al primo decennio del XII secolo, quando i principi vennero messi da parte (la pertinenza era passata alla Badia di Cava) e la chiesa detta semplicemente de Domno,

Fin qui le varianti sono giustificate. Meno giustificata appare a noi lontani pronipoti la variante de Dompno, tuttavia in carattere con le consuetudini del tempo, se venne accolta senza obiezioni dal popolo e anche dai fondatori di chiese, o semplici cappelle minori: S. Maria de dompno Radulfo, S. Maria de dompno Adenulfo.

Seguì, in un anno non precisabile, il titolo S. Maria delle donne, comunemente riconosciuto dagli studiosi come ulteriore variante del titolo originario. Anche la chiesa di via Masuccio Salernitano qui discussa fu detta S. Maria delle donne. Ma un episodio rintracciato dall’infaticabile Generoso Crisci tra le pergamene del locale Archivio di Stato ci avverte che forse siamo ben al di là di una semplice variante lessicale.

1621: l’arcivescovo Lucio Sanseverino, in visita pastorale, chiede alle monache della congregazione di Montevergine, di recente trasferite in S. Maria delle donne, se la nuova sede sia di loro gradimento. Le monache si dichiarano soddisfatte33.

Approfondire l’argomento richiede uno studio che andrebbe oltre il tema qui discusso. Hic et nonc mi limito a leggervi, oltre ad una sensibile incrinatura nella opinione comune sull’origine del nuovo aggiuntivo, una ulteriore conferma della dissomiglianza lessicale ed istituzionale tra la chiesa del vicolo II Prefettura e quella di via Masuccio Salernitano.

 

1G. Crisci, Il cammino della Chiesa salernitana nell’opera dei suoi vescovi (sec. V-XX), opera in 4 volumi datati 1976, ’77, ’80, ’84.

 

 

 

 

 

2Ivi, vol. I, pp. 333-337, part. a p. 335 s.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3Ivi, vol. I, pp. 585-598, part. a p. 596.

 

4Ivi, vol. II, p. 290.

 

 

5Ivi, vol. I, pp. 647-675, part. a p. 648.

 

 

 

6Ivi, vol. II, pp. 77-90, part. a p. 87.

 

7Ivi, vol. II, p. 292.

 

 

 

8Ivi, vol. II, pp. 133-156, part. a p. 155.

 

 

 

9Ivi, vol. II, pp. 237-263, part. a p. 339.

 

 

 

10Ivi, vol. II, pp. 269-316, part. a p. 292.

 

11Ivi, vol. II, pp. 387-431, part. a p. 402.

 

 

 

12Ivi, vol. II, pp. 269-316, part. a p. 291.

 

 

13Ivi, vol. II, pp. 319-349, part. a p. 332.

 

 

14Ivi, pp. 387-431, part. a p. 402.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

15G. Crisci-A. Campagna, Salerno sacra. Ricerche storiche, Salerno 1962, pp. 387 ss.; G. Bergamo, Ricostruzione delle chiese della città di Salerno e del suo comune, vol. 4°, Battipaglia 1973, pp. 57 ss.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

16B. Pergamo, Note per servire alla storia del convento di S. Lorenzo di Salerno, «Rassegna Storica Salernitana», VII, 1-4, 1946, pp. 3-18; VIII, 1-4, 1947, pp. 3-64; XI, 1-4, 1950, pp. 68-102.

 

17G. Kalby, Il quartiere «Plaium montis» nel Centro antico salernitano, «Rivista di studi salernitani» 3, 1969, pp. 173-175.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

18A. Amarotta e M. A. Iannelli, Medioevo sepolto a Salerno: S. Grammazio «a li Canali», in «Atti dell’Accademia Pontaniana» n. s., vol. XXXIX, 1991, pp. 5-46. A. R. Amarotta, Medioevo scavato a Salerno: S. Grammazio «supra Canale», ivi, vol. XLIV, 1995, pp. 247-264.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

19V. De Simone, Nuove acquisizioni sulla chiesa medievale di S. Maria de Domno in Salerno, «Rassegna Storica Salernitana», n. s., 28, 1997, pp. 7-21.

 

 

 

 

 

 

 

 

20Lo spessore dei muri e la sporgenza del campanile, evidenziati dal perito del 1862, non trovano riscontro nei documenti longobardi: cf. Codex Diplomaticus Cavensis, a cura di M. Morcaldi, M. Schiani, S. De Stefano, Milano-Pisa-Napoli 1873-1893, vol. II, docc. CCCCXII del 989, p. 272 e CCCCXIII del 990, pp. 289 ss.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

21M. De Angelis, Studio sui muri di Salerno verso il mare, «Archivio storico della provincia di  Salerno», III,  2-3, 1923, pp. 100-116 e nota a pp. 196 ss.

 

 

 

 

 

 

22A. R. Amarotta, Salerno romana e medievale. Dinamica di un insediamento, (Collana di Studi Storici Salernitani, 2) Salerno 1989, pp. 192-199.

 

 

23Archivio della Badia di Cava. Pergamene trascritte da Carmine Carlone e Francesco Mottola (AC) Per la posizione della chiesa tra il muro e il muricino cf. ACXIV, n. 16 del 1137; XXIV, n. 75 del 1139; XXIV, n. 78 del 1139; XXIV, 80 del 1139; XXIV, 97 del 1139; XXIV, 119 del 1140; XXV, 34 del 1141. Per la posizione in Ortomagno, AC, XXV, n. 80 del 1143; XXV, 82 del 1143; XXV, 30 del 1144.

 

 

 

 

 

24Ivi, doc. XXXI, n. 108 del 1165.

 

25Codice Diplomatico Salernitano del secolo XIII, a cura di C. Carucci, vol. I (1201-1281), Subiaco 1931, doc. VI del 1202, p. 51.

 

 

 

 

26Ivi, doc. XXXVI del 1217, p. 112.

 

 

 

 

 

27Ivi, dic. CXV del 1243, p. 215.

 

 

 

 

 

28Ivi, doc. CCLXXXV del 1272, p. 424. Sulla porta que dicitur Elini cf. M. De Angelis, La porta Elina di Salerno, in «Archivio» cit., 3-4, 1924, pp. 49-134; A. R. Amarotta, Il secolo normanno nell’urbanistica salernitana, «Rassegna» 3, 1985, p. 83 ss; Id., Una tesi singolare: le vie di Porta Elinia, in «Rassegna» cit., 18, 1992, pp. 205-207.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

29M. Galante, Nuove pergamene del monastero femminile di S. Giorgio di Salerno, I, (993-1256), Salerno 1984, docc. 16 del 1171, p. 38; 18 del 1175, p. 42; 19 del 1175, p. 47; 20 del 1177, p. 49; 21 del 1180, p. 51; 22 del 1207, p. 53; 23 del 1207, p. 55; 24 del 1213, p. 57; 32 del 1240, p. 77; 33 del 1242, p. 80; 34 del 1243, p. 82; 25 del 1249, p. 86; 36 del 1250, p. 89; 37 del 1252, p. 91; 39 del 1253, p. 96. Id., Nuove pergamene del monastero femminile di S. Giorgio di Salerno, II, (1267-1697), Salerno 1998, docc. 1 del 1267, p. 3; 2 del 1269, p. 5; 3 del 1271, p. 7; 4 del 1272, p. 9; 5 del 1272, p. 11; 6 del 1272, p. 14.

 

30Sul Campitello cf. anche A. R. Amarotta, Il secolo normanno nell’urbanistica salernitana, in «Rassegna» cit., 3, p. 100.

 

 

31A. R. Amarotta, L’Ortomagno nelle fortificazioni longobarde di Salerno, in «Atti dell’Accademia Pontaniana» n. s., vol. XXX, 1982, pp. 177-206. Id., Il secolo cit., pp. 71-122.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

32Codice Diplomatico Salernitano del secolo XIV, a cura di C. Carucci, Salerno 1949, parte I, doc. XLV del 1328, pp. 123 ss.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

33G. Crisci, cit., vol. I, p. 709.

 

 TOPONIMI

 

a.         Chiesa di S. Maria de Domno.

b.         Chiesa di S. Maria delle donne.

1.         Quartiere Inter murum et muricinum, poi             Inter veteres muros.

2.         Prefettura, poi Palazzo della Provincia.

3.         Vicolo II Prefettura, poi S. Maria de Domno.

4.         Via di Porta Elinia, poi dei Mercanti.

5.         Porta Elinbia (età longobarda e normanna).

6.         a lu Campitiello, poi largo Dogana Regia.

7.         Via Masuccio Salernitano.

8.         Quartiere Ortomagno, poi Piantanova.

9.         Porta Elinia (età sveva), poi Portanova.

 

Gli edifici punteggiati sono quelli ricostruiti dopo la seconda guerra mondiale.


 

«Rassegna Storica Salernitana», 30, dicembre 1998, pp. 137-140

Vincenzo de Simone, Santa Maria de Domno e Santa Maria delle Donne

(Scritto in replica all’articolo di Arcangelo R. Amarotta Le due chiese di S. Maria de Domno nel centro storico di Salerno apparso sul numero 29 della stessa pubblicazione).

 

Ogni volta che mi accingo a scrivere per questa «Rassegna» metto in preventivo una contestazione di Arcangelo Amatotta, alla quale di solito non replico, onde evitare tedio a chi legge; ma lo scritto Le due chiese di S. Maria de Domno nel centro antico di Salerno merita un riscontro , sia per quanto mette in discussione, sia per un elemento della pianta allegata, per me di estremo rilievo1.

La sintesi dell’intervento di Amarotta è che vi furono in Salerno due chiese, l’una sotto il titolo di Santa Maria de Domno, l’altra sotto quello di Santa Maria delle Donne; la prima nel luogo indicato da Michele de Angelis, la seconda in quello indicato dall’architetto Santoro. La seconda fu ricostruzione della prima; o, forse, con la prima niente ebbe in comune, poiché potrebbe trattarsi di quel monastero di Santa Maria delle Donne nel quale nel 1621 troviamo trasferite le monache della congregazione di Montevergine.

A tanto Amarotta giunge sviluppando tre livelli di ragionamento. Nel primo espone traversie, anche particolarmente traumatiche, dell’edilizia sacra cittadina, tentando di accreditare la tesi secondo la quale Santa Maria de Domno non poté sfuggire ad un destino analogo; ma, esclusa la relazione della visita pastorale dalla quale risulta che intorno al 1573, quando veniva indicata con l’appellativo de Dominabus, era da riparare, non porta alcun documento, fra la moltitudine di testi che la citano, ove si accenni al fatto che ci si apprestasse a rifondarla, o che fosse in via di rifondazione, o che fosse stata rifondata; men che meno porta il documento risolutivo che possa far pensare, anche lontanamente, ad una mutazione del sito rispetto a quello voluto dalla principessa Sichelgaita nel secolo X. Nel secondo dà per dimostrata la sua tesi, a sostegno della quale né in questo scritto né in altri precedenti porta documenti o rilevanze archeologiche. Secondo tale tesi, la città longobarda e normanna ebbe per confine orientale l’attuale via Antonio Mazza, che è proprio la tesi che io contesto ad Amarotta, portando a sostegno il sito recuperato di Santa Maria de Domno; di contro egli porta documenti che ci dicono essere stata la nostra chiesa in Orto Magno, Inter murum et muricinum, vicino al Campitello; ebbene, il sito ove l’architetto Santoro vide la chiesa che egli conobbe come Santa Maria delle Donne risponde a questi requisiti almeno quanto quello ove Michele de Angelis immaginò la sua Santa Maria de Domno. Nel terzo lo studioso pone in dubbio il fatto che l’appellativo settecentesco e ottocentesco delle Donne sia volgarizzazione delk medievale de Domno; ciò mi convince che sfugge alla sua attenzione una considerevole parte della documentazione relativa alla nostra chiesa che mi permetto di sottoporgli.

Nel corso dell’alto medioevo, all’appellativo de Domno si affianca, per poi sostituirlo, quello di de Dompno che troviamo, ad esempio, nelle decime e inquisizioni del 13092. Nel corso del quattrocento e del primo trentennio del Cinquecento, esso appare frammisto alla variante de Dopno, sia nella documentazione della Badia di Cava che in atti della curia pontificia, come, ad esempio, la bolla del 23 aprile 14893; in questa fase compare anche la forma de Donno, che troviamo nella relazione della visita pastorale del 1515, con la variante de Donnis, nel 1570, e de Duonni, nel 1592. Nel 1573 compare l’appellativo de Dominabus che, con la citata eccezione del 1592, contraddistinguerà la nostra chiesa, insieme alla circostanza che si trattava di una parrocchiale dipendente dalla Badia di Cava, nelle relazioni delle visite pastorali fino al 1725, comprese quelle del 1618 e del 1625, che sono le due a ridosso di quel 1621 che ha suscitato in lui dubbi che chiunque studia o ha studiato i monasteri salernitani conosce come infondati. Nell’Inventario delle Parrocchiali come ancora d’altre chiese, redatto nell’ambito della visita pastorale del 1725, per la prima volta si cita la nostra chiesa come Santa Maria delle Donne seu del Donno così anticamente; da rilevare che in quet’anno essa compare come de Dominabus nella relazione della visita redatta in latino, come delle Donne nell’inventario redatto in italiano. Rilievo particolare assume la relazione della visita pastorale del 1731: in essa la nostra chiesa è detta Santa Maria de Domno seu de Dominabus, con la precisazione che si tratta di quella edificata dal principe Giovanni per iniziativa della principessa Sichelgaita. Per il resto, essa compare come de Dominabus nelle relazioni redatte in latino: 1730, 1762, 1766, 1768, 1772; come delle Donne in quelle redatte in italiano: 1727,1734, 1801, 18034. Nell’ultimo documento che vedremo, il Decreto Concistoriale dato in Roma il 7 maggio 1856, con il quale si sanciva la transazione intervenuta fra l’Arcivescovo di Salerno e l’Abate di Cava, grazie alla quale il primo acquisiva le strutture residue della nostra chiesa, che poi passeranno ai privati fra cui verterà la lite che provocherà la perizia dell’architetto Santoro, essa è detta de Dominabus nella parte in latino, delle Donne in quella in italiano5.

Ebbene sì. Il recupero del sito di Santa Maria de Domno, reso possibile dal fortunato ritrovamento dell’amico Francesco Manzione, è fatto di interesse storico eccezionale, che non sarà permesso a chicchessia sminuire o inquinare con tesi non supportate da documentazione incontrovertibile; se Amarotta è in grado di produrre documenti di tale qualità, lo faccia, altrimenti si astenga dal ribadire illazioni fantasiose che non giovano alla conoscenza del centro storico cittadino.

Amarotta ha una curiosa propensione alla moltiplicazione dei luoghi. Alcuni anni or sono sostenne che vi furono in Salerno due vie che conducevano a due diverse porte di Elino (o Elinia), l’una in età longobarda, l’altra in età normanna; poiché, però, tale via, nelle due età, era sempre caratterizzata dalla presenza nelle proprie vicinanze di una serie di luoghi pii (l’archiepiscopio e le chiese di San Vito, San Matteo e San Tommaso, San Gregorio) egli sostenne che vi furono due serie di tali edifici, in quanto, resasi inagibile o inadeguata la prima, la seconda fu edificata nei pressi della seconda via della porta di Elino, così come la prima era stata edificata nei pressi della prima via della stessa porta, con un particolare addirittura sconvolgente: nell’edificazione della seconda serie fu mantenuta anche la posizione relativa fra almeno tre dei quattro elementi; infatti troviamo la chiesa di San Matteo e San Tommaso a settentrione di quella di San Gregorio e a meridione dell’archiepiscopio sia nella prima serie che nella seconda. Avverso tale tesi io sostenni che la via della porta di Elino fu sempre l’attuale via dei Mercanti.

Giungiamo così all’elemento della pianta allegata allo scritto, per me di estremo rilievo: mi riferisco al particolare 5, alla cui didascalia si legge: “Porta Elinia (età longobarda e normanna)”. Ciò significa che Amarotta, finalmente, conviene con me che vi fu una sola porta di Elino posta sull’attuale via dei Mercanti e, conseguentemente, un solo archiepiscopio, una sola San Vito, una sola San Matteo e San Tommaso, una sola San Gregorio. Mi auguro convenga anche che vi fu una sola Santa Maria de Domno.

 

 

 

 

 

 

 

 

1A. R. Amarotta, Le due chiese di S. Maria de Domno nel centro antico di Salerno, in «Rassegna Storica Salernitana», 29, 1998, pp. 245-257.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2Archivio Vaticano, Decime e inquisizioni dell’anno 1309, edite in M. Inguanez, L. Mattei Cerasoli, P. Sella, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Campania, Città del Vaticano 1942, p. 453, n. 6537.

 

3Archivio della Badia di Cava, pergamena LXXXVI-68, inedita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4Archivio Archidiocesano di Salerno, Visite pastorali, R 1; R 16; R 5; R 49; R 39; R 48; R 29; R 34; R 45; R 42; R 3; R 28.

 

 

 

 

 

 

5Archivio della Badia di Cava, manosritto 186, inedito.

 


 

«Il Picentino», gennaio-giugno 2000, pp. 87-100

Arcangelo R. Amarotta, S. Maria de Domno nell’edilizia sacra salernitana

(Questo scritto, in controreplica all’articolo di Vincenzo de Simone Santa Maria de Domno e Santa Maria delle Donne apparso sul numero 30 della «Rassegna Storica Salernitana», fu presentato per la pubblicazione sulla stessa, ma essendo stato rifiutato per l’evidente inconsistenza delle argomentazioni fu dall’autore dirottato a «Il Picentino»).

 

Nelle prime pagine della sua preziosa raccolta di documenti salernitani del XIII secolo il Carucci c’informa che «la chiesa di S. Maria de Domno (del Signore), detta anche De Domno Radulfo, fu edificata nella Giudaica, ad oriente dell’odierno Palazzo del Gaverno, nel 989 da Sichelgaita, moglie del principe di Salerno Giovanni II. Nel 1091 fu donata alla Badia di Cava , che la possedette fino al 1859. Ora è trasformata in magazzino, ma il sito è facilmente riconoscibile»1. (fig. 1) Facilmente l’aveva riconosciuta anche il De Angelis per la testimonianza di un arco voltato su due colonne con capitelli corinzi di chiara età altomedievale, ben visibili nel magazzino2.

Sorprende il titolo alternativo. La fondazione longobarda della chiesa è ormai accettata da tutti: quale legame può esserci con questo ignoto Radulfo? Leggiamo i documento d’archivio.

1238. Nell’arcivescovado salernitano viene concordata la cessione di una sorgente tra l’abate di S. Nicola della palma e il responsabile della chiesa di S. Francesco, situata in Plaio montis at super et prope ecclesiam Sancte Marie que de Radulfo dicitur3.

1243. La frateria del duomo affitta una casa nel quartiere Ortomagno ubi a lu Campitellu dicitur, prope ecclesiam S. Marie de Dompno. E’ presente Giovanni di Donnapenta, chierico e diacono dell’arcivescovado ac abbas ecclesie S. Marie de Dompno Radulfo4.

1252. In un contratto di compravendita sono citati Bonaccorso, presbitero ecclesie S. Marie de Dompno e Giovanni presbitero ecclesie S. Marie de Dompno Radulfo5.

1260. In un altro contratto leggiamo ancora di Giovanni di Donnapenta, abate ecclesie S. Marie de Dompno Radulfo6.

1272. Il procuratore del monastero di S. Giorgio consegna a fra Benedetto, del monastero di S. Mattia al Tusciano, terreni in località Tusciano, E’ presente Enrico, presbitero e cappellano ecclesie S. Marie de Dompno7.

1277. Le due chiese sono rappresentate dal domino Iohanne qui dicitur de Donna Penta, Salernitano archidiacono et abbate ecclesie S. Marie Domno Radulfo, ed Henrico, presbitero e cappellano ecclesie S. Marie de Dompno8.

1283. Dal testo di un contratto di fitto veniamo a conoscenza di un fra Goffredo, monaco e camerario della Badia di Cava ac procurator rerum ecclesie S. Marie de Dompno che, con l’intero patrimonio, è di pertinenza della badia9.   

1293. Il procuratore del monastero di S. Giorgio consegna una terra ad laborandum a Pasquale de Roma. Presenziano: Filippo, presbitero ecclesie Sancte Marie que de Dompno Radulfo dicitur ed altri10.

1328. Ricorso di cittadini salernitani contro un tal Pietro Comite che illicite manus suas quandam viam puplicam qua ante ecclesiam Sancte Marie de Dompno transeuntibus accessus parabatur ad maritimam civitatis eiusdem claudi per costruirvi una casa, in preiudicium reipuplice et dispendium dictorum exponentium et aliorum eciam vicinorum11.

L’elenco ci consegna due chiese (quasi) omonime: la S. Maria de Domno (o de Dompno) nella giurisdizione della Badia di Cava e la S. Maria de domno (o de dompno) Radulfo dipendente dall’arcivescovo di Salerno. Che si tratti di istituzioni distinte lo affermano anche i parroci, contempoiraneamente presenti nelle questioni trattate negli anni 1252 e 1277. La S. Maria de domno Radulfo entra dunque di pieno diritto nel Duecento salernitano. Il secondo titolo rinvia agli anni di profondo disordine vissuti dalla città dopo la morte di Tancredi (1194) per la conquista del principato ambito da Enrico VI, che non esitò a liberarsi di uno degli ostacoli più ostinati alla sua libidine di potere, l’arcivescovo Nicola d’Aiello (1182-1221), deportandolo in Germania.

La lontananza del d’Aiello durò cinque anni, durante i quali la città subì un ampio saccheggio con l’assassinio di una parte degli abitanti, arbitri d’ogni genere, acquisizioni abusive di benefici ecclesiastici e le altre anomalie del vivere civile che di solito segnano i cambiamenti di regime12. Ne profittò questo ignoto Radulfo per tramandare ai posteri il proprio nome attraverso la fondazione di una chiesa senza beneplaciti arcivescovili. Una congettura, d’accordo, ma forse qualcosa di più.

Sulla durata della chiesa si può supporre che col riassetto della situazione politica un arcivescovo energico abbia cancellato quel titolo fastidioso. Tutt’altro che isolato nell’edilizia salernitana del XIV secolo, dove leggiamo di una chiesa nel quartiere Ortomagno dedicata a S, Maria de Arminando e un’altra in loco Jovi (Giovi) col titolo di S. Maria de dompno Adenulfa (Adenulfo?)13, che rinviamo a un ampliamento della ricerca.

Non è tuttavia questa la sede adatta. Qui interessa sapere che la chiesa della Sichelgaita sopravvisse ben oltre il XIV secolo, ferma nella memoria del De Angelis, che nel 1932 tornò sull’argomento per ragguagliarci sull’area impegnata dall’edificio: metri 28x11, compreso il suolo definito libero14 in cui vedrei l’atrio, elemento strutturale integrativo documentato nelle chiese medievali più importanti.

Nel 1989 la tesi De Angelis è stata confermata in uno studio sulla topografia della città romana e medievale. Compreso il sito e con una leggera difformità sull’area dell’edificio (24,20x12,25). In quella circostanza furono anche sviluppati temi di minore interesse tratti dalla documentazione d’archivio: le vicende patrimoniali dell’istituzione e la progressiva cessione alla Badia di Cava delle quote di proprietà tra la fine dell’XI e la prima metà del XII secolo15 (fig. 2).

La tesi non ha convinto un collaboratore della «Rassegna Storica Salernitana», che dalla lettura di una perizia giudiziaria datata 1862 ha tratto la convinzione che la chiesa di S. Maria de Domno non era situata nel luogo proposto dal Carucci e dal De Angelis ma lungo il vicolo Masuccio Salernitano, circa sessanta metri ad oriente16. Un particolare insignificante se il perito non avesse intitolato l’edificio a Santa Maria delle donne17. De Domno, cioè del Signore, questa chiesa, o di un gruppo di signore? (Chiedo scusa per la battuta). Riprendiamo la lettura dei documenti.

989. Chiesa Sancte Dei Genitricis Marie, fondata dalla principessa longobarda Sichelgaita nel quartiere comunemente detto «Tra il muro e il muricino»18.

1092. Il papa Urbano II ordina al duca Ruggiero di restituire all’arcivescovo di Salerno la chiesa di S. Maria de Domno, di cui il duca si era arbitrariamente appropriato19.

1094. Il notaio Alferio cede all’arcivescovo di Salerno la terza parte del monastero di S. Maria delle monache, nei pressi di Porta Rotese, con le relative pertinenze20.

1095. La chiesa S. dei genitricis et semper virginis Marie è situata nel quartiere di Salerno detto «Tra il muro e il muricino», vicino a Porta di mare21.

1137. Identiche coordinate topografiche, col titolo integrato dal genitivo De Domno22.

1139. Identiche coordinate topografiche23.

1143. E’ citato un Gaudioso presbitero e custode della chiesa di Santa Maria intra hanc civitatem, in Orto Magno, et dicitur de Domno24.

1144. Citato un Falcone, abate di S. Maria que dicitur de Domno25.

1149. La chiesa salernitana di S. Maria de Domno è citata fra le chiese soggette alla Badia di Cava26.

1349. Il priore di S. Maria de Domno esercita il diritto di patronato sulla chiesa di S. Maria de Giudaica27.

1366. Compromesso raggiunto tra l’arcivescovo di Salerno e l’abate di Cava per la Santa Visita alla chiesa parrocchiale di S. Maria de Domno28.

1441. Le famiglie Mazza, Guarna e Mariconda esercitano il diritto di patronato sulla chiesa di S. Maria de Domno29.

1504. La chiesa di S. Maria de Domno è affidata a Riccardo de Mediolano, monaco della Badia di Cava30.

1557. Giovanni Comite chiede alla badessa del monastero di S. Maria monialium di accogliere la figlia Diana, e s’impegna a versare la dote e il necessario per gli alimenti31.

1574. Presente il vicario generale di Salerno e le suore del monastero di S. Maria vulgo delle donne monache, viene redatto l’inventario generale dei beni mobili e stabili del convento32.

1592. In seguito all’accorpamento in S. Giorgio dei monasteri di S. Sofia, S. Michele Arcangelo e S. Maria monialium, si dispone che vengano consegnati annualmente all’arcivescovo di Salerno 2.500 ducati. Si stabilisce anche che dopo la morte di una suora la quota da versare sia elevata a 2.525 ducati33.

1596. Su istanza dei monasteri femminili di Salerno, l’abate Paolo della Porta chiede ai nunzi e ai cursori delle curie di non interferire nella esazione delle entrate stabilite dai visitatori apostolici per la costruzione del monastero di S. Maria della Pietà34.

1597. Dopo ripetuti solleciti, i monasteri suddetti consegnano una parte della somma dovuta35.

1600. L’uditore generale della sede apostolica dichiara che la chiesa di S. Maria de Domno rientra nella giurisdizione della Badia di Cava36.

1601. La S. Congrgazione dei cardinali super Episcopos et Regulares conferma l’integrale soggezione della chiesa di S. Maria de Domno all’abate di Cava37.

1601-1677. Contesa tra l’arcivescovo di Salerno e l’abate di Cava peril diritto di Santa visita e di nomina del rettore della chiesa di S. Maria de Domno, di Salerno38.

1621. Integralmente da Crisci. «il 9 ottobre 1621 il cardinale arcivescovo regola le varie comunità femminili con la riforma nel modo seguente: a) il monastero di S. Maria della Pietà «noviterque ampliatum pro clausura nobilium puellarum virginum» può ricevere le educande; in appartamento separato può accogliere le monache di cui sopra e quelle del 3° ordine di S. Francesco ora domiciliate nel monastero di S. Maria monialium. Queste, interrogate, intendono accettare la riforma, osservare integre la regola di S. Elisabetta e ritornare nel nuovo monastero di S. Maria della Pietà. b) Simolmente le monache benedettine (bianche) della Congreg. di Montevergine, una volta domiciliate nella Maddalena, ora in quella di S. Maria delle Donne, intendono vivere nella riforma e nella regola propria, e rimanere nell’attuale sede. c) Le benedettine cassinesi (nere) delle varie case: S. Sofia, S. Michele Arcangelo, S. Maria monialium e S. Giorgio, accettano la riforma e rimangono nella sede di S. Giorgio»39.

1707. Vertenza tra l’arcivescovo Poerio e la Badia di Cava per la giurisdizione sulla chiesa di S. Maria de Domno seu de dominabus in Salerno, in seguito alla irruzione dei frati, armata manu, nella chiesa40.

1707. Memoria del promotore fiscale della Curia di Salerno sul diritto di visita della Chiesa di S. Maria de Domno, riconosciuto all’arcivescovo di Salerni contro l’abate della Trinità di Cava41.

1755. Compravendita di una casa situata nei pressi della chiesa di S. Maria delle donne, ad est del largo Dogana Regia42.

1760. Il parroco di S. Maria de Dominabus ottiene per la sua chiesa il privilegio «dell’altare privilegiato»43.

1822. La parrocchia di S. Maria de Domno è soppressa e annessa ai SS. Apostoli44.

1857. Integralmente dal Crisci-Campagna. «La S. Sede approva la convenzione fatta tra l’arcivescovo e l’abate di Cava per lo scambio della giurisdizione sulle due parrocchie di S. Potito e S. Maria de Domno , e conferma l’unione di questa ai SS. Apostoli. Il documento pontificio viene letto il 6 marzo 1857 in Lanzara, alla presenza di entrambi gli ordinari. L’abate consegna pure un quadro esecutivo di altre partite di rendita che prima non si riscuotevano, appartenenti a S. Maria de Domno, prendendosi però in proprietà il locale dell’anzidetta chiesa diruta, col patto di non potervi più fare la chiesa o ospizio di monaci e con l’obbligo al parroco pro tempore di presentare all’abate stesso ogni anno, per se vel per anniun, una libbra di cera lavorata nel giorno cinque settembre in cui egli riceve l’obbedienza dei suoi sudditi»45.

La documentazione d’archivio ci consegna una S. Maria de Domno fondata dalla principessa Sichelgaita nel 989 e una S. Maria delle donne sensibilmente più tarda. Ma sarà bene riportare schematicamente le rispettive datazioni.

S. Maria de Domno: citata negli anni 989, 1092, 1137, 1139, 1143, 1144, 1149, 1243, 1252, 1277, 1283, 1328, 1349, 1366, 1441, 1504, 1600, 1601, 1677, 1707, 1822, 1857.

S. Maria delle Donne: 1621, 1755, 1862.

Che fossero due edifici distinti è dimostrato dal raffronto tra il documento del 1857 in cui la S. Maria de Domno è dichiarata diruta (cf. nota 45) e la relazione giudiziaria del 1862 dove la S. Maria delle Donne appare in ottime condizioni statiche (fig. 3).

Inesorabilmente ferma nella documentazione d’archivio dal decimo al diciannovesimo secolo, la S. Maria de Domno si propone come un fatto inconsueto nell’edilizia medievale e moderna della città, oscurata da un turbinio di avvenimenti disordinati. Cito i più importanti.

Il Monastero di S. Benedetto, fondato nella prima metà del secolo IX, fu distrutto dai saraceni nell’884. Riedificato due anni dopo, resse fino alla prima metà del sec. XI, quando fu trasformato in palazzo di civile abitazione. Chiesa compresa, naturalmente. Alla fine del secolo XII è citato come deposito per “macchine da guerra”. Segue un periodo piuttosto lungo in cui è documentata una successione di abati, concluso nel primo decennio del secolo XIX con la soppressione del monastero è la trasformazione della chiesa in teatro. Finché, nel 1878, le strutture sono rimodificate e l’edificio restituito alla destinazione originaria46.

Non furono meno tormentate le vicende di S. Lorenzo de monte, monastero di obbedienza cassinese dall’ultimo quarto del secolo X alla metà del XII, quando i monaci ne furono allontanati da Giovanni da Procida, che ristrutturò l’edificio, ricostruì interamente la chiesa e affidò l’istituto alla figlia Giovanna, badessa di suore clarisse. Siamo nel 1295.

Tra il XV e il XVI secolo il monastero fu ampliato da Ferrante Sanseverino. Le clarisse continuarono ad abitarvi fino al 1586, quando se ne allontanarono per ragioni a tutt’oggi ignote, deducibili tuttavia dal fatto che a sostituire le suore provvide un nucleo di latitanti, che asportarono colonne, stemmi gentilizi e (soprattutto), il riutilizzabile legname del tetto.

Seguirono, tra il 1620 e il 1707, la ricostruzione del convento e, tra il 1659 e il 1679, la ristrutturazione della chiesa su una nuova pianta. Infine, dopo un periodo di vacanza durata un cinquantennio, provocato dalle leggi eversive degli Ordini monastici, l’istituzione fu annessa all’attiguo istituto Umberto I. Un ultimo, per ora, intervento di trasformazione esterna è stato effettuato nel 195447.

Infine S. Grammazio, scoperta nel 1989 in via dei Canali: uno dei pochi casi a Salerno, forse l’unico, in cui l’archeologo e il ricercatore d’archivio hanno lavorato di comune accordo. Sul piano archeologico sono state ricostruite quattro fasi: costruzione alla fine del X secolo; una serie di rifacimenti e ristrutturazioni; rinnovamento costruttivo; abbandono del sito in seguito al terremoto del 1454. Dopo il terremoto il suolo è stato utilizzato per edilizia residenziale privata, infine per la costruzione di un conservatorio.

Nella certe d’archivio di età moderna il titolo di S. Grammazio, attribuito ad una chiesa parrocchiale, riappare in una relazione dell’arcivescovo Carafa (1664-1675), che giudica l’edificio, situato in piazza Abate Conforti, in pessime condizioni statiche, tant’è che un suo successore, il de Ostos, decide di abbatterlo, con la contemporanea elevazione a parrocchia della vicina S. Maria dei Barbuti. Decisione duramente contestata dai fedeli, che ottengono la ricostruzione della chiesa nella stessa piazza, a pochi metri di distanza dalla sede originara48.

Il palazzo di S. Pietro a Corte fu reggia dei principi longobardi dalla seconda metà dell’VIII secolo alla prima metà del X, quando fu interamente ristrutturato. Di una seconda ristrutturazione sappiamo nei primi anni del XIV secolo, quando il palazzo è definito “curiale”, e più avanti nel tempo quando veniamo a conoscenza di un vetus palatium, poi di un palazzo “una volta principesco”, infine della utilizzazione dell’area da parte di privati cittadini (botteghe e case d’abitazione)49.

Non meno penose furono le vicende della chiesa di S. Massimo: fondata dal principe Guaiferio nella seconda metà del IX secolo, prepositura della Badia di Cava alla fine del secolo XI, gradualmente abbanfonata nella prima metà del XII50.

Esce intatta da questo quadro a dir poco deprimente dell’edilizia salernitana nei secoli medievali e moderni la sola S. Maria de Domno, ferma nel sito scelto dalla principessa Sichelgaita fino al 1822, quando la parrocchia viene soppressa, e nel 1857 quando viene dichiarata diruta51.

Resistettero tuttavia fino al 1923 le colonne con capitelli corinzi viste dal De Angelis, (fig. 2) di chiara datazione altomedievale per chi ha sfogliato almeno una volta un manuale di storia dell’architettura: dove sono nettamente distinti i secoli in cui le colonne furono una scelta poco meno che obbligata nell’edilizia non solo salernitana e non solo monasteriale, da quelli successivi in cui prevalsero i pilastri.

E pilastri, non colonne, sono quelli disegnati nella perizia giudiziaria sulla struttura della S. Maria delle donne: sei pilastri, nel 1862, il muro perimetrale lungo via Masuccio Salernitano, il campanile e la linea dell’abside (fig. 3) in netta contrapposizione con la S. Maria de Domno dichiarata distrutta cinque anni prima. Edifici nettamente distinti, dunque. Non sinonimi, come è stato imprudentemente sostenuto52. Di confusione ce n’è anche troppa nel quadro tormentato dell’edilizia storica salernitana (qui ho citato solo alcuni casi), per aggiungervi la chiesa della Sichelgaita: probabilmente l’edificio di maggior durata nella storia della città. Dopo la cattedrale, s’intende.

Nient’altro, per ora, sulle vicende storico-strutturali delle due chiese. Rimangono in attesa di studi specifici le chiese (o cappelle) di Radulfo, Armenando e Adenulfo e quelle tuttora sconosciute.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1Codice diplomatico salernitano del secolo XIII, a cura di C. CARUCCI (più avanti CDS), vol. I (1201-1281), Subiaco 1931, nota a pag. 56.

 

2M: DE ANGELIS, Studio sui muri di Salerno verso il mare, «Archivio storico della provincia di Salerno», I, 1923 pp. 100-116.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3CDS I, doc. XCV, pp. 191 s.

 

 

 

 

4CDS I, doc. CXV, p. 215. Sul Campitello, oggi largo Dogana Regia, cf. A. AMAROTTA, Il secolo normanno nell’urbanistica salernitana, in «Rassegna storica salernitana» n.s., n. 3, 1985, pp. 71-122.

 

5CDS I, doc. CXLIII, p. 162.

 

6CDS I, doc. CLXVII, p. 297 s.

 

 

 

7Nuove pergamene del monastero femminile di S. Giorgio in Salerno, II, 1267-1697, a cura di M. GALANTE, doc. 7, p. 16.

 

 

8CDS I, doc. CCCXLIV, p. 480.

 

 

 

 

9CDS III, doc. VII, p. 20.

 

 

 

 

10Nuove Pergamene cit., doc. 16, p. 41.

 

 

 

 

 

 

11Codice diplomatico salernitano del secolo XIV a cura di C. CARUCCI, Salerno 1949, doc. XLV, pp. 123 ss.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

12Ho tratto la notizia dal ben informato G. CRISCI, Il cammino della Chiesa salernitana nell’opera dei suoi vescovi (sec. V-XX), vol. I, 1976, cap. XII, pp. 261 ss.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

13Pergamene del Monastero benedettino di S. Giorgio (1038-1698), a cura di L. CASSESE, Salerno 1950, docc. XXV del 1330, pp. 126 ss. e XXVII del 1373, p. 130.

 

14M: DE ANGELIS, Conferme sulle antiche cinte di Salerno e il labinario di S. Maria de Domno, «Archivio» cit. nuova serie, II, 1932-1935, pp. 11-125: «Segue da ciò che il fronte occidentale della chiesa (fronte nell’ingresso) è sempre stato sul vicolo ad est del Palazzo del Governo, al quale molto opportunamente la Commissione per la toponomastica stradale ha recentemente proposto di dare il nome di S. Maria de Domno» (p. 124).

 

 

 

 

 

 

 

15A. M. AMAROTTA, Salerno romana e medievale. Dinamica di un insediamento, 2° volume della Collana di studi storici salernitani edita dalla Società salernitana di storia patria, Salerno 1989, pp. 192-199.

 

16V. DE SIMONE, Nuove acquisizioni sulla chiesa di S. Maria de Domno in Salerno, in «Rassegna» cit. n. 28, 1977, pp. 7-21.

 

17Archivio di Stato di Salerno, Perizie del Tribunale civile, 4 gennaio 1862, 937, ff. 194-210.

 

 

 

18Codex Diplomaticus Cavensis, a cura di M. Morcaldi, L. Schiani, S. DE STEPHANO, Milano-Pisa-Napoli 1873-1893, vol. II, doc. CCCCXII, pp. 272 ss.

 

19L’Archivio diocesano di Salerno. Cenni sull’Archivio metropolitano, Parte I, a cura di A. BALDUCCI, Reg. I, doc. 27, p. 134.

 

 

20L’Archivio cit., Reg. I, doc. 28, p. 134 ss.

 

21Archivio della Badia di Cava Pergamene dattiloscritte, XVI, 39.

 

22Ivi, XXIV, 16.

 

23Ivi, XXIV, 78.

 

24Ivi, XXV, 80.

 

25Ivi, XXV, 91.

 

26Dictionarium Archivii Cavensis, vol. II, p. 26 s. Cf. G. CRISCI – A. CAMPAGNA, Salerno Sacra. Ricerche storiche, Salerno 1962, p. 198.

 

27Dictionarium cit. vol. III, p. 100. Cf. G. CRISCI, A. CAMPAGNA, Salerno cit. p. 199.

 

28Index chronologicus pergamenarum, della Badia di Cava, 75, 31. CF. anche G. CRISCI – A. CAMPAGNA, Salerno cit., p. 200.

 

29L’Archivio diocesano cit., Bollari cart. I. CF. anche G. CRISCI–A. CAMPAGNA, Salerno cit., p. 200.

 

30Index cit. 88, I. CF. anche G. CRISCI – A. CAMPAGNA, Salerno cit., p. 200. 

 

31Nuove Pergamene cit., doc. 116, p. 303.

 

32Pergamene cit. in nota 13, doc. LIII, p. 288.

 

 

 

 

 

 

33Nuove Pergamene cit., doc. 153, p. 320 ss.

 

 

 

 

 

34Ivi, doc. 158, p. 323.

 

35Ivi, doc. 162, p. 324 s.

 

 

36L’Archivio diocesano cit. Reg. IV, doc. 25, p. 219.

 

37Dictionarium cit. III, p. 19. Cf. G. CRISCI–A. CAMPAGNA, Salerno cit. p. 200 ss.

 

38L’Archivio diocesano cit. Reg. IV, doc. 28, p. 219.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

39G. CRISCI, Il cammino della Chiesa salernitana nell’opera dei suoi vescovi (secc. V-XX), vol. I, cap. LXXXV, pp. 708 s.

 

 

 

40L’Archivio diocesano cit., Reg. VIII, n. 4, p. 232.

 

41Ivi, reg. VIII, n. 5, p. 233.

 

42Archivio cit., Protocolli notarili, n. 5223, f. 219 t.

 

43Archivio di Stato di Salerno, Liber. Parr. Eccl. S. Mariae de dominabus, 11. Cf. anche G. CRISCI– A. CAMPAGNA, Salerno cit. p. 201.

 

44L’Archivio diocesano cit. Cart. Parrocchia SS. XII Apostoli e S. Maria de Domno. Cf. anche G. CRISCI–A. CAMPAGNA, Salerno cit., p. 201.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

45G. CRISCI–A. CAMPAGNA, Salerno cit., p. 201 s., su fonte Lib. parr. eccl. S. Mariae de Domno, 21.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

46Ivi, pp. 387 ss. G. BERGAMO, Ricostruzione delle chiese della città di Salerno e del suo comune, vol. IV, Battipaglia 1973, pp. 57 ss.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

47B. PERGAMO, Note per servire alla storia del convento di S. Lorenzo di Salerno, «Rassegna» cit., VII, 1-4, 1946, pp. 3-18; VIII, 1-4, 1947, pp. 3-64; XI, 1-4, 1950, pp. 68-102. G. KALBY, Il quartiere Plaium montis nel Centro antico salernitano «Rivista di studi salernitani» 3, 1969, pp. 173-175.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

48A. R. AMAROTTA M. A. IANNELLI, Medioevo sepolto a Salerno: S. Grammazio a li Canali, «Atti dell’Accademia Pontaniana» n. s., vol. XXXIX, 1991, pp. 5-46. A. R. AMAROTTA, Medioevo scavato a Salerno: S. Grammazio supra Canale, ivi, vol. XLIV, 1995, pp. 247-264.

 

 

 

 

 

49A. R. AMAROTTA, Salerno cit. pp. 147-170.

 

 

 

 

50Ivi, pp. 170-184.

 

 

 

 

 

51Ivi, pp. 192-199.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

52V. DE SIMONE, S. Maria de Domno e S. Maria delle donne, in «Rassegna» cit. n.s., n. 30, pp. 137-140.

Fig. 1

 

Siti della chiesa parrocchiale di S. Maria de Domno nell’area del Palazzo della Provincia (Prefettura al tempo di De Angelis, e del palazzo ad oriente distrutto durante la seconda guerra mondiale

(1); e (2) della chiesa claustrale di S. Maria delle donne, lungo il vicolo Masuccio Salernitano.

 

«Gli avanzi dell’antica chiesa di S. Maria de Domno si osservano nell’angolo nord-ovest del palazzo Trucillo, ad oriente dell’edificio delle Prefettura , nella seconda bottega verso oriente a partire da detto angolo».

DE ANGELIS, Studio cit., p. 111.

 

Fig. 2

 

Pianta restitutiva della chiesa di S. Maria de Domno

a: Muro verso il mare della città.

b: Oggi largo S. Agostino.

c: Corso d’acqua (labinario in latino medievale).

Da A. R. AMARITTA cit. in nota 15, p. 196.

 

«Tuttavia quel tempio era ben fatto, distribuito in tre navate da file di colonne antiche, alle quali capitelli in marmo di stile corinzio trasmettevano il carico delle piccole arcate superiori, a sesto circolare rialzato, sorreggenti il tetto. Come tutte le chiese del tempo, essa era rivolta da oriente ad occidente, ed aveva, sullo sfondo delle navate, le tre absidi che si protendevano verso la terra del conte Guaimario, figlio di Guaiferio detto Imperato».

«Da questo documento, dunque, si ricava che il terreno di Guaimario, confinante sempre a mezzogiorno col muro della città e a settentrione con la via, era a tergo e ad oriente della chiesa (ab occidente descendente per fronte ipsa ecclesia et rectum coniungente in cantone de pusterola...) e che in esso erano costruite le tre absidi (in quo tribus obsido de ipsa ecclesia constructe sunt...)».

DE ANGELIS, Studio cit., p. 101-104.

 

Fig. 3

 

La chiesa di S. Maria delle donne. Archivio di Stato di Salerno, Perizie del Tribunale Civile, 937, 4 gennaio 1862, ff. 194-210.

 

Dalla relazione del perito: «Si giace la indicata Chiesa in questa Città nella strada che dal largo Dogana Regia conduce all’altro di Portanova che ne limita il suo lato settentrionale (...). La istessa è distribuita in tre navi, ma disuguali e non in corrispondenza simmetrica, mediante tre pilastri di fabbrica isolati, e quattro vani arcuati in ciascun lato, terminate le navi medesime verso levante, quella di mezzo da un abside semicircolare, l’altra verso la strada da una picciola sacristia coverta da volta, le quali insieme coll’abside vengono in parte sovrastate da altre diverse particolari proprietà. Presso l’angolo nord-ovest sonovi le fabbriche di un picciolo campanile che si avanza sporgente poco più di tre palmi verso la detta strada. Il tutto come si osserva dall’annessa pianta».

 

Commento.

L’autore si dilunga nel tentativo di dimostrare che Santa Maria de Domno e Santa Maria delle Donne erano luoghi di culto diversi. Egli tenta di accreditare la tesi che la seconda fosse la chiesa claustrale, come scrive a commento della figura 1, del monastero di Santa Maria Monialium, o de Monialibus, detto anche delle Donne Monache; peccato che tale monastero non fosse ubicato lungo l’attuale via Masuccio Salernitano, ma su parte dell’area oggi impegnata dal convitto nazionale Torquato Tasso, al largo Abate Conforti.

L’autore mostra anche la sua poca dimestichezza con i documenti originali, nonostante richiami più volte le carte d’archivio; in realtà egli non frequenta gli archivi e legge i documenti trascritti da altri. In particolare, da Crisci e Campagna legge dell’approvazione della Santa Sede (con un decreto concistoriale) alla convenzione fra l’arcivescovo di Salerno e l’abate di Cava per lo scambio di giurisdizione sulle parrocchie di San Potito e di Santa Maria de Domno, ma non prendendo visione del documento (Archivio della badia di Cava, manoscritto 186), non sa che proprio questi dimostra che Santa Maria de Domno e Santa Maria delle Donne erano la stessa chiesa; infatti, questo documento è scritto parte in latino e parte in italiano e mentre nella parte in latino la chiesa oggetto dello scambio di giurisdizione con San Potito è detta Santa Maria de Dominabus, che Amarotta stesso dice essere la stessa che Santa Maria de Domno, nella parte in italiano è detta Santa Maria delle Donne.

Patetiche, poi, le considerazioni intorno a Santa Maria de domno Raidulfo; non si tratta né di un abuso da parte di un ignoto signor Raidulfo, né del risultato di torbidi o altre vicende traumatiche. Semplicemente, come ci dicono gli Atti del Sinodo Colonna, era la denominazione antica di origine gentilizia della chiesa che poi sarà parrocchiale con il titolo di Sant’Eufebio.

Infine, sulla «Rassegna Storica Salernitana» numero 28, a corredo del mio articolo Nuove acquisizioni sulla chiesa medievale di Santa Maria de Domno in Salerno, pubblicavo una tavola raffigurante la sezione e la pianta della chiesa in oggetto, precisando che si trattava non dei disegni originali allegati alla perizia commissionata dal tribunale civile all’architetto Santoro, ma di una elaborazione ottenuta liberando quei disegni dal progetto delle fabbriche da innalzarsi per rendere il sito utilizzabile a fini profani. Ad Amarotta, che, evidentemente, oltre a non essersi recato presso l’Archivio cavense per la lettura del decreto concistoriale di cui sopra non si è recato nemmeno presso l’Archivio di Stato di Salerno per prendere visione della perizia di cui trattasi, questo particolare deve essere sfuggito, poiché egli allega al suo scritto la fotocopia di parte di tale tavola presentandola come parte integrante del documento originale.


 

Vincenzo de Simone, lettera al direttore responsabile de «Il Picentino», 6 settembre 2000.

Egregio direttore,

alle pagine 87-100 del fascicolo Gennaio-Giugno 2000 del semestrale di cui Ella è direttore responsabile, prendo visione di un lavoro del dottor Arcangelo R. Amarotta dal titolo S. Maria de Domno nell’edilizia sacra salernitana, sul valore scientifico del quale sorvolo, trattandosi di vecchie argomentazioni già dibattute e non essendo una sua analisi lo scopo della presente. Ciò su cui mi preme attrarre la Sua attenzione è la figura 3 allegata a tale lavoro che appare alla p. 100 con la didascalia «La chiesa di S. Maria delle donne. Archivio di Stato di Salerno, Perizie del Tribunale civile, 937, 4 gennaio 1862, ff. 194-210».

Ebbene, tale didascalia non è corretta, poiché la pianta della chiesa volgarmente nota come Santa Maria delle Donne, che è parte integrante della perizia giudiziaria cui la didascalia stessa si riferisce, non è quella che appare sul suo periodico, essendo l’originale costituita da un disegno in nero, rappresentante le strutture residue della chiesa, con la sovrapposizione in rosso delle opere murarie che si progettavano per rendere il sito atto alle necessità di due privati che avevano acquisito l’area dopo che i ruderi erano stati ceduti dall’abate della SS.ma Trinità di Cava all’arcivescovo pro tempore di Salerno.

Ciò che Ella pubblica, invece, è una estrapolazione dal documento originale realizzata dal sottoscritto allo scopo di corredare un proprio lavoro apparso sulla Rassegna Storica Salernitana, numero 28, dicembre 1997, pagine 7-21, con il titolo Nuove acquisizioni sulla chiesa medievale di Santa Maria de Domno in Salerno.

E’ evidente che il dottor Amarotta, che non è aduso a frequentare archivi prima di impugnare la penna, ha ritenuto comoda scorciatoia una fotocopia del mio elaborato, ritenendolo il documento d’archivio che mai ha visto.

Dalla Sua cortesia e professionalità mi attendo la pubblicazione della presente sul prossimo numero de Il Picentino o, quanto meno, una precisazione che ristabilisca la verità dei fatti.

Distinti saluti.


 

«Rassegna Storica Salernitana», 36, dicembre 2001, pp. 157-159

Vincenzo de Simone, Lo scrivere per sentito dire

(Scritto di contestazione al comportamento di Arcangelo R. Amarotta e della direzione de

«Il Picentino»).

 

La storiografia salernitana, in particolare quella che si interessa di topografia, è caratterizzata dalle attività di autori che scrivono per sentito dire; si tratta di studiosi che nulla studiano, essendo i loro nomi sconosciuti ai registri delle frequenze degli archivi, ma molto inchiostro versano, “sentendo dire” da lavori altrui e da edizioni, trascrizioni e regesti delle fonti storiche, certamente più accessibili degli ostici documenti originali.

Un esponente di tali autori, avendo “sentito dire” dal sottoscritto1 che presso l’Archivio di Stato di Salerno giace una perizia del 4 gennaio 1862 relativa ai ruderi della chiesa parrocchiale di Santa Maria de Domno2 (che dimostra essere stata essa non nel luogo individuato da Michele de Angelis3, ma lungo l’attuale via Masuccio Salernitano), produsse uno scritto4 in cui, sostanzialmente, dimostrava un solo fatto: mai aveva “sentito dire” che Santa Maria de Domno era volgarmente detta Santa Maria delle Donne. Tanto mi costrinse ad impegnare alcune pagine di questa Rassegna con lo sciorinamento di una lunga teoria di documenti5, fra cui il decreto concistoriale dato in Roma il 7 maggio 1856, con il quale si sanciva la transazione intervenuta fra l’arcivescovo di Salerno e l’abate della Santissima Trinità di Cava grazie alla quale il primo acquisiva le strutture residue di tale parrocchiale, citata, nella parte redatta in italiano, come Santa Maria delle Donne6. Poiché è da supporsi che l’arcivescovo e l’abate conoscessero l’oggetto della transazione che ponevano in essere, ritenevo, e ritengo, tale documento incontrovertibile; per cui supposi che la lettura di esso da parte del dottor Amarotta avrebbe posto fine ad ogni discussione. Purtroppo così non è stato, in quanto egli ritorna sull’argomento7 dimostrando ancora una volta la già conosciuta avversione allo studio delle fonti originali e la predilezione per quelle reperite da altri, nella fattispecie da Carlo Carucci.

In realtà, quest’ultima fatica del Nostro non aggiunge elementi di novità alle tesi già sostenute se non un fatto comportamentale scorretto. A corredo del mio scritto che tanta reazione ha suscitato, pubblicavo una tavola8 raffigurante la sezione e la pianta della chiesa in oggetto, precisando9 che si trattava non dei disegni originali allegati alla perizia commissionata dal tribunale civile all’architetto Santoro, ma di una elaborazione ottenuta liberando quei disegni dal progetto delle fabbriche da innalzarsi per rendere il sito utilizzabile a fini profani. Al dottor Amarotta, che, evidentemente, oltre a non essersi recato presso l’Archivio cavense per la lettura del decreto concistoriale di cui sopra non si è recato nemmeno presso l’Archivio di Stato di Salerno per prendere visione della perizia di cui trattasi, questo particolare deve essere sfuggito, poiché gli è bastato “sentir dire” di disegni allegati alla perizia stessa per concludere che fossero quelli da me pubblicati. Il risultato è che al suo scritto apparso su «Il Picentino» allega la pianta della chiesa tratta dalla mia tavola, ritenendola quella costituente parte integrante della perizia giacente presso l’Archivio di Stato10.

Tanto mi ha costretto ad invitare la direzione de «Il Picentino» alla pubblicazione di una rettifica che ristabilisse la paternità della tavola in oggetto. In realtà, sul numero di tale periodico dello scorso dicembre 2000 uno scritto relativo a quella mia comunicazione appare, ma solo per ribadire, contro ogni evidenza, che quella pubblicata sulle loro pagine è la pianta giacente presso l’Archivio di Stato. Ma tanto poco importa. L’essenziale è la precisazione su queste pagine, con un invito ed una esortazione al dottor Amarotta: se proprio Le dà noia portarsi all’Archivio di Stato di Salerno per visionare la pianta originale, la guardi almeno nella pubblicazione citata alla nota 10; e, per favore, non fotocopi le elaborazioni grafiche che vede pubblicate da altri o, almeno, “senta dire” prima di cosa si tratta.

 

 

 

 

 

1V. de Simone, Nuove acquisizioni sulla chiesa medievale di Santa Maria de Domno in Salerno, in «Rassegna Storica Salernitana», 28, 1997, pp. 7-21.

 

2Archivio di Stato di Salerno, Perizie del Tribunale Civile, 937, ff. 194-210.

 

3M. de Angelis, Studio sui muri di Salerno verso il mare, in «Archivio Storico della Provincia di Salerno», 1923, pp. 100-116

 

4A. R. Amarotta, Le due chiese di S. Maria de Domno nel centro antico di Salerno, in «Rassegna Storica Salernitana», 29, 1998, pp. 245-257.

 

5V. de Simone, Santa Maria de Domno e Santa Maria delle Donne, in «Rassegna Storica Salernitana», 30, 1998, pp. 137-140.

 

 

 

 

6Archivio della badia di Cava, manoscritto 186.

 

 

 

 

 

 

7A. R. Amarotta, S. Maria de Domno nell’edilizia sacra salernitana, in «Il Picentino», gennaio-giugno 2000, pp. 87-100.

 

 

 

 

8V. de Simone, Nuove acquisizioni cit., p. 19.

 

9V. de Simone, Nuove acquisizioni cit., p. 10, nota 6.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

10La pianta originale disegnata dall’architetto Santoro si vede in G. Crisci, Salerno Sacra, 2a edizione a cura di V. de Simone, G. Rescigno, F. Manzione, D. De Mattia, Lancusi 2001, I, tavola VII.

 


 

« Rassegna Storica Salernitana», 37, giugno 2002

Arcangelo. R. Amarotta, Le chiese di S. Maria de Domno e S. Maria delle Donne nel centro storico di Salerno

 

Brevemente, per chiudere una ormai noiosa questione di siti nel Centro Storico di Salerno.

Documento fondamentale per rintracciare la chiesa di S. Maria de Domno, del tutto scomparsa nel panorama della città, sono due colonne con capitello corinzio scoperte nel 1923 dal De Angelis nel largo Dogana Regia, in un terreno rettangolare di metri 28,00 x 11,20, dove erano ancora visibili tre absidi: elementi proposti con ampiezza di particolari utilizzati dall’autore di questa nota per disegnare la planimetria restitutiva dell’edificio. Accolta senza obiezioni dagli studiosi delle antichità cittadine fino a quando la lettura nelle carte d’archivio di una chiesa intitolata a S. Maria delle donne ha suggerito ad alcuni di essi di spostare la chiesa nel vicolo Masuccio Salernitano.

Una proposta errata per due motivi: la dedicazione dell’edificio a S. Maria delle donne e la planimetria: (un quadrato, o poco meno, con pilastri che suggeriscono una datazione sensibilmente più vicina a noi).

Due chiese, dunque, come ho dimostrato di recente: la S. Maria de Domno, citata dall’anno 989 al 1857, e la S. Maria delle donne sensibilmente più tarda: dal 1621 al 1862.

Ho trattato l’argomento con ampia citazione delle fonti e non lo riprenderò fino a quando le ripetute affermazioni di essere in errore, pubblicate in questa rivista, non saranno dimostrate in modo convincente. Per ora mi limito ad elencare i miei studi, con quello del De Angelis, cui non è stata riservata la dovuta attenzione.

 

M. De Angelis, Studio sui muri di Salerno verso il mare, «Archivio Storico della Provincia di Salerno», I, 1923, pp. 100-116.

A. R. Amarotta, Salerno romana e medievale. Dinamica di un insediamento, (Collana di Studi storici Salernitani, 2), Salerno 1989, pp. 63, 71, 134, 135, 192-199, 212, 219-221, 225, 227, 233, 235, 239.

Id, Le due chiese di S. Maria de Domno nel centro antico di Salerno, «Rassegna Storica Salernitana», n. s. XVI, giugno 1998, pp. 245-257.

Id, I lavinai di Salerno nel Medioevo, «Atti dell’Accademia Pontaniana», n. s., XL, 1991, pp. 365-382.

Id, S. Maria de Domno nell’edilizia sacra salernitana, «Il Picentino», XLV n. s., gennaio-giugno 2000, pp. 87-100.

 

Siti

1) Largo Dogana Regia

2) Chiesa di S. Maria de Domno

3) Chiesa di S. Maria delle Donne

4) Via Masuccio Salernitano

 

Planimetria restitutiva della chiesa di S. Maria de Domno

Planimetria restitutiva della chiesa di S. Maria delle Donne


 

«Rassegna Storica Salernitana», 38, dicembre 2002, pp. 233-241

Vincenzo de Simone, Lo scrivere senza il leggere

(risposta allo scritto di Arcangelo R. Amarotta Le chiese di S. Maria de Domno e S. Maria delle Donne nel centro storico di Salerno apparso sul numero 37 della stessa pubblicazione).

 

Il numero scorso di questa «Rassegna», con modalità inaspettate, ha visto la ricomparsa di “una ormai noiosa questione”, come la definisce l’Autore dello scritto che ne tratta1. “Modalità inaspettate” in quanto si avanza la richiesta, imbarazzante, di “dimostrare in modo convincente” che la chiesa nota come Santa Maria delle Donne era la famosa Santa Maria de Domno. Il fatto, da cui l’imbarazzo, è che non c’è nulla da dimostrare, poiché l’attribuzione dei due titoli, ma anche di altri, a quel luogo di culto è documentata nelle fonti archivistiche ed è un fatto notorio fin dalla pubblicazione, nel 1852, del secondo volume delle Memorie di Giuseppe Paesano2.

Quando diedi conto su queste pagine3, è ormai trascorso un quinquennio, del ritrovamento presso l’Archivio di Stato di Salerno di un documento che permetteva di individuare il sito di Santa Maria delle Donne ritenni scontato che gli studiosi di storia topografica salernitana conoscessero gli archivi e Paesano; mi ricredetti leggendo il numero successivo di questa pubblicazione4 e corsi ai ripari enumerando una serie di documenti, con l’invito implicito a consultarli, che dimostravano, loro non io, quanto il mio Contraddittore mostrava di non conoscere5. Mi astenni dal consigliargli anche lo sfogliare dei protocolli notarili giacenti presso lo stesso Archivio di Stato, tutti, dalla fine del Quattrocento in poi, nei quali avrebbe trovato alcune centinaia di atti relativi agli immobili ricadenti nel territorio parrocchiale di Santa Maria delle Donne, poiché il compito gli avrebbe portato via alcuni anni, come succede a me e a qualche altro studioso facente parte di quegli “alcuni” cui egli si riferisce; così come mi astenni dal suggerirgli la conoscenza dei volumi accessori del catasto onciario cittadino giacenti presso l’Archivio di Stato di Napoli, in particolare quello denominato Apprezzo. Ma questi consigli, ove glieli avessi elargiti, non avrebbero cambiato lo stato delle cose, poiché egli, assertore del metodo dello scrivere senza il leggere, non avrebbe sfogliato né protocolli notarili né Apprezzo, così come non ha consultato i documenti che gli proponevo; ove lo avesse fatto, il suo nome non sarebbe sconosciuto, come lo è, ai registri delle presenze degli archivi e non chiederebbe ancora, come chiede, “dimostrazioni”. E qui il discorso potrebbe chiudersi con il ribadire l’invito già avanzato6: non esercitare lo scrivere senza prima aver esercitato il leggere. Tuttavia, nella certezza che l’invito non sarebbe accolto, mi piace ripercorrere alcune letture a suo beneficio, nella consapevolezza ormai acquisita che dimostrare l’ovvio può essere missione necessaria nel panorama storiografico di questa città.

Visite pastorali7. 24 novembre 1581, si accede alla parrocchiale di Santa Maria de Dominabus unita al monastero della Santissima Trinità di Cava; il cappellano dichiara che volgarmente la chiesa “si chiama S[an]ta M[aria]a delle donne”. 1725 (inventario senza specificazione di giorno e mese), si cita la parrocchiale della Beatissima Vergine sotto il titolo di “S. Maria delle Donne, seu del Donno così anticamente”. 17 ottobre 1731, si visita la parrocchiale di “Santa Maria de Domno, seu de Dominabus”, che fu eretta dal principe Giovanni per iniziativa della moglie Sichelgaita.

Giuseppe Paesano8. Nel 1852, a proposito di un’antica disputa vertente fra la badia cavense e l’archiepiscopio salernitano scriveva: “La disamina di una tal controversia mi conduce direttamente a ricercare quali diritti e giurisdizioni possano gli abbati di Cava pretendere su la chiesa parrocchiale di s. Maria «de Domno» sita tra i recinti della città di Salerno [...]” e, a dimostrazione che a quegli abati non competeva altra potestà “sul detto luogo sacro che di nominarvi e presentare il curato, da dover ricevere dall’arcivescovo di Salerno «pro tempore» la canonica instituzione, ed essergli in tutto e per tutto subordinato e dipendente”, trascriveva una decisione della congregazione dei vescovi e regolari del 16 luglio 1601 nella quale si citava la chiesa come Santa Maria di Donne.

Decreto concistoriale dato in Roma il 7 maggio 18569. Quattro anni dopo, con questo decreto la Santa Sede sanciva una transazione intanto intervenuta fra l’abate di Cava e l’arcivescovo di Salerno; con essa, a chiusura della disputa, all’arcivescovo era stata ceduta ogni giurisdizione che gli abati cavensi vantavano sulla chiesa, per altro già soppressa è annessa all’altra parrocchiale dei Santi XII Apostoli, in cambio di una rettifica dei confini diocesani nell’area di Lanzara. Il decreto è redatto in italiano nella parte che trascrive i sette articoli della transazione, ove la chiesa è citata come Santa Maria delle Donne; in latino nella parte che sancisce ciascuno degli stessi articoli, ove è citata come Santa Maria de Dominabus.

Apprezzo10. Questo volume accessorio del catasto onciario cittadino è un grosso tomo, formato cm. 38x51 circa, costituito da cinquecentoquarantatre fogli, su ciascuno dei quali sono riportate un numero variabile di particelle catastali, numerate nell’ambito di ciascun foglio, rilevate fra il 28 maggio 1753 e il 16 ottobre 1754 sull’allora territorio della città. Nel centro urbano il rilevamento fu condotto considerando gli isolati nell’ambito di ciascuno dei sedici territori parrocchiali che vi insistevano e concatenandone le particelle anche in relazione a quelle delle parrocchie limitrofe, quando i confini attraversavano gli isolati stessi. Essendo il volume scritto in italiano, non compare il territorio parrocchiale di Santa Maria de Domno o de Dominabus, ma quello di Santa Maria delle Donne; le particelle catastali che gli competevano, distribuite lungo i lati dell’attuale via Masuccio Salernitano, dal suo incrocio con il vicolo Ruggi al largo Dogana Regia, sono annotate ai fogli dal 475 al 479 con due appendici ai fogli 526 e 529.

La particella 1 del foglio 479 è costituita dalla casa palaziata di Ivone Clarizia che confinava a tramontana con la strada, a ponente con Pasquale Tisi, a mezzogiorno con la cortina cittadina, a levante con le mura della chiesa parrocchiale di Santa Maria delle Donne. Questa proprietà, allora in possesso di Matteo Clarizia, compare nella relazione della visita pastorale del 23 ottobre 1692 per il fatto che da un suo portico si accedeva alla porta grande della chiesa parrocchiale di Santa Maria de Dominabus, circostanza confermata il 10 marzo 1699, essendo la proprietà in possesso di Sebastiano Clarizia, e il 13 febbraio 170711; è appena il caso di ricordare che la perizia commissionata dal tribunale civile di Salerno ed espletata il 4 gennaio 1862 dall’architetto Michele Santoro12, il cui ritrovamento questa “noiosa questione” ha innescato, descrive un “compreso coperto” posto sotto una proprietà privata dal quale si accedeva alla porta grande della chiesa parrocchiale di Santa Maria delle Donne. La particella 7 del foglio 478 è costituita dalla proprietà di Pasquale Tisi, posta nel largo della Dogana Regia, confinante da mezzogiorno con la cortina della città, da tramontana con il detto largo, da ponente con la dogana, da levante con Ivone Clarizia. Questa particella è l’ultima, procedendo da oriente verso occidente lungo il lato meridionale della via Masuccio Salernitano, appartenente al territorio parrocchiale di Santa Maria delle Donne. Per conoscere cosa ci fosse al ponente dei locali della dogana con la quale essa confinava, naturalmente esclusi dal catasto in quanto proprietà dell’amministrazione cittadina, dobbiamo portarci alla descrizione del territorio parrocchiale dei Santi XII Apostoli.

La particella 2 del foglio 458 è costituita da case di Marco Galdieri, poste sotto l’arco della Dogana Regia, confinanti da tramontana con la strada, da levante con la dogana, da mezzogiorno con la cortina della città, da ponente con Giovanni Paolella. La particella 3 dello stesso foglio è costituita dalla proprietà di Giovanni Paolella, confinante da tramontana con la strada, da levante con Marco Galdieri, da mezzogiorno con la cortina della città, da ponente con (case del) convento di Sant’Agostino. La particella 4, sempre del foglio 458, è costituita dalle case del convento di Sant’Agostino, confinanti da tramontana con la strada, da levante con Giovanni Paolella, da mezzogiorno con la cortina della città, da ponente con le mura del detto convento.

Come si vede, fra le mura della chiesa parrocchiale di Santa Maria delle Donne e quelle del convento di Sant’Agostino, al 1754 (la particella del convento di Sant’Agostino fu rilevata il 25 gennaio, quella di Ivone Clarizia il 6 febbraio) non esistevano altre chiese. Eppure qui, fra il largo Dogana Regia e Sant’Agostino, secondo il mio Contraddittore, doveva esserci la parrocchiale di Santa Maria de Domno fino al 1857. Ma, in realtà, se non c’era al 1754 qui un’altra chiesa, come vedremo, c’era stata fino al 1626.

Protocolli notarili. Il 3 settembre 1558 sono documentate case del notaio Giovani Paolo Barrile site nella parrocchia di Santa Maria de Domno, confinanti con beni di Francesco Comite. Il 26 aprile 1559 sono dette site nella parrocchia di Santa Maria delle Donne. Il 22 maggio 1561, site nella parrocchia di Santa Maria de Dopno, risultano confinanti con la stessa chiesa, con la strada, con le mura della città. Il 6 ottobre 1561 sono dette site nella parrocchia di Santa Maria delle Donne; si conferma il loro confine con beni di Francesco Comite. L’11 ottobre 1578 risultano di Cassandra de Alfano, vedova del notaio Giovanni Paolo, e del figlio Domenico Barrile. Il 6 settembre 1585 le case di Cassandra de Alfano risultano confinanti con beni di Fabrizio de Vicariis Coppola siti al largo di Giovan Cola, attualmente Dogana Regia. Il 7 settembre 1592 i beni già di Matteo Comite, al presente dell’abate Scipione, risultano posti superiormente alle case di Fabrizio de Vicariis Coppola13. Il 12 febbraio 1556 le case dei de Vicariis, allora degli eredi di Giovanni Cola (che aveva dato il nome al largo), già risultavano confinanti con quelle del notaio Giovanni Paolo Barrile. L’11 giugno 1602, in possesso di Fabrizio de Vicariis Coppola, sono dette site nella parrocchia dei Santi XII Apostoli, confinanti (dalla parte inferiore) con beni dell’abate Scipione Comite e nipote e con beni di Domenico Barrile14.

Il 5 maggio 1554 si citano altre case del notaio Giovanni Paolo Barrile; esse sono site nella parrocchia dei Santi XII Apostoli, nella strada della Dogana Vecchia, e confinano con beni del convento di Sant’Agostino. Il 12 febbraio 1556 si precisa che esse fanno parte di un complesso immobiliare, di cui altra parte è costituita dai locali ove anticamente di esercitava la dogana, nella parrocchia dei Santi XII Apostoli, confinante con beni degli eredi di Giovanni Cola de Vicariis, con beni di Francesco Comite, con la strada e con Maritima. Il 25 agosto 1577 le case dette la Dogana Vecchia risultano di Cassandra de Alfano che, come abbiamo visto, era la vedova del notaio Barrile. L’8 aprile 1580 risulta che sotto l’arco delle case di Domenico Barrile, site nella parrocchia dei Santi XII Apostoli, vi era la chiesa di San Salvatore. Il 16 marzo 1593 le Case Grandi di Domenico Barrile si confermano confinanti da un lato con beni di Fabrizio de Vicariis Coppola, dall’altro con beni di Sant’Agostino, che il 24 maggio 1563 sono detti in parte posti sotto il convento stesso15.

Con ogni evidenza, questi atti notarili descrivono lo stesso tessuto urbano che le particelle catastali che prima abbiamo visto, poiché questo, come quello, è limitato dalla chiesa parrocchiale di Santa Maria de Domno, de Dopno o delle Donne che dir si voglia verso oriente e dai beni del convento di Sant’Agostino, a loro volta confinanti con il convento stesso, verso occidente. Elemento caratterizzante la parte centrale del continuum sono i locali della dogana, che abbiamo visto già trasferita altrove prima del 1554, a loro volta caratterizzati da un arco che cavalcava la strada. Di estremo interesse è che sotto di esso vi era la chiesa di San Salvatore.

Nel marzo 1268 essa, con il titolo di San Salvatore de Fundaco e con gli archi e gli edifici che le appartengono, compare quale riferimento topografico per l’ubicazione di una terra con casa sita in Giudaica. Nella relazione della visita pastorale del 16 giugno 1515 è detta “oratorio di san Salvatore de dohana”, con la precisazione che è molto antica, di patronato del principe di Salerno. Il 22 gennaio 1567 è detta “santo Salvatore della doana vecchia” e si ordina al beneficiato di ripararla. Il 15 gennaio 1616 si visita la cappella “sancti Salvatoris de Doghana Veteri”, di patronato regio, costruita nelle case di Domenico Barrile: si ordina di non celebrarvi e di ridurla ad uso profano. Il 3 aprile 1618 si conferma l’avvenuta sconsacrazione. Il 24 gennaio 1626 per l’ultima volta si accede alla cappella di San Salvatore de Dohana Veteri, nelle case degli eredi di Domenico Barrile, nella parrocchia dei Santi XII Apostoli16.

Concludo con Michele de Angelis17. Circa il luogo ove vide le famose due colonne con capitelli corinzi scrisse: “Nella modesta bottega di un fruttivendolo, presso l’arco che cavalca quel budello al quale i moderni dettero il pomposo nome di Via Flavio Gioia [...]”. La via  non esiste più per i bombardamenti del secondo conflitto mondiale che crearono la piazza alle spalle di palazzo Sant’Agostino; correva dall’incrocio con via Duomo al largo Dogana Regia. De Angelis calcolò che Santa Maria de Domno sorse su un terreno lungo ventotto metri e largo undici metri e venti centimetri; rilevò anche che la costruzione non coprì l’intera area, ma fu lasciata una piazzetta verso occidente, davanti all’ingresso. Dalla pianta posta dall’architetto Santoro a corredo della sua perizia, elaborando la quale realizzai la planimetria che il mio Contraddittore continua ad utilizzare senza citare la fonte18, si rileva una larghezza esterna della chiesa di undici metri e sessantaquattro centimetri e una lunghezza di diciassette metri e sessantotto centimetri, salvo piccoli errori possibili nella realizzazione del disegno o della scala annessa; tanto porta a valutare la piazzetta lasciata verso occidente in un’area quasi quadrata, con un lato di poco inferiore e l’altro di poco superiore agli undici metri. Il mio Contraddittore continua ad esibire una presunta pianta restitutiva della chiesa19 che la presenta come se fosse stata costruita sull’intero rettangolo di ventotto metri per undici e venti, con una serie di ben dodici colonne che esistettero solo nella sua fantasia.      

Non so cosa il mio Contraddittore ricava dalle letture che ho ripercorso a suo beneficio. Io ricavo che Santa Maria de Domno o de Dopno o del Donno o de Dominabus era la stessa chiesa che Santa Maria delle Donne20. Perché lo si asserisce in relazioni di visite pastorali; perché lo dice Giuseppe Paesano che vide la chiesa ancora esistente, quando attribuisce a Santa Maria de Domno un documento in cui si tratta di Santa Maria delle Donne; perché lo dice la Santa Sede, quando ratifica una transazione relativa a Santa Maria delle Donne identificandola con Santa Maria de Dominabus; perché lo dicono i notai operanti fra Cinquecento e metà Ottocento, quando usano indifferentemente l’uno o l’atro di quei titoli. Ricavo anche che il sito presso l’arco sulla via Flavio Gioia ove Michele de Angelis vide le due colonne con capitelli corinzi (non mi risulta abbia mai scritto di aver visto tre absidi, come sostiene il mio Contraddittore) era quello di San Salvatore de Dogana, che egli, in perfetta buona fede, attribuì a Santa Maria de Domno.

Altra cosa che non so e se il mio Contraddittore considererà tutto questo una dimostrazione “convincente”. Lo spero per lui, perché non gliene saranno fornite altre.

 

 

1A. R. Amarotta, Le chiese di S. Maria de Domno e S. Maria delle donne nel Centro Storico di Salerno, in «Rassegna Storica Salernitana», 37, 2002, pp. 275-277.

 

 

 

 

 

 

2G. Paesano, Memorie per servire alla storia della Chiesa Salernitana, II, 1852, pp. 41-43.   

 

3V. de Simone, Nuove acquisizioni sulla chiesa medievale di Santa Maria de Domno in Salerno, in «Rassegna Storica Salernitana», 28, 1997, pp. 7-21.

 

 

4A. R. Amarotta, Le due chiese di S. Maria de Domno nel centro antico di Salerno, in «Rassegna Storica Salernitana», 29, 1998, pp. 245-257.

 

5V. de Simone, Santa Maria de Domno e Santa Maria delle Donne, in «Rassegna Storica Salernitana», 30, 1998, pp. 137-140.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

6V. de Simone, Lo scrivere per sentito dire, in «Rassegna Storica Salernitana», 36, 2001, pp. 157-159.

 

 

 

 

 

7Archivio Diocesano di Salerno (ADS), Visite pastorali, R 16, R 42, R 3.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

8Si veda la nota 2.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

9Archivio della Badia di Cava (AC), manoscritto 186.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

10Archivio di Stato di Napoli, Catasti onciari, 3946.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

11ADS, Visite pastorali, R 34, R 45.

 

12Archivio di Stato di Salerno (ASS), Perizie del Tribunale Civile, 937, ff. 194-210. Cf. V. de Simone, Nuove acquisizioni cit., p. 9.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

13ASS, Protocolli notarili, 4857, 1558-1559, f. 3; 4857, 1558-1559, f. 323t; 4843, 1559-1561, f. 228; 4859, 1561-1562, f. 91t; 4878, 1578-1579, f. 68; 4882, 1585-1586, f. 15; 4888, 1592-1593, f. 11.

 

 

 

 

 

14ASS, Protocolli notarili, 4856, 1555-1556, f. 370t; 4907, 1601-1602, f. 570t.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

15ASS, Protocolli notarili, 4853, 1553-1554, f. 102; 4856, 1555-1556, f. 370t; 4873, 1575-1577, f. 189; 4873, 1579-1580, f. 113t; 4888, 1592-1593, f. 357; 4865, 1562-1563, f. 295t. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

16AC, arca LV 99; edita in C. Carucci, Codice Diplomatico Salernitano del secolo XIII, I, 1931, pp. 329-330. ADS, Visite pastorali, R 1, R 39, R 48. Cf. G. Crisci, Salerno Sacra, 2a edizione a cura di V. de Simone, G. Rescigno, F. Manzione, D. De Mattia, 2001, I, pp. 73-74. Nella prima edizione di Salerno Sacra, p. 208, questa chiesa è confusa, come in scritti di altri autori, con San Salvatore de Drapparia. L’equivoco nasce dal fatto che San Salvatore de Fundaco è detta, nel primo dei documenti citato in questa nota, posta vicino ad archi, il che fece pensare all’arco detto di Arechi, vicino al quale San Salvatore de Drapparia è sita; ma il documento in oggetto ci informa anche che la terra con casa di cui si tratta era posta in Giudaica, la qual cosa esclude immediatamente l’area della Corte, ove è sita San Salvatore de Drapparia, e ci porta a quella lungo le mura meridionali della città, a oriente della chiesa di Santa Lucia.

 

17M. de Angelis, Studio sui muri di Salerno verso il mare, in «Rassegna Storica Salernitana», 1923, pp. 100-116.

 

 

 

 

 

 

18V. de Simone, Nuove acquisizioni cit., p. 19. A. R. Amarotta, S. Maria de Domno nell’edilizia sacra salernitana, in «Il Picentino», gennaio-giugno 2000, p. 100; Le chiese di S. Maria de Domno e S. Maria delle donne cit., p. 277.

 

 

 

 

 

 

19A. R. Amarotta, Salerno romana e medievale. Dinamica di un insediamento, 1989, p. 196; S. Maria de Domno cit., p. 99; Le chiese di S. Maria de Domno e S. Maria delle donne cit., p. 277.

 

 

20La stessa cosa ricava Carmelo Currò, che evidentemente conosce gli archivi e Paesano, poiché, il 18 maggio scorso, durante la visita guidata condotta nell’ambito del ciclo organizzato dall’Assessorato al Turismo del Comune di Salerno, ha additato a chi lo seguiva il campanile residuo di Santa Maria delle Donne come quello di Santa Maria de Domno, avendo la cortesia di citarmi per il lavoro di recupero documentario del sito. La relazione di questa visita, dal titolo Le chiese invisibili, si legge in «Visitiamo la Città, Ciclo Visite Guidate, Aprile-Dicembre 2002», pp. 64-69.