canti della passione
 

 

 


                                                              Poesie di giorgio guido pellegrinetti

 

Si tratta di diciannove poesie inedite scritte nel 1945 e 1946 da un tenente reduce della Divisione San Marco. Tali poesie sono state recentemente rinvenute e si è ritenuto di pubblicarle perché esse rendono beno lo stato d’animo dei reduci della R.S.I. dopo la sconfitta. Erano giovani cresciuti sotto il Fascismo e portavano in cuore ben radicati il mito della Patria immortale, il senso dell’onore, l’orgoglio di essere italiani, l’angoscia per l’abisso di abbrutimento in cui vedevano caduta la loro Patria vinta e invasa.

 

Sommario  

     1) PROEMIO

2)     PATRIA

3)     2 OTTOBRE

4)     DIMOSTRAZIONE DI PALERMO 7/11/46

5)     ALLA PATRIA CHE MUORE

6)     L’ANIMA DELLA PATRIA

7)     IL MITO DEL FUHRER

8)     LA SUA VOCE

9)     9/9/45

10)QUANDO LA SERA

11)COMPIANTO

12) PREGHIERA

13) VOCE DALLE APUANE

14) IL PARADISO E’ ALL’OMBRA DELLE SPADE

15) SE IL DOLORE

16) XXVIII OTTOBRE

17) LA NOTTE ALLORQUANDO LA LUNA

18) RITORNANO ?

19) CREDESTI

 

 

1)    PROEMIO

Se la razza con la Patria

idolatria

criminale pensi sia,

lascia allora queste carte

in disparte

e prosegui la tua via.

         Ma se razza, Patria, onore

         e valore

         pregi, e t’arde dentro il cuore

         una fiamma viva, ardente,

         risplendente,

         una fiamma che non muore,

t’offro un rogo, quale altare;

e gettare

vi dovrai la tua passione,

per nutrire, rinnovare,

ravvivare

quella massa in combustione.

 

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2) PATRIA                                                                                                                                                                                            

Eri grande; nel viso tuo severo

luceva il sol di Roma, fra fluenti

chiome, se intorno movei l’occhio altero.

         Col lor passo ferrato i reggimenti

         passavan sotto gli archi millenari

            destando gli echi da secoli spenti.

Nel chiaro volto dei tuoi legionari

risplendeva la luce della gloria,

fuoco raccolto da tutti i sacrari.

         Ancora ti mostravi nella storia

         presso la Nike alata, con la spada

         di Cesare che seppe ogni vittoria.

 

Giorni torbidi giunsero. Tradita,

abbandonata al piè dell’invasore

giacesti  insanguinata, senza vita.

         I servi del tuo barbaro oppressore

         oggi tripudian sulle tue rovine

         pascendosi del tuo sacro dolore.

Deserti i porti delle tue marine

Odi l’esaltazion del disertore

Con l’Alpi aperte a l’orde più ferine.

         Priva dei tuoi migliori, dell’onore,

         orba dei reggimenti, un cencio rosso

         vedi ove pria garriva il tricolore.

Mille e mille sciacalli che hai addosso

avidi del tuo sangue, la tua carne

dilanian, rosicchiandoti fin l’osso.

        

         Risorgi, Italia mia, scrolla di dosso

         questi sozzi vampiri, leva il grido

         che tuonò un giorno dall’Alpi al mar Rosso.

Che ancor possa sentire il fiero strido

sulla piastra nemica dell’acciaio

di Coclite e del brando di Sigfrido.

         Chè per la vita dell’Europa appaio

         la rinascita tua con quella ancora

         dell’alleata, immersa nel brumaio.

Oh possa un giorno riveder l’aurora

d’un’Europa redenta, unita, forte,

degli Ariani inviolabile dimora.

         Risorgi o Patria. Per le più ritorte

         e misteriose vie s’affermi eterna

         della razza la vita sulla morte.

Tu che fosti per secoli lucerna

al mondo, Europa mia, tu che creasti

la civiltà ch’ovunque si squaderna,

         ribellati al destino; i giorni fasti

         segna nel calendario della storia

         che verrà, cancellandovi i nefasti.

Domina ovunque, o madre della gloria;

hai nel pugno il destino, è in te il segreto

di vita eterna e d’eterna vittoria.

 

         Torna al dimenticato sepolcreto

         Dei figli che ti cinser di splendore

         Il cui culto dai vili t’è oggi vieto,

che privi ognor del senno e dell’onore

con criminalità sempre più pazza

t’imbastardiscon col negro invasore.

         Questi incoscenti dal tuo gremba spazza,

         salva o gran madre della civiltà

         il tuo sangue e te stessa nella razza.

 

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2)    2 OTTOBRE

E’ il 2 d’Ottobre: un lieve ed indistinto

brusio lontano oggi nell’aria sento.

L’urlo degli sciacalli non l’ha spento,

osannanti al nemico che ci ha vinto.

         Non odi ? Quel brusio si fa distinto…

         È uragano di popolo; è l’accento

         di mille voci che ci porta il vento

         dagli albor dell’impero onde l’ha attinto.

E’ il 2 d’Ottobre. Ascolta, è la sua voce

fratel, che alla battaglia tutti chiama

come allor contro il barbaro feroce

         Se col cuore che sanguina e poi ama

         tu l’odi, tieni ascosa la tua croce

         ed in silenzio affila la tua lama. 

 

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4)    DIMOSTRAZIONE DI PALERMO 7/11/46

E’ santo il grido con cui la regina

della bella Trinacria s’è ridesta

e al sol nascente di un’aurea mattina

ha sollevato fiera la sua testa

         Un raggio ha illuminato quella gente,

         che s’è per prima dal torpore scossa,

         quando dal cuor martoriato e fremente

         s’è alzato il grido che sa di riscossa.

Duce ! Duce ! E la grande invocazione

aveva in sé le lacrime, la speme,

il rimpianto di tutta una nazione

che da troppo ogni strazio in petto preme.

         Da troppo tempo un gran dolore, muto,

         covava dentro i cuori, ed irruzione

         ha fatto infine; e s’è all’eroe caduto

         svelato in tutta la sua gran passione.

E l’omaggio, dai vili ognor negato,

il popol di Sicilia, onesto e forte,

memore ancor di chi l’ha tanto amato,

ha concesso all’eroe dopo la morte.

         L’ha concesso con l’anima rovente,

         più calda dell’ardor dei suoi vulcani,

         l’ha concesso col cuor, d’amore ardente

         traboccante e di fede nel domani.

Città dei Vespri, qual divina luce

t’ha cinto ! Quale sovrumana ebbrezza !

Quando le strade tue suonato han : “Duce !”

Quando al cielo è salito: “Giovinezza ! “

         Ancor possano udirsi quelle grida,

         quel canto che i cuor nostri tutti ammalia ?

         Oggi, Palermo, sei la nostra guida,

         hai oggi in te tutti i cuori d’Italia.

Ripetilo quel grido e la canzone,

patria di Crispi, e tutta ne risuoni

dall’Alpi ai tuoi vulcani la nazione

e ne rimbombi con rumor di tuoni.

         Se un giorno, dominata la bufera,

         noi rivedremo il sol della vittoria,

         e senza macchia la nostra bandiera

         garrire al vento di una nuova storia;

in te, Palermo, prima insofferente

di schiavitù, con anima commossa,

tutti, in pellegrinaggio riverente,

celebreremo la nostra riscossa.

 

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5)    ALLA PATRIA CHE MUORE

Mia Patria, Italia, che nello splendore

fosti cantata, riverita, amata;

or io ti canto in questa sconsolata

ora di pianto, notte di dolore.

         Chi ti esaltava e celebrava or canta

         le glorie del nemico che ti tiene

         schiava e pretende rotte tue catene

         di schiavitù dalla sua “guerra santa”

Per te canto; e si unisca la mia voce

a quella ancor di pochi onesti e forti

che non rinnegan la gloria dei morti

e che piangono ai piè della tua croce.

         Fioca è la voce mia (chi mai la sente ?)

         il canto si dilegua via col vento;

         in esso v’è tristezza, smarrimento,

         pianto che sale irresistibilmente.

Tutta ti vedo, o Patria, a me davanti

spogliata, saccheggiata, insanguinata;

dall’Africa di cui t’han mutilata

alla cerchia dell’Alpi scintillanti.

         Oh, quell’Alpi superbe, su cui spazza

         le nevi la tormenta ! Un giorno c’era

         il confinario con camicia nera

         a vegliarle; oggi gente d’ogni razza.

E il tuo mar luminoso, dalle navi

superbe tue solcato, oggi il Britanno

orgoglioso ha da un lato. A nostro danno

ha l’altro il bruto infoibatore slavo.

         Urlo di folle lacere e affamate,

         pianger di bimbi che chiedono il pane,

         sospiri di coloni alle lontane

         nostre terre, per sempre abbandonate;

è il lamento che sal dalle rovine

del tuo corpo distrutto, o Patria mia,

è il grido che rieccheggia in ogni via,

fra le macerie che non hanno fine.

         Ovunque è pianto; ma è l’anima tua

         Ch’io cerco ovunque trepido e affannoso

         E invano notte e dì senza riposo

         Tento scoprirla nella carne sua.

Guardo il volto dei vecchi, per specchiarmi

In dignitosa, pacata tristezza

Per sorprendervi un lampo di fierezza

Negli occhi giovanil torno a fissarmi.

         Nulla; tutti i miei sforzi restan vani.

         Corruzion, odio, follia fratricida

         il volto d’ognun d’essi spira e grida.

         Ti uccidono, mia Patria, gli Italiani.

In tutta questa ridda indiavolata

di servi, d’assassini e traditori

tu dilegui, lontan ti perdi e muori

negletta, estranea, ormai dimenticata.

         Oh, come sei lontana, inafferrabile,

         evanescente come un sogno vano !

         Io t’inseguo, ma sempre più lontano

         svanir tivedo come un’ombra labile.

E il mio spirto che, dal tuo seno espresso

dell’anima tua eterna è una scintilla,

pare estinguersi e tutto, stilla a stilla,

svanir con te ogni parte di me stesso.

         Con te mi perdo. Ed ogni compagnia

         oggi mi pesa. Io m’aggiro smarrito

         in un mondo dov’è ogni ben finito;

         in una Patria che non è più mia.

Oh ! Sul tuo corpo pur solo una scossa

ch’io veda ! Ch’io m’accorga che ancor chiama

i figli in armi ! E con la stessa lama

bello sarà volare alla riscossa.

 

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6)    L’ANIMA DELLA PATRIA

Uscii: tutta rideva la campagna

nelle piante, nei prati, nelle biade;

lucea la luna in ruscelli e rugiade,

ed in alto imbiancava la montagna.

         Il brusio della vita nella notte

         estiva divenia sempre più forte,

         vincer sembrava il freddo della morte,

         sembrava aver le leggi eterne rotte.

E camminavo; ed una pura ebbrezza

mi sospingea fra l’ombra delle piante,

sopra i prati d’argento, al mormorante

Serchio, d’incomparabile bellezza.

         Forse un giorno un suo tempio ebbe anche il Serchio,

         come il Clitumno, il Tebro, l’Eridano,

         con l’acqua sua lavarono la mano

         i celebranti ad un altare in cerchio.

Correa sotto la luna e mormorava.

Ed ecco a un tratto su dalla corrente

un’ombra smisurata, lentamente,

dinanzi a me stupito si levava.

         Il Dio Serchio ! I capelli gli fluivano

         con la barba sul petto, gocciolanti,

         si mosse e si sedè fra i tremolanti

         salci che l’acque del fiume lambivano

Un coro dolce rivolse il mio viso

alle piante oltre il lido. Sulla sponda

venian dall’ombra quasi fin sull’onda

bionde Driadi, vision di paradiso.

         Le Naiadi scendean dalle sorgenti

         dell’Edron verde; e dall’alto Appennino

         si mossero ed in breve fur vicino

         l’Oreadi, le sorelle, sorridenti.

Avean tutte bianchissime le membra

divine, veliazzurri, occhi di cielo.

Io le fissavo con lo sguardo anelo

che non sa se sia ver quel che gli sembra.

         Avean capelli biondi, inanellati,

         lunghissimi, splendenti come il sole,

         fini come la seta, alle carole

         fluivan come fiotti d’or versati.

Piegavano i lor corpi flessuosi

nella danza le ninfe; il dio fluviale

regolava dell’acque il lento, uguale

scorrer col cenno degli occhi maestosi.

         E le ninfe cantavano. La voce

         melodiosa scendeva nel mio cuore;

         si mischiava alla brezza ed al rumore

         del fiume che scorrea verso la foce.

Cantavan come il figlio del Dio Marte,

tracciato il solco alla città quadrata,

poiche l’ebbe costrutta e popolata,

piegò i nemici d’essa d’ogni parte;

         e Coclite da sol, col ferro in pugno

         sul ponte, che inchiodava l’oste etrusca;

         cantavan di Camillo la corrusca

         spada, lucente cone sul di Giugno;

ed i Cimbri annientati ed i Teutoni

vinti dopo terribile battaglia.

Quasi il lampo dei ferri ancor m’abbaglia,

quasi odo il grido di quelle legioni.

         E dell’invitto Cesare l’ alato

         Cammino nelle galliche foreste,

         alla vision di Roma allora deste;

         e il gran Vercingetorige domato.

Del successor di Cesar la serena

età cantavan, troppo, ahimè, lontana,

quando danzavan, nella “pax romana”,

fra profumi di rosa e di verbena;

         quando i poeti il lor canto divino

         raccoglien per ripeterlo alle genti,

         e in riva delle fonti o fra gli armenti

         effonderlo nel puro ciel latino.

Io palpitavo al canto, e nel fulgore

Dell’auree chiome, come in una luce

Estraumana, immortale, che conduce

Alla vision d’ogni vero splendore,

         vedevo l’ombre della nostra storia

         or veloci ora lente trapassare

         a seconda del canto, nel lunare

         chiaror che ne svegliava la memoria.

Ultimo seguì il canto un che portava

un’uniforme che cucì una mamma,

pallidissimo in volto, come fiamma

gli lucean gli occhi che intorno girava.

         Attraverso la giacca lacerata

         gli scorsi sopra il cuore una ferita

         che sanguinava, ma l’eterna vita

         s’era ormai di quell’alma impossessata.

Al suo giungere il moto risplendente

dell’auree chiome cessò, cessò il canto;

e il dio fluviale nel suo glauco ammanto

fermò l’onda della chiara corrente.

         Volse il pallido eroe gli occhi ad un nero

         antro che là s’apriva, ad aspre grotte

         lungi da noi, ma chiare nella notte,

         con uno sguardo sprezzante ed altero.

Là vedemmo una forma mostruosa

Che deformava la bellezza umana

Nell’apparenza orribilmente strana

Dell’uomo-bestia; ed era semiascosa.

         Un negro !!! Che rideva orribilmente

         con le labbra deformi, col suo muso

         bestiale, gorillesco nel camuso

         naso, con l’espression dell’incosciente.

Dileguaron le ninfe; udii nell’alto

svanir lontano del vento sull’ale

lo spirto della Patria. Il dio fluviale

sparve nella corrente con un salto.

         Mi volsi intorno: c’era ancor riarso

         Lontano l’Appennin, la luna, il fiume;

         ma tutto triste, squallido; ogni lume

         di virtù patrie intorno era scomparso.

Era scomparso, ed io sentia nel cuore

profonda l’impression della visione,

una tristezza dolce, di passione

inappagata, che reca dolore.

         Eran fuggite innanzi alla bruttura

         le celesti visioni. Da un diverso

         remoto angolo ormai dell’universo

         maledicevan la laida creatura.

M’incamminai, ma dentro me fioriva

Già la speranza e non speranza vana

Ero ormai certo che, benchè lontana,

l’anima della Patria non moriva.

 

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7)    IL MITO DEL FUHRER

Il Fuhrer parlerà ! Riudremo ancora

la sua voce ! Può mai questo esser vero ?

Udrà il popolo suo col mondo intiero

forse l’annuncio d’una nuova aurora ?

         Hitler, l’uomo che l’ario popol grande

         volle riunito, solidale e forte

         ritorna a noi dal regno della morte

         e ancor nel mondo la sua voce spande.

Dove fu ? Dov’egli è ? Donde ritorna

dopo la lotta atroce, aspra, tremenda,

quest’uomo che appartiene alla leggenda,

al mito che del nome suo s’adorna ?

         Non sappiamo ma il popol che l’attende

         con amore, con ansia, con certezza,

         in quest’ora di squallida tristezza

         il lume della fede in cuor riaccende.

Egli è già un mito, un mito ch’è una fede.

E un giorno i nonni ai loro nipoti intenti,

rievocando l’angoscia degli eventi,

questo diran come chi parla e crede:

         “” Un dì la Patria vinta e calpestata,

         si dibatteva in lotta con se stessa

         come un’infuriata leonessa

         che si sia con gli unghioni in sé voltata.

Il popol nostro correva alla fine

senza speranza alcuna di salvezza

quando un eroe la nostra giovinezza

trasse dai lutti, tolse alle rovine.

         Con migliaia di giovani d’attorno

         placò l’ire e i furori delle genti;

         le ricondusse ai campi ed agli armenti,

         al lavoro felice d’ogni giorno.

Fra le spighe, le siepi di mortella,

le officine, i cantieri ogni tedesco

la Patria contemplò, divino affresco,

l’amò più forte, gli parve più bella.

         Ma nemici avea il popolo d’intorno:

         l’eroe partì verso il sud, verso il mare

         luminoso del sud, per ricercare

         un amico con cui fare ritorno.

Viveva al sud un popol laborioso,

giovane, forte, specchio di bellezza;

avea forgiata questa giovinezza

un altro eroe, dal cuore generoso.

         L’eroe del sud venne a noi. La sua voce

         era di tuono, folgore lo sguardo.

         Col popol suo, sotto un nero stendardo

         raccolto, fu con noi. In guerra atroce

varcarono i tedeschi il biondo Reno,

corser le vie del mondo combattendo,

l’un dopo l’altro i nemici abbattendo

d’oriente e d’occidente sul terreno

         Ma il mondo intiero contro noi s’armava,

         da ogni parte del globo tutte quante

         le genti si scagliavan sul gigante

         che impavido e sicuro le affrontava.

E riarse la lotta più feroce

fra tempeste di fuoco; tutto immerso

nel turbine sembrava l’universo,

ma tutto dominava la sua voce.

         Un dì la forza avversa del Destino

         rapì l’eroe del sud e lo nascose

         fra rupi inaccessibili ed ascose;

         ma là volò, portatovi da Odino,

l’eroe nostro che ruppe le catene

del grande prigioniero e ininterrotta

continuò così l’immane lotta

combattuta col fuoco nelle vene.

         Ma i nemici crescevan d’ora in ora,

         premevano di fronte, a tergo, a lato

         l’uragano di fuoco più addensato

         s’era, ma lui gli resisteva ancora.

Ancor la forza avversa del Destino,

colpì l’eroe del sud; impreveduto

fu il colpo e giacque, per sempre abbattuto

questa volta l’eroe. Ne pianse Odino.

         Contro l’eroe del nord si volse allora

         Il Destino: a lui sopra ininterrotte

         Addensò le bufere, in una notte

         Continua cui seguir non dovea Aurora.

Non cedette l’eroe; fra i suoi fedeli

ancor chiuse l’accesso della terra

sacra degli avi, e quell’immane guerra

continuò della notte dentro i veli.

         La marea dei nemici l’incalzava

         d’ogni lato, il Destino lo premeva,

         ma il gigante pur sempre combatteva

         tra il fuoco che dovunque turbinava.

Nel mare della fiamma rossa e gialla

le Valchirie sui celeri cavalli

lo presero e per monti e per convalli

galoppando raggiunsero il Valhalla.

         Cadde l’ardir dei forti alla scomparsa

         dell’eroe, terminò la lotta e il giorno

         il Destin rimandò, ma disadorno

         e triste sulla terra nuda ed arsa.

Passaron mesi e mesi d’abbiezioni

di schiavitù, di dominio feroce

dei vincitori. Muta era ogni voce

di giustizia; dovunque umiliazioni.

         Un giorno una notizia ci colpì:

-         Tenetevi concordi, spalla a spalla;

è tornato dal regno del Valhalla

         l’eroe scomparso, or or l’udrete, è qui –

Era tornato; avea raggiunto ancora

il popol suo sui focosi corsieri

delle Valchirie e del buio di ieri

annunciava ormai prossima l’aurora.

         Era tornato ! Ancor l’accolse il grido

         di mille voci. Nell’aura gioconda

         squassava, accanto a lui, la chioma bionda

         ai venti la fierezza di Sigfrido.

Quando la Patria ancor l’invocherà

nella miseria, nella schiavitù,

l’eroe suscitator d’ogni virtù

galoppando al suo popol volerà. “”

……………………….

         Questo narrerà un giorno ai nipotini

         Il vecchio uomo; e simboleggerà

         La figura del “Fuhrer” libertà

         Della Germania, gloriosi destini.

        

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8)    LA SUA VOCE

La voce che tuonò di fra i tumulti

d’una gente dimentica e perduta

e della razza i più saldi virgulti

alimentò, ormai per sempre è muta.

         Quella voce che un dì dal Campidoglio

         potente risuonò sul mondo intiero

         e con i timbri dell’antico orgoglio

         bandì al mondo di Roma il nuovo impero;

e che dalle rovine un’altra volta

il popolo disperso e brancolante

con novello vigor chiamò a raccolta

di fede ardente e passione vibrante

         per sempre or tace. Ne mai più l’udremo

         onor, fede, giustizia proclamare,

         sovranità di leggi, ed all’estremo

         valor gli animi forti concitare.

E voi che l’Amba o che la sabbia ardente

accoglie nel suo seno, e voi che il mare

profondo ricoperse e la dolente

madre e la sposa stanno ad aspettare,

         e voi tutti che per l’Italia madre

         cadeste, illustri esempi di valore

         romano antico, a manipoli, a squadre

         con l’armi in pugno e la Patria nel cuore

nessuno più ricorderà. L’oblio

su voi, quale nerissimo sudario,

si stenderà; sarà esaltaro il rio

vincitor, lo spregevol mercenario.

         E ora ombre gloriose del passato,

         poiché l’onor, la Patria, la virtù

         non si concilian con l’odierno stato

         per cui fu sommo onor la schiavitù,

Oh possiate dormire nell’oblio

Il sonno eterno e non venir chiamati

Nemici delle genti, al giusto Iddio

Ribelli ed assassini sciagurati.

         Oggi è gloria solenne aver tradito,

         si mena vanto del perduto onore;

         e come salvator mostrando a dito

         chi consegnò la Patria all’oppressore

Portato avete nel mondo divino

Con voi lo spirito d’ogni virtù.

Dormite in pace, paghi del destino

Che vi fe grandi nel tempo che fu.

 

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9)    9/9/45

Pugnalato alle spalle abbiam l’amico

Non abbiamo più onore, ma che fa ?

Morto è il Fascismo, il crudele nemico

Godiamo alfine della libertà.

         C’è fame, c’è miseria, c’è il nemico

         Che spadroneggia in casa, ma che fa ?

         E’ ormai crollato il torvo mondo antico,

         godiamo alfine della libertà.

Non puoi più uscir di sera che il ladrone

t’ammazza e ti deruba, ma che fa ?

E’ finito il regime d’oppressione,

godiamo alfine della libertà.

         Non hai più casa e il governo poltrone

         dormir ti fa all’aperto. Ma che fa ?

         E’ scomparso l’odiato gerarcone,

         tu godi alfine della libertà

Più non esiston ferrovie né strade,

nessun se ne preoccupa. Che fa ?

Disperse son le fasciste masnade;

si goda alfine della libertà !

         C’è Tito che massacra gli italiani,

         mutila le Venezie, c’è di là

         l’avida Francia e mille ingordi cani,

         ma noi godiam la nostra libertà.

Si cedon le colonie che il Fascismo

sfruttava, all’Inghilterra che non n’ha.

Eran segno d’un bieco imperialismo

che non s’accorda con la libertà.

         Oggi alfine puoi dir ciò che ti piace…

         Che ?…c’eran prima più comodità ?

         A morte ! Sei nemico della pace,

         a morte, in nome della libertà.

        

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10)                      QUANDO LA SERA

Quando la sera l’ombre sue distende

Sulle rovine immote e silenziose

La nostalgia dolorosa discende

Su cuori e cose

         E un’alma afflitta sulle polverose

         macerie stando china, le profonde

         tristezze che nel petto tiene ascose

         nell’aere effonde.

Dove son le officine fragorose,

i cantieri sonanti di lavoro,

le frotte di studenti rumorose

cantanti in coro ?

         Ed i bar scintillanti, e le vetrine

         Ricche di luci e cristalli, ove sono ?

         E delle allegre orchestre cittadine

         il dolce suono ?

Perché non più sotto il cielo stellato

le coppie amanti, nei giardini in fiore

bevon dolci promesse dall’amato

labbro, d’amore ?

         Dov’è il festoso correre dei treni,

         nell’ampie strade il canto dei motori,

         nei campi ombrosi il grido dei sereni

         agricoltori ?

E le festanti giovanili frotte

nelle campestri gite spensierate ?

E i viaggiator sicuri nella notte

da bande armate ?

         Muti ormai sono fabbriche e cantieri;

         più non risuonan le strade ferrate;

         son le vie, che di vita fervean ieri

         abbandonate.

Non più folla felice ma straccioni

per le città si aggiran denutriti,

o volti minacciosi di poltroni

imbestialiti.

         Spoglie dell’opulenza le vetrine

         mostrano infrante le lor nudità,

         grigia, coperta di mille rovine

         sta la città.

Fra le macerie, a notte, ora s’aggira

col negro che la copre di valuta

e con brama bestiale la rimira

la prostituta

         In altra parte ascoso, l’armi pronte

         alla rapina, attende il delinquente.

         Ladroni armati scorron valle e monte

         Continuamente.

Fame, miseria, follia fratricida,

rovine. lutti, strazi, umiliazioni,

stupri, rapine ed odio fratricida

di vigliacconi.

         Questa è l’Italia d’oggi. Le speranze

         di pace e di lavoro son finite,

         e le ingenue visioni d’abbondanza

         ormai svanite.

O età onorata e felice, tu mai

su noi diffonderai più la tua luce ?

Più fine non avranno i lutti ormai ?

Oh, torna Duce !

         Ridonaci la gioia del lavoro,

         riconduci la fede nel domani,

         riporta pace, sicurtà, decoro

         agli italiani.

Il popol che ti volle crocifisso

or l’urna tua di pianto e fiori adorna

In miseria penosa e vile infisso.

Duce, ritorna !

             4 settembre 1945                    D.Tirello Tungipegi

 

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11)                      COMPIANTO

Pianger ti voglio, Duce – in questa melodia

sì triste e desolata – è ormai l’anima mia.

         Il più grande suo figlio – la Patria ha in te perduto;

         nessuno vuol più scuoterla – dal suo funere muto.

Oggi tutto è silenzio – e non si sente più

la sua voce possente – che scomparso sei tu.

         Un giorno risuonavano – mille e mille canzoni,

         marciavan coi vessilli – al vento i battaglioni.

In alto sventolavano –gloriose le bandiere;

fumavano sui mari – le nostre cimoniere;

         e l’ali tricolori – brillavan nella luce;

         era la Patria nostra – grande, possente, Duce.

Opere colossali – il lavoro italiano

creava per i secoli – nell’impero africano.

         Negli occhi degli italici – brillava una divina

         luce: era onore, gloria e fierezza latina.

Ancor quella è la Patria – che conserviam nel cuore,

la Patria che venduta – fu al barbaro invasore.

         Era grande, era bella – Duce, la nostra terra,

         era onorata in pace – era temuta in guerra.

Oggi tutto è crollato: - gloria, giustizia, onore;

è in auge l’assassino, – il servo e il traditore.

         Chi voleva sconfitta – la tua Patria immortale

         Oggi, Duce, trionfa – in turpe baccanale.

Dove sei Duce nostro ? – Non vedi la nazione

che muor ? Non senti il grido – della nostra passione ?

         Guarda gli Sforza, i Treves, - i Calosso, gli Spano,

         i Nenni ed i Togliatti, - ogni abbietto italiano.

Essi non hanno Patria, - son servi del nemico,

vollero la sconfitta – (ancor li maledico).

         Dicono ch’era giusta – la guerra dei nemici,

         s’impinguan di milioni – arricchiscon gli amici;

Uccidono coloro – che vollero vittoria

Perseguitano, incarcerano – chi si coprì di gloria,

         regalano province, - colonie agli stranieri;

         riempiono di vittime – carceri e cimiteri;

hanno portato l’odio – in quest’Italia bella

per essi ormai s’è spenta – la nostra buona stella.

         Ove prima era amore, lavoro, onor, virtù,

         oggi son odii, stragi, rapine e servitù.

La Patria è schiava !  – Guarda sotto gli archi trionfali

padroni d’ogni razza, - bianchi e negri bestiali !

         E tu sei morto ! Tutta – la Patria oggi ti brama,

         ma tu non senti più – la voce che ti chiama.

Ah, no ! Tu certo l’odi – e pur senti il tormento

di chi vede disperdere – le virtù patrie al vento.

         Oh, risolleva, Duce –la tua Patria caduta,

         intorno a lei raccogli – la tua gente perduta !

se è vero che chi vive – nel cielo degli eroi

è Nume della Patria – volgi gli occhi su noi.

         Salva, Duce, il tuo popolo, - fallo potente ancora,

         manda sulle rovine – della Patria l’aurora.

 

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12)                      PREGHIERA

T’invocò un giorno, Iddio grande e tremendo

un poeta che visse combattendo

per la sua terra: ancora il verso intendo

pien di passione.

         Or io t’invoco, dio della ragione

         nella rovina della mia nazione

         con fremito di santa indignazione

         e di speranza.

Di tanto questa sola oggi ci avanza,

mentre viltà e follia prendono stanza

in questa terra, già provata a oltranza

dalle sventure.

         Pel massacro di tante tue creature,

         per le morti più tragiche ed oscure,

         per le efferate, sadiche torture

         dei traditori;

per le sevizie vigliacche, gli orrori,

le umiliazioni che i “liberatori”

inflissero agli italici migliori

oggi ed ieri;

         pei nostri morti dentro i cimiteri,

         per coloro che dormon senza ceri,

         caduti in faccia ai barbari stranieri

         sulle frontiere;

rendici, o Dio, le nostre belle schiere

di giovinezza, e il senso del dovere;

fa che non abbian macchia le bandiere

di disonore;

         l’aquile nostre rendici, Signore,

         la dignità di nazione e l’onore,

         colpisci l’assassino e il traditore

         di nostra gente.

Libera sia l’Italia veramente

ch’or giace inanimata e nulla sente

del suo stato di schiava, il più avvilente

che popol porti.

         Risvegliala fra l’anime dei morti,

         riportala nel mondo dei più forti,

         sia pure pei sentieri più ritorti

         la nostra Patria.

Scuoti dal sonno questa nostra Patria,

risollevala ancor la nostra Patria,

rendila a noi come allora la Patria

la nostra Patria !

         Infrangi ogni altra lurida idolatria.

        

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13)                      VOCE DALLE APUANE

Alpi Apuane, che nel vostro seno

nutriste un giorno i Liguri possenti

che si fuser con Roma. Odo nei venti

una voce che mai non verrà meno.

         Quando scroscia la pioggia e v’è il baleno

         del lampo nelle gole, s’ode un lento,

         di valle in valle, lugubre lamento

         che va dall’Appennin fino al Tirreno.

E’ la voce dei morti seviziati; seviziati

dai traditor, gettati in una fossa

e sotto poca terra abbandonati.

         Bagna la pioggia e dilava quell’ossa.

         ed attendono i morti invendicati

         il grido di vendetta e di riscossa.

        

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14)                      IL PARADISO E’ ALL’OMBRA DELLE SPADE

E’ santa la potenza che la terra

patria protegge intrepida.

E’ pur santa la guerra

ove d’amor di Patria ogni cuor trepida.

Dettò un motto l’ardore che sospinse

guerrieri su contrade

lontane e tutto vinse:

“Il Paradiso è all’ombra delle spade”.

         Pace, lavor, serenità, decoro

         regnavan nella terra

         di Pericle. Dell’oro

         l’età fioriva dopo l’aspra guerra.

         Ma quanti eran caduti nella polvere

         dell’elleniche strade

         la lotta per risolvere !

         “Il Paradiso è all’ombra delle spade”.

Regnava ovunque, in terra e in mar sovrana,

sovra tutte le genti,

salda la “pax romana”.

Tutti all’opre di pace erano intenti.

Ma pria cento legioni, combattendo

discesero nell’Ade,

per la Patria morendo.

“Il Paradiso è all’ombra delle spade”

         Oggi, nella più gran desolazione

         scesi pel tradimento

         sentiam spirare un vento

         di viltà, di follia, di corruzione.

         La schiera dei venduti e traditori

         oggi la Patria invade.

         Scordammo nei dolori

         che “Il Paradiso è all’ombra delle spade”.

La storia insegni, o ingenui creduloni

dalla miseria or cinti;

o vigliacchi poltroni

che vi dimenticate il “Guai ai vinti” !

Il vincitor vi deride e vi batte ?

l’umiliazion pervade

gli spiriti e li abbatte ?

Ma “Il Paradiso è all’ombra delle spade”

         Il popol che lottare né soffrire

         seppe, fu sempre oppresso,

         e avviato a morire

         perdendosi nel nulla da se stesso.

         Se alla mercè nemica è la tua pace,

         in breve tempo cade.

         S’è indifesa è fallace.

         “Il paradiso è all’ombra delle spade”.

 

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15)SE IL DOLORE

Se il dolore ti attanaglia

Per la patria mutilata

e vorresti la canaglia

ch’è al governo fucilata;

         se lo sdegno il cuor ti rode

         nel vedere i traditori

         dichiarar nemico il prode

         e sedere sugli allori;

e se fremi nel vedere

scorazzare da padroni

nella Patria i negri a schiere

ed agire da ladroni;

         e se in petto il cuor ti piange

         nel servire agli invasori

         e tu sogni una falange

         che li getti a calci fuori;

e se piangi alle rovine

delle case devastate

dagli “eroi” di più rapine

e di donne violentate;

         e se avvampi per lo sdegno

         nel vedere i traditori

         dal governo fatti segno

         dei più turpi, infami onori;

e se il cuore ti si spezza

alle stragi ed agli orrori,

e non soffri la cavezza

dei tuoi bei “liberatori”;

         pensa a quello che facesti

         quando ancor si combatteva

         e l’esercito fascista

         l’armi in pugno ancor teneva.

E se allor soffristi fame,

freddo intenso fino all’osso

e dormisti sullo strame

ed un’arma avesti indosso,

         stringi i denti; credi; poscia

         tempra il cuor, la carne, l’ossa

         premi in petto la tua angoscia

         ed attendi la riscossa.

 

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16)                      XXVIII OTTOBRE

Sotto il cielo ch’è di piombo

un possente, cupo rombo

s’ode; e lungi il suo rimbombo.

E tu l’anima ti rodi.

Odi ?

Si risveglia nel tuo cuore

un dolore

che non puoi, non vuoi lenir.

Sai soffrir.

         L’hai udito ai tempi tuoi,

         nella terra degli eroi

         quel possente grido: “a noi !”

         e i ricordi in petto snodi.

         Odi ?

         Sono le camicie nere !

         Quante schiere !

         Oggi spento è quell’ardir

         Qual soffrir !

E’ d’ottobre oggi il ventotto,

entro il lacero cappotto,

pensi al piede cui sei sotto,

stretto in mezzo a ceppi e nodi.

Odi ?

Senti un canto ! Quale ebbrezza !

Giovinezza !

Ah ! Che meglio oggi è morir

che soffrir

         Cuori saldi, volti eretti,

         saldi pugni sui moschetti,

         ferro al vento e gagliardetti.

         Hai nel cuore mille chiodi.

         Odi ?

         La tua marcia verso Roma

         oggi è doma…

         Deve al barbaro servir

         E soffrir.

Nella luce della gloria,

con l’aureola di vittoria,

parla il Duce a te e alla storia.

Si parla oggi in altri modi !

Odi ?

Sono i servi. Nella morte

dorme il forte,

e non può con te venir

a soffrir

         Stringi i pugni nel cappotto,

         serra i denti e non far motto,

         anche se un po’ mal ridotto

         hai ancor muscoli sodi.

         Odi ?

         Forse è il suon d’un’altra chiama

         non lontana.

         Credi, dovrà pur finir

         Il soffrir.

 

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17)                      LA NOTTE ALLORQUANDO LA LUNA

La notte allorquando la luna

s’innalza e il suo pallido raggio

diffonde sul calmo paesaggio

dell’Etna che è in parte ancor bruna.

         In una valletta romita

         che l’ombra più densa nasconde

         fra il lieve stormir delle fronde

         v’è un alito arcano di vita.

Son piante che tutti i destini

dei secoli seppero. Ombroso

il ramo protegge il riposo

di due ch’ivi cadder supini.

         Son due che riposano a terra,

         è l’un presso l’altro adagiato,

         riposan col petto squarciato

         sul suolo che seppe la guerra.

Son biondi, son belli, eran forti,

e quando sbarcò l’invasore

gli opposer l’intrepido cuore.

Son biondi, son belli, son morti.

         Si sente una deboole voce

         alzarsi con gemito spento,

         il suono del flebile accento

         il vento disperde veloce.

“Fratello, ricordi l’ardore

del nudo deserto africano ?

Ricordi il tremendo uragano

Che ci tormentava per ore ?

         Bruciavano i piè nel cammino;

         che importa ? S’avanza. E’ pur bello

         soffrir per la Patria, fratello

          del mio stesso sangue latino

S’avanza…Su corri…T’affretta;

la Patria ti segue ed è in festa.

Lo sai quanti colpi ti resta ?

Tre colpi e la tua baionetta.

         C’è l’ordin di sosta. Che guardi

         lontan, così immobile e zitto ?

         Ah… vedo…è Alessandria d’Egitto

         Ma vieni…riposati…è tardi.

Fratel, com’è lunga la sosta !

Che ardore ci brucia la gola !

Ma guarda…suvvia, ti consola

c’è l’acqua…c’è l’acqua e la posta !

         perché tu non bevi ? Quel filo

         là d’acqua si perde…Ah, comprendo

         volevi benzina….correndo

         avremmo bevuto nel Nilo.

E’ giorno di sangue. Oggi il cielo

si squarcia per mille esplosioni.

Giù cadon falciati i plotoni,

ovunque di morte v’è il gelo.

         La Patria è nel lutto. Dolente

         ti segue nel triste cammino,

         ti guarda al Mareth tunisino

         intrepido suo combattente.

Tu voli ferito sul mare

dal suol che conteso fu tanto

ed io ti son pur sempre accanto,

con te piango lacrime amare.

         T’ha in sé quella Patria diletta

         che pria t’era tanto lontana,

         perduta è la sponda africana

         e tu scruti il mar di vedetta.

Non senti rumor di mitraglia ?

Fratel tutto brulica il mare

di navi. Oltre l’ali scompare

il cielo. E’ l’estrema battaglia.

         Ah, no ! Che d’acciaio è il tuo cuore,

         più saldo del ferro nemico

         saprem ricacciar con l’antico

         furor il nemico invasore.

Oh cielo ! Son muti i cannoni

d’Augusta. Son tutti fuggiti

di là i difensori. Traditi

noi siam. Si disfanno i plotoni.

         Avanza il nemico, ma noi

         s’attende con animo forte,

         avremo un bel letto di morte

         sull’Etna, ed il ciel degli eroi.

Ed ora mi giaci vicino,

e intorno il silenzio ci avvolge,

nessun più un pensiero ci volge;

non vive più sangue latino.

         Tu parli e la debole voce

         che suona con gemito spento,

         sull’ali notturne del vento

         lontano si perde veloce.

Chi ascolta la voce dei forti

caduti per Roma immortale ?

Fu colpa una Patria imperiale;

s’irridon, s’offendono i morti;

         i morti d’Italia ! Nessuno

         ascolta la voce lontana

         che vien dalla duna africana

         dal regno abissal di Nettuno.

Or tace la voce del forte

caduto con l’armi alla mano.

Il rude guerriero italiano

riposa nel sonno di morte.

         Soffuso dal lume di luna

         vi dorme il fratello vicino,

         li colse lo stesso destino,

         per lor non v’è lacrima alcuna.

Son biondi, son belli, eran forti

e quando sbarcò l’invasore,

gli opposer l’intrepido cuore.

Son belli, son biondi, son morti.

 

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18)                      RITORNANO ?

Dunque è vero ? Risorgon dal profondo

oscuro abisso gli animi dei forti ?

Riaffiora la virtù del nostro mondo ?

C’è ancora sprone la gloria dei morti ?

         S’intravede un barlume di salvezza

         fra il caos degli assassini e dei ladroni,

         dei servi che con lurida bassezza

         vanno leccando i piedi ai lor padroni.

Sorgono in armi sopra i nostri monti

reparti armati della giovinezza

per vendicare soprusi ed affronti

e strazi e stupri ed ogni laidezza.

         O veri patrioti che l’Italia

         fino all’ultimo giorno difendeste

         e riprendete armati la battaglia,

         spazzate dall’Italia simil peste.

Io vi addito gli abbietti disertori

che fuggirono innanzi all’invasione

e l’armi, infami e vili traditori,

volsero a tergo al patrio difensore.

         Fra costoro vi addito gli assassini

         che uccisero e predarono ed or vanno

         vestiti a festa come damerini.

         Tornin le prede a loro eterno danno.

Poi vi addito la pletora infinita

di chi s’insedia nei pubblici uffici

perché fè parte della malavita

che funestò l’Italia e i suoi amici.

         Questi esseri svogliati ed incapaci

         che cacciaron raminghi a centinaia

         gli esperti, or, tristi figuri rapaci

         uno stipendio rubano a migliaia.

Questi d’impieghi loschi cacciatori,

creatori d’un caos sempre crescente,

addito a voi come vendicatori

che li spazziate inesorabilmente.

         Poi v’addito coloro che smembrata

         vorrebbero la Patria, che ai nemici

         offron colonie e province, che grata

         cosa ritengon l’esser loro amici.

Poi vi addito coloro che al bestiale

negro pari esser vogliono e la razza

imbastardire, e per l’uomo animale

dimostrano la simpatia più pazza.

         Tutti costor colpite duramente

         per la salvezza nostra e pel domani

         perché sia grande ancor la nostra gente,

         e il latrato abbia fin di questi cani;

perché sian vendicati i nostri morti

perché la nostra Patria viva eterna

perché s’inizi il domicio dei forti

per cui la razza nel tempo s’eterna.

 

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19)                      CREDESTI

Credesti, e fra un garrire di bandiere,

per respirar nel mare che fu nostro

(voltasti) verso il mondo il ferreo rostro

di corazzate e di torpediniere.

         Credemmo e per dar pane ai nostri figli

         stringemmo il ferro della libertà

         e con fede la nostra volontà

         mantenemmo decisa nei perigli.

Credemmo e ci levammo alti nel sole

sull’ali bianche al canto dei motori,

mentre parevan sorgere gli albori

d’un’ètà nuova e d’una nuova prole.

         Oggi a ciascun di noi, la fronte cinto

         di tristezza, ripete una feroce,

         sarcastica, beffarda, cruda voce

         l’atroce verità: tu sei un vinto.

Non ce lo dice straniera favella,

il volto che ci guarda trionfante,

e di gioia esecrabile esultante

il traditor di questa Italia bella.

         E ci seguì dal Don ad El Quattara

         con livore nel cuor sempre crescente;

         ogni nostro successo alla sua mente

         giungea notizia più d’ogni altra amara.

Ed al nemico patrio, suo padrone

che per i suoi servigi lo pagava,

le debolezze nostre egli indicava

da bravo e miserissimo ladrone.

         Rendici le bandiere insanguinate,

         dai traditor nel fango trascinate,

         l’aquile nostre ridacci, o Signore

         sia lavato dell’onta il tricolore.

        

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