Si tratta di diciannove poesie inedite scritte nel 1945 e 1946 da un tenente reduce della Divisione San Marco. Tali poesie sono state recentemente rinvenute e si è ritenuto di pubblicarle perché esse rendono beno lo stato d’animo dei reduci della R.S.I. dopo la sconfitta. Erano giovani cresciuti sotto il Fascismo e portavano in cuore ben radicati il mito della Patria immortale, il senso dell’onore, l’orgoglio di essere italiani, l’angoscia per l’abisso di abbrutimento in cui vedevano caduta la loro Patria vinta e invasa.
Sommario
2)
PATRIA
3)
2 OTTOBRE
4)
DIMOSTRAZIONE DI PALERMO 7/11/46
8)
LA SUA VOCE
9)
9/9/45
11)COMPIANTO
14) IL PARADISO E’ ALL’OMBRA
DELLE SPADE
15) SE IL DOLORE
16) XXVIII OTTOBRE
17) LA NOTTE ALLORQUANDO LA
LUNA
Se
la razza con la Patria
idolatria
criminale
pensi sia,
lascia
allora queste carte
in
disparte
e
prosegui la tua via.
Ma se razza, Patria, onore
e valore
pregi, e t’arde dentro il cuore
una fiamma viva, ardente,
risplendente,
una fiamma che non muore,
t’offro
un rogo, quale altare;
e
gettare
vi
dovrai la tua passione,
per
nutrire, rinnovare,
ravvivare
quella
massa in combustione.
2) PATRIA
luceva
il sol di Roma, fra fluenti
chiome,
se intorno movei l’occhio altero.
Col lor passo ferrato i reggimenti
passavan sotto gli archi millenari
destando gli echi da secoli spenti.
Nel
chiaro volto dei tuoi legionari
risplendeva
la luce della gloria,
fuoco
raccolto da tutti i sacrari.
Ancora ti mostravi nella storia
presso la Nike alata, con la spada
di Cesare che seppe ogni vittoria.
Giorni
torbidi giunsero. Tradita,
abbandonata
al piè dell’invasore
giacesti insanguinata, senza vita.
I servi del tuo barbaro oppressore
oggi tripudian sulle tue rovine
pascendosi del tuo sacro dolore.
Deserti
i porti delle tue marine
Odi
l’esaltazion del disertore
Con
l’Alpi aperte a l’orde più ferine.
Priva dei tuoi migliori, dell’onore,
orba dei reggimenti, un cencio rosso
vedi ove pria garriva il tricolore.
Mille
e mille sciacalli che hai addosso
avidi
del tuo sangue, la tua carne
dilanian,
rosicchiandoti fin l’osso.
Risorgi, Italia mia, scrolla di dosso
questi sozzi vampiri, leva il grido
che tuonò un giorno dall’Alpi al mar
Rosso.
Che
ancor possa sentire il fiero strido
sulla
piastra nemica dell’acciaio
di
Coclite e del brando di Sigfrido.
Chè per la vita dell’Europa appaio
la rinascita tua con quella ancora
dell’alleata, immersa nel brumaio.
Oh
possa un giorno riveder l’aurora
d’un’Europa
redenta, unita, forte,
degli
Ariani inviolabile dimora.
Risorgi o Patria. Per le più ritorte
e misteriose vie s’affermi eterna
della razza la vita sulla morte.
Tu
che fosti per secoli lucerna
al
mondo, Europa mia, tu che creasti
la
civiltà ch’ovunque si squaderna,
ribellati al destino; i giorni fasti
segna nel calendario della storia
che verrà, cancellandovi i nefasti.
Domina
ovunque, o madre della gloria;
hai
nel pugno il destino, è in te il segreto
di
vita eterna e d’eterna vittoria.
Torna al dimenticato sepolcreto
Dei figli che ti cinser di splendore
Il cui culto dai vili t’è oggi vieto,
che
privi ognor del senno e dell’onore
con
criminalità sempre più pazza
t’imbastardiscon
col negro invasore.
Questi incoscenti dal tuo gremba
spazza,
salva o gran madre della civiltà
il tuo sangue e te stessa nella razza.
E’ il
2 d’Ottobre: un lieve ed indistinto
brusio
lontano oggi nell’aria sento.
L’urlo
degli sciacalli non l’ha spento,
osannanti
al nemico che ci ha vinto.
Non odi ? Quel brusio si fa distinto…
È uragano di popolo; è l’accento
di mille voci che ci porta il vento
dagli albor dell’impero onde l’ha
attinto.
E’
il 2 d’Ottobre. Ascolta, è la sua voce
fratel,
che alla battaglia tutti chiama
come
allor contro il barbaro feroce
Se col cuore che sanguina e poi ama
tu l’odi, tieni ascosa la tua croce
ed in silenzio affila la tua lama.
4)
DIMOSTRAZIONE DI PALERMO 7/11/46
della
bella Trinacria s’è ridesta
e
al sol nascente di un’aurea mattina
ha
sollevato fiera la sua testa
Un raggio ha illuminato quella gente,
che s’è per prima dal torpore scossa,
quando dal cuor martoriato e fremente
s’è alzato il grido che sa di riscossa.
Duce
! Duce ! E la grande invocazione
aveva
in sé le lacrime, la speme,
il
rimpianto di tutta una nazione
che
da troppo ogni strazio in petto preme.
Da troppo tempo un gran dolore, muto,
covava dentro i cuori, ed irruzione
ha fatto infine; e s’è all’eroe caduto
svelato in tutta la sua gran passione.
E
l’omaggio, dai vili ognor negato,
il
popol di Sicilia, onesto e forte,
memore
ancor di chi l’ha tanto amato,
ha
concesso all’eroe dopo la morte.
L’ha concesso con l’anima rovente,
più calda dell’ardor dei suoi vulcani,
l’ha concesso col cuor, d’amore ardente
traboccante e di fede nel domani.
Città
dei Vespri, qual divina luce
t’ha
cinto ! Quale sovrumana ebbrezza !
Quando
le strade tue suonato han : “Duce !”
Quando
al cielo è salito: “Giovinezza ! “
Ancor possano udirsi quelle grida,
quel canto che i cuor nostri tutti
ammalia ?
Oggi, Palermo, sei la nostra guida,
hai oggi in te tutti i cuori d’Italia.
Ripetilo
quel grido e la canzone,
patria
di Crispi, e tutta ne risuoni
dall’Alpi
ai tuoi vulcani la nazione
e
ne rimbombi con rumor di tuoni.
Se un giorno, dominata la bufera,
noi rivedremo il sol della vittoria,
e senza macchia la nostra bandiera
garrire al vento di una nuova storia;
in
te, Palermo, prima insofferente
di
schiavitù, con anima commossa,
tutti,
in pellegrinaggio riverente,
celebreremo
la nostra riscossa.
fosti
cantata, riverita, amata;
or
io ti canto in questa sconsolata
ora
di pianto, notte di dolore.
Chi ti esaltava e celebrava or canta
le glorie del nemico che ti tiene
schiava e pretende rotte tue catene
di schiavitù dalla sua “guerra santa”
Per
te canto; e si unisca la mia voce
a
quella ancor di pochi onesti e forti
che
non rinnegan la gloria dei morti
e
che piangono ai piè della tua croce.
Fioca è la voce mia (chi mai la sente
?)
il canto si dilegua via col vento;
in esso v’è tristezza, smarrimento,
pianto che sale irresistibilmente.
Tutta
ti vedo, o Patria, a me davanti
spogliata,
saccheggiata, insanguinata;
dall’Africa
di cui t’han mutilata
alla
cerchia dell’Alpi scintillanti.
Oh, quell’Alpi superbe, su cui spazza
le nevi la tormenta ! Un giorno c’era
il confinario con camicia nera
a vegliarle; oggi gente d’ogni razza.
E
il tuo mar luminoso, dalle navi
superbe
tue solcato, oggi il Britanno
orgoglioso
ha da un lato. A nostro danno
ha
l’altro il bruto infoibatore slavo.
Urlo di folle lacere e affamate,
pianger di bimbi che chiedono il pane,
sospiri di coloni alle lontane
nostre terre, per sempre abbandonate;
è
il lamento che sal dalle rovine
del
tuo corpo distrutto, o Patria mia,
è
il grido che rieccheggia in ogni via,
fra
le macerie che non hanno fine.
Ovunque è pianto; ma è l’anima tua
Ch’io cerco ovunque trepido e affannoso
E invano notte e dì senza riposo
Tento scoprirla nella carne sua.
Guardo
il volto dei vecchi, per specchiarmi
In
dignitosa, pacata tristezza
Per
sorprendervi un lampo di fierezza
Negli
occhi giovanil torno a fissarmi.
Nulla; tutti i miei sforzi restan vani.
Corruzion, odio, follia fratricida
il volto d’ognun d’essi spira e grida.
Ti uccidono, mia Patria, gli Italiani.
In
tutta questa ridda indiavolata
di
servi, d’assassini e traditori
tu
dilegui, lontan ti perdi e muori
negletta,
estranea, ormai dimenticata.
Oh, come sei lontana, inafferrabile,
evanescente come un sogno vano !
Io t’inseguo, ma sempre più lontano
svanir tivedo come un’ombra labile.
E
il mio spirto che, dal tuo seno espresso
dell’anima
tua eterna è una scintilla,
pare
estinguersi e tutto, stilla a stilla,
svanir
con te ogni parte di me stesso.
Con te mi perdo. Ed ogni compagnia
oggi mi pesa. Io m’aggiro smarrito
in un mondo dov’è ogni ben finito;
in una Patria che non è più mia.
Oh
! Sul tuo corpo pur solo una scossa
ch’io
veda ! Ch’io m’accorga che ancor chiama
i
figli in armi ! E con la stessa lama
bello
sarà volare alla riscossa.
Uscii:
tutta rideva la campagna
nelle
piante, nei prati, nelle biade;
lucea
la luna in ruscelli e rugiade,
ed
in alto imbiancava la montagna.
Il brusio della vita nella notte
estiva divenia sempre più forte,
vincer sembrava il freddo della morte,
sembrava aver le leggi eterne rotte.
E
camminavo; ed una pura ebbrezza
mi
sospingea fra l’ombra delle piante,
sopra
i prati d’argento, al mormorante
Serchio,
d’incomparabile bellezza.
Forse un giorno un suo tempio ebbe
anche il Serchio,
come il Clitumno, il Tebro, l’Eridano,
con l’acqua sua lavarono la mano
i celebranti ad un altare in cerchio.
Correa
sotto la luna e mormorava.
Ed
ecco a un tratto su dalla corrente
un’ombra
smisurata, lentamente,
dinanzi
a me stupito si levava.
Il Dio Serchio ! I capelli gli fluivano
con la barba sul petto, gocciolanti,
si mosse e si sedè fra i tremolanti
salci che l’acque del fiume lambivano
Un
coro dolce rivolse il mio viso
alle
piante oltre il lido. Sulla sponda
venian
dall’ombra quasi fin sull’onda
bionde
Driadi, vision di paradiso.
Le Naiadi scendean dalle sorgenti
dell’Edron verde; e dall’alto Appennino
si mossero ed in breve fur vicino
l’Oreadi, le sorelle, sorridenti.
Avean
tutte bianchissime le membra
divine,
veliazzurri, occhi di cielo.
Io
le fissavo con lo sguardo anelo
che
non sa se sia ver quel che gli sembra.
Avean capelli biondi, inanellati,
lunghissimi, splendenti come il sole,
fini come la seta, alle carole
fluivan come fiotti d’or versati.
Piegavano
i lor corpi flessuosi
nella
danza le ninfe; il dio fluviale
regolava
dell’acque il lento, uguale
scorrer
col cenno degli occhi maestosi.
E le ninfe cantavano. La voce
melodiosa scendeva nel mio cuore;
si mischiava alla brezza ed al rumore
del fiume che scorrea verso la foce.
Cantavan
come il figlio del Dio Marte,
tracciato
il solco alla città quadrata,
poiche
l’ebbe costrutta e popolata,
piegò
i nemici d’essa d’ogni parte;
e Coclite da sol, col ferro in pugno
sul ponte, che inchiodava l’oste
etrusca;
cantavan di Camillo la corrusca
spada, lucente cone sul di Giugno;
ed i
Cimbri annientati ed i Teutoni
vinti
dopo terribile battaglia.
Quasi
il lampo dei ferri ancor m’abbaglia,
quasi
odo il grido di quelle legioni.
E dell’invitto Cesare l’ alato
Cammino nelle galliche foreste,
alla vision di Roma allora deste;
e il gran Vercingetorige domato.
Del
successor di Cesar la serena
età
cantavan, troppo, ahimè, lontana,
quando
danzavan, nella “pax romana”,
fra
profumi di rosa e di verbena;
quando i poeti il lor canto divino
raccoglien per ripeterlo alle genti,
e in riva delle fonti o fra gli armenti
effonderlo nel puro ciel latino.
Io
palpitavo al canto, e nel fulgore
Dell’auree
chiome, come in una luce
Estraumana,
immortale, che conduce
Alla
vision d’ogni vero splendore,
vedevo l’ombre della nostra storia
or veloci ora lente trapassare
a seconda del canto, nel lunare
chiaror che ne svegliava la memoria.
Ultimo
seguì il canto un che portava
un’uniforme
che cucì una mamma,
pallidissimo
in volto, come fiamma
gli
lucean gli occhi che intorno girava.
Attraverso la giacca lacerata
gli scorsi sopra il cuore una ferita
che sanguinava, ma l’eterna vita
s’era ormai di quell’alma impossessata.
Al
suo giungere il moto risplendente
dell’auree
chiome cessò, cessò il canto;
e
il dio fluviale nel suo glauco ammanto
fermò
l’onda della chiara corrente.
Volse il pallido eroe gli occhi ad un
nero
antro che là s’apriva, ad aspre grotte
lungi da noi, ma chiare nella notte,
con uno sguardo sprezzante ed altero.
Là
vedemmo una forma mostruosa
Che
deformava la bellezza umana
Nell’apparenza
orribilmente strana
Dell’uomo-bestia;
ed era semiascosa.
Un negro !!! Che rideva orribilmente
con le labbra deformi, col suo muso
bestiale, gorillesco nel camuso
naso, con l’espression
dell’incosciente.
Dileguaron
le ninfe; udii nell’alto
svanir
lontano del vento sull’ale
lo
spirto della Patria. Il dio fluviale
sparve
nella corrente con un salto.
Mi volsi intorno: c’era ancor riarso
Lontano l’Appennin, la luna, il fiume;
ma tutto triste, squallido; ogni lume
di virtù patrie intorno era scomparso.
Era
scomparso, ed io sentia nel cuore
profonda
l’impression della visione,
una
tristezza dolce, di passione
inappagata,
che reca dolore.
Eran fuggite innanzi alla bruttura
le celesti visioni. Da un diverso
remoto angolo ormai dell’universo
maledicevan la laida creatura.
M’incamminai,
ma dentro me fioriva
Già
la speranza e non speranza vana
Ero
ormai certo che, benchè lontana,
l’anima
della Patria non moriva.
la
sua voce ! Può mai questo esser vero ?
Udrà
il popolo suo col mondo intiero
forse
l’annuncio d’una nuova aurora ?
Hitler, l’uomo che l’ario popol grande
volle riunito, solidale e forte
ritorna a noi dal regno della morte
e ancor nel mondo la sua voce spande.
Dove
fu ? Dov’egli è ? Donde ritorna
dopo
la lotta atroce, aspra, tremenda,
quest’uomo
che appartiene alla leggenda,
al
mito che del nome suo s’adorna ?
Non sappiamo ma il popol che l’attende
con amore, con ansia, con certezza,
in quest’ora di squallida tristezza
il lume della fede in cuor riaccende.
Egli
è già un mito, un mito ch’è una fede.
E
un giorno i nonni ai loro nipoti intenti,
rievocando
l’angoscia degli eventi,
questo
diran come chi parla e crede:
“” Un dì la Patria vinta e calpestata,
si dibatteva in lotta con se stessa
come un’infuriata leonessa
che si sia con gli unghioni in sé
voltata.
Il
popol nostro correva alla fine
senza
speranza alcuna di salvezza
quando
un eroe la nostra giovinezza
trasse
dai lutti, tolse alle rovine.
Con migliaia di giovani d’attorno
placò l’ire e i furori delle genti;
le ricondusse ai campi ed agli armenti,
al lavoro felice d’ogni giorno.
Fra
le spighe, le siepi di mortella,
le
officine, i cantieri ogni tedesco
la Patria
contemplò, divino affresco,
l’amò
più forte, gli parve più bella.
Ma nemici avea il popolo d’intorno:
l’eroe partì verso il sud, verso il
mare
luminoso del sud, per ricercare
un amico con cui fare ritorno.
Viveva
al sud un popol laborioso,
giovane,
forte, specchio di bellezza;
avea
forgiata questa giovinezza
un
altro eroe, dal cuore generoso.
L’eroe del sud venne a noi. La sua voce
era di tuono, folgore lo sguardo.
Col popol suo, sotto un nero stendardo
raccolto, fu con noi. In guerra atroce
varcarono
i tedeschi il biondo Reno,
corser
le vie del mondo combattendo,
l’un
dopo l’altro i nemici abbattendo
d’oriente
e d’occidente sul terreno
Ma il mondo intiero contro noi
s’armava,
da ogni parte del globo tutte quante
le genti si scagliavan sul gigante
che impavido e sicuro le affrontava.
E
riarse la lotta più feroce
fra
tempeste di fuoco; tutto immerso
nel
turbine sembrava l’universo,
ma
tutto dominava la sua voce.
Un dì la forza avversa del Destino
rapì l’eroe del sud e lo nascose
fra rupi inaccessibili ed ascose;
ma là volò, portatovi da Odino,
l’eroe
nostro che ruppe le catene
del
grande prigioniero e ininterrotta
continuò
così l’immane lotta
combattuta
col fuoco nelle vene.
Ma i nemici crescevan d’ora in ora,
premevano di fronte, a tergo, a lato
l’uragano di fuoco più addensato
s’era, ma lui gli resisteva ancora.
Ancor
la forza avversa del Destino,
colpì
l’eroe del sud; impreveduto
fu
il colpo e giacque, per sempre abbattuto
questa
volta l’eroe. Ne pianse Odino.
Contro l’eroe del nord si volse allora
Il Destino: a lui sopra ininterrotte
Addensò le bufere, in una notte
Continua cui seguir non dovea Aurora.
Non
cedette l’eroe; fra i suoi fedeli
ancor
chiuse l’accesso della terra
sacra
degli avi, e quell’immane guerra
continuò
della notte dentro i veli.
La marea dei nemici l’incalzava
d’ogni lato, il Destino lo premeva,
ma il gigante pur sempre combatteva
tra il fuoco che dovunque turbinava.
Nel
mare della fiamma rossa e gialla
le
Valchirie sui celeri cavalli
lo
presero e per monti e per convalli
galoppando
raggiunsero il Valhalla.
Cadde l’ardir dei forti alla scomparsa
dell’eroe, terminò la lotta e il giorno
il Destin rimandò, ma disadorno
e triste sulla terra nuda ed arsa.
Passaron
mesi e mesi d’abbiezioni
di
schiavitù, di dominio feroce
dei
vincitori. Muta era ogni voce
di
giustizia; dovunque umiliazioni.
Un giorno una notizia ci colpì:
-
Tenetevi
concordi, spalla a spalla;
è tornato dal regno del Valhalla
l’eroe
scomparso, or or l’udrete, è qui –
Era
tornato; avea raggiunto ancora
il
popol suo sui focosi corsieri
delle
Valchirie e del buio di ieri
annunciava
ormai prossima l’aurora.
Era tornato ! Ancor l’accolse il grido
di mille voci. Nell’aura gioconda
squassava, accanto a lui, la chioma
bionda
ai venti la fierezza di Sigfrido.
Quando
la Patria ancor l’invocherà
nella
miseria, nella schiavitù,
l’eroe
suscitator d’ogni virtù
galoppando
al suo popol volerà. “”
……………………….
Questo narrerà un giorno ai nipotini
Il vecchio uomo; e simboleggerà
La figura del “Fuhrer” libertà
Della Germania, gloriosi destini.
d’una
gente dimentica e perduta
e
della razza i più saldi virgulti
alimentò,
ormai per sempre è muta.
Quella voce che un dì dal Campidoglio
potente risuonò sul mondo intiero
e con i timbri dell’antico orgoglio
bandì al mondo di Roma il nuovo impero;
e
che dalle rovine un’altra volta
il
popolo disperso e brancolante
con
novello vigor chiamò a raccolta
di
fede ardente e passione vibrante
per sempre or tace. Ne mai più l’udremo
onor, fede, giustizia proclamare,
sovranità di leggi, ed all’estremo
valor gli animi forti concitare.
E
voi che l’Amba o che la sabbia ardente
accoglie
nel suo seno, e voi che il mare
profondo
ricoperse e la dolente
madre
e la sposa stanno ad aspettare,
e voi tutti che per l’Italia madre
cadeste, illustri esempi di valore
romano antico, a manipoli, a squadre
con l’armi in pugno e la Patria nel
cuore
nessuno
più ricorderà. L’oblio
su
voi, quale nerissimo sudario,
si
stenderà; sarà esaltaro il rio
vincitor,
lo spregevol mercenario.
E ora ombre gloriose del passato,
poiché l’onor, la Patria, la virtù
non si concilian con l’odierno stato
per cui fu sommo onor la schiavitù,
Oh
possiate dormire nell’oblio
Il
sonno eterno e non venir chiamati
Nemici
delle genti, al giusto Iddio
Ribelli
ed assassini sciagurati.
Oggi è gloria solenne aver tradito,
si mena vanto del perduto onore;
e come salvator mostrando a dito
chi consegnò la Patria all’oppressore
Portato
avete nel mondo divino
Con
voi lo spirito d’ogni virtù.
Dormite
in pace, paghi del destino
Che
vi fe grandi nel tempo che fu.
Non
abbiamo più onore, ma che fa ?
Morto
è il Fascismo, il crudele nemico
Godiamo
alfine della libertà.
C’è fame, c’è miseria, c’è il nemico
Che spadroneggia in casa, ma che fa ?
E’ ormai crollato il torvo mondo
antico,
godiamo alfine della libertà.
Non
puoi più uscir di sera che il ladrone
t’ammazza
e ti deruba, ma che fa ?
E’
finito il regime d’oppressione,
godiamo
alfine della libertà.
Non hai più casa e il governo poltrone
dormir ti fa all’aperto. Ma che fa ?
E’ scomparso l’odiato gerarcone,
tu godi alfine della libertà
Più
non esiston ferrovie né strade,
nessun
se ne preoccupa. Che fa ?
Disperse
son le fasciste masnade;
si
goda alfine della libertà !
C’è Tito che massacra gli italiani,
mutila le Venezie, c’è di là
l’avida Francia e mille ingordi cani,
ma noi godiam la nostra libertà.
Si
cedon le colonie che il Fascismo
sfruttava,
all’Inghilterra che non n’ha.
Eran
segno d’un bieco imperialismo
che
non s’accorda con la libertà.
Oggi alfine puoi dir ciò che ti piace…
Che ?…c’eran prima più comodità ?
A morte ! Sei nemico della pace,
a morte, in nome della libertà.
Sulle
rovine immote e silenziose
La
nostalgia dolorosa discende
Su
cuori e cose
E un’alma afflitta sulle polverose
macerie stando china, le profonde
tristezze che nel petto tiene ascose
nell’aere effonde.
Dove
son le officine fragorose,
i cantieri
sonanti di lavoro,
le
frotte di studenti rumorose
cantanti
in coro ?
Ed i bar scintillanti, e le vetrine
Ricche di luci e cristalli, ove sono ?
E delle allegre orchestre cittadine
il dolce suono ?
Perché
non più sotto il cielo stellato
le
coppie amanti, nei giardini in fiore
bevon
dolci promesse dall’amato
labbro,
d’amore ?
Dov’è il festoso correre dei treni,
nell’ampie strade il canto dei motori,
nei campi ombrosi il grido dei sereni
agricoltori ?
E
le festanti giovanili frotte
nelle
campestri gite spensierate ?
E i
viaggiator sicuri nella notte
da
bande armate ?
Muti ormai sono fabbriche e cantieri;
più non risuonan le strade ferrate;
son le vie, che di vita fervean ieri
abbandonate.
Non
più folla felice ma straccioni
per
le città si aggiran denutriti,
o
volti minacciosi di poltroni
imbestialiti.
Spoglie dell’opulenza le vetrine
mostrano infrante le lor nudità,
grigia, coperta di mille rovine
sta la città.
Fra
le macerie, a notte, ora s’aggira
col
negro che la copre di valuta
e
con brama bestiale la rimira
la
prostituta
In altra parte ascoso, l’armi pronte
alla rapina, attende il delinquente.
Ladroni armati scorron valle e monte
Continuamente.
Fame,
miseria, follia fratricida,
rovine.
lutti, strazi, umiliazioni,
stupri,
rapine ed odio fratricida
di
vigliacconi.
Questa è l’Italia d’oggi. Le speranze
di pace e di lavoro son finite,
e le ingenue visioni d’abbondanza
ormai svanite.
O
età onorata e felice, tu mai
su
noi diffonderai più la tua luce ?
Più
fine non avranno i lutti ormai ?
Oh,
torna Duce !
Ridonaci la gioia del lavoro,
riconduci la fede nel domani,
riporta pace, sicurtà, decoro
agli italiani.
Il
popol che ti volle crocifisso
or
l’urna tua di pianto e fiori adorna
In
miseria penosa e vile infisso.
Duce,
ritorna !
4 settembre 1945 D.Tirello Tungipegi
sì
triste e desolata – è ormai l’anima mia.
Il più grande suo figlio – la Patria ha
in te perduto;
nessuno vuol più scuoterla – dal suo
funere muto.
Oggi
tutto è silenzio – e non si sente più
la
sua voce possente – che scomparso sei tu.
Un giorno risuonavano – mille e mille
canzoni,
marciavan coi vessilli – al vento i
battaglioni.
In
alto sventolavano –gloriose le bandiere;
fumavano
sui mari – le nostre cimoniere;
e l’ali tricolori – brillavan nella
luce;
era la Patria nostra – grande,
possente, Duce.
Opere
colossali – il lavoro italiano
creava
per i secoli – nell’impero africano.
Negli occhi degli italici – brillava
una divina
luce: era onore, gloria e fierezza
latina.
Ancor
quella è la Patria – che conserviam nel cuore,
la
Patria che venduta – fu al barbaro invasore.
Era grande, era bella – Duce, la nostra
terra,
era onorata in pace – era temuta in
guerra.
Oggi
tutto è crollato: - gloria, giustizia, onore;
è
in auge l’assassino, – il servo e il traditore.
Chi voleva sconfitta – la tua Patria
immortale
Oggi, Duce, trionfa – in turpe
baccanale.
Dove
sei Duce nostro ? – Non vedi la nazione
che
muor ? Non senti il grido – della nostra passione ?
Guarda gli Sforza, i Treves, - i
Calosso, gli Spano,
i Nenni ed i Togliatti, - ogni abbietto
italiano.
Essi
non hanno Patria, - son servi del nemico,
vollero
la sconfitta – (ancor li maledico).
Dicono ch’era giusta – la guerra dei
nemici,
s’impinguan di milioni – arricchiscon
gli amici;
Uccidono
coloro – che vollero vittoria
Perseguitano,
incarcerano – chi si coprì di gloria,
regalano province, - colonie agli
stranieri;
riempiono di vittime – carceri e
cimiteri;
hanno
portato l’odio – in quest’Italia bella
per
essi ormai s’è spenta – la nostra buona stella.
Ove prima era amore, lavoro, onor,
virtù,
oggi son odii, stragi, rapine e
servitù.
La
Patria è schiava ! – Guarda sotto gli
archi trionfali
padroni
d’ogni razza, - bianchi e negri bestiali !
E tu sei morto ! Tutta – la Patria oggi
ti brama,
ma tu non senti più – la voce che ti
chiama.
Ah,
no ! Tu certo l’odi – e pur senti il tormento
di
chi vede disperdere – le virtù patrie al vento.
Oh, risolleva, Duce –la tua Patria
caduta,
intorno a lei raccogli – la tua gente
perduta !
se
è vero che chi vive – nel cielo degli eroi
è
Nume della Patria – volgi gli occhi su noi.
Salva, Duce, il tuo popolo, - fallo
potente ancora,
manda sulle rovine – della Patria
l’aurora.
un
poeta che visse combattendo
per
la sua terra: ancora il verso intendo
pien
di passione.
Or io t’invoco, dio della ragione
nella rovina della mia nazione
con fremito di santa indignazione
e di speranza.
Di
tanto questa sola oggi ci avanza,
mentre
viltà e follia prendono stanza
in
questa terra, già provata a oltranza
dalle
sventure.
Pel massacro di tante tue creature,
per le morti più tragiche ed oscure,
per le efferate, sadiche torture
dei traditori;
per
le sevizie vigliacche, gli orrori,
le
umiliazioni che i “liberatori”
inflissero
agli italici migliori
oggi
ed ieri;
pei nostri morti dentro i cimiteri,
per coloro che dormon senza ceri,
caduti in faccia ai barbari stranieri
sulle frontiere;
rendici,
o Dio, le nostre belle schiere
di
giovinezza, e il senso del dovere;
fa
che non abbian macchia le bandiere
di
disonore;
l’aquile nostre rendici, Signore,
la dignità di nazione e l’onore,
colpisci l’assassino e il traditore
di nostra gente.
Libera
sia l’Italia veramente
ch’or
giace inanimata e nulla sente
del
suo stato di schiava, il più avvilente
che
popol porti.
Risvegliala fra l’anime dei morti,
riportala nel mondo dei più forti,
sia pure pei sentieri più ritorti
la nostra Patria.
Scuoti
dal sonno questa nostra Patria,
risollevala
ancor la nostra Patria,
rendila
a noi come allora la Patria
la
nostra Patria !
Infrangi ogni altra lurida idolatria.
nutriste
un giorno i Liguri possenti
che
si fuser con Roma. Odo nei venti
una
voce che mai non verrà meno.
Quando scroscia la pioggia e v’è il
baleno
del lampo nelle gole, s’ode un lento,
di valle in valle, lugubre lamento
che va dall’Appennin fino al Tirreno.
E’
la voce dei morti seviziati; seviziati
dai
traditor, gettati in una fossa
e
sotto poca terra abbandonati.
Bagna la pioggia e dilava quell’ossa.
ed attendono i morti invendicati
il grido di vendetta e di riscossa.
14)
IL PARADISO E’ ALL’OMBRA DELLE SPADE
patria
protegge intrepida.
E’
pur santa la guerra
ove
d’amor di Patria ogni cuor trepida.
Dettò
un motto l’ardore che sospinse
guerrieri
su contrade
lontane
e tutto vinse:
“Il
Paradiso è all’ombra delle spade”.
Pace, lavor, serenità, decoro
regnavan nella terra
di Pericle. Dell’oro
l’età fioriva dopo l’aspra guerra.
Ma quanti eran caduti nella polvere
dell’elleniche strade
la lotta per risolvere !
“Il Paradiso è all’ombra delle spade”.
Regnava
ovunque, in terra e in mar sovrana,
sovra
tutte le genti,
salda
la “pax romana”.
Tutti
all’opre di pace erano intenti.
Ma
pria cento legioni, combattendo
discesero
nell’Ade,
per
la Patria morendo.
“Il
Paradiso è all’ombra delle spade”
Oggi, nella più gran desolazione
scesi pel tradimento
sentiam spirare un vento
di viltà, di follia, di corruzione.
La schiera dei venduti e traditori
oggi la Patria invade.
Scordammo nei dolori
che “Il Paradiso è all’ombra delle
spade”.
La
storia insegni, o ingenui creduloni
dalla
miseria or cinti;
o
vigliacchi poltroni
che
vi dimenticate il “Guai ai vinti” !
Il
vincitor vi deride e vi batte ?
l’umiliazion
pervade
gli
spiriti e li abbatte ?
Ma
“Il Paradiso è all’ombra delle spade”
Il popol che lottare né soffrire
seppe, fu sempre oppresso,
e avviato a morire
perdendosi nel nulla da se stesso.
Se alla mercè nemica è la tua pace,
in breve tempo cade.
S’è indifesa è fallace.
“Il paradiso è all’ombra delle spade”.
Se
il dolore ti attanaglia
Per
la patria mutilata
e
vorresti la canaglia
ch’è
al governo fucilata;
se lo sdegno il cuor ti rode
nel vedere i traditori
dichiarar nemico il prode
e sedere sugli allori;
e
se fremi nel vedere
scorazzare
da padroni
nella
Patria i negri a schiere
ed
agire da ladroni;
e se in petto il cuor ti piange
nel servire agli invasori
e tu sogni una falange
che li getti a calci fuori;
e
se piangi alle rovine
delle
case devastate
dagli
“eroi” di più rapine
e
di donne violentate;
e se avvampi per lo sdegno
nel vedere i traditori
dal governo fatti segno
dei più turpi, infami onori;
e
se il cuore ti si spezza
alle
stragi ed agli orrori,
e
non soffri la cavezza
dei
tuoi bei “liberatori”;
pensa a quello che facesti
quando ancor si combatteva
e l’esercito fascista
l’armi in pugno ancor teneva.
E
se allor soffristi fame,
freddo
intenso fino all’osso
e
dormisti sullo strame
ed
un’arma avesti indosso,
stringi i denti; credi; poscia
tempra il cuor, la carne, l’ossa
premi in petto la tua angoscia
ed attendi la riscossa.
un
possente, cupo rombo
s’ode;
e lungi il suo rimbombo.
E
tu l’anima ti rodi.
Odi
?
Si
risveglia nel tuo cuore
un
dolore
che
non puoi, non vuoi lenir.
Sai
soffrir.
L’hai udito ai tempi tuoi,
nella terra degli eroi
quel possente grido: “a noi !”
e i ricordi in petto snodi.
Odi ?
Sono le camicie nere !
Quante schiere !
Oggi spento è quell’ardir
Qual soffrir !
E’
d’ottobre oggi il ventotto,
entro
il lacero cappotto,
pensi
al piede cui sei sotto,
stretto
in mezzo a ceppi e nodi.
Odi
?
Senti
un canto ! Quale ebbrezza !
Giovinezza
!
Ah
! Che meglio oggi è morir
che
soffrir
Cuori saldi, volti eretti,
saldi pugni sui moschetti,
ferro al vento e gagliardetti.
Hai nel cuore mille chiodi.
Odi ?
La tua marcia verso Roma
oggi è doma…
Deve al barbaro servir
E soffrir.
Nella
luce della gloria,
con
l’aureola di vittoria,
parla
il Duce a te e alla storia.
Si
parla oggi in altri modi !
Odi
?
Sono
i servi. Nella morte
dorme
il forte,
e
non può con te venir
a
soffrir
Stringi i pugni nel cappotto,
serra i denti e non far motto,
anche se un po’ mal ridotto
hai ancor muscoli sodi.
Odi ?
Forse è il suon d’un’altra chiama
non lontana.
Credi, dovrà pur finir
Il soffrir.
17)
LA NOTTE ALLORQUANDO LA LUNA
s’innalza
e il suo pallido raggio
diffonde
sul calmo paesaggio
dell’Etna
che è in parte ancor bruna.
In una valletta romita
che l’ombra più densa nasconde
fra il lieve stormir delle fronde
v’è un alito arcano di vita.
Son
piante che tutti i destini
dei
secoli seppero. Ombroso
il
ramo protegge il riposo
di
due ch’ivi cadder supini.
Son due che riposano a terra,
è l’un presso l’altro adagiato,
riposan col petto squarciato
sul suolo che seppe la guerra.
Son
biondi, son belli, eran forti,
e
quando sbarcò l’invasore
gli
opposer l’intrepido cuore.
Son
biondi, son belli, son morti.
Si sente una deboole voce
alzarsi con gemito spento,
il suono del flebile accento
il vento disperde veloce.
“Fratello,
ricordi l’ardore
del
nudo deserto africano ?
Ricordi
il tremendo uragano
Che
ci tormentava per ore ?
Bruciavano i piè nel cammino;
che importa ? S’avanza. E’ pur bello
soffrir per la Patria, fratello
del mio stesso sangue latino
S’avanza…Su
corri…T’affretta;
la
Patria ti segue ed è in festa.
Lo
sai quanti colpi ti resta ?
Tre
colpi e la tua baionetta.
C’è l’ordin di sosta. Che guardi
lontan, così immobile e zitto ?
Ah… vedo…è Alessandria d’Egitto
Ma vieni…riposati…è tardi.
Fratel,
com’è lunga la sosta !
Che
ardore ci brucia la gola !
Ma
guarda…suvvia, ti consola
c’è
l’acqua…c’è l’acqua e la posta !
perché tu non bevi ? Quel filo
là d’acqua si perde…Ah, comprendo
volevi benzina….correndo
avremmo bevuto nel Nilo.
E’
giorno di sangue. Oggi il cielo
si
squarcia per mille esplosioni.
Giù
cadon falciati i plotoni,
ovunque
di morte v’è il gelo.
La Patria è nel lutto. Dolente
ti segue nel triste cammino,
ti guarda al Mareth tunisino
intrepido suo combattente.
Tu
voli ferito sul mare
dal
suol che conteso fu tanto
ed
io ti son pur sempre accanto,
con
te piango lacrime amare.
T’ha in sé quella Patria diletta
che pria t’era tanto lontana,
perduta è la sponda africana
e tu scruti il mar di vedetta.
Non
senti rumor di mitraglia ?
Fratel
tutto brulica il mare
di
navi. Oltre l’ali scompare
il
cielo. E’ l’estrema battaglia.
Ah, no ! Che d’acciaio è il tuo cuore,
più saldo del ferro nemico
saprem ricacciar con l’antico
furor il nemico invasore.
Oh
cielo ! Son muti i cannoni
d’Augusta.
Son tutti fuggiti
di
là i difensori. Traditi
noi
siam. Si disfanno i plotoni.
Avanza il nemico, ma noi
s’attende con animo forte,
avremo un bel letto di morte
sull’Etna, ed il ciel degli eroi.
Ed
ora mi giaci vicino,
e
intorno il silenzio ci avvolge,
nessun
più un pensiero ci volge;
non
vive più sangue latino.
Tu parli e la debole voce
che suona con gemito spento,
sull’ali notturne del vento
lontano si perde veloce.
Chi
ascolta la voce dei forti
caduti
per Roma immortale ?
Fu
colpa una Patria imperiale;
s’irridon,
s’offendono i morti;
i morti d’Italia ! Nessuno
ascolta la voce lontana
che vien dalla duna africana
dal regno abissal di Nettuno.
Or
tace la voce del forte
caduto
con l’armi alla mano.
Il
rude guerriero italiano
riposa
nel sonno di morte.
Soffuso dal lume di luna
vi dorme il fratello vicino,
li colse lo stesso destino,
per lor non v’è lacrima alcuna.
Son
biondi, son belli, eran forti
e
quando sbarcò l’invasore,
gli
opposer l’intrepido cuore.
Son
belli, son biondi, son morti.
oscuro
abisso gli animi dei forti ?
Riaffiora
la virtù del nostro mondo ?
C’è
ancora sprone la gloria dei morti ?
S’intravede un barlume di salvezza
fra il caos degli assassini e dei
ladroni,
dei servi che con lurida bassezza
vanno leccando i piedi ai lor padroni.
Sorgono
in armi sopra i nostri monti
reparti
armati della giovinezza
per
vendicare soprusi ed affronti
e
strazi e stupri ed ogni laidezza.
O veri patrioti che l’Italia
fino all’ultimo giorno difendeste
e riprendete armati la battaglia,
spazzate dall’Italia simil peste.
Io
vi addito gli abbietti disertori
che
fuggirono innanzi all’invasione
e
l’armi, infami e vili traditori,
volsero
a tergo al patrio difensore.
Fra costoro vi addito gli assassini
che uccisero e predarono ed or vanno
vestiti a festa come damerini.
Tornin le prede a loro eterno danno.
Poi
vi addito la pletora infinita
di
chi s’insedia nei pubblici uffici
perché
fè parte della malavita
che
funestò l’Italia e i suoi amici.
Questi esseri svogliati ed incapaci
che cacciaron raminghi a centinaia
gli esperti, or, tristi figuri rapaci
uno stipendio rubano a migliaia.
Questi
d’impieghi loschi cacciatori,
creatori
d’un caos sempre crescente,
addito
a voi come vendicatori
che
li spazziate inesorabilmente.
Poi v’addito coloro che smembrata
vorrebbero la Patria, che ai nemici
offron colonie e province, che grata
cosa ritengon l’esser loro amici.
Poi
vi addito coloro che al bestiale
negro
pari esser vogliono e la razza
imbastardire,
e per l’uomo animale
dimostrano
la simpatia più pazza.
Tutti costor colpite duramente
per la salvezza nostra e pel domani
perché sia grande ancor la nostra
gente,
e il latrato abbia fin di questi cani;
perché
sian vendicati i nostri morti
perché
la nostra Patria viva eterna
perché
s’inizi il domicio dei forti
per
cui la razza nel tempo s’eterna.
per
respirar nel mare che fu nostro
(voltasti)
verso il mondo il ferreo rostro
di
corazzate e di torpediniere.
Credemmo e per dar pane ai nostri figli
stringemmo il ferro della libertà
e con fede la nostra volontà
mantenemmo decisa nei perigli.
Credemmo
e ci levammo alti nel sole
sull’ali
bianche al canto dei motori,
mentre
parevan sorgere gli albori
d’un’ètà
nuova e d’una nuova prole.
Oggi a ciascun di noi, la fronte cinto
di tristezza, ripete una feroce,
sarcastica, beffarda, cruda voce
l’atroce verità: tu sei un vinto.
Non
ce lo dice straniera favella,
il
volto che ci guarda trionfante,
e
di gioia esecrabile esultante
il
traditor di questa Italia bella.
E ci seguì dal Don ad El Quattara
con livore nel cuor sempre crescente;
ogni nostro successo alla sua mente
giungea notizia più d’ogni altra amara.
Ed
al nemico patrio, suo padrone
che
per i suoi servigi lo pagava,
le
debolezze nostre egli indicava
da
bravo e miserissimo ladrone.
Rendici le bandiere insanguinate,
dai traditor nel fango trascinate,
l’aquile nostre ridacci, o Signore
sia lavato dell’onta il tricolore.