Oggi tutti parlano del « cristianesimo » come se fosse un'entità coerente, omogenea e unificata. E' superfluo aggiungere che
il « cristianesimo » non lo è affatto. Come tutti sanno, vi sono numerose forme di « cristianesimo »: il cattolicesimo romano,
ad esempio, o la Chiesa d'Inghilterra fondata da Enrico VIII. Vi sono poi le altre varie denominazioni del protestantesimo,
dal luteranesimo e dal calvinismo del secolo XVI fino a sviluppi relativamente recenti come l'unitarianismo.
C'è una quantità di congregazioni « marginali », ed « evangeliche » come gli avventisti del settimo giorno e i testimoni di Geova.
E vi sono le varie sette contemporanee, come i Bambini di Dio e la Chiesa dell'unificazione del reverendo Moon.
Se si esamina questa sconcertante gamma di « fedi », da quelle più rigorosamente dogmatiche e conservatrici a quelle radicali ed
estatiche, è molto difficile determinare che cosa costituisca esattamente il « cristianesimo ».
Se c'è un unico fattore che permette di parlare di « cristianesimo », un unico fattore che lega i credi « cristiani » altrimenti
diversi e divergenti, è il Nuovo Testamento, e in particolare l'eccezionale status attribuito dal Nuovo Testamento a Gesù, alla
Crocifissione e alla Resurrezione. Anche se una persona non sottoscrive in pieno la verità letterale o storica di questi eventi,
generalmente basta che accetti il loro significato simbolico per essere considerata cristiana.
Se vi è quindi un'unità nel fenomeno diffuso chiamato cristianesimo, questa unità risiede nel Nuovo Testamento, e più precisamente
nelle cronache della vita di Gesù conosciute come i Quattro Vangeli. Queste cronache sono considerate generalmente come le più
autorevoli; e per molti cristiani sono coerenti e inoppugnabili. Fin dall'infanzia si viene indotti a credere che la « storia »
di Gesù, così com'è tramandata nei Quattro Vangeli, sia se non proprio ispirata da Dio, almeno definitiva. I quattro evangelisti,
Marco, Luca, Matteo e Giovanni, presunti autori dei Vangeli, sono ritenuti testimoni impeccabili che
rafforzano e confermano l'uno la testimonianza dell'altro. Tra tutti coloro che oggi si dicono cristiani, ben pochi si rendono
conto che i Quattro Vangeli non solo si contraddicono l'un l'altro, ma a volte sono in violento dissidio.
Per la tradizione popolare, l'origine e la nascita di Gesù sono piuttosto note.
Ma in realtà i Vangeli, sui quali si basa la tradizione, sono considerevolmente più vaghi al riguardo. Solo due dei Quattro Vangeli,
quello di Matteo e quello di Luca, parlano dell'origine e della nascita di Gesù, e sono in netto contrasto tra loro. Secondo Matteo,
ad esempio, Gesù era un aristocratico, se non addirittura un legittimo re, disceso da Davide e da Salomone. Secondo Luca, invece,
la famiglia di Gesù, benché discesa dalla casa di Davide, era un po' meno illustre; ed è sulla base del racconto di Marco che è nata
la leggenda del « povero falegname ». Insomma, le due genealogie sono così nettamente discordi che potrebbero riferirsi addirittura
a due personaggi diversi.
Le discrepanze tra i Vangeli non sono circoscritte alla genealogia di Gesù. Secondo Luca, Gesù appena nato
ricevette la visita di alcuni pastori. Secondo Matteo, ricevette l'omaggio di tre re. Secondo Luca, la famiglia dì Gesù viveva a
Nazareth; e di qui i suoi genitori, a causa di un censimento che la storia indica come mai avvenuto, si sarebbero recati a Betlemme,
dove Gesù nacque in un'umile mangiatoia. Ma secondo Matteo i genitori di Gesù erano piuttosto benestanti e risiedevano a Betlemme;
e Gesù nacque in una casa. Nella versione di Matteo, la strage degli innocenti ordinata da Erode costringe la famiglia a fuggire in
Egitto, e solo al suo ritorno si stabilisce a Nazareth.
Le notizie contenute in ognuna di queste cronache sono specifiche - e presumendo che il censimento avvenisse veramente - del tutto
plausìbili. Tuttavia queste notizie non collimano. È una contraddizione che non trova una spiegazione razionale. Non c'è assolutamente
modo di correggere i due racconti contrastanti, e non c'è assolutamente modo di conciliarli. Piaccia o no, si deve ammettere che
uno di questi due Vangeli ha torto, o che hanno torto tutti e due. Di fronte a una conclusione così clamorosa e inevitabile, non
è possibile considerare inoppugnabili i Vangeli. Come possono essere inoppugnabili, quando si smentiscono l'un l'altro?
Più si studiano i Vangeli, e più appaiono evidenti le contraddizioni tra loro. Infatti non concordano neppure sul giorno della
Crocifissione. Secondo Giovanni, la Crocifissione avvenne il giorno prima della Pasqua ebraica. Secondo Marco, Luca e Matteo,
avvenne il giorno dopo.
I Vangeli non sono d'accordo neppure sulla personalità e il carattere di Gesù. Ognuno dipinge una figura
in netto contrasto con la figura rappresentata da altri: in Luca, ad esempio, Gesù è un salvatore mite come un agnello, in Matteo
è un potente e maestoso sovrano che viene a portare « non la pace ma una spada ». E vi sono altre discrepanze circa le ultime parole
pronunciate da Gesù sulla croce. In Matteo e Marco, queste parole sono: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? ».
In Luca: « Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno ». In Giovanni, le ultime parole di Gesù sono semplicemente:
« Tutto è compiuto ».
Date queste discrepanze, i Vangeli possono essere accettati solo come un'autorità molto discutibile, certo non definitiva.
Non rappresentano la parola perfetta di un Dio; oppure le parole di Dio sono state abbondantemente censurate, rivedute,
corrette e riscritte da mani umane. La Bibbia, dobbiamo ricordarlo - e questo vale tanto per l'Antico quanto per il Nuovo
Testamento - è soltanto una selezione di opere, sotto molti aspetti piuttosto arbitraria. Infatti, potrebbe benissimo includere
assai più libri e scritti di quanti ne includa in realtà. E non si può neppure sostenere che i libri mancanti siano andati
« perduti », Al contrario, furono esclusi di proposito. Nel 367 d.C. il vescovo Atanasio d'Alessandria compilò un elenco delle opere
da includere nel Nuovo Testamento. L'elenco fu ratificato dal Concilio di Ippona nel 393 e successivamente dal Concilio di Cartagine,
svoltosi quattro anni dopo. In questi concili fu scelta una selezione di opere. Certe furono raccolte per formare il Nuovo Testamento
quale lo conosciamo oggi, mentre altre furono sprezzantemente ignorate. Come si può considerare definitivo un simile processo di
selezione? Come poteva un'assise di ecclesiastici decidere infallibilmente che certi libri « appartenevano » alla Bibbia e altri no?
Soprattutto quando alcuni dei libri esclusi hanno una pretesa di veridicità storica perfettamente valida?
Se il Vangelo di Marco venne epurato in modo tanto drastico, venne anche oberato di aggiunte spurie. Nella versione originale si
conclude con la Crocifissione, il seppellimento e la tomba vuota. Non c'è la Resurrezione, non c'è l'incontro con i discepoli.
Certo, vi sono alcune Bibbie moderne che contengono un finale più convenzionale del Vangelo di Marco, un finale che include la
Resurrezione. Ma virtualmente tutti i moderni specialisti di filologia biblica concordano nell'affermare che questo finale ampliato
è un'aggiunta più tarda, risalente agli ultimi anni del II secolo e accodata al documento originale.
Il Vangelo di Marco offre così due esempi di un documento sacro - presentato come ispirato da Dio - che è stato manomesso, modificato,
censurato, riveduto e corretto da mani umane. E non si tratta,di casi ipotetici. Al contrario, oggi sono accettati dagli studiosi,
che li considerano dimostrabili e provati. Si può supporre, allora, che solo il Vangelo di Marco subisse alterazioni? Evidentemente,
se il Vangelo di Marco venne manipolato, è ragionevole presumere che anche gli altri Vangeli abbiano subito lo stesso trattamento.
La Palestina al tempo di Gesù Nel I secolo, era una terra molto inquieta. Per lungo tempo la Terrasanta era stata
straziata da dissidi dinastici, lotte intestine e, qualche volta, vere e proprie guerre. Durante il II secolo a.C. era stato creato
un regno giudaico più o meno unificato, come narrano i due libri dei Maccabei. Ma nel 63 a.C. la Palestina era di nuovo in pieno
tumulto, e matura per venire occupata.
Oltre mezzo secolo prima della nascita di Gesù, la Palestina si arrese alle armate di Pompeo, che imposero la dominazione romana.
Ma a quel tempo Roma era troppo estesa e troppo presa dai propri problemi, per insediare l'apparato amministrativo necessario a un
potere diretto. Creò quindi una dinastia di re-fantocci perché regnassero sotto la sua egida: la dinastia erodiana, che non era ebrea
ma araba. Il primo della dinastia fu Antipatro, che salì al trono nel 63 a.C. Quando morì nel 37 a.C., gli successe il figlio,
Erode il Grande, che regnò fino al 4 a.C. Si deve immaginare una terra conquistata e un popolo vinto, governati da un regime
fantoccio mantenuto al potere dai militari. La popolazione poteva conservare la sua religione e i suoi costumi.
Ma l'autorità suprema era Roma. E questa autorità era imposta secondo la legge romana e dalle truppe romane, come avvenne in
Britannia non molto tempo dopo.
Nel 6 d.C. la situazione divenne più critica. Quell'anno il paese fu diviso amministrativamente in due province, la Giudea e la
Galilea. Erode Aritipa divenne re di quest'ultima. Ma la Giudea, dove era situata la capitale spirituale e civile, divenne soggetta
al diretto dominio romano, e venne amministrata da un governatore romano insediato a Cesarea. Il regime romano era brutale e
autocratico. Quando assunse il controllo diretto sulla Giudea, più di tremila ribelli furono sommariamente giustiziati.
Il Tempio fu profanato e depredato. Furono imposte tasse pesantissime. La tortura era usata di frequente; e molti Ebrei si suicidarono.
La situazione non migliorò sotto Ponzio Pilato, che governò la Giudea dal 26 al 36 d.C. In contrasto con il ritratto che ne
fa la Bibbia, i documenti pervenuti fino a noi indicano che Pilato era un uomo crudele e corrotto, e che perpetuò e aggravò
gli abusi commessi dal predecessore. Perciò è tanto più sorprendente - almeno a prima vista - che i Vangeli non critichino Roma,
non accennino neppure al peso del giogo romano. Anzi, i Vangeli lasciano intendere che gli abitanti della Giudea se ne stavano
tranquilli, soddisfatti della loro sorte.
In realtà, pochi erano soddisfatti, e molti non stavano tranquilli affatto. Gli Ebrei di Terrasanta, a quel tempo, erano divisi
in una quantità di sette e sottosette. Per esempio, c'erano i sadducei, una classe di proprietari terrieri, poco numerosi ma ricchi,
che con grande indignazione dei loro compatrioti collaboravano con i Romani. C'erano i farisei, che formavano un gruppo
« progressista »: introdussero molte riforme nel giudaismo e, nonostante il ritratto che ne fanno i Vangeli, conducevano
nei confronti di Roma un'opposizione ferma, anche se soprattutto passiva. C'erano gli esseni, una setta austera e mistica,
i cui insegnamenti erano assai più diffusi e influenti di quanto in generale si ammetta o si presuma. Tra le sette più piccole,
ce n'erano molte il cui carattere preciso è andato perduto da molto tempo, e che quindi sono difficili da definire. È comunque
il caso di ricordare i nazirei, ai quali secoli prima era appartenuto Sansone, e che esistevano ancora ai tempi di Gesù.
È il caso di ricordare anche i nazorei o nazareni, un termine che sembra venisse usato per indicare anche Gesù e i suoi seguaci.
Infatti, la versione originale greca del Nuovo Testamento chiama Gesù « il nazareno », un termine che viene tradotto erroneamente
« Gesù di Nazareth ». « Nazareno », insomma, è una parola che indica l'appartenenza a una setta, e non ha relazioni con Nazareth.
Nel 66 d.C. scoppiò la rivolta; la Giudea insorse contro Roma. Fu un conflitto disperato, accanito ma in fondo vano.
Nella sola Cesarea, 20.000 Ebrei furono massacrati dai Romani. Quattro anni dopo le legioni romane occuparono Gerusalemme,
la raserò al suolo e saccheggiarono il Tempio. Ma la fortezza di Masada, arroccata su una montagna, resistette ancora tre anni,
al comando di un discendente diretto di Giuda di Galilea.
Dopo la fine della rivolta in Giudea, vi fu un esodo massiccio di Ebrei dalla Terrasanta. Ne rimasero tuttavia abbastanza per
fomentare un'altra insurrezione sessanta anni più tardi, nel 132 d.C. Finalmente, nel 135, l'imperatore Adriano ordinò che tutti
gli Ebrei venissero espulsi dalla Giudea, e Gerusalemme diventò sostanzialmente una città romana, con il nome di Elia Capitolina.
La vita di Gesù si svolse approssimativamente durante i primi trentacinque anni di una fase di inquietudini, disordini e rivolte
che si estese per centoquaranta anni. I disordini non finirono con la sua morte, anzi continuarono per un altro secolo, e generarono
il clima psicologico e culturale che accompagna inevitabilmente una sfida prolungata contro un oppressore. Di questo clima
psicologico faceva parte la speranza dell'avvento di un Messia che liberasse il suo popolo dal giogo tirannico. Solo per una
coincidenza storica e semantica questo termine finì per venire riferito specificatamente ed esclusivamente a Gesù.
Agli occhi dei contemporanei di Gesù, un Messia non sarebbe apparso divino. Per loro, anzi, l'idea di un Messia divino sarebbe
stata assurda, se non impensabile. La parola greca per Messia è Christos, « Cristo ». Il termine, sia in greco che in ebraico,
significava sémplicemente « l'unto », e in genere si riferiva a un re. Quindi Davide, quando fu unto re come narra l'Antico
Testamento, divenne esplicitamente un « Messia » o un « Cristo ». E ogni successivo re ebreo della casa di Davide venne chiamato
con lo stèsso appellativo. Persino sotto l'occupazione romana della Giùdea, il sommo sacerdote nominato dai Romani era chiamato
« il Messia Sacerdote » o « il Cristo Sacerdote ».
Per gli zeloti e per gli altri avversari di Roma, tuttavia, questo sacerdote-fantoccio era inevitabilmente un « falso Messia ».
Per loro il « vero Messia » era qualcosa di ben diverso: il discendente ignoto della casa di Davide che
avrebbe liberato il suo popolo dall'oppressione romana. Durante la vita di Gesù, l'attesa di questo Messia aveva raggiunto un
culmine che sconfinava nell'isteria collettiva. E l'attesa continuò anche dopo la morte di Gesù. Anzi, l'insurrezione del 66 d.C.
fu istigata in gran parte dalla propaganda degli zeloti, imperniata su un Messia il cui avvento veniva annunciato come imminente.
Il termine « Messia », perciò, non comportava la divinità dell'individuo così designato. A stretto rigore, non significava altro
che un re unto o consacrato; per il popolo passò a significare un re consacrato che sarebbe stato anche il liberatore.
In altre parole, era un termine tipicamente politico, ben diverso dalla successiva idea cristiana di un « Figlio di Dio ».
E questo termine terreno e politico venne riferito a Gesù, che era chiamato « Gesù il Messia.» o, in greco, « Gesù il Cristo ».
Solo più tardi questa designazione divenne « Gesù Cristo », e un titolo che si riferiva esclusivamente a una funzione fu trasformato
in nome proprio.
Gli studiosi moderni concordano all'unanimità nel ritenere che i Vangeli non furono scritti durante la vita di Gesù. Per la maggior
parte, datano dal periodo tra le due principali insurrezioni in Giudea, 66-74 e 132-135 d.C, benché siano quasi certamente basati su
narrazioni precedenti. Queste narrazioni includevano forse documenti scritti andati poi perduti, dato che vi fu una totale distruzione
degli archivi dopo la prima rivolta. Ma senza dubbio c'erano anche le tradizioni orali. Alcune erano con sicurezza grossolanamente
esagerate e alterate, ricevute di seconda, terza e quarta mano. Altre, tuttavia, potevano derivare da contemporanei di Gesù e che
forse l'avevano conosciuto personalmente. Un uomo che al tempo della Crocifissione era giovane poteva benissimo essere ancora vivo
quando furono scritti i Vangeli.
In generale, il Vangelo più antico è ritenuto quello di Marco, composto durante l'insurrezione del 66-74 o poco più tardi, se si
esclude la parte relativa alla Resurrezione che è aggiunta spuria e più tarda. Sebbene non fosse stato uno dei discepoli di Gesù,
sembra che Marco provenisse da Gerusalemme. Pare che fosse uno dei compagni di san Paolo, e il suo Vangelo mostra tracce
inequivocabili del pensiero paolino. Ma se Marco era nato a Gerusalemme, il suo Vangelo, come afferma Clemente d'Alessandria,
fu scritto a Roma per un pubblico greco-romano. E questo, in sé, spiega molte cose. Nel tempo in cui fu scritto il Vangelo di Marco,
la Giudea era in aperta rivolta - o lo era stata di recente - e migliaia di Ebrei venivano crocifissi per essersi ribellati al dominio
romano. Se Marco voleva che il suo Vangelo sopravvivesse e si imponesse a un pubblico romano, non poteva assolutamente presentare Gesù
come antiromano. Anzi, non poteva neppure attribuire a Gesù un orientamento politico. Perché il suo messaggio sopravvivesse,
Marco era obbligato a scagionare i Romani da ogni responsabilità circa la morte di Gesù, ad assolvere il regime esistente e a
scaricare la morte del Messia su certi Ebrei. Questo sistema fu adottato non soltanto dagli autori degli altri Vangeli, ma anche
dalla Chiesa cristiana degli albori. Senza questo « trucco » né i Vangeli né la Chiesa sarebbero sopravvissuti.
I filologi datano il Vangelo di Luca intorno all'80 d.C. Sembra che Luca fosse un medico greco, che scrisse la sua opera per un alto
funzionario di Cesarea, la capitale romana della Palestina. Anche Luca, quindi, si sarebbe trovato nella necessità di ingraziarsi i
Romani e di attribuire ad altri la responsabilità.
Quando fu scritto il Vangelo di Matteo, intorno all'85 d.C., pare che questo trasferimento dì responsabilità fosse ormai accettato
come un fatto indiscusso. Più della metà del Vangelo di Matteo, infatti, deriva direttamente da quello di Marco, benché venisse
scritto originariamente in greco e rispecchiasse precise caratteristiche greche. L'autore sembra essere un Ebreo, molto probabilmente
profugo dalla Palestina. Non dev'essere confuso con il discepolo omonimo, che doveva essere vissuto molto tempo prima e probabilmente
aveva conosciuto soltanto l'aramaico.
I Vangeli di Marco, Luca e Matteo sono conosciuti collettivamente come « i Vangeli Sinottici »; l'espressione significa che
presentano la stessa visione dei fatti, anche se naturalmente non è affatto così. Tuttavia coincidono tra loro quanto basta per
indicare che sono derivati da una fonte comune, forse una tradizione orale, forse un altro documento successivamente perduto.
Questo li distingue dal Vangelo dì Giovanni, che tradisce origini significativamente diverse.
Dell'autore del Quarto Vangelo non si sa assolutamente nulla, anzi, non c'è neppure ragione di presumere che si chiamasse Giovanni.
Escluso il Battista, lo stesso Vangelo non menziona mai un Giovanni, e la sua attribuzione a un uomo di questo nome viene generalmente
riconosciuta come una tradizione più tarda. Il Quarto Vangelo, in ordine di tempo, è il più recente di quelli inclusi nel Nuovo
Testamento: fu composto intorno all'anno 100 d.C. nei pressi di Efeso, in Asia Minore. Presenta numerose caratteristiche distintive.
Ad esempio, non contiene la scena della Natività di Gesù, e l'inizio ha quasi un carattere gnostico. Il testo è decisamente più
mistico di quello degli altri Vangeli, e anche il contenuto ne differisce. Ad esempio, gli altri Vangeli parlano soprattutto
delle attività di Gesù nella provincia settentrionale di Galilea, e rispecchiano quella che sembra essere soltanto una conoscenza
dì seconda o di terza mano per quanto riguarda gli eventi accaduti al sud, in Giudea e a Gerusalemme, inclusa la Crocifissione.
Per contro, il Quarto Vangelo dice relativamente poco della Galilea. Indugia ampiamente sugli eventi in Giudea e Gerusalemme,
che conclusero l'esistenza di Gesù, ed è possibile che il suo racconto della Crocifissione sia basato su una testimonianza diretta,
di prima mano. Inoltre, contiene un certo numero di episodi che non figurano negli altri Vangeli: le nozze di Cana, il ruolo di
Nicodemo e di Giuseppe d'Arimàtea, e la resurrezione di Lazzaro (benché questa, un tempo, fosse inclusa nel Vangelo di Marco).
In base a questi fattori, vari studiosi moderni hanno espresso l'opinione che il Vangelo di Giovanni, nonostante la composizione tarda,
possa essere il più attendibile e storicamente esatto tra i quattro. Più degli altri Vangeli, sembra attingere a tradizioni vive
tra i contemporanei di Gesù, e ad altro materiale sconosciuto a Marco, Luca e Matteo. Un ricercatore moderno fa notare che rispecchia
una conoscenza topografica apparentemente diretta di Gerusalemme, così com'era la città prima dell'insurrezione del 66 d.C.
E lo stesso autore conclude: « Alla base del Quarto Vangelo sta un'autentica tradizione, indipendente dagli altri Vangeli ».
II Vangelo di Giovanni, sebbene non aderisca alla struttura cronologica marciana e sia di data molto più tarda, sembra conoscere,
sul conto di Gesù, una tradizione che dev'essere primitiva e autentica ».
I Vangeli dicono che molti dei discepoli, ad esempio Pietro, erano sposati. Gesù non predicò mai il celibato e
non vi è neppure motivo di supporre che lo praticasse. Se Gesù non fosse stato sposato, questo fatto avrebbe suscitato un notevole
scalpore. Avrebbe attirato l'attenzione, e sarebbe stato usato per caratterizzarlo e identificarlo. Lo avrebbe distinto,
in modo significativo, dai suoi contemporanei. Se fosse stato così, sicuramente almeno uno dei Vangeli avrebbe fatto cenno a
una deviazione tanto netta dalla normale consuetudine. Se Gesù era davvero celibe come sostiene la tradizione successiva,
è straordinario che non vi siano accenni alla cosa. L'assenza di riferimenti in proposito indicherebbe che Gesù,
per quanto riguardava il celibato, seguisse le convenzioni dei suoi tempi e della sua cultura: indicherebbe, insomma, che era sposato.
Solo questo potrebbe spiegare in modo soddisfacente il silenzio dei Vangeli al riguardo.
Secondo il racconto del Quarto Vangelo, le nozze di Cana sembrerebbero una modesta cerimonia locale, un tipico matrimonio di paese,
e la sposa e lo sposo restano anonimi. A queste nozze Gesù è specificatamente « invitato », il che è un po' strano, forse, perché
non aveva ancora iniziato il suo magistero. Ancor più strano, è il fatto che c'era anche sua madre Maria.
È Maria che non soltanto suggerisce al figlio di provvedere ad altro vino ma praticamente glielo ordina.
Si comporta esattamente come se fosse la padrona di casa. Gesù compie il suo primo grande miracolo,
la trasmutazione dell'acqua in vino. A quanto ci fanno sapere i Vangeli, in precedenza non ha mai mostrato i suoi poteri;
e Maria non avrebbe neppure motivo di presumere che li possieda. Ma anche se lo sapesse, perché quei doni, unici e sacri,
dovrebbero venire usati per uno scopo tanto banale? Perché Maria dovrebbe rivolgere al figlio una richiesta del genere?
E soprattutto perché due « ospiti » invitati a un matrimonio dovrebbero assumersi la responsabilità di provvedere al necessario,
una responsabilità che per tradizione spetta ai padroni di casa? A meno che, naturalmente, le nozze di Cana siano le nozze di Gesù.
In tal caso, sarebbe stato suo compito fornire il vino.
Se Gesù era sposato, nei Vangeli c'è qualche indizio sull'identità della moglie? A un primo esame sembrerebbe che vi siano due
possibili candidate: le due donne che, oltre a sua madre, sono ricordate più volte nei Vangeli come appartenenti alla cerchia di Gesù.
La prima è la Maddalena o più esattamente Maria del villaggio di Migdal, o Magdala, in Gallica. In tutti i quattro Vangeli il ruolo
di questa donna è stranamente ambiguo, e ha tutta l'aria di essere stato volutamente oscurato.
Maddalena compare in Giudea, al momento della Crocifissione, e figura tra i seguaci di Gesù. Nel Vangelo di Luca, invece, appare
relativamente presto, quando questi sta ancora predicando in Galilea; quindi, sembra che lo accompagni
dalla Galilea alla Giudea, o che almeno si sposti da una provincia all'altra come fa Gesù. Già questo indica che la Maddalena
doveva essere sposata con qualcuno. Nella Palestina dei tempi di Gesù sarebbe stato impensabile che una donna non sposata
viaggiasse senza accompagnatori ufficiali, e soprattutto che viaggiasse insieme a un capo religioso e ai suoi seguaci.
Diverse tradizioni sembrano consapevoli di questa situazione potenzialmente imbarazzante. Perciò a volte viene detto che
la Maddalena era la moglie di uno dei discepoli di Gesù. Se era così, però, il suo speciale rapporto con Gesù li avrebbe esposti
entrambi a sospetti o persino ad accuse di adulterio. Nonostante la tradizione popolare, nessuno dei Vangeli dice che la Maddalena
sia una prostituta.
Maddalena, fu la prima a trovare la tomba vuota dopo la Crocifissione, tra tutti i suoi seguaci,
fu lei che Gesù prescelse per rivelare la propria Resurrezione.
In tutti i Vangeli, Gesù tratta la Maddalena in modo unico, preferenziale. È possibile che questo trattamento possa aver suscitato
l'invidia degli altri discepoli. Quale che sia la posizione della Maddalena nei Vangeli, non è la sola candidata possibile al ruolo di moglie di Gesù.
Ce n'è un'altra, che ha una parte di spicco nel Quarto Vangelo, e che può essere identificata come Maria di Betania, sorella di
Marta e di Lazzaro.
Quando, nel Quarto Vangelo, Lazzaro si ammala, Gesù ha lasciato Betania da qualche giorno e si trova in riva al Giordano
insieme ai discepoli. Quando viene informato dell'accaduto, indugia per due giorni - una reazione piuttosto curiosa -
e quindi torna a Betania, dove Lazzaro giace nella tomba.
Marta gli va incontro e grida: « Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! » (Giovanni 11:21).
È un'affermazione sconcertante: perché la presenza fisica di Gesù avrebbe necessariamente evitato la morte di Lazzaro?
Ma l'episodio è significativo perché Marta, quando va incontro a Gesù, è sola. Ci si aspetterebbe che sua sorella Maria vada con lei.
Invece Maria sta seduta in casa... e non esce fino a quando Gesù le ordina esplicitamente di farlo. Il particolare diviene più chiaro
nel Vangelo « segreto » di Marco, scoperto dal professor Morton Smith. Nel racconto soppresso,
sembrerebbe che Maria esca dalla casa prima che Gesù glielo comandi. E viene prontamente rimproverata dai discepoli, che Gesù è
costretto a far tacere.
Sarebbe piuttosto plausibile che Maria se ne resti seduta in casa quando Gesù giunge a Betania. Secondo la consuetudine ebraica,
doveva « sedere in Shiveh »: sedere in lutto. Ma perché non accompagna Marta, perché non si precipita incontro a Gesù che ritorna?
C'è una sola spiegazione ovvia. Secondo i dettami della legge ebraica di quel tempo, una donna che « sedeva in Shiveh » non poteva
uscire di casa se non per ordine espresso del marito. In questo episodio il comportamento di Gesù e di Maria di Betania corrisponde
in modo esatto al comportamento tradizionale di un Ebreo e di sua moglie.
Lazzaro non figura nei Vangeli di Luca, Matteo e Marco, anche se la sua « resurrezione dai morti » era contenuta in origine nel
testo marciano, e fu espunta in seguito. Perciò Lazzaro è conosciuto dai posteri solo tramite il Quarto Vangelo, il Vangelo di
Giovanni. Ma qui è chiaro che gode di un trattamento preferenziale, non circoscritto alla sua resurrezione. Sotto questo e molti
altri aspetti, Lazzaro sembra, se mai, più vicino a Gesù degli stessi discepoli. Eppure, piuttosto stranamente, i Vangeli non lo
enumerano neppure tra questi discepoli.
A differenza di costoro, Lazzaro viene minacciato. Secondo il Quarto Vangelo, i sommi sacerdoti, quando decidono di eliminare Gesù,
decidono di uccidere anche Lazzaro (Giovanni 12:10). Quindi Lazzaro, a quanto sembra, avrebbe operato in qualche modo nell'interesse
di Gesù, mentre non si può dire altrettanto di certi discepoli. In teoria, questo dovrebbe qualificarlo come discepolo; tuttavia,
non viene citato come tale. Non figura neppure presente alla Crocifissione: una dimostrazione d'ingratitudine apparentemente
vergognosa, da parte di un uomo che doveva la vita a Gesù nel senso più completo della parola. Certo, è possibile che si fosse
nascosto, dato il pericolo che lo minacciava. Ma è molto strano che nei Vangeli non si accenni più a lui. Sembra sparito,
e non viene più nominato.
L'autore del Vangelo di Giovanni - il Vangelo che narra l'episodio di Lazzaro - non si identifica mai come « Giovanni ».
Anzi, non dice mai il proprio nome. Tuttavia, allude a se stesso con un appellativo che lo distingue. Chiama costantemente se
stesso « il discepolo prediletto », « colui che Gesù amava » e fa capire in modo chiaro che gode di una posizione eccezionale,
privilegiata rispetto ai suoi compagni. All'Ultima Cena, ad esempio, mostra apertamente la sua personale vicinanza a Gesù; e a
lui solo Gesù confida come avverrà il tradimento:
Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola a fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse:
« Di chi è colui a cui si riferisce? » Ed egli reclinandosi sul petto di Gesù gli disse: « Signore, chi è? ». Rispose allora Gesù;
« È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò ». E intinto il boccone, lo prese e Io diede a Giuda Iscariota, figlio di
Simone (Giovanni 13: 23-6).
Chi è il « discepolo prediletto », sulla cui testimonianza si basa il Quarto Vangelo? Tutto indica che sia in effetti Lazzaro,
« colui che Gesù amava ». Sembrerebbe, quindi, che Lazzaro e il « discepolo prediletto » siano la stessa persona, e che Lazzaro
sia la vera identità di « Giovanni ».
Sulla croce, Gesù aveva già affidato la madre al « discepolo prediletto ». Se aveva moglie e figli, presumibilmente
anche loro sarebbero stati affidati allo stesso discepolo. E questo,
naturalmente, sarebbe stato ancora più plausibile se il « discepolo prediletto » di Gesù fosse stato suo cognato.
Secondo una tradizione molto più tarda, la madre di Gesù morì in esilio a Efeso, da dove giunse successivamente il Quarto Vangelo.
Nulla indica, tuttavia, che il « discepolo prediletto » si prendesse cura della madre di Gesù finché ella visse. Secondo
il professòr Schonfièld, il Quarto Vangelo probabilmente non fu composto a Efeso, ma solo rielaborato, riveduto e corretto da
un anziano greco di quella città che lo modificò in modo da adeguarlo alle proprie idee.
Se il « discepolo prediletto » non andò a Efeso, che ne fu di lui? Se era Lazzaro, è possibile rispondere alla domanda, perché
la tradizione è esplicita. Secondo la tradizione e secondo certi autori della Chiesa appartenenti al periodo protocristiano,
Lazzaro, là Maddalena, Marta, Giuseppe d'Arimatea e alcuni altri giunsero per nave a Marsiglia. Lì Giuseppe sarebbe stato consacrato
da san Filippo e inviato in Inghilterra, dove avrebbe fondato una chiesa a Glastonbury. Tuttavìa, Lazzaro e la Maddalena sarebbero
rimasti in Gallia. La tradizione vuole che la Maddalena morisse ad Aix-en-Provence o a Saint Baume, e Lazzaro a Marsiglia,
dopo avervi fondato la prima diocesi. Uno dei loro compagni, san Massimiliano, avrebbe fondato invece la prima diocesi di Narbona.
Se Lazzaro e il « discepolo prediletto » erano una sola persona, vi sarebbe una spiegazione per la loro duplice scomparsa. Lazzaro,
il vero « discepolo prediletto » avrebbe preso terra a Marsiglia, insieme alla sorella che, come afferma la tradizione successiva,
portava con sé il Santo Graal, il « sangue reale ». E le disposizioni per la fuga e l'esilio sembrerebbero organizzate dallo stesso
Gesù, insieme al « discepolo prediletto », al termine del Quarto Vangelo.
Innanzitutto, non è sicuramente certo che Gesù fosse di Nazareth. « Gesù di Nazareth » è infatti una forma corrotta o una traduzione
errata di « Gesù il Nazorita », « Gesù il Nazireo » o forse « Gesù di Genesareth ». In secondo luogo, è molto dubbio che il
villaggio di Nazareth esistesse ai tempi di Gesù. Non figura nelle mappe e nei documenti romani. Non è menzionato nel Talmud.
Non è menzionato, e tanto meno è associato a Gesù, negli scritti di San Paolo che dopotutto furono composti prima dei Vangeli.
E Giuseppe Flavio, il più importante cronista di quel periodo, che comandò contingenti di truppe in Galilea ed elencò i centri
della provincia, non parla di Nazareth. Sembra, quindi, che Nazareth abbia incominciato a esistere dopo l'insurrezione del
68-74 d.C., e che il nome di Gesù vi sia stato associato in seguito alla confusione semantica, casuale o voluta, che caratterizza
gran parte del Nuovo Testamento.
Indipendentemente dal fatto che fosse o no « di Nazareth », niente indica che Gesù fosse « un povero falegname ».
Non è certo così che ce lo presentano i Vangeli. Anzi, la loro testimonianza fa pensare il contrario. Gesù ci appare istruito;
si direbbe che abbia studiato per diventare rabbi, e che abbia frequentato personaggi ricchi e influenti non meno della povera
gente: basta ricordare ad esempio Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo. E le nozze di Cana sembrano confermare la posizione sociale di
Gesù.
Le nozze non appaiono affatto come una festa umile e modesta di« gente comune ». Al contrario, presentano tutte le caratteristiche
di un sontuoso matrimonio aristocratico in grande stile, al quale sono invitati ospiti a centinaia. Ad esempio, vi sono molti
servitori che si affrettano ad obbedire a Maria e a Gesù. C'è un « maestro di tavola » o « maestro di cerimonia », che nel
contesto sarebbe stato una specie di sovrintendente o capo maggiordomo o forse addirittura un aristocratico. Chiaramente, il vino
scorre a fiumi. Quando Gesù « trasmuta » l'acqua in vino, produce - secondo la « Bibbia della Buona Novella » — non meno di
seicento litri, più di ottocento bottiglie! E questo va ad aggiungersi a tutto il vino che è già stato bevuto.
Tutto considerato, le nozze di Cana appaiono come una sontuosa cerimonia della piccola nobiltà o dell'aristocrazia.
Anche se non furono le nozze di Gesù, la sua presenza e quella di sua madre , indicherebbero che appartenevano alla stessa casta.
Soltanto questo può spiegare perché i servi obbediscono ai loro ordini.
Se Gesù era aristocratico e se era sposato con la Maddalena, è probabile che anche lei fosse di elevata estrazione sociale.
E infatti sembra esserlo. Come abbiamo visto, tra le sue amiche figurava la moglie di un alto funzionario della corte di Erode.
Ma è possibile che la Maddalena fosse ancora più importante.
Secondo tutte le genealogie del Nuovo Testamento, Gesù era discendente di Davide, e quindi apparteneva anch'egli alla tribù di
Giuda. Agli occhi dei Beniaminiti ciò poteva fare di lui, almeno in i un certo senso, un usurpatore. Ma queste obiezioni
sarebbero state superate se avesse sposato una donna beniaminita. Il matrimonio sarebbe stato un'importante alleanza dinastica,
ricca di, conseguenze politiche. Non avrebbe soltanto dato a Israele un potente re-sacerdote; avrebbe avuto anche la funzione
simbolica i di restituire Gerusalemme ai legittimi proprietari. Quindi avrebbe contribuito a incoraggiare l'unità e l'appoggio del
popolo, e a consolidare le pretese al trono di Gesù.
Il Nuovo Testamento non dice a quale tribù appartenesse la Maddalena. Nelle leggende più tarde, però, viene detto che è di
stirpe reale. E altre tradizioni affermano che apparteneva alla tribù di Beniamino.
A questo punto incominciava a diventare visibile l'abbozzo di uno « scenario » storico coerente.
Gesù sarebbe stato un re-sacerdote della stirpe di Davide, legittimo pretendente al trono.
Avrebbe consolidato la sua posizione con un matrimonio dinastico simbolicamente importante. Poi si sarebbe accìnto a unificare
il suo paese, mobilitare la popolazione, scacciare gli oppressori, deporre l'abbietto sovrano fantoccio e restaurare la gloria
della monarchia, com'era stata al tempo di Salomone. E un tale uomo sarebbe stato veramente « Re dei Giudei ».
I Vangeli furono composti durante e dopo l'insurrezione del 68-74 d.C., quando il giudaismo aveva finito di esistere come una
forza sociale, politica e militare organizzata. E soprattutto, i Vangeli furono composti per un pubblico greco-romano, e dovevano
risultare accettabili. Roma aveva appena finito di combattere contro gli Ebrei una guerra feroce e dispendiosa. Quindi era del
tutto naturale presentare i Giudei come malvagi. Inoltre, dopo la rivolta giudaica, Gesù non poteva venire dipinto come un
personaggio politico, legato in un modo o nell'altro alle inquietudini che sfociarono nella guerra. Infine, la parte avuta dai
Romani nel processo e nell'esecuzione di Gesù doveva essere riveduta e corretta e presentata nel miglior modo possibile.
Perciò nei Vangeli, Pilato figura come un uomo onesto, serio e tollerante, che consente con grande riluttanza alla Crocifissione.
Ma nonostante questa libertà che gli evangelisti si presero con la storia, si può ricostruire quale fu la vera posizione dì Roma
nella vicenda.
Secondo i Vangeli, Gesù viene inizialmente condannato dal sinedrio, il consiglio degli anziani giudei, i quali lo portano davanti
a Pilato e chiedono al governatore di pronunciarsi contro di lui. Da un punto di vista storico, questo non ha senso.
Nei tre Vangeli Sinottici, Gesù viene arrestato e condannato dal sinedrio la notte di Pasqua. Ma secondo la legge giudaica,
il sinedrio non poteva riunirsi per Pasqua. " Nei Vangeli l'arresto di Gesù e il suo processo davanti al sinedrio hanno luogo
di notte. Secondo la legge giudaica, il sinedrio non poteva riunirsi di notte, in case private o i in qualunque luogo che non
fosse all'interno del recinto del Tempio. Nei Vangeli, il sinedrio sembra non avere l'autorità di pronunciare una condanna a morte
e sarebbe per questa ragione che Gesù viene condotto davanti a Pilato. Ma il sinedrio aveva l'autorità di emettere condanne a morte:
per lapidazione, se non per crocifissione. Perciò, se il sinedrio avesse voluto eliminare Gesù, avrebbe avuto l'autorità di
condannarlo alla lapidazione. L'intervento di Pilato non sarebbe stato necessario.
Gli autori dei Vangeli compiono altri numerosi tentativi per scagionare Roma da ogni responsabilità. Uno è rappresentato
dall'offerta di grazia fatta da Pilato, il quale si dichiara disposto a liberare un prigioniero a scelta della folla.
Secondo i Vangeli di Marco e Matteo, questa era « un'usanza della festa di Pasqua ». In realtà, tale consuetudine non esisteva.
Gli autori moderni concordano che i Romani non adottarono mai tale polìtica, e che l'offerta di liberare Gesù o Barabba è
un'invenzione. Anche la riluttanza di Pilato di fronte alla prospettiva di condannare Gesù, e la sua irritata rassegnazione
alla pressione della folla sembrano altrettanto fittizie. In realtà, sarebbe stato impensabile che un governatore romano,
per giunta implacabile come Pilato, si piegasse al volere della folla. Lo scopo di queste alterazioni è piuttosto chiaro:
scagionare i Romani, attribuire tutta la colpa agli Ebrei e rendere così Gesù accettabile a un pubblico romano.
Se si considera il ritratto che danno di lui i Vangeli, è inspiegabile che Gesù venisse crocifisso. Secondo i Vangeli,
i suoi nemici erano in certi ambienti giudaici di Gerusalemme. Ma questi nemici, se esistevano veramente, avrebbero potuto
lapidarlo di loro iniziativa e in nome della loro autorità, senza coinvolgere Roma nella questione. Secondo i Vangeli,
Gesù non aveva nessun motivo di dissidio con Roma, e non violava la legge romana. Tuttavia venne punito dai Romani,
secondo la legge e le procedure romane. Fu crocifisso: una pena riservata esclusivamente a coloro che erano colpevoli
di delitti contro l'impero. Se Gesù fu davvero crocifisso, non poteva essere apolitico come lo rappresentano i Vangeli.
Al contrario, doveva necessariamente aver fatto qualcosa per attirarsi la collera dei Romani.
Quali che fossero ie imputazioni per le quali fu crocifisso Gesù, la sua apparente morte sulla croce è piena d'incongruenze.
Molto semplicemente, non c'è ragione perché la sua Crocifissione, come la raccontano i Vangeli, dovesse essere fatale.
Presso i Romani, vigeva una procedura molto precisa per la Crocifissione. Dopo la sentenza, il condannato veniva flagellato,
e di conseguenza la perdita di sangue l'indeboliva. Poi le sue braccia venivano fissate, di solito per mezzo di cinghie,
ma qualche volta con i chiodi, a una pesante trave lignea caricata sulle spalle. Portando la trave, veniva condotto sul luogo
dell'esecuzione. Lì la trave, con il condannato appeso, veniva sollevata e fissata a un palo verticale. Il condannato,
appeso per le mani, non avrebbe potuto respirare, a meno che anche i piedi fossero fissati alla croce. Questo gli avrebbe
permesso di esercitare una pressione sui piedi, alleviando quella sul torace. Ma nonostante la sofferenza, un uomo così
appeso con i piedi fissati - soprattutto se era sano e robusto - di solito sopravviveva almeno per un giorno o due.
Qualche volta, anzi, ci metteva una settimana a morire: di sfinimento, di sete o, se venivano usati i chiodi, di setticemia.
A questa sofferenza prolungata si poteva mettere fine più rapidamente spezzando le gambe o le ginocchia del condannato:
ed è quanto stanno per fare nei Vangeli i carnefici di Gesù, prima di venire trattenuti. Spezzare le gambe o le ginocchia
non era un tormento in più, aggiunto per sadismo. Al contrario era un atto di misericordia, un colpo di grazia che causava
una morte molto rapida. Quando non c'era più nulla che lo sostenesse, la pressione sul torace del condannato diventava
intollerabile, ed egli moriva rapidamente per asfissia.
Gli studiosi moderni concordano nel ritenere che solo il Quarto Vangelo sia basato su un racconto della Crocifissione fatto da un
testimone oculare. Secondo il Quarto Vangelo, i piedi dì Gesù furono fissati alla croce, alleviando così la pressione sui muscoli
pettorali; e le sue gambe non furono spezzate. Quindi, almeno in teoria, avrebbe dovuto sopravvivere per due o tre giorni.
Tuttavia, Gesù è sulla croce da poche ore soltanto quando viene dichiarato morto. Nel Vangelo di Marco, lo stesso Pilato
si stupisce della rapidità con cui sopravviene la morte (Marco 15:44).
Quale può essere stata la causa della morte? Non il colpo di lancia nel costato, poiché il Quarto Vangelo afferma che Gesù era
già morto quando gli fu inferta la ferita (Giovanni 19:33). C'è una sola spiegazione: l'assommarsi dello sfinimento,
della stanchezza, della debilitazione generale e del trauma della flagellazione. Ma neppure questi fattori avrebbero dovuto essere
fatali tanto in fretta. Naturalmente, è possibile che lo fossero; nonostante le leggi fisiologiche, qualche volta un uomo muore
per un solo colpo, relativamente innocuo. Tuttavia, l'intera vicenda continua ad apparire sospetta. Secondo il Quarto Vangelo,
i carnefici di Gesù si accingono a spezzargli le gambe per affrettare la morte. Perché farlo, se era già moribondo? ìnsomma,
non avrebbe avuto senso spezzare le gambe di Gesù, a meno che la sua morte non fosse apparsa tutt'altro che imminente.
Nei Vangeli, la morte di Gesù sopravviene in un momento quasi troppo opportuno. Avviene giusto in tempo per evitare che i
carnefici gli spezzino le gambe. E così si può realizzare una profezia dell'Antico Testamento. Gli studiosi moderni ammettono
che Gesù modellò senza troppe remore le propria vita su quelle profezie che annunciavano la venuta di un Messia. Fu per questa
ragione che gli sembrò necessario procurarsi un asino a Betania per fare il suo ingresso trionfale a Gerusalemme. E anche i
dettagli della Crocifissione sono congegnati in modo da realizzare le profezie dell'Antico Testamento.
ìnsomma, l'apparente e opportuna « morte » di Gesù - che lo salva appena in tempo da una fine certa e gli permette di realizzare
una profezia è a dir poco sospetta. È troppo perfetta, troppo precisa per essere una coincidenza. Può trattarsi di
un'interpolazione successiva, a posteriori; oppure doveva far parte di un piano meticolosamente preparato. Vi sono molti altri
indizi che fanno pensare a quest'ultima possibilità.
Nel Quarto Vangelo Gesù, appeso alla croce, dice di aver sete. Gli viene allora offerta una spugna che, è detto, era stata
intrisa d'aceto: e questo episodio compare anche negli altri Vangeli. In generale, la spugna viene interpretata come un altro
gesto di sadica irrisione. Ma lo era veramente? L'aceto o il vino inacidito, è uno stimolante, e ha effetti non dissimili
da quelli dei sali da fiuto. A quel tempo veniva usato per rianimare gli schiavi infiacchiti a bordo delle galere.
In un uomo ferito ed esausto, l'aceto fiutato o bevuto causerebbe una temporanea ripresa dell'energia. Invece, nel caso di Gesù,
l'effetto è esattamente il contrario. Appena aspira o assorbe il contenuto della spugna, pronuncia le sue ultime parole e
« rende lo spirito ». Una simile reazione causata dall'aceto è fisiologicamente inspiegabile. D'altra parte, sarebbe perfettamente
comprensibile se la spugna fosse stata imbevuta di un soporifero, ad esempio un composto di oppio o di belladonna, sostanze
usate comunemente a quel tempo in Medio Oriente. Ma perché dare a Gesù un soporifero? A meno che l'azione, come tutti gli
altri fattori della Crocifissione, facesse parte di uno stratagemma complesso e ingegnoso, uno stratagemma ideato per causare
una morte apparente quando il condannato, in effetti, era ancora vivo. Lo stratagemma avrebbe non soltanto salvato la vita di Gesù,
ma avrebbe anche realizzato le profezie dell'Antico Testamento riguardanti il Messia.
La Crocifissione presenta altri aspetti anomali che fanno pensare appunto a uno stratagemma del genere. Secondo i Vangeli,
Gesù viene crocifisso in un luogo chiamato Golgota, « il luogo del teschio ». La tradizione più tarda tenta di identificare
il Golgota con una collina spoglia, più o meno a forma di teschio, situata a nord-ovest di Gerusalemme. Tuttavia i Vangeli
chiariscono che il luogo della Crocifissione era molto diverso da una collina a forma dì teschio. Il Quarto Vangelo è il più
esplicito: « Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno
era stato ancora deposto » (Giovanni 19:41). Gesù, dunque, non fu crocifìsso su una collina spoglia a forma di teschio e neppure
in un luogo riservato alle esecuzioni pubbliche. Fu crocifìsso in un giardino dove c'era una tomba privata, o nelle immediate
vicinanze. Secondo Matteo (27:60), la tomba e il giardino erano proprietà di Giuseppe d'Arimatea, che secondo tutti i quattro
Vangeli, era un ricco seguace segreto di Gesù.
La tradizione popolare raffigura la Crocifissione come un evento pubblico, al quale assistettero migliala di persone.
Eppure i Vangeli indicano circostanze ben diverse. Secondo Matteo, Marco e Luca, quasi tutti i presenti, incluse le donne,
« assistevano da lontano » alla Crocifissione (Luca 23:49). Sembrerebbe quindi evidente che la morte di Gesù non fu un
avvenimento pubblico, bensì una crocifissione privata eseguita in una proprietà privata. Molti studiosi moderni sostengono che
il luogo era probabilmente l'Orto di Getsemani. Se Getsemani era proprietà di uno dei discepoli segreti di Gesù, questo
spiegherebbe perché Gesù, prima della Crocifissione, potesse servirsene liberamente.
È superfluo aggiungere che una crocifissione privata in una proprietà privata lascia considerevole spazio a un eventuale inganno:
una falsa crocifissione, un rito abilmente inscenato. I testimoni oculari sarebbero stati pochi. Per il popolo, il dramma, come
confermano i Vangeli Sinottici, sarebbe stato visibile solo da una certa distanza e quindi non sarebbe stato possibile accertare
che veniva crocifisso veramente. O se veramente era morto.
Un inganno del genere, ovviamente, avrebbe richiesto la connivenza dì Ponzio Pilato o di un personaggio importante
dell'amministrazione romana. E in effetti, è molto probabile che la connivenza ci fosse. Certo, Pilato era un individuo crudele
e tirannico. Ma era anche corrotto e corruttibile. Il Pilato storico, ben diverso da come lo presentano i Vangeli, non avrebbe
rifiutato di risparmiare la vita di Gesù, in cambio di una lauta somma e magari della garanzia che non vi sarebbero state altre
agitazioni politiche.
Quale che fosse il suo movente, non c'è comunque dubbio che Pilato fosse profondamente coinvolto nella faccenda. Riconosce la
pretesa di Gesù al titolo di Re dei Giudei. Esprime stupore, vero o finto, perché Gesù muore tanto presto. E c'è un fattore che
forse è il più importante di tutti: permette a Giuseppe d'Arimatea di portar via il corpo di Gesù.
Secondo la legge romana di quei tempi, a un uomo crocifisso veniva negata la sepoltura. Anzi, di solito venivano messi uomini
di guardia per impedire che parenti o amici portassero via i cadaveri. La vittima era lasciata sulla croce, abbandonata agli
elementi, ai corvi e agli avvoltoi. Eppure Pilato, violando clamorosamente la procedura, concede subito a Giuseppe d'Arimatea di
portar il corpo di Gesù. Questo attesta un'evidente complicità da parte di Pilato.
Vi sono ben poche notizie su Giuseppe d'Arimatea. I Vangeli riferiscono soltanto che era segretamente discepolo di Gesù,
aveva grandi ricchezze e faceva parte del sinedrio, il consiglio degli anziani che governava la comunità di Gerusalemme
sotto gli auspici dei Romani. Sembrerebbe quindi evidente che Giuseppe avesse una notevole influenza. E questa conclusione
riceve conferma dalle sue trattative con Pilato, e dal fatto che sia proprietario di un appezzamento di terreno con una tomba
privata. La tradizione medievale presenta Giuseppe d'Arimatea come i un custode del Santo Graal; e viene detto che Perceval
è suo discendente. Secondo altre tradizioni più tarde, è in qualche modo relato al sangue di Gesù e alla famiglia di Gesù.
Se era davvero così, questo gli avrebbe almeno dato una ragione plausibile per chiedere il corpo di Gesù; infatti,
se ben difficilmente Pilato avrebbe concesso a uno sconosciuto di portar via il cadavere di un criminale giustiziato,
avrebbe potuto invece, in cambio di una somma cospicua, concederlo a un parente del morto. Se Giuseppe, ricco e influente membro
del sinedrio, era parente di Gesù, questo conferma di nuovo l'appartenenza di Gesù a una stirpe aristocratica.
Appariva sempre più chiaro che Gesù era un re-sacerdote, un aristocratico, legittimo pretendente al trono, e aveva intrapreso
un tentativo di riconquistare l'eredità che gli spettava. Era nato in Galilea, tradizionale fucina d'opposizione alla dominazione
romana. Nel contempo, aveva avuto numerosi sostenitori nobili, ricchi e influenti in tutta la Palestina, inclusa la capitale,
Gerusalemme; e uno di questi sostenitori, un potente membro del sinedrio, poteva essere addirittura suo parente. Inoltre a Befania,
un sobborgo di Gerusalemme, c'era la casa di sua moglie o dei familiari di sua moglie; e lì risiedeva l'aspirante re-sacerdote
alla vigilia del suo ingresso trionfale nella capitale. Lì aveva creato il centro del suo culto misterico. Lì aveva accresciuto
il numero dei suoi seguaci eseguendo iniziazioni rituali, inclusa quella del cognato.
Un aspirante re-sacerdote avrebbe logicamente suscitato una forte opposizione in certi ambienti: inevitabilmente tra i Romani
dominatori e forse anche tra certi gruppi giudaici, ad esempio di sadducei. L'uno o l'altro di questi schieramenti, o forse
entrambi riuscirono a sventare la sua azione per arrivare al trono. Ma il tentativo di eliminarlo non riuscì come avevano sperato.
Infatti, a quanto sembra, il re-sacerdote aveva amici altolocati i quali, in collusione con un corrotto e corruttibile governatore
romano, avrebbero inscenato una falsa crocifissione su un terreno privato, accessibile solo a pochi eletti. Poi, con il popolo
tenuto a debita distanza, fu inscenata l'esecuzione, nella quale un sostituto prese il posto del re-sacerdote sulla croce,
o in cui lo stesso re-sacerdote non morì veramente. Verso il cader della notte, quando la visibilità era ancora più scarsa, un
« corpo » fu trasportato in una tomba opportunamente vicina, dalla quale, dopo un giorno o due, scomparve « miracolosamente ».
Se il nostro « scenario » era esatto, dove andò poi Gesù? Per quanto riguardava l'ipotesi della sua stirpe, la risposta a questo
interrogativo non aveva particolare importanza. Secondo certe leggende islamiche e indiane. Gesù morì vecchio, in Oriente:
nel Kashmir, come è affermato più spesso. D'altra parte, un giornalista australiano ha avanzato l'ipotesi affascinante e
persuasiva che Gesù morisse a Masada quando la fortezza fu espugnata dai Romani nel 74 d. C., quando ormai doveva avvicinarsi agli
ottant'anni.»
il Nuovo Testamento offre di Gesù e del suo tempo un quadro che si adegua alle esigenze di certi interessi,
di certi gruppi e individui che avevano in gioco, e hanno ancora oggi, una posta importante. E tutto ciò che potrebbe
compromettere questi interessi - come ad esempio il Vangelo « segreto » di Marco - è stato diligentemente espunto.
Anzi, è stato eliminato tanto materiale che si è formata una specie di vuoto. In questo vuoto, la speculazione diventa
giustificata e necessaria.
Come si può reclutare un seguito numeroso? Ovviamente, promulgando un messaggio ideato apposta per assicurarsi appoggio e
devozione. Non era necessario che fosse un messaggio cinico quanto quelli della politica moderna. Al contrario, potrebbe essere
stato diffuso in completa buona fede, con un ardente, nobile idealismo. Ma nonostante il suo carattere nettamente religioso,
l'obiettivo primario sarebbe stato lo stesso dei messaggi della politica moderna: assicurarsi l'adesione del popolo.
Gesù promulgò un messaggio che cercava di fare proprio questo: offrire speranza agli angariati, agli afflitti, agli oppressi.
Insomma, era un messaggio che conteneva una promessa. Se il lettore moderno supera pregiudizi e preconcetti, scoprirà un
meccanismo straordinariamente affine a quello che si può vedere dovunque nel mondo di oggi. Un meccanismo per mezzo del quale il
popolo viene unito in nome di una causa comune, e trasformato in uno strumento per rovesciare un regime dispotico.
L'importante, è che il messaggio di Gesù era sia etico che politico. Era rivolto a una certa parte della popolazione, secondo
precise considerazioni politiche. Perché solo tra gli oppressi, gli angariati e gli afflitti Gesù poteva sperare di reclutare
un seguito consistente. I sadducei, che si erano accordati con i Romani invasori, come tutti i sadducei della storia non avrebbero
voluto saperne di rinunciare a ciò che possedevano, o di mettere a repentaglio la loro sicurezza e la loro stabilità.
Il messaggio di Gesù, quale appare nei Vangeli, non è interamente nuovo né unico. È probabile che Gesù fosse un fariseo,
e i suoi insegnamenti contengono numerosi elementi della dottrina farisaica. Come attestano i Rotoli del Mar Morto, contengono
anche diversi aspetti importanti del pensiero degli esseni. Ma se il messaggio in se stesso non era del tutto originale, lo era
probabilmente il modo di trasmetterlo. Gesù era senza dubbio un personaggio dotato di uno straordinario carisma.
Forse possedeva facoltà di guaritore e aveva il dono di compiere altri « miracoli ». Senza dubbio, aveva la dote di comunicare
le sue idee per mezzo di parabole vivide e suggestive, che non richiedevano una preparazione raffinata da parte del pubblico
ed erano comprensibili a tutta ila popolazione. Inoltre, a differenza dei suoi precursori esseni, Gesù non doveva limitarsi a
predire l'avvento di un Messia. Poteva affermare di essere il Messia. E naturalmente questo avrebbe conferito alle sue parole
un'autorità e una credibilità assai più grandi.
È chiaro che, al tempo del suo ingresso trionfale in Gerusalemme, Gesù aveva reclutato un seguito importante. Ma questo seguito
doveva essere composto da due elementi distinti, i cui interessi non coincidevano. Da una parte doveva esserci un piccolo
nucleo di « iniziati »: i familiari, altri nobili, sostenitori ricchi e influenti, il cui scopo primario era vedere il loro
candidato insediato sul trono. Dall'altra doveva esserci un seguito assai più numeroso di « gente comune », i « soldati
semplici » del movimento, il cui obiettivo primario era veder realizzato il messaggio, e la promessa che questo conteneva.
È importante riconoscere la distinzione tra queste due fazioni. Il loro obiettivo politico — porre Gesù sul trono - sarebbe stato
identico. Ma sarebbero state sostanzialmente diverse le loro motivazioni.
Quando l'impresa fallì, come appare evidente, la delicata alleanza tra le due fazioni « seguaci del messaggio » e i seguaci
della famiglia - a quanto sembra si sfasciò. Di fronte alla sconfitta e alla minaccia incombente di annientamento,
la famiglia avrebbe dato la precedenza al fattore che, da tempo immemorabile, è sempre stato d'importanza suprema per le famiglie
nobili e reali: preservare a ogni costo la stirpe, se necessario anche in esilio. Ma per i « seguaci del messaggio », il futuro
della famiglia sarebbe divenuto trascurabile. Per loro, la sopravvivenza della stirpe avrebbe avuto un interesse secondario.
Il loro obiettivo principale sarebbe stato perpetuare e diffondere il messaggio.
Il cristianesimo, come si è evoluto nei primi secoli per giungere fino a noi, è un prodotto dei « seguaci del messaggio ».
La sua, diffusione e il suo sviluppo sono stati esplorati e seguiti fin troppo ampiamente da altri studiosi per richiedere in
questa sede un'attenzione particolare. Basti dire che, con san Paolo, « il messaggio » aveva già incominciato
ad assumere una forma cristallizzata e definitiva; e questa forma divenne la base sulla quale fu eretto l'intero edificio teologico
del cristianesimo. Già al tempo in cui furono composti i Vangeli, i princìpi fondamentali della nuova religione erano
virtualmente completi.
La nuova religione si rivolgeva soprattutto a un pubblico romano o romanizzato. Quindi la parte avuta da Roma nella morte di
Gesù venne necessariamente insabbiata, e la colpa fu scaricata sui Giudei. Ma questa non fu la sola libertà che ci si prese nei
confronti degli eventi, per renderli accettabili al mondo romano. Infatti, il mondo romano era abituato a divinizzare i suoi
sovrani, e Cesare era già stato ufficialmente riconosciuto dio. Per fargli concorrenza, Gesù - che in precedenza nessuno aveva
considerato divino doveva essere ugualmente deificato. E lo fu, a opera di Paolo.
Prima che fosse possibile diffonderla con successo, dalla Palestina alla Siria, l'Asia Minore, la Grecia, l'Egitto, Roma e
l'Europa occidentale, la nuova religione doveva essere resa accettabile ai popoli dì quei tenitori. E doveva reggere il confronto
con le fedi già consolidate. Il nuovo dio, insomma, doveva essere, in quanto a potere, maestà e miracoli, all'altezza degli dei
che doveva soppiantare. Se Gesù doveva far presa sul mondo romanizzato del suo tempo, doveva necessariamente diventare un dio in
piena regola. Non un Messia nel vecchio senso della parola, non un re-sacerdote, ma Dio incarnato che, come i suoi equivalenti
siriani, fenici, egizi e classici, era passato attraverso gli inferi ed era risorto, ringiovanito, con la primavera.
Fu a questo punto che l'idea della Resurrezione assunse per la prima volta la sua importanza cruciale, e per una ragione ovvia:
per porre Gesù sullo stesso piano di Tammuz, Adone, Atti, Osiride e tutti gli altri dèi morti e risorti, che predominavano nel
mondo di quel tempo. Esattamente per la stessa ragione fu promulgala la dottrina della verginità della madre di Gesù.
E la festa di Pasqua, la festa della morte e della resurrezione, venne fatta coincidere con i riti primaverili di altri culti e
di altre scuole misteriche contemporanee.
Data la necessità di diffondere il mito di un dio, la famiglia del « dio » e i fattori politici e dinastici della sua storia
sarebbero diventati superflui. Legati com'erano a un periodo e a un luogo precisi, avrebbero sminuito il suo carattere universale.
Quindi per confermare questa universalità, tutti gli elementi politici e dinastici furono rigorosamente eliminati dalla biografia
di Gesù. E così pure vennero rimossi tutti i riferimenti agli zeloti e agli esseni.
Sarebbero stati imbarazzanti, a dir poco. Non sarebbe apparso confacente a un dio il suo coinvolgimento in una cospirazione
politica e dinastica complessa e in fondo effìmera, che per giunta era fallita. Alla fine rimase soltanto quanto era contenuto
nei Vangeli: un racconto di austera, mitica semplicità, ambientato incidentalmente nella Palestina del I secolo occupata dai Romani,
ma sostanzialmente nel presente eterno di tutti i miti.
Mentre « il messaggio » si sviluppava in questo modo, la famiglia e i suoi sostenitori, a quanto sembra, non stavano in ozio.
Giulio Africano, che scrive nel III secolo, riferisce che i parenti superstiti di Gesù accusavano sdegnosamente i sovrani della
casa di Erode di distruggere le genealogie dei nobili giudei, eliminando così tutto ciò che poteva servire a contestare il loro
diritto al trono. E gli stessi parenti erano « emigrati del mondo », portando con loro certe genealogie sfuggite alla distruzione
dei documenti durante la ribellione del 66-74 d.C.
Per i propagatori del nuovo mito, l'esistenza di questa famiglia dovette diventare ben presto assai più di un dettaglio
trascurabile. Dovette diventare un fattore potenzialmente imbarazzante di proporzioni enormi. Infatti la famiglia - che poteva
testimoniare di prima mano ciò che era accaduto storicamente - avrebbe costituito una pericolosa minaccia per il mito. Anzi,
in base alla sua conoscenza diretta, la famiglia avrebbe potuto distruggere il mito nel modo più completo. Quindi nei primi tempi
del cristianesimo ogni menzione di una famiglia nobile o reale, di una stirpe, di ambizioni politiche e dinastiche avrebbe dovuto
venire soppressa. E, poiché è doveroso riconoscere la cinica realtà della situazione, la famiglia stessa, che poteva tradire la
nuova religione, avrebbe dovuto essere sterminata, se fosse stato possibile. Ecco quindi la necessità della massima segretezza da
parte della famiglia. Ecco quindi l'intolleranza dei primi padri della Chiesa nei confronti di ogni deviazione dall'ortodossia che
si sforzavano di imporre. Ecco quindi, forse, anche una delle origini dell'antisemitismo. Infatti i « seguaci del messaggio »,
i propagatori del mito, avrebbero realizzato un duplice scopo incriminando gli Ebrei e scagionando i Romani.
Non soltanto avrebbero reso accettabili il mito e il « messaggio » al pubblico romano; avrebbero anche impugnato la credibilità
della famiglia, perché la famiglia era ebrea. E il sentimento antisemita che suscitarono avrebbe favorito ancor più i loro
obiettivi. Se la famiglia aveva trovato rifugio presso una comunità ebraica entro i confini dell'impero, la persecuzione popolare
avrebbe potuto ridurre al silenzio quei testimoni scomodi.
Accattivandosi il pubblico romano, deificando Gesù e presentando gli Ebrei come responsabili della sua morte, si aveva così la
certezza del successo di quella che in seguito divenne l'ortodossia cristiana. La posizione di questa ortodossia cominciò a
consolidarsi definitivamente nel II secolo, soprattutto per merito di Ireneo, vescovo di Lione intorno al 180 .d.C.
Probabilmente più di ogni altro padre della Chiesa, Ireneo riusci a dare alla teologia cristiana una forma stabile e coerente.
E vi riuscì soprattutto per mezzo di un'opera voluminosa, Libros quinque adversus haereses (Cinque libri contro le eresie).
In questo scritto meticoloso, Ireneo catalogò tutte le deviazioni dall'ortodossia che stava allora prendendo forma, e le condannò
con veemenza. Deplorò ogni diversità, e sostenne che poteva esservi una sola chiesa valida, al di fuori della quale non c'era
salvezza. Chiunque sfidava questa asserzione, dichiarò Ireneo, era un eretico, e doveva essere espulso e se possibile eliminato.
Tra le numerose forme del protocristianesimo, fu lo gnosticismo a incorrere nell'ira più accanita di Ireneo.
Lo gnosticismo si basava sull'esperienza personale, sull'unione personale con il divino. Per Ireneo, naturalmente, questo
minava alla base l'autorità dei preti e dei vescovi, e quindi ostacolava il tentativo di imporre l'uniformità.
Perciò egli s'impegnò energicamente per sopprimere lo gnosticismo. Per riuscire, si doveva scoraggiare la speculazione individuale
e promuovere una fede indiscussa nel dogma. Era necessario un sistema teologico, una struttura di dottrine codificate che non
consentissero l'interpretazione individuale. In contrapposizione all'esperienza personale e alla gnosi [conoscenza],
Ireneo propugnava una sola Chiesa « cattolica » (cioè universale) basata sulla successione apostolica.
E per realizzare la creazione di questa Chiesa, Ireneo riconosceva la necessità di un canone definitivo,
un elenco fisso di scritti autorevoli. Perciò compilò questo canone definitivo, setacciando le opere disponibili,
includendone alcune ed escludendone altre. Ireneo è il primo autore il cui canone del Nuovo Testamento è sostanzialmente
conforme a quello attuale.
Naturalmente queste misure non impedirono che le eresie si diffondessero. Al contrario, continuarono a fiorire.
Ma con Ireneo l'ortodossia, il tipo di cristianesimo promulgato dai « seguaci del messaggio », assunse una forma coerente che
le assicurò la sopravvivenza e il trionfo finale. Non è irragionevole affermare che Ireneo spianò la strada a ciò che avvenne
durante e subito dopo il regno di Costantino, sotto i cui auspici l'Impero romano divenne, in un certo senso, impero cristiano.
Il ruolo di Costantino nella storia e nello sviluppo del cristianesimo è stato falsificato e frainteso. La spuria
« Donazione di Costantino », dell'VIII secolo, servì a confondere ancora di più gli autori del periodo successivo.
Comunque, viene spesso attribuita a Costantino la vittoria decisiva dei « seguaci del messaggio » - e non del tutto a torto.
Secondo la successiva tradizione della Chiesa, Costantino aveva ereditato dal padre una certa simpatia per il cristianesimo.
In effetti, questa simpatia sembra fosse dovuta soprattutto a considerazioni pratiche, perché i cristiani erano ormai numerosi,
e Costantino aveva bisogno di tutto l'aiuto possibile contro Massenzio, che gli contendeva il trono imperiale.
Nel 312 d.C. Massenzio fu sconfitto a Ponte Milvio, e Costantino restò padrone incontestato dell'impero.
Poco prima di questo scontro decisivo, si racconta che Costantino avesse una visione, poi confermata da un sogno profetico:
gli apparve in cielo una croce luminosa, con la scritta « In hoc signo vinces » (In questo segno vincerai).
La tradizione narra: che Costantino, obbedendo al portento celeste, ordinò di dipingere in fretta e furia, sugli scudi dei suoi
soldati, il monogramma cristiano, le lettere greche Chi e Rho, e le prime due della parola Christos. Perciò la vittoria di
Costantino su Massenzio a Ponte, Milvio finì per rappresentare il miracoloso trionfo dei cristianesimo sul paganesimo.
Questa è dunque la tradizione popolare della Chiesa, in base alla quale spesso si crede che Costantino abbia « convertito
l'Impero romano al cristianesimo ». In realtà, invece, Costantino non fece nulla del genere.
In primo luogo la « conversione » di Costantino, se questa è la parola appropriata, non fu affatto cristiana, ma clamorosamente
pagana. Sembra che egli avesse avuto una specie di visione, o di esperienza luminosa, nel recinto di un tempio pagano consacrato
all'Apollo gallico, nei Vosgi o presso Autun. Secondo un testimone che a quel tempo accompagnava l'esercito di Costantino,
fu una visione del dio Sole, adorato da certe sette con il nome di Sol Invìctus, « Sole Invitto ». E Costantino, poco prima della
visione, era stato iniziato al culto del Sole Invitto. Comunque il Senato romano, dopo la battaglia di Ponte Milvio, eresse un
arco di trionfo nel Colosseo. Secondo l'iscrizione dell'arco, la vittoria di Costantino fu ottenuta « per ispirazione della
Divinità ». Ma la Divinità in questione non era Gesù. Era il Sole Invitto, il dio pagano.
Contrariamente alla tradizione, Costantino non fece del cristianesimo la religione di Stato dell'Impero. La religione di Stato,
sotto Costantino, era il culto pagano del sole; e per tutta la vita Costantino ne fu il sommo sacerdote. Anzi, il suo regno
veniva chiamato l'« impero solare » e il Sole Invitto figurava dovunque, inclusi gli stendardi imperiali e le monete.
L'immagine di Costantino quale fervente neofita del cristianesimo è chiaramente infondata. L'imperatore fu battezzato solo nel
337, quando giaceva sul letto di morte ed era troppo debole o troppo apatico per opporsi. E non si può attribuire a lui neppure
il monogramma Chi Rho. Un'iscrizione con questo monogramma è stata ritrovata su una tomba di Pompei che risale a due secoli e
mezzo prima.
Il culto del Sole Invitto era d'origine siriana, e venne imposto dagli imperatori romani ai loro sudditi un secolo prima di
Costantino. Sebbene includesse elementi del culto di Baal e Astarte, era sostanzialmente monoteistico, ed in effetti presentava
il dio del Sole come summa degli attributi di tutti gli altri dei; quindi assorbiva pacificamente in sè i suoi potenziali
rivali. Inoltre, era utilmente armonizzato con il culto di Mitra, che a quei tempi aveva un posto importante a Roma e
nell'impero, e che comportava anch'esso l'adorazione del Sole.
A Costantino il culto del Sole Invitto, molto semplicemente, faceva comodo. Il suo obiettivo principale e assillante era l'unità:
in politica, nella religione e nell'assetto territoriale. Una religione di Stato che riassumeva in sé tutti gli altri culti
favoriva chiaramente questo obiettivo. E fu sotto gli auspici del culto del Sole Invitto che il cristianesimo consolidò la sua
posizione.
L'ortodossia cristiana aveva molto in comune con il culto del Sole Invitto, e quindi potè fiorire indisturbata all'ombra dello
spirito tollerante di quest'ultimo. Il culto del Sole Invitto, essendo sostanzialmente monoteistico, spianò la strada al
monoteismo cristiano. Inoltre, era utile anche sotto altri aspetti che modificarono e nel contempo agevolarono la
diffusione del cristianesimo. Con un editto promulgato nel 321 d.C., ad esempio, Costantino ordinò che i tribunali restassero
chiusi nel « venerabile giorno del sole », e stabilì che quel giorno doveva essere dedicato al riposo. Fino a quel momento,
il cristianesimo aveva considerato sacro il sabbath ebraico. Obbedendo all'editto costantiniano, scelse come giorno sacro la
domenica. Questo non soltanto lo metteva in armonia con il regime esistente, ma lo distanziava ancora di più dalle sue origini
giudaiche.
Fino al IV secolo, inoltre, la nascita di Gesù era stata celebrata il 6 gennaio. Ma per il culto del Sole
Invitto il giorno più importante dell'anno era il 25 dicembre, la festa del Natalis Invictus, la nascita (o la rinascita) del
sole, quando le giornate ricominciano ad allungarsi. Anche in questo, il cristianesimo si allineò con il regime e la
religione di Stato.
Gli antichi Romani celebravano anche la settimana del solstizio di inverno (i Saturnali) per propiziare un ritorno dell'estate
con ricche messi e cibo abbondante, i Saturnali fino all'epoca dì Augusto duravano tre giorni, poi furono portati a sette.
Col diffondersi del cristianesimo, i Saturnali vennero assorbiti dalla nuova religione e poco dopo il 300 il 25 dicembre era
diventato il giorno della nascita di Cristo al posto della nascita del Sole.
Il culto del Sole Invitto si fondeva felicemente con quello di Mitra, al punto di confondersi con esso. Entrambi esaltavano
il sole, entrambi avevano come giorno sacro la domenica. Entrambi celebravano una festività natale il 25 dicembre.
Quindi il cristianesimo poteva trovare una certa convergenza anche con il mitraismo, tanto più che il mitraismo propugnava
l'immortalità dell'anima, un futuro giudizio e la resurrezione dei morti.
Per favorire l'unità, Costantino sfumò volutamente le distinzioni fra il cristianesimo, il mitraismo e il culto del Sole Invitto,
e finse che tra essi non vi fossero contraddizioni. Di conseguenza tollerava il Gesù deificato come una manifestazione terrena del
Sole Invitto. Quindi era capace di erigere una chiesa cristiana e, nel contempo, statue della Dea Madre Cibele e del Sole Invitto:
quest'ultima statua aveva le fattezze dello stesso imperatore. In questi gesti eclettici ed ecumenici si può scorgere ancora
una volta l'importanza attribuita all'unità. La fede, insomma, per Costantino era una questione politica; e ogni fede che
favorisse l'unità veniva trattata con tolleranza.
Perciò, sebbene Costantino non fosse affatto il « buon cristiano » dipinto dalla tradizione più tarda, in nome dell'unità e
dell'uniformità consolidò la posizione dell'ortodossia cristiana. Nel 325 d.C., ad esempio, convocò il Concilio di Nìcea.
In questo concilio fu fissata la data della Pasqua. Furono stabilite regole che definivano l'autorità dei vescovi e spianavano
quindi la strada a una concentrazione del potere nelle mani degli ecclesiastici. E cosa ancora più importante, il Concilio di
Nicea decise, con una votazione, che Gesù era un dio e non un profeta mortale. Ancora una volta, però, si deve ricordare che
a Costantino stava a cuore l'unità e non la pietà religiosa. Come Dio, Gesù poteva venire opportunamente associato al
Sole Invitto. Come profeta mortale, sarebbe stato più difficile dargli una collocazione. Insomma, l'ortodossia cristiana si
prestava a una fusione politicamente auspicabile con la religione ufficiale di Stato; e per questo Costantino le diede il
suo appoggio.
E fu così che, un anno dopo il Concilio di Nicea, sanzionò la confisca e la distruzione di tutte le opere che contestavano
gli insegnamenti ortodossi: le opere degli autori pagani che parlavano di Gesù e quelle dei cristiani « eretici ».
Stabilì inoltre che alla Chiesa fosse assegnata una rendita fissa, e insediò il vescovo di Roma nel palazzo del Laterano.
Poi, nel 331 d.C. commissionò e finanziò nuove copie della Bibbia. Questo fu uno dei fattori decisivi nell'intera storia del
cristianesimo, e offrì un'occasione senza precedenti per l'affermazione dell'ortodossia cristiana dei « seguaci del messaggio ».
Nel 303 d.C., un quarto di secolo prima, l'imperatore pagano Diocleziano aveva ordinato di distruggere tutti gli scritti
cristiani che era possibile trovare. Quindi i documenti cristiani, soprattutto a Roma, erano quasi spariti. Quando Costantino
commissionò nuove versioni di questi documenti, ciò permise ai custodi dell'ortodossia di revisionare, modificare e riscrivere
il materiale come ritenevano più opportuno, secondo le loro dottrine. Fu a questo punto che vennero apportate probabilmente
quasi tutte le alterazioni decisive al Nuovo Testamento, e Gesù assunse la posizione eccezionale che ha avuto da allora.
Non si deve sottovalutare l'importanza della commissione costantiniana. Delle cinquemila versioni manoscritte più antiche del
Nuovo Testamento, nessuna è anteriore al IV secolo. Il Nuovo Testamento, nella sua forma attuale, è sostanzialmente il prodotto
dei revisori e degli scrittori del IV secolo: custodi dell'ortodossia, « seguaci del messaggio » con precisi interessi da
difendere.
Dopo Costantino, il corso dell'ortodossia cristiana è piuttosto noto e ben documentato. È superfluo aggiungere che culminò con il
trionfo finale dei « seguaci dei messaggio ». Ma se « il messaggio » si affermò come il principio guida della civiltà occidentale,
non rimase del tutto incontestato. A quanto sembra le rivendicazioni e l'esistenza stessa della famiglia, che pure era esule e in
incognito, esercitarono un grande fascino, un fascino che finì per rappresentare una frequente minaccia per l'ortodossia di Roma.
L'ortodossia romana si basa essenzialmente sui libri del Nuovo i Testamento. Ma il Nuovo Testamento non è altro che una selezione
di documenti protocristiani risalenti al IV secolo. Vi sono però molte altre opere più antiche del Nuovo Testamento nella sua
forma attuale, e alcune gettano una nuova luce, significativa e spesso polemica, sulle versioni accettate.
Vi sono, ad esempio, i vari libri esclusi dalla Bibbia, che formano la compilazione oggi conosciuta come gli Apocrifi.
Alcune delle opere incluse negli Apocrifi sono indubbiamente tarde, e furono composte nel VI secolo. Altre, però, erano in
circolazione già nel II secolo, e potrebbero rivendicare una veridicità pari a quella degli stessi Vangeli originali.
Una di queste opere è il Vangelo di Pietro, di cui fu trovata una copia in una valle dell'alto Nilo nel 1886, sebbena venga
menzionato dal vescovo di Antiochia nel 180d.C. Secondo questo Vangelo « apocrifo », Giuseppe d'Arimatea era intimo amico di
Ponzio Pilato. E se questo fosse vero accrescerebbe la verosimiglianza di una falsa Crocifissione. Il Vangelo di Pietro
riferisce inoltre che la tomba in cui fu sepolto Gesù si trovava in un luogo chiamato « il giardino di Giuseppe ».
E le ultime parole di Gesù sulla croce sono partìcolarmente inquietanti: « Mio potere, mio potere, perché mi hai abbandonato? »
La Terrasanta, al tempo di Gesù, ospitava un numero sbalorditivo di gruppi, fazioni, sette e sottosette.
Nei Vangeli ne sono citati soltanto due, i farisei e i sadducei, ed entrambi vengono presentati in modo negativo.
Tuttavia, il ruolo di malvagi sarebbe stato adatto soltanto ai sadducei, che collaboravano con l'amministrazione romana.
I farisei erano fermamente ostili a Roma, e lo stesso Gesù, se anche non era fariseo, si comportava sostanzialmente secondo
la loro tradizione.
Per accattivarsi il pubblico romanizzato, i Vangeli erano costretti a scagionare Roma e ad accusare gli Ebrei.
Questo spiega perché i farisei furono calunniati, e stigmatizzati insieme ai loro compatrioti veramente colpevoli, i sadducei.
Ma perché nei Vangeli non vengono mai nominati gli zeloti, i « combattenti della libertà » nazionalisti e rivoluzionari
che un pubblico romano avrebbe visto ben volentieri nella parte dei malvagi? Sembrerebbe che non esista una spiegazione per
la loro apparente esclusione dai Vangeli, a meno che Gesù fosse legato a loro tanto strettamente che il legame non poteva venire
rinnegato ma semplicemente « dimenticato » e quindi nascosto. Come afferma il professor Brandon: « II silenzio dei Vangeli circa
gli zeloti, deve indicare sicuramente una relazione, tra Gesù e questi patrioti, che gli evangelisti preferirono non rivelare ».
Qualunque fosse il possibile rapporto tra Gesù e gli zeloti, senza dubbio venne crocifisso come uno di loro.
È dubbio che Gesù fosse veramente uno zelota. Tuttavia nei Vangeli, in certi momenti, dà prova di un militarismo aggressivo
paragonabile al loro. In un passaggio tanto famoso quanto imbarazzante, egli annuncia che è venuto « non per portare la pace,
bensì una spada ». Nel Vangelo di Luca, esorta i suoi seguaci che non hanno una spada a procurarsene una (Luca 22:36); e poi,
personalmente, accerta e approva che siano armati dopo la cena pasquale (Luca 22:38). Nel Quarto Vangelo, Simon Pietro porta
in effetti una spada, quando Gesù viene arrestato. È difficile conciliare queste indicazioni con l'immagine convenzionale di
un salvatore mite e pacifista. Questo salvatore avrebbe approvato le armi, soprattutto se a portarle fosse stato uno dei suoi
discepoli prediletti, quello sul quale avrebbe fondato la sua Chiesa?
Se Gesù non era uno zelota, i Vangeli - quasi contro le loro intenzioni, si direbbe - rivelano e confermano i suoi legami con
quella fazione militante. La testimonianza che associa Barabba a Gesù è convincente; e anche Barabba viene descritto come un
lestes. Giacomo, Giovanni e Simon Pietro hanno tutti appellativi che potrebbero alludere obliquamente a simpatie per gli zeloti,
se non a una regolare militanza. Secondo vari autori moderni. Giuda Iscariota deriva da « Giuda il Sicario », e « sicari » era un
altro termine usato per indicare gli zeloti, ed era intercambiabile con testai. Anzi, sembra che i sicari formassero un'elite nei
ranghi degli zeloti, un corpo d'assalto di professionisti dell'assassinio politico. E c'è il discepolo conosciuto come Simone.
Nella versione greca di Marco. Simone è chiamato Kananaios, una translitterazione greca della parola aramaica che significa zelota.
Nella versione inglese della Bibbia di re Giacomo, la parola greca è tradotta in modo errato, e Simone vi appare come
« Simone il Cananeo ». Ma il Vangelo di Luca non lascia adito a dubbi. Simone è chiaramente identificato come uno zelota,
e persino la Bibbia di re Giacomo lo presenta come « Simone lo Zelota ». Sembra quindi incontestabile che Gesù avesse almeno
uno zelota tra i suoi seguaci.
Se l'assenza — o meglio, l'apparente assenza — degli zeloti nei Vangeli è sorprendente, lo è anche quella degli esseni.
Nella Terrasanta del tempo di Gesù, gli esseni costituivano una setta i importante quanto i farisei e i sadducei, ed è
inconcepibile che Gesù non venisse in contatto con loro. Anzi, a giudicare dal modo in cui viene presentato, Giovanni Battista
sembra un esseno. L'omissione di ogni riferimento agli esseni appare dettata dalle stesse ragioni che imposero l'omissione di
tutti i riferimenti agli zeloti. Insomma, i legami tra Gesù e gli esseni, come quelli con gli zeloti, erano probabilmente troppo
stretti e troppo noti perché fosse possibile smentirli. Si poteva soltanto sorvolare e nasconderli.
Dagli storici e dai cronisti che scrissero in quel tempo, apprendiamo che gli esseni avevano comunità in tutta la Terrasanta,
e probabilmente anche altrove. Cominciarono ad apparire intorno al 150 a.C., e adottavano l'Antico Testamento, ma lo
interpretavano più come un'allegoria che come una verità storica letterale. Ripudiavano l'ebraismo convenzionale a favore di una
forma di dualismo gnostico che, sembra, includeva elementi del culto solare e del pensiero pitagorico. Erano guaritori,
molto apprezzati per la loro conoscenza delle tecniche terapeutiche. E infine erano asceti, e si distinguevano facilmente per i
loro semplici abiti branchi.
Quasi tutti gli specialisti moderni ritengono che i famosi Rotoli del Mar Morto scoperti a Qumran siano essenzialmente documenti
esseni. E senza alcun dubbio la setta di asceti che viveva a Qumram aveva molte cose in comune con il pensiero esseno.
Come l'insegnamento degli esseni, i Rotoli del Mar Morto rispecchiano una teologia dualista. Nel contempo, danno un grande
rilievo alla venuta di un Messia - un « unto » - disceso dalla stirpe di Davide. Inoltre seguono uno speciale calendario,
secondo il quale il rito della Pasqua veniva celebrato non già di venerdì, bensì di mercoledì: il che corrisponde al rito
pasquale di cui sì parla nel Quarto Vangelo. E coincidono parola per parola, in molti aspetti significativi,
con alcuni degli insegnamenti di Gesù. Come minimo, si direbbe che Gesù conoscesse gli eremiti di Qumran e, almeno fino a un certo
punto, armonizzasse i suoi insegnamenti con i loro. Un esperto moderno ritiene che i Rotoli del Mar Morto « offrono altri motivi
per credere che molti episodi [del Nuovo Testamento] siano semplicemente proiezioni, nella storia di Gesù, dei fatti che ci si
attendeva dal Messia ».
Indipendentemente dal fatto che la setta di Qumran fosse essena o no, sembra chiaro che Gesù, anche se non ebbe una regolare
preparazione essena, conoscesse molto bene quel pensiero. Anzi, molti dei suoi insegnamenti echeggiano quelli ascritti agli esseni.
E così pure le sue attitudini di guaritore fanno pensare a un'influenza essena. Ma un esame più attento dei Vangeli rivela che gli
esseni ebbero forse una parte ancora più significativa nella vita di Gesù.
Gli esseni si identificavano facilmente per le vesti bianche che, nonostante quanto mostrano la pittura e il cinema, a quel tempo
in Terrasanta erano meno comuni di quanto in genere si creda. Nel Vangelo « segreto » di Marco, una veste di lino bianco ha un
ruolo rituale importante, e più tardi ricorre anche nella versione canonica. Se Gesù compiva iniziazioni misteriche a Befania o
altro, la veste di lino bianco fa pensare che tali iniziazioni avessero carattere esseno. E c'è di più: il motivo della veste di
lino bianco riappare più tardi in tutti i Quattro Vangeli. Dopo la Crocifissione, il corpo di Gesù scompare « miracolosamente »
dalla tomba, nella quale viene visto almeno un personaggio biancovestito. In Matteo è un angelo che porta un « vestito bianco
come la neve » (28:3). In Marco è « un giovane vestito d'una veste bianca » (16:5). Luca narra che apparvero « due uomini... in
vesti sfolgoranti » (24:4), mentre il Quarto Vangelo parla di « due angeli in bianche vesti » (20:12). In due versioni su quattro,
al personaggio o ai personaggi visti nella tomba non viene neppure attribuito un rango sovrannaturale. Presumibilmente sono
semplici mortali; tuttavia si direbbe che i discepoli non li conoscano. È ragionevole supporre che siano esseni.
E se ricordiamo che gli esseni avevano doti di guaritori, c'è una supposizione che diviene ancora più sostenibile.
Se, quando fu deposto dalla croce, Gesù era ancora vivo, è evidente che sarebbe stato necessario l'intervento di un guaritore.
E anche se era morto, è probabile che un guaritore sarebbe stato presente comunque, se non altro come « ultima speranza ».
E a quel tempo, in Terrasanta non c'erano guaritori più stimati degli esseni.
Secondo il nostro « scenario », su un terreno privato e con la collusione di Pilato, una Crocifissione simulata fu organizzata
da certi sostenitori di Gesù. Più precisamente, non sarebbe stata orchestrata dai « seguaci del messaggio », bensì dai seguaci
della stirpe: i familiari, insomma, altri aristocratici e appartenenti alla cerchia più intima. È possibile che questi personaggi
avessero rapporti con gli esseni, o fossero esseni loro stessi. Tuttavia, lo stratagemma non sarebbe stato rivelato ai « seguaci
del messaggio », i « soldati semplici » del seguito di Gesù, dei quali Simon Pietro è il tipico rappresentante.
Gesù, trasportato nella tomba di Giuseppe d'Arimatea, avrebbe avuto necessità di cure mediche, e quindi sarebbe stato presente un
guaritore esseno. E successivamente, quando si scoprì che la tomba era vuota, sarebbe stata necessaria la presenza di un
emissario: un emissario sconosciuto ai « soldati semplici ». Avrebbe avuto il compito di rassicurare gli ignari « seguaci del
messaggio », fungere da intermediario tra Gesù e i suoi discepoli, ed evitare che contro i Romani venissero rivolte accuse di
profanazione della tomba, che avrebbero potuto provocare gravi disordini.
Indipendentemente dal fatto che questo « scenario » fosse esatto o no, ci sembrava abbastanza evidente che Gesù era associato
strettamente agli esseni non meno che agli zeloti. A prima vista potrebbe apparire strano, perché spesso si immagina che vi
fosse incompatibilità tra zeloti ed esseni. Gli zeloti erano aggressivi, violenti, militaristi, e non rifuggivano dal praticare
l'assassinio politico e il terrorismo. Gli esseni, invece, spesso vengono presentati come una setta distaccata dalla politica,
quietista, pacifista e mite. In realtà, invece, c'erano numerosi essenì tra le file degli zeloti, perché gli zeloti non erano
una setta, bensì una fazione politica. E in quanto fazione politica, reclutavano i loro aderenti non soltanto tra i farisei
antiromani, ma anche tra gli esseni, che sapevano essere aggressivamente nazionalisti quanto chiunque altro.
L'associazione tra gli zeloti e gli esseni è evidente in particolare negli scritti di Giuseppe Flavio, dai quali derivano in
gran parte le notizie disponibili oggi sulla Palestina di quei tempi. Joseph ben Matthias era nato nel 37 d.C. e apparteneva
all'aristocrazia giudaica. All'inizio della rivolta del 66 d.C. fu nominato governatore della Galilea, dove assunse il comando
delle forze schierate contro i Romani. Come comandante militare si rivelò, sembra, molto inetto, e molto presto fu catturato
dall'imperatore romano Vespasiano. Diventò poi collaborazionista. Assunse il nome romanizzato di Giuseppe Flavio, divenne
cittadino romano, divorziò dalla moglie e sposò un'ereditiera romana, e accettò ricchi doni dall'imperatore romano, inclusi un
appartamento nel palazzo imperiale e terreni confiscati agli Ebrei in Terrasanta. Le sue copiose cronache incominciarono ad
apparire poco prima della sua morte, avvenuta nel 100 d. C.
Nella Guerra giudaica, Giuseppe Flavio fa un resoconto dettagliato dell'insurrezione del 66-74 d.C. Anzi, fu appunto da Giuseppe
che gli storici successivi appresero quasi tutto ciò che si sa circa quella rivolta disastrosa, il sacco di Gerusalemme e la
distruzione del Tempio. E l'opera di Giuseppe contiene l'unico resoconto della caduta (74 d.C.) della fortezza di Masada, situata
all'angolo sud-occidentale de) Mar Morto.
Come Montségur dodici secoli dopo, Masada è diventata un simbolo di tenacia, di eroismo e di martirio in difesa di una causa
perduta. Come Montségur, continuò a resistere all'invasore per molto tempo, dopo che ogni altra resistenza organizzata era finita.
Mentre il resto della Palestina crollava sotto l'attacco di Romani, Masada rimase inespugnabile. Alla fine, nel 74 d.C.,
la posizione divenne insostenibile. Dopo un prolungato bombardamento con le macchine d'assedio, i Romani installarono una rampa
che li mise in grado di sfondare le difese. La notte del 15 aprile si prepararono all'assalto decisivo. La stessa notte tutti
coloro che restavano nella fortezza, 960 persone tra uomini, donne e bambine, si suicidarono. Quando i Romani, al mattino
seguente, sfondarono le porte, trovarono soltanto i cadaveri tra le fiamme.
L'insurrezione del 66-74 d.C. fu seguita sessant'anni dopo, tra il 132 e il 135, da una seconda grande rivolta.
La conseguenza fu che tutti gli Ebrei vennero ufficialmente espulsi da Gerusalemme, e questa diventò una città romana.
Ma già al tempo della prima ribellione la storia aveva cominciato a tirare un velo sugli avvenimenti della Terrasanta;
e per altri due secoli non esiste virtualmente nessuna documentazione. Quel periodo non è diverso da certi momenti della storia
d'Europa durante i cosiddetti « secoli bui ». Si sa comunque che numerosi Ebrei rimasero nel territorio, anche se non a Gerusalemme.
Vi rimasero anche molti cristiani. E c'era persino una setta di Ebrei, gli ebioniti, che pur attenendosi in generale alla loro
fede, onoravano Gesù come un profeta - per quanto mortale.
Ma il vero spirito del giudaismo e del cristianesimo si allontanò dalla Terrasanta. Quasi tutta la popolazione ebraica della
Palestina si disperse in una diaspora simile a quella avvenuta circa settecento anni prima, quando Gerusalemme era stata
conquistata dai Babilonesi. E anche il cristianesimo cominciò a emigrare attraverso il globo: in Asia Minore, in Grecia, a Roma,
in Gallia, in Britannia, nell'Africa settentrionale. Non è affatto sorprendente che in tutto il mondo civile incominciassero a
spuntare versioni contrastanti di ciò che era accaduto intorno al 33 d.C. E nonostante gli sforzi di Clemente d'Alessandria,
Ireneo e altri come loro, queste versioni, bollate ufficialmente come « eresie », continuarono a fiorire.
Alcune derivavano senza dubbio da una conoscenza diretta, conservata tanto da Ebrei ortodossi quanto da gruppi come gli ebioniti,
Ebrei convertiti a una forma di cristianesimo. Altre versioni erano chiaramente basate su leggende e voci, sulla mescolanza di
dottrine in voga come le tradizioni misteriche egizie, ellenistiche e mitraiche. Quali che fossero le loro fonti precise,
causavano gravi inquietudini ai « seguaci del messaggio », l'ortodossia in fase di formazione che si sforzava di consolidare
la propria posizione.
Le notizie sulle « eresie » più antiche sono scarse. La conoscenza che ne abbiamo noi moderni deriva soprattutto dagli attacchi
dei loro avversari, e questo naturalmente ne dà un quadro distorto: come, per esempio, l'immagine della Resistenza francese che
potrebbe scaturire dai documenti della Gestapo. Nel complesso, tuttavia, sembra che Gesù venisse visto dai primi « eretici » in
uno dei due modi seguenti. Per alcuni era un dio vero e proprio, con pochi o punti attributi umani. Per altri era un profeta
mortale, sostanzialmente non diverso dal Budda, o da Maometto che venne mezzo millennio più tardi.
Uno dei primi eresiarchi fu Valentino, nato ad Alessandria, che trascorse a Roma l'ultima parte della sua vita (136-65 d.C.).
Ai suoi tempi, Valentino era molto influente, e tra i suoi seguaci contava uomini come Tolomeo. Affermando di avere in suo
possesso un corpus di « insegnamenti segreti » di Gesù, rifiutava di sottomettersi all'autorità di Roma, e affermava che la
gnosi personale aveva la precedenza su ogni gerarchia. Logicamente, Valentino e i suoi seguaci furono tra i bersagli prediletti
degli strali di Ireneo.
Un altro bersaglio fu Marciane, vescovo e ricco armatore, che arrivò a Roma intorno al 140 e quattro anni dopo fu scomunicato.
Marcione propugnava una distinzione radicale tra « legge » e « amore », che associava rispettivamente all'Antico e al Nuovo
Testamento; e alcune di queste idee marcionite riaffiorarono ben mille anni più tardi in opere come il Perlesvaus. Marcione fu
il primo scrittore che compilò un elenco canonico dei libri della Bibbia, un elenco che escludeva tutto l'Antico Testamento.
Fu appunto per rispondere a Marcione che Ireneo compilò il suo canone, divenuto poi la base della Bibbia quale la conosciamo oggi.
Il terzo grande eresiarca di quel periodo e, sotto molti aspetti, il più sconcertante, fu, Basilide, uno studioso alessandrino che
scrisse tra il 120 e il 130 d.C. Basilide conosceva molto bene tanto le scritture ebraiche quanto i Vangeli cristiani. Inoltre,
conosceva altrettanto bene il pensiero egizio ed ellenistico. Si ritiene che abbia scritto non meno di ventiquattro commenti ai
Vangeli. Secondo Ireneo, propugnava un'eresia terribile. Basilide affermava che la Crocifissione era una frode, che Gesù non era
morto sulla croce, e che il suo posto era stato preso da un sostituto, Simone di Cirene. Questa affermazione sembrerebbe molto
bizzarra. Tuttavia si dimostrò straordinariamente tenace e longeva. Ancora nel VII secolo, il Corano sosteneva esattamente la
stessa cosa: un sostituto, che secondo la tradizione sarebbe stato Simone di Cirene, aveva preso il posto di Gesù sulla croce.
E lo stesso argomento era sostenuto dall'ecclesiastico anglicano che ci aveva inviato la lettera misteriosa di cui abbiamo parlato
nel primo capitolo, la lettera che alludeva alla « prova incontrovertibile » della sostituzione.
Se c'era una regione dove erano particolarmente radicate le eresie più antiche, questa era l'Egitto, anzi più esattamente
Alessandria, la più colta e cosmopolita città del mondo, a questi tempi, la seconda in ordine di grandezza in tutto l'Impero
romano, e crogiolo di una sbalorditiva varietà di dottrine, insegnamenti e tradizioni. Dopo le due rivolte in Giudea, l'Egitto fu
il rifugio più accessibile per i profughi ebrei e cristiani, molti dei quali si stabilirono ad Alessandria. Non è quindi
sorprendente che proprio l'Egitto fornisse la prova più convincente a sostegno della nostra ipotesi, contenuta nei cosiddetti
Vangeli gnostici o, più esattamente, nei Rotoli di Nag Hammadi.
Nel dicembre 1945 un contadino egiziano, mentre scavava in cerca di terriccio fertile nei pressi del villaggio di Nag Hammadi
nell'Alto Egitto, scoprì una giara di terracotta. Conteneva tredici codici - libri o rotoli di papiro - rilegati in pelle.
Ignari dell'importanza della scoperta, il contadino e i suoi familiari usarono alcuni di quei codici per accendere il fuoco.
Alla fine, comunque, quelli superstiti attirarono l'attenzione degli esperti; e uno, esportato clandestinamente dall'Egitto,
fu offerto in vendita al mercato nero. Una parte di questo codice, che fu acquistata dalla Fondazione C.G. Jung, conteneva
l'ormai famoso Vangelo di Tommaso.
Intanto il governo egiziano, nel 1952, nazionalizzò quanto restava dei Rotoli di Nag Hammadi. Solo nel 1961, tuttavia, venne
riunita una commissione internazionale di esperti per copiare e tradurre tutto il materiale. Nel 1972 apparve il primo volume
dell'edizione fotografica. E nel 1977 l'intera collezione dei rotoli apparve per la prima volta in traduzione inglese.
I Rotoli di Nag Hammadi sono una raccolta di testi biblici a carattere sostanzialmente gnostico, che risalgono alla fine del
IV secolo o all'inizio del V, intorno al 400 d.C. Sono copie, e gli originali risalgono a date molto anteriori.
Alcuni - ad esempio il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Verità e il Vangelo degli Egizi sono menzionati
dai primissimi padri della Chiesa, come Clemente d'Alessandria, Ireneo e Origene. I filologi hanno accertato che alcuni dei
testi contenuti nei rotoli, se non tutti, non sono posteriori al 150 d.C. E almeno uno di essi può includere materiale ancora
più antico dei quattro Vangeli canonici del Nuovo Testamento.
Presa nel suo insieme, la raccolta di Nag Hammadi costituisce un repertorio inestimabile di documenti protocristiani, alcuni
dei quali possono vantare un'autorità eguale a quella dei Vangeli. E c'è di più: alcuni di questi documenti possono rivendicare
una veridicità assolutamente unica. Innanzi tutto, sfuggirono alla censura e alle revisioni dell'ortodossia romana.
In secondo luogo, erano stati composti per un pubblico egiziano e non romano, e quindi non sono alterati e modificati in senso
filoromano. Infine, è possibile che si basino su fonti di prima mano o su testimonianze oculari, ad esempio su racconti orali
di Ebrei fuggiti dalla Terrasanta, che forse avevano conosciuto personalmente Gesù e potevano dare la loro versione con una
fedeltà storica che i Vangeli non potevano permettersi di rispettare.
Con coerenza convincente, altre opere della raccolta di Nag Hammadi attestano un dissidio accanito e protratto fra Pietro e
la Maddalena: un dissidio che sembra rispecchiare uno scisma tra i « seguaci del messaggio » e i seguaci della stirpe.
Nel Vangelo di Maria, Pietro si rivolge alla Maddalena con queste parole : « Sorella, noi sappiamo che il Salvatore ti amava
più di ogni altra donna. Rivelaci le parole del Salvatore che tu ricordi... che tu conosci e che noi non conosciamo ».
Più tardi, Pietro chiede indignato agli altri discepoli: « Davvero egli parlava privatamente a una donna e non apertamente a noi?
Dobbiamo tutti volgerci ad ascoltarla? La preferiva a noi? ». E ancora più avanti, uno dei discepoli risponde a Pietro:
« Sicuramente il Salvatore la conosce molto bene. Per questo l'amava più di noi ».
(Tratto da "Il Santo Graal" di Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln - 1982 Mondadori)