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John Nash arrivò a Princeton, New Jersey, il labor Day 1948, il giorno in cui si apriva la campagna per la rielezione di Truman. Aveva vent'anni. Arrivò in treno, direttamente da Bluefield, via Washington e Filadelfia, indossava un abito nuovo e portava valigie ingombranti, piene di lenzuola e vestiri, lettere e appunti, e alcuni libri. Impaziente e ansioso, scese alla fermata di Princeton Junction, un'indefinibile enclave della classe piccolo borghese a pochi chilometri dalla vera a propria Princeton, e si affrettò per prendere il Dinky, il piccolo treno a un solo binario che faceva servizio di navetta con l'università.
Ciò che vide era un grazioso villaggio prerivoluzionario, circondato da zone boscose appena ondulate, da pigri ruscelli e da un mosaico di campi di grano. Fondata dai quaccheri verso la fine del diciassettesimo secolo, Princeton era stata il luogo di una famosa vittoria di George Washington sugli inglesi e, per un breve interludio di sei mesi nel 1783, la capitale di fatto della nuova repubblica. Con i suoi edifici in stile college gotico annidati in mezzo ad alberi maestosi, chiese in pietra e vecchie case austere, la città appariva in tutto e per tutto il ricco, curatissimo sobborgo di New York e Filadelfia che in effetti era.
Nassau Street, la principale attrazione della sonnolenta cittadina, metteva in mostra una fila di negozi d'abbigliamento per «l'uomo migliore», un paio di locande, un drugstore e una banca. La via era stata asfaltata prima della guerra, ma pedoni e biciclette davano ancora conto di quasi tutto il traffico. In Di qua dal Paradiso, F. Scott Fitzgerald ha descritto la Princeton degli anni della prima guerra mondiale come «il circolo più divertente d'America». Negli anni Trenta Einstein la definì «un villaggio pittoresco e cerimonioso». La depressione e la guerra non avevano cambiato per nulla il luogo. May Veblen, la moglie di un ricco matematico di Princeton, Oswald Veblen, era ancora in grado di identificare dal nome ogni singola famiglia, bianca o nera, benestante o di mezzi modesti, in ogni singola casa della città. I nuovi arrivati si sentivano invariabilmente intimiditi da tanta raffinatezza. «Mi sentivo sempre come se avessi la patta aperta» ha ricordato un matematico che veniva dall'Ovest.
Anche l'edificio universitario che ospitava il dipartimento di matematica evocava immagini di esclusività e ricchezza. «La Fine Hall è, credo, l'edificio più lussuoso che sia mai stato consacrato alla matematica» ha scritto con invidia un matematico emigrato dall'Europa. Era una fortezza neogotica in mattoni rossi e ardesia sormontata da un timpano, in uno stile che ricordava il College de France di Parigi e la Oxford University. La sua pietra angolare contiene una scatola di piombo con copie delle opere dei matematici di Princeton e gli attrezzi del mestiere — due matite, un gessetto e, naturalmente, una cimosa.
Progettato da Oswald Veblen, nipote del grande sociologo Thorstein Veblen, voleva essere un santuario che i matematici sarebbero stati «restii ad abbandonare». I corridoi in pietra opaca che circondavano la struttura erano perfetti tanto per camminare in schiudine quanto per discutere di matematica insieme. Nei nove «studi» — non uffici! — per i professori anziani c'erano pannelli intagliati, schedari nascosti, lavagne che si aprivano come altari, tappeti orientali e solidi mobili imbottiti. Come concessione alle esigenze pressanti della rapida crescita della matematica applicata all'impresa, ciascun ufficio era fornito di un apparecchio telefonico e ciascun bagno di una luce di cortesia. I matematici appassionati di tennis (i campi da gioco erano a due passi), non avevano bisogno di passare da casa prima di tornare in ufficio: c'era uno spogliatoio con le docce. Quando Fine Hall fu aperta, nel 1921, uno studente con velleità di poeta là definì «un circolo per matematici, dove fare giochi acquatici».
Nel 1948 Princeton era per i matematici ciò che Parigi era stata un tempo per pittori e romanzieri, Vienna per psicoanalisti e architetti e l'antica Atene per filosofi e tragediografi. Nel 1936 Harald Borir, fratello del fisico Niels Bohr, l'aveva proclamata «il centro matematico dell'universo.9 Quando i direttori dei dipartimenti di matematica di tutto il mondo tennero la loro prima riunione dopo la seconda guerra mondiale, fu a Princeton.
La Fine Hall ospitava il dipartimento matematico più competitivo e aggiornato del mondo. Accanto ad esso - a diretto contatto, in effetti - c'era il dipartimento di fisica più importante della nazione, i cui membri, fra cui Eugene Wigner, avevano lasciato Princeton durante la guerra per l'Illinois, la California e il New Mexico, portando con sé attrezzature di laboratorio per contribuire alla costruzione della bomba atomica. A meno di due chilometri, su quella che era stata la Olden Farm, sorgeva l'Institute for Advanced Study, l'equivalente moderno dell'accademia di Piatone, dove Einstein, Godei, Oppenheimer e von Neumann scribacchiavano sulle loro lavagne e tenevano dissertazioni erudite. Visitatori e studenti provenienti dai quattro angoli della terra inondavano quest'oasi matematica poliglotta, a soli ottanta chilometri da New York. Ciò che in settimana veniva annunciato nel corso di un seminario a Princeton, sarebbe stato sicuramente discusso a Parigi e Berkeley la settima successiva, e a Mosca e Tokyo dopo un'altra settimana ancora.
«È difficile imparare qualcosa dell'America a Princeton», ha scritto Leopold Infeld, l'assistente di Einstein, nelle sue memorie, «molto più di quanto non lo sia imparare qualcosa dell'Inghilterra a Cambridge. Nella Fine Hall si parla inglese con così tanti accenti diversi che la miscela risultante è chiamata Fine Hall English... L'aria è piena di idee e formule matematiche. Ti basta allungare una mano, chiuderla di colpo, e hai la sensazione di avere afferrato aria matematica e che qualche formula sia rimasta attaccata al tuo palmo. Se si vuole vedere un famoso matematico non c'è bisogno di andare da lui; è sufficiente starsene tranquillamente a Princeton, perché presto o tardi dovrà venire alla Fine Hall.»
La posizione unica di Princeton nel mondo della matematica era stata raggiunta praticamente da un giorno all'altro, appena una dozzina di anni prima. La fondazione dell'università risaliva a vent'anni abbondanti prima di quella della Repubblica. Era nata come College of New Jersey nel 1746, fondata dai presbiteriani. Non divenne Princeton fino al 1896, e non fu diretta da un laico prima del 1903, quando Woodrow Wilson ne divenne il rettore. Anche allora, tuttavia, Princeton era un'università soltanto di nome - «un posto modesto», «una scuola propedeutica cresciuta troppo», in particolare per quanto riguardava le scienze.
Da questo punto di vista, Princeton non era diversa dal resto della nazione, che «ammirava l'ingegno yankee, ma considerava la matematica pura ben poco utile», per citare le parole di uno storico. Mentre in Europa c'erano tre dozzine di cattedratici che si dedicavano a tempo pieno alla nuova matematica, in America non ne esisteva neanche uno. I giovani americani dovevano andare in Europa per ottenere un'istruzione superiore alla laurea. Il tipico matematico americano insegnava agli studenti universitari da quindici a venti ore alla settimana ciò che equivaleva alla matematica liceale, sforzandosi di tirare avanti con un salario insignificante e con pochissimi incentivi o opportunità di fare della ricerca.
Mentre a Princeton e nelle altre università americane la matematica e la fisica languivano, a cinquemila chilometri di distanza, in centri intellettuali come Gottinga, Berlino, Budapest, Vienna, Parigi e Roma, aveva luogo una rivoluzione della matematica e della fisica.
Lo storico della scienza John D. Davis descrive la drammatica rivoluzione nella comprensione della natura stessa della materia:
il mondo assoluto della fisica classica newtoniana si stava sgretolando e il fermento intellettuale era ovunque. Poi, nel 1905, uno sconosciuto fisico teorico dell'ufficio brevetti di Berna, Albert Einstein, pubblicò quattro saggi di importanza epocale, paragonabili al balzo istantaneo di Newton nella celebrità. Il saggio più significativo era la cosiddetta teoria della relatività speciale, secondo cui la massa altro non era che energia congelata, l'energia materia liberata: spazio e tempo, che in precedenza erano considerati assoluti, dipendevano dal moto relativo. Dieci anni più tardi Einstein formulò la teoria della relatività generale, proponendo che la gravita fosse una funzione della materia stessa e che agisse sulla luce esattamente come agiva sulle particene di materia. La luce, in altre parole, non viaggiava «diritta»; le leggi di Newton non erano l'universo reale ma un universo visto attraverso le lenti illusone della gravità. Inoltre, egli formulò un insieme di leggi matematiche che perméttevano di descrivere l'universo, leggi di struttura e leggi del moto.
Nello stesso periodo, all'università di Gottinga, un genio matematico tedesco, David Hilbert, aveva dato avvio a una rivoluzione della matematica. Hilbert propose il suo famoso programma nel 1900, il cui obiettivo non era niente di meno che quello di «un'assiomatizzazione di tutta la matematica di modo che potesse essere meccanizzata e risolta con procedure standard». Gottinga divenne il centro di un movimento inteso a rifondare tutta la matematica su basi più certe: «Il programma di Hilbert emerse all'inizio del secolo in risposta alla percezione di una crisi della matematica» scrive lo storico Robert Leonard. «L'effetto era di portare i matematici a "rimettere ordine" nella teoria degli insiemi di Cantor, di istituirla su una solida base assiomatica, sul fondamento di un numero limitato di postulati... Ciò segnava uno spostamento importante dell'enfasi verso la matematica astratta.»
La matematica si allontanava sempre più dai «contenuti intuitivi — in questo caso, dal nostro mondo di superna e linee rette — andando verso una situazione in cui i termini matematici erano separati dal loro contenuto empirico diretto e definiti semplicemente in modo assiomatico all'interno del contesto della teoria. L'era del formalismo era arrivata».
L'opera di Hilbert e dei suoi discepoli — fra i quali c'erano alcune delle future celebrità della Princeton degli anni Trenta e Quaranta come Hermann Weyl e John von Neumann - diede anche inizio a un potente impulso all'applicazione della matematica a problemi fino ad allora considerati non riconducibili a una trattazione profondamente formale. Hilbert e altri matematici riuscirono ad estendere l'approccio assiomatico a varie discipline, la più ovvia delle quali era la fisica, in particolare la «nuova fisica» della «meccanica quantlstica», ma anche alla logica e alla nuova teoria dei giochi.
Ma per i primi venticinque anni del secolo, come scrive Davis, Princeton, e di fatto l'intera comunità accademica americana, «rimasero fuori da questi sviluppi tremendamente rapidi». A catalizzare la trasformazione di Princeton in una capitale mondiale della matematica e della fisica teorica fu un episodio, un episodio d'amicizia. Woodrow Wilson, come la gran parte degli uomini di cultura del suo tempo, disprezzava la matematica, lamentando che «l'uomo semplice si ribella inevitabilmente contro la matematica, una forma blanda di tortura che si può imparare solo attraverso dolorosi processi di esercizio». E, nella sua visione di Princeton come una vera università con un college di dottorato e un sistema d'istruzione che ponessero l'accento su seminari e discussioni invece che su esercizi e apprendimento meccanico, la matematica non giocava alcun tipo di ruolo. Ma il miglior amico di Wilson, Henry Burchard Fine, era un matematico. Quando Wilson cominciò a ingaggiare come docenti studiosi di letteratura e storia, Fine gli chiese, «Perché non qualche scienziato?» Più che altro per un gesto d'amicizia, Wilson disse di sì. Dopo che Wilson lasciò la carica di rettore di Princeton per la Casa Bianca nel 1912, Fine assunse la presidenza della facoltà di scienze e si mise a reclutare alcuni dei migliori scienziati, fra cui G. D. Birkhoff, Oswald Veblen e Luthor Eisenhardt, perché insegnassero agli studenti di dottorato. Questi scienziati erano noti nella zona di Princeton come «i ricercatori di Fine». Gli studenti non laureati, non uno solo dei quali era specializzato in fisica o matematica, si lamentavano amaramente delle «letture brillanti ma incomprensibili date con accenti stranieri» e «della teoria didattica europea, o da semidei».
È possibile che il nucleo dei ricercatori di Fine si sarebbe disperso dopo la sua morte prematura, avvenuta nel 1928 per un incidente di bicicletta sulla Nassau Street, se non fosse stato per i molti casi eclatanti di filantropia privata che trasformarono Princeton in un polo d'attrazione per le più grandi celebrità mondiali della matematica. Moltissimi ritengono che l'ascesa dell'America ai vertici scientifici sia stata un prodotto secondario della seconda guerra mondiale. Ma in realtà a preparare il terreno furono le fortune accumulate fra i dorati anni Ottanta del secolo scorso e i ruggenti anni Venti del nostro.
I Rockefeller ricavarono la loro fortuna di milioni di dollari dal carbone, dal petrolio, dall'acciaio, dalle ferrovie e dalle banche, in altre parole, dalla grande ondata di industrializzazione che cambiò il volto di città come Bluefield e Pittsburgh alla fine del diciannovesimo secolo e all'inizio del ventesimo. Quando la famiglia e i suoi rappresentanti legali cominciarono a donare una parte del denaro, erano animati dall'insoddisfazione che provavano per lo stato dell'istruzione superiore in America e da una decisa convinzione nel fatto che «le nazioni che non coltivano le scienze non possono mantenersi forti». Consapevoli della rivoluzione scientifica che stava percorrendo l'Europa, la fondazione Rockefeller e le sue propaggini presero a mandare studenti laureati americani, e fra questi Robert Oppenheimer, all'estero. A metà degli anni Venti, la fondazione Rockefeller decise che «invece di mandare Maometto alla montagna, si sarebbe portata qui la montagna». Insomma, decise di importare europei. Per finanziare l'impresa, la fondazione impegnò non soltanto le proprie entrate ma anche 19 milioni di dollari del proprio capitale (cioè quasi 150 milioni di dollari attuali). Mentre Wickliffe Rose, un filosofo che faceva parte del consiglio della fondazione Rockefeller, perlustrava capitali scientifiche europee come Berlino e Budapest per raccogliere notizie su nuove idee e per incontrarne gli autori, la fondazione selezionò tre università americane, fra cui Princeton, a cui elargire il grosso della propria generosità. Le sovvenzioni permisero a Princeton di istituire cinque cattedre per ricercatori in stile europeo, con salari esorbitanti, oltre a un fondo per la ricerca destinato a sostenere studenti e dottorandi.
Due delle prime celebrità europee ad arrivare a Princeton nel 1930 erano giovani geni di origine ungherese, John von Neumann, un brillante studente di Hilbert e di Hermann Weyl, e Eugene Wigner, il fisico che vinse il premiò Nobel nel 1963, non per il suo contributo essenziale alla realizzazione della bomba atomica, ma per la ricerca sulla struttura dell'atomo e del nucleo atomico.
Un secondo atto di filantropia, più inaspettato dell'impresa dei Rockefeller, portò alla creazione dell'indipendente Institute for Advanced Study a Princeton. I Bamberger erano proprietari di grandi magazzini che avevano aperto il loro primo punto di vendita a Newark e avevano continuato accumulando un enorme fortuna con il commercio di tessuti. I proprietari, fratello e sorella, cedettero l'attività sei settimane prima del crollo della borsa del 1929. Rimasti con una fortuna di 25 milioni di dollari, decisero di dimostrare la loro riconoscenza allo stato del New Jersey. Forse avevano in mente di fondare una scuola di odontoiatria. Abraham Flexner, un esperto di didattica medica, li convinse presto ad abbandonare l'idea di una scuola di medicina e di fondare invece un istituto di ricerca di prim'ordine senza insegnanti, studenti, lezioni, ma solo ricercatori protetti dalle vicende e dalle pressioni del mondo esterno. Flexner si trastullava con l'idea di fare del nucleo dell'istituto una scuola d'economia, ma si persuase in fretta che la matematica era una scelta migliore, dato che era più «fondamentale». Inoltre, c'era un consenso infinitamente più grande fra i matematici riguardo a chi fossero i migliori. L'ubicazione dell'istituto non era ancora stata decisa. Newark, con le fabbriche di vernice e i mattatoi, non offriva attrattive al gruppo di superstar accademiche che Flexner sperava di reclutare. Si narra che fu Oswald Veblen a convincere i Bamberger che Princeton poteva essere considerata («in senso topologico», per usare le sue parole) un sobborgo di Newark.
Con zelo e tasche piene che non avevano nulla da invidiare a quelle di un qualsiasi impresario, Flexner cominciò a cercare in tutto il mondo celebrità, facendo balenare l'immagine di salari inauditi, compensi extra molto generosi e la promessa di una completa indipendenza. La sua impresa coincise con la salita al potere di Hitler in Germania, l'espulsione di massa degli ebrei dalle università tedesche e la paura crescente di una nuova guerra mondiale. Dopo tre anni di trattative delicate, Einstein, la più grande di tutte le celebrità, accettò di diventare il secondo membro della Scuola di Matematica dell'istituto, provocando il commento arguto di uno dei suoi amici in Germania: «Il papà della fisica ha traslocato e ora gli Stati Uniti diverranno il centro dell'universo naturale». Anche Kurt Godel, il ragazzo prodigio viennese della logica, arrivò a Princeton nel 1933, e Hermann Weyl, la prima stella della matematica tedesca, seguì Einstein un anno dopo. Weyl insistette, come condizione per il suo assenso, che l'istituto assumesse un giovane brillante della generazione successiva alla propria. Von Neumann, che aveva appena compiuto trent'anni, fu sottratto all'università per diventare il professore più giovane dell'istituto. Praticamente in una notte, Princeton era diventata la nuova Gottinga.
All'inizio i professori dell'istituto dividevano gli alloggi lussuosi della Fine Hall con i colleghi dell'università. La lasciarono nel 1939, quando fu costruita la Fund Hall, un edificio neo georgiano in mattoni sistemato in mezzo a vasti prati all'inglese circondati da boschi e laghettì, a due o tre chilometri dalla Fine Hall. Prima che Einstein e gli altri si trasferissero, i professori dell'istituto e quelli di Princeton erano diventati un'unica famiglia, e i due clan continuarono a frequentarsi come cugini di campagna. Collaboravano nella ricerca, pubblicavano le riviste congiuntamente e partecipavano alle conferenze, ai seminari e ai té gli uni degli altri. Grazie alla vicinanza dell'istituto, l'università attraeva gli studenti e i professori più brillanti, mentre l'attivo dipartimento di matematica dell'università era una calamità per coloro che erano in visita o risiedevano in permanenza all'istituto.
Al contrario, Harvard, che un tempo era stata il gioiello della matematica americano, alla fine degli anni Quaranta era in uno «stato d'eclisse». Il suo leggendario presidente, G. D. Birkhoff, era morto. Alcune delle sue giovani stelle più brillanti, compresi Marshall Stone, Martson Morse e Hassler Whitney, se n'erano andate da poco, due proprio per l'Institute for Advanced Study. Einstein si era spesso lamentato con l'istituto del fatto che Birkhoff fosse «uno dei più grandi accademici antisemiti». Che ciò fosse o meno vero, i pregiudizi di Birkhoff gli avevano impedito di trarre vantaggio dall'emigrazione dei brillanti matematici ebrei dalla Germania nazista. In effetti a Harvard avevano anche ignorato Norbert Wiener, il più brillante matematico nato in America della sua generazione, padre della cibernetica e inventore della teoria matematica rigorosa del moto browniano. Wiener era ebreo e, come Paul Samuelson, futuro premio Nobel per l'economia, cercò rifugio dalla parte opposta di Cambridge, al MIX, che, alla pari del Carnegie Institute of Technology, era allora poco più di una scuola tecnica.
Princeton raggiunse il vertice del nuovo rango guadagnato dalla matematica in seno alla società americana. Si trovò all'avanguardia non solo nei campi della topologia, dell'algebra e della teoria dei numeri, ma anche in quelli della teoria dei calcolatori, della ricerca operativa e della nuova teoria dei giochi. Nel 1948 tutti erano tornati dalla guerra, e le ansie e le frustrazioni degli anni Trenta erano state spazzate via da una sensazione di cordialità e ottimismo. La scienza e la matematica erano considerate la chiave per costruire un mondo migliore nel dopoguerra. All'improvviso il governo, soprattutto i militari, erano disposti a investire denaro nella ricerca pura. Nacquero riviste. Si progettò un nuovo congresso mondiale matematico, il primo dai giorni bui di prima della guerra.
Una nuova generazione stava entrando sulla scena in massa, desiderosa di sorbire la saggezza della generazione precedente, ma anche piena di idee e disposizioni mentali proprie. Non c'erano ancora donne, naturalmente - a eccezione di Mary Cartwright di Oxford, che quell'anno era a Princeton ma Princeton si stava aprendo. D'un colpo, essere ebreo o straniero, avere un accento delle classi lavoratrici o essersi laureati in un college che non sorgeva sulla East Coast non costituivano più un ostacolo per un giovane matematico in gamba. La divisione più evidente nel campus divenne d'un tratto quella fra «i ragazzini» e i veterani di guerra che, nel pieno dei loro vent'anni, cominciavano i corsi di dottorato insieme ai ventenni come Nash. La matematica non era più una professione per gendemen, ma un'attività meravigliosamente dinamica. «C'era la convinzione che la mente dell'uomo potesse realizzare qualsiasi cosa con le idee matematiche» ha ricordato in seguito uno studente di Princeton di quel tempo. E ha aggiunto: «Gli anni del dopoguerra portarono le loro minacce — la guerra di Corea, la guerra fredda, la Cina che andava ai comunisti — ma in realtà, per quanto riguarda la scienza, c'era questo incredibile ottimismo. A Princeton la sensazione non era che si fosse vicini a una grande rivoluzione intellettuale, ma che se ne facesse parte».
(Tratto da "Il genio dei numeri - Sylvia Nasar - 1999 Rizzoli)
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