Matematici

Luca Pacioli

 

Luca Pacioli

Luca Pacioli nacque nel 1445 a Borgo San Sepolcro, la stessa cittadina toscana in cui Piero della Francesca era nato e aveva avuto la sua bottega di artista. Non solo: proprio quella bottega fu la prima «scuola» da lui frequentata. Ma diversamente da altri apprendisti (tra i quali il Perugino) che si rivelarono dotati nel disegno e nell'uso del colore, e furono quindi avviati al mestiere della pittura, Luca apparve portato soprattutto per la matematica. Il rapporto personale fra Piero e Pacioli, peraltro, rimase stretto anche in seguito, come dimostra il fatto che l'artista inserì un ritratto di Pacioli per raffigurare san Pietro Martire in una Madonna e Gesù Bambino con Santi e Angeli. Relativamente giovane, Pacioli si trasferì a Venezia come tutore dei tre figli di un ricco mercante. Lì continuò i propri studi matematici (con Domenico Bragadino) e portò a termine il suo primo manuale di aritmetica.

Negli anni Settanta del Quattrocento Pacioli studiò teologia ed entrò nell'Ordine francescano. Per questo è ancora oggi noto come fra Luca Pacioli.

Negli anni seguenti compì numerosi viaggi e insegnò nelle università di Perugia, Zara, Napoli e Roma. È anche possibile che in quel periodo fosse stato per qualche tempo tutore di Guidobaldo di Montefeltro, duca di Urbino dal 1482.

In quello che potrebbe essere il più bel ritratto in assoluto di un matematico, Jacopo de' Barbari (1440-1515) ha raffigurato Luca Pacioli mentre tiene una lezione di geometria a un ignoto allievo, in cui alcuni hanno ravvisato il duca Guidobaldo. Uno dei poliedri platonici - un dodecaedro — è visibile a destra, sopra un volume della Summa del Pacioli. Il frate stesso, nel saio dei frati minori e vagamente simile a un poliedro nella sua altera, pensosa compostezza, sta copiando un diagramma dal Libro XIII degli Elementi di Euclide. Un solido trasparente chiamato «rombododecaedro» (uno dei «solidi di Archimede», con ventisei facce, diciotto a forma di quadrato e otto a forma di triangolo equilatero), pieno d'acqua per metà e sospeso a mezz'aria, simboleggia la cristallina eternità della matematica. L'artista ha catturato ombre e riflessi del poliedro trasparente con eccezionale abilità. Sull'identità'del secondo personaggio del dipinto c'è stato un dibattito degno di attenzione. Nel 1993 Nick MacKinnon ha indicata un'interessante possibilità. In un documentato articolo dal titolo The Portrait offra Luca Pacioli (Il ritratto di fra Luca Pacioli), apparso sulla «Mathematica Gazette», l'autore suggerisce che si tratti del celebre pittore tedesco Albrecht Durer, che molto si interessò non solo di prospettiva, ma anche di geometria (sul rapporto tra Durer e Pacioli torneremo più avanti nel capitolo). È innegabile, comunque, che il volto dello studente del quadro di de' Barbari presenti una notevole somiglianzà con l'autoritratto del pittore tedesco.

Pacioli tornò a Borgo San Sepolcro nel 1489, dopo aver ottenuto dal papa speciali privilegi solo per scontrarsi con beghe meschine tra le locali autorità religiose. Per quasi due anni fu praticamente escluso dall'insegnamento. Nel 1494 si recò a Venezia per pubblicare la Summa, che dedicò al duca Guidobaldo. Enciclopedica per dimensioni (quasi seicento pagine) e contenuto, l'opera riassume le conoscenze matematiche del tempo in settori quali l'aritmetica, l'algebra, la geometria e la trigonometria. Nel trattato Pacioli attinge liberamente (di solito riconoscendo il proprio debito), per quanto riguarda i problemi dell'icosaedro e del dodecaedro, al Trattato di Piero della Francesca e, per i problemi di algebra e geometria, alle opere di Fibonacci e altri. Indicando in Fibonacci la propria fonte principale, Pacioli afferma che dove nessun altro è citato, è sottinteso che l'autore si basa sull'opera di Leonardus Pisanus. Una parte interessante della Summa riguarda la «partita doppia». Si tratta di un metodo di contabilità che permette di ricostruire origine e destinazione delle somme registrate. Anche se Pacioli non inventò il metodo, limitandosi a descrivere sinteticamente una prassi già in uso da qualche tempo tra i mercanti veneziani, la Summa è considerata il primo manuale di contabilità. Il desiderio di Pacioli di fornire senza indugio al mercante le informazioni sui suoi attivi e passivi gli valse il titolo di «padre della contabilità», tanto che ragionieri di tutto il mondo hanno celebrato (a Sansepolcro) il cinquecentenario della Summa.

Nel 1480 Ludovico Sforza detto il Moro diventò de facto duca di Milano. Tuttavia, dal punto di vista formale egli era solo il reggente del nipote Gian Galeazze Sforza, ancora bambino, al posto del quale egli governava il ducato dopo una fosca vicenda di intrighi e delitti. Deciso a rafforzare il prestigio della corte dando ospitalità a studiosi e artisti, Ludovico invitò a Milano, nel 1482, Leonardo da Vinci in veste di «pittore e ingegnere del duca». La geometria era uno dei molti interessi dell'artista, specialmente per le sue applicazioni alla meccanica. Secondo Leonardo, la meccanica è «il paradiso delle scienze matematiche, perché in essa troviamo il frutto della matematica». È probabile, quindi, che sia stato Leonardo a convincere Ludovico il Moro a invitare a corte Pacioli nel 1496, perché insegnasse la dottrina dei numeri. Ed è certo che Leonardo apprese proprio da Pacioli una parte delle proprie conoscenze geometriche, mentre a sua volta accrebbe ulteriormente l'ammirazione del frate francescano per le arti figurative.

Fu a Milano che Pacioli portò a termine il trattato in tre volumi De divina proportioné", che fu però pubblicato a Venezia nel 1509. Il primo volume, Compendio de divina proportione, contiene un riassunto dettagliato delle proprietà del rapporto aureo (definito appunto dall'autore «divina proporzione»), e una disquisizione sui solidi platonici e altri poliedri. Nella prima pagina dell'opera, Pacioli dichiara piuttosto immodestamente che il suo libro è «opera a tutti gli ingegni perspicaci e curiosi necessaria», in cui chiunque ami lo studio della filosofia, della prospettiva, della pittura, della scultura, dell'architettura, della musica e di altre discipline matematiche «suavissi-ma sottile e admirabile doctrina consequira e delectarassi co varie questione de secretissima scientia».

Il primo volume del De divina proportione è dedicato a Ludovico Sforza, e nel quinto capitolo l'autore elenca cinque ragioni per cui l'espressione che da il titolo all'opera è a suo parere la più adeguata a definire il rapporto aureo.

1. «Che [tale proporzione] sia una sola e non più.» Pacioli paragona il valore unico del rapporto aureo al fatto che l'unità è «el supremo epiteto de epso idio [Dio stesso]».

2. La somiglianzà tra il fatto che il rapporto aureo chiama in causa esattamente tre lunghezze (AC, CB e AB nella Figura 23) e la definizione di Dio come Uno e Trino.

3. Il fatto che il rapporto aureo sia espresso da un numero irrazionale e l'impossibilità, per l'intelletto umano, di comprendere l'idea della divinità sarebbero equivalenti. Per usare le parole dell'autore, «si commo idio propriamente non si pò diffinire ne per parolle a noi intendere» così «questa nostra proportione non se pò mai per numero intendibile asegnare né per quantità alcuna rationale exprimere ma sempre fia oculta e segreta e dali Mathematici chiamata irrationale».

4. L'autosimilitudine del rapporto aureo — il fatto che il suo valore sia sempre uguale e non dipenda dalla lunghezza della linea da dividere o dalla grandezza del pentagono i cui rapporti di lunghezza sono da calcolare — rinvierebbe all'onnipresenza e invariabilità di Dio.

5. La quinta ragione suggerisce una «visione del mondo» più platonica di quella di Piatone stesso: come Dio ha conferito l'essere all'intero cosmo tramite la quint'essenza, così il rapporto aureo è alla base dell'esistenza del dodecaedro, che ne dipende per la propria costruzione. Pacioli aggiunge che è impossibile confrontare tra loro gli altri quattro poliedri platonici (connessi ai quattro elementi della «fisica» antica: la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco) senza il rapporto aureo.

Sul rapporto aureo e le sue proprietà, Pacioli torna continuamente nel libro. Lo dimostra il meticoloso esame di quelli che egli chiama i tredici «effetti» della «divina proporzione», in cui ciascun effetto è abbinato ad aggettivi come «essenziale», «singolare», «magnifico», «supremo» e simili. Per esempio, l'«effetto» che rettangoli aurei possano essere inscritti nell'icosaedro è definito «incomprensibile». L'autore si ferma a tredici «effetti», concludendo che «per la salute dell'anima, l'elenco va terminato», in quanto tredici furono i commensali dell'Ultima Cena.

Non c'è dubbio che Pacioli fosse molto interessato alle arti, e che uno degli scopi del De divina proportione fosse, contribuire a dare un solido fondamento al lavoro creativo dei pittori. Fin dalla prima pagina, egli manifesta il desiderio di rivelare all'artista, con il rapporto aurao, il «segreto» dell'armonia delle forme visibili. E per rendere il trattato ancora più convincente e piacevole riuscì ad assicurarsi la collaborazione di un illustratore che non è esagerato definire senza eguali: sono infatti di Leonardo da Vinci sessanta illustrazioni di solidi, raffigurati sia pieni sia a guisa di intelaiatura. E non tralasciò di esprimere la sua gratitudine al «degnissimo pictore prospectivo architecto musico. E de tutte virtù doctato. Leonardo davinci», che calcolò ed eseguì una serie di diagrammi dei solidi regolari. Il contenuto dell'opera, però, non appare all'altezza delle ambiziose mete che l'autore si proponeva. L'esordio altisonante è infatti seguito da un insieme piuttosto banale di formule matematiche, accompagnate da commenti filosofeggiano non sempre pertinenti.

Il secondo volume del De divina, proportione è un trattato sulla proporzionalità e le sue applicazioni all'architettura e alla struttura del corpo umano. L'esposizione di Pacioli attinge generosamente all'opera del celebre Vitruvio (l'architetto romano Marcus Vitruvius Pollio; e. 70 - 25 a.C.). Scrive Vitruvio:

Nel corpo umano il punto centrale è naturalmente l'ombelico. Infatti, se un uomo è adagiato sulla schiena, con le braccia e le gambe protese, e un compasso è posto con uno degli estremi in corrispondenza dell'ombelico, le punte delle dita delle mani e dei piedi toccheranno la circonferenza del cerchio così tracciato. E come il corpo umano ha un confine circolare, così si può ricavare da esso una figura quadrata. Infatti, misurando la distanza dalle piante dei piedi alla sommità del capo, e poi misurando allo stesso modo la distanza tra le estremità delle braccia estese, si constaterà che la larghezza è uguale all'altezza, come accade a una figura piana che sia perfettamente quadrata.

Il passo fu interpretato dagli eruditi del Rinascimento come un'ulteriore dimostrazione del rapporto tra fondamenti organici e geometrici della bellezza, e sfociò nel concetto di «uomo vitruviano» illustrato dal bel disegno di Leonardo. In conformità con questa impostazione, anche il libro di Pacioli comincia con una discussione delle proporzioni del corpo umano, perché «dal corpo humano ogni mesura con sue denominationi deriva e in epso tutte sorti de proportioni e proportionalita se ritrova con lo deto de laltissimo mediante li intrinseci secreti dela natura».* Ma nonostante le molte affermazioni in proposito presenti nella letteratura, Pacioli non insiste sull'importanza del rapporto aureo per le proporzioni delle opere d'arte in genere. Semmai, egli prende specificamente le difese del sistema vitruviano, basato su rapporti matematici semplici (e razionali). Roger Herz-Fischler ha scoperto l'errore nell'uso di Pacioli del rapporto aureo come regola per la proporzione di fronte a un'affermazione sbagliata contenuta nell'edizione del 1799 della Histoire de Mathématiques (Storia della matematica) dei matematici francesi Jean Etiehne Montucla e Jéròme de Lalande.

Il terzo volume del De divina (un breve libro diviso in tre esposizioni parziali sui cinque solidi regolari) è in sostanza una traduzione letterale in lingua italiana del trattato in latino sui poliedri regolari di Piero della Francesca. Il fatto che in nessun punto del volume in questione Pacioli ammetta di essere niente di più che il traduttore del Libellus gli valse un aspro rimprovero di Giorgio Vasari, che, scrivendo di Piero della Francesca, sostenne che egli ... essendo stato tenuto maestro raro e divino nelle difficulta de' corpi regolari, e nella aritmetica e geometria, sopraggiunto nella vecchiaia dalla cecità corporale e dalla fine della vita, non possette mandare in luce le virtuose fatiche sue et i molti libri scritti da lui. [...] E colui, che con tutte le forze sue si doveva ingegnare di mantenergli la gloria e di accrescergli nome e fama, per avere pure appreso tutto quello che e' sapeva, [...] annullato il nome del precettore, usurpatosi il tutto, dette in luce sotto nome suo proprio ciò è di fra Luca [Pacioli] dal Borgo tutte le fatiche di quel buon vecchio. Il quale, oltra le scienze dette di sopra, fu eccellente nella pittura [...].

Pacioli fu dunque un plagiario? Non si può escluderlo, anche se nella Summa, per la verità, egli si inchina a quel Piero che dice di considerare «il monarca dei nostri tempi nella pittura» e «a voi familiare in quella copiosa opera da lui composta sull'arte della pittura e sulla forza della linea nella prospettiva».

Robert Emmet Taylor (1889-1956) pubblicò nel 1942 un delizioso libro intitolato: No Royal Road: Luca Pacioli and His Times (Nessuna via regia: Luca Pacioli e il suo tempo). L'atteggiamento di Taylor verso Pacioli è nell'insieme assai benevolo; in particolare, basandosi sullo stile, egli sostiene che l'autore del De divina può non aver avuto niente a che fare con quello che oggi è considerato il terzo libro del trattato. Secondo Taylor, la versione italiana del Libellus di Piero può essere stata aggiunta da altri, senza alcuna partecipazione di Pacioli.

Comunque stiano le cose, non c'è dubbio che senza le opere del Pacioli le idee e i procedimenti matematici di Piero (che non furono mai stampati) non avrebbero avuto l'ampia circolazione che di fatto ottennero. Inoltre, merita di essere sottolineato che fino all'epoca di Pacioli il rapporto aureo era espresso da poco incoraggianti formule verbali come «proporzione estrema e mèdia», o «proporzione con un termine medio e due estremi»; una circostanza che può aver contribuito a tenere i non matematici all'oscuro della sua esistenza. La pubblicazione del De divina nel 1509 portò a un rinnovato e più diffuso interesse per. Il semplice fatto di essere l'argomento di un libro aumentava il suo prestigio. Inoltre, le implicazioni teologico/fìlosofiche del suo nuovo nome presentavano il rapporto aureo come una nozione matematica suscettibile di essere approfondita con crescente eclettismo anche da altri studiosi. Infine, col libro di Pacioli il rapporto aureo diventò familiare a pittori, scultori e architetti per mezzo di trattati non destinati agli specialisti di matematica, che essi erano in grado di consultare.

I poliedri disegnati per il De divina da Leonardo con la sua «ineffabile mano sinistra» (per usare l'espressione di Pacioli) ebbero anch'essi il loro peso. Furono probabilmente le prime illustrazioni di poliedri sotto forma di intelaiatura, uno stratagemma rivolto a permettere anche la raffigurazione della loro parte posteriore. E inoltre verosimile che Leonardo si sia servito di modelli in legno, visto che alcuni documenti coevi della città di Firenze riferiscono che una serie di modelli lignei di poliedri, appartenuti a Pacioli, furono acquistati dal comune per una pubblica esposizione. Oltre alle illustrazioni del trattato di Pacioli, i quaderni di appunti di Leonardo contengono numerosi schizzi di poliedri, e in un quaderno è descritto un metodo per la costruzione approssimata del pentagono. La sintesi leonardesca di arte e matematica ha il proprio vertice teorico nel Trattato della pittura, che si apre con il monito: «Nessuno che non sia matematico legga la mia opera», un'affermazione che è ben difficile immaginare collocata all'inizio di un analogo manuale contemporaneo!

I disegni di poliedri nel De divina hanno anche ispirato alcuni intarsi di fra Giovanni da Verona intorno al 1520. Gli intarsi sono una forma artistico-decorativa in cui immagini bidimensionali, geometriche o naturalistiche sono ottenute per giustapposizione di lamine lignee. Tra le immagini dei pannelli intarsiati di fra Giovanni c'è un icosaedro, quasi certamente basato sul disegno a intelaiatura di Leonardo che riproduce lo stesso solido.

Le vite di Leonardo e Pacioli continuarono in qualche misura a incrociarsi dopo il completamento del De divina. Nell'ottobre del 1499, lasciarono entrambi Milano dopo la conquista della città da parte delle truppe francesi di re Luigi XII. Dopo brevi soggiorni a Mantova e Venezia, risiedettero per qualche tempo a Firenze. Durante il periodo della loro amicizia, il nome di Pacioli fu associato ad altri due importanti lavori di argomento matematico, una traduzione in latino degli Elementi di Euclide e un'opera di matematica ricreativa, che restò inedita. La traduzione degli Elementi era commentata e basata su una precedente versione di Campano da Novara (e. 1220-1296), la cui prima edizione a stampa era uscita a Venezia nel 1482. Quanto all'antologia di problemi e aforismi di matematica ricreativa De viribus quantitatis (I poteri dei numeri), Pacioli non riuscì a pubblicarla durante la sua vita, che si concluse nel 1517. Il De viribus era un progetto a due di Pacioli e Leonardo, e negli appunti di quest'ultimo si trovano molti problemi discussi anche nell'antologia.

Fra Luca Pacioli non è e non sarà ricordato per la sua originalità, ma la sua influenza sullo sviluppo della matematica in generale, e del rapporto aureo in particolare, non può essere ignorata.

(Tratto da "La sezione aurea" di Mario Livio - 2003 Rizzoli)