Matematici

John Nash

Il genio

La pazzia

Il risveglio

L'intervista

 

John Nash

Questa è la storia di John Forbes Nash Junior, genio della matematica, inventore di una teoria del comportamento razionale, profeta della macchina pensante.

La storia del mistero della mente umana, in tre atti: genio, pazzia e risveglio.

Il genio

Il giovane genio di Bluefield, nella West Virginia - bello, arrogante ed eccentrico — apparve d'improvviso sulla scena matematica nel 1948. Nel corso del decennio seguente, un decennio caratterizzato tanto da una fiducia suprema nella razionalità umana quanto da oscuri presagi sulla sopravvivenza dell'umanità, Nash si dimostrò «il matematico più straordinario della seconda metà del secolo».

Giochi di strategia, competizione economica, architettura dei computer, la forma dell'universo, la geometria dello spazio immaginario, il mistero dei numeri primi tutto attraeva la sua vastissima immaginazione. Le sue idee erano di quel genere profondo e completamente privo di precedenti che spinge il pensiero scientifico in nuove direzioni.

Il genio di Nash apparteneva al genere misterioso che è associato più di frequente alla musica e all'arte che non alla più antica di tutte le scienze. Non era semplicemente il fatto che la sua mente lavorasse più in fretta, che la sua memoria fosse più ritentiva, o che la sua capacità di concentrazione fosse migliore. I suoi lampi d'intuizione erano non razionali. Come altri grandi matematici intuitivi — Georg Friedrich Bernhard Riemann, Jules Henri Poincaré, Srinivasa Ramanujan — Nash prima aveva la visione, e solo molto tempo dopo costruiva le laboriose dimostrazioni. Ma anche dopo che aveva cercato di spiegare un risultato sbalorditivo, il percorso reale che aveva seguito rimaneva un mistero per gli altri che tentavano di capire il suo ragionamento.

Nessuno era più ossessionato dall'originalità, più sprezzante dell'autorità, o più geloso della propria indipendenza. Da giovane fu circondato dai massimi sacerdoti della scienza del ventesimo secolo — Albert Einstein, John von Neumann e Norbert Wiener - ma non si unì a nessuna scuola, non divenne il discepolo di nessuno, percorse la sua strada per lo più senza guide né discepoli. In quasi tutto ciò che fece - dalla teoria dei giochi alla geometria - disdegnò l'opinione invalsa, le mode correnti, i metodi già stabiliti.

Lavorava quasi sempre da solo, nella sua mente, di solito mentre camminava, spesso fischiettando Bach. Nash acquisì le sue conoscenze della matematica non tanto studiando ciò che gli altri matematici avevano scoperto, ma riscoprendo da solo le loro verità. Desideroso di sbalordire, era sempre alla ricerca di problemi veramente difficili. Quando si concentrava su un nuovo problema, ne vedeva dimensioni che da principio le persone che conoscevano veramente la materia (lui non la conosceva mai veramente) scartavano come ingenue o improprie. Anche da studente la sua indifferenza per lo scetticismo, i dubbi e lo scherno degli altri intimorivano.

La fede di Nash nella razionalità e nel potere del puro pensiero era estrema, persino per un matematico molto giovane e persino nella nuova era dei computer, dei viaggi spaziali e delle armi nucleari. Una volta Einstein lo rimproverò perché voleva correggere la relatività senza aver studiato la fisica. I suoi eroi erano pensatori solitari e superuomini come Newton e Nietzsche. I calcolatori e la fantascienza erano la sua passione. Considerava le «macchine pensanti», come le chiamava, sotto qualche aspetto superiori agli esseri umani. A un certo punto fu affascinato dall'idea che le droghe potessero amplificare le performance fisiche e intellettuali.

Lo incantava immaginare una razza aliena di esseri iperrazionali che avessero imparato a ignorare le emozioni. Razionale in modo compulsivo, avrebbe voluto trasformare le decisioni della vita — se prendere il primo ascensore o attendere il successivo, dove investire i propri soldi, quale offerta di lavoro accettare, se sposarsi - in un calcolo dei vantaggi e degli svantaggi, in algoritmi e regole matematiche separati dalle emozioni, dalle convenzioni e dalla tradizione.

I suoi contemporanei, in generale, lo trovavano immensamente strano. Lo descrivevano come «riservato», «arrogante», «privo di emozioni», «distaccato», «inquietante», «isolato» e «stravagante». Nash, più che unirsi ai suoi coetanei, vi si mescolava. Preoccupato della propria realtà, sembrava non condividere i loro interessi per le cose della vita. I suoi modi — leggermente freddi, piuttosto superiori, alquanto riservati - suggerivano qualcosa di «misterioso e innaturale». Il suo distacco era punteggiato da scoppi di loquacità sullo spazio e sugli orientamenti geopolitici, da scherzi puerili e da improvvisi eccessi di rabbia. Ma queste esplosioni erano, di solito, enigmatiche quanto i suoi silenzi.

Ma un contributo lo diede, e grande. Il meraviglioso paradosso era che le sue idee non erano affatto oscure. Nel 1958, la rivista Fortune segnalò Nash per i risultati che aveva ottenuto nella teoria dei giochi, nella geometria algebrica e nella teoria non lineare, definendolo il più brillante rappresentante della giovane generazione di nuovi matematici polivalenti che lavoravano tanto nel campo della matematica pura quanto in quello della matematica applicata. L'intuizione di Nash sulla dinamica della competizione umana — la sua teoria del conflitto e della cooperazione razionali - doveva diventare una delle idee più influenti del ventesimo secolo, trasformando la giovane scienza dell'economia allo stesso modo in cui le idee di Mendel sulla trasmissione genetica, il modello di Darwin della selezione naturale e la meccanica celeste di Newton avevano dato una nuova forma alla biologia e alla fisica del loro tempo.

Fu il grande matematico polivalente di nascita ungherese John von Neumann a comprendere per primo che il comportamento sociale poteva essere analizzato in termini di giochi. L'articolo del 1928 di von Neumann sui giochi da tavolo fu il primo tentativo coronato da successo di derivare regole logiche e matematiche sulla competizione. Proprio come William Blake vedeva l'universo in un granello di sabbia; i grandi scienziati spesso hanno cercato indizi per problemi grandi e complessi nei fenomeni minuti e familiari della realtà quotidiana. Isaac Newton raggiunse le sue intuizioni sul cielo giocando con palle di legno. Einstein contemplava una barca risalire il fiume. Von Neumann rifletteva sul gioco del poker.

Un'attività apparentemente semplice e dilettevole come il poker, pensò von Neumann, poteva contenere la chiave per comprendere attività umane più serie per due ragioni. Sia il poker sia la competizione economica richiedono un particolare tipo di ragionamento, ossia il calcolo razionale dei vantaggi e degli svantaggi basato su un sistema di valori dotato di coerenza interna («più è meglio di meno»). E in entrambi, il guadagno per ciascuno degli attori dipende non solo dalle sue azioni ma anche dalle azioni indipendenti degli altri.

Più di un secolo prima, l'economista francese Antoine-Augustin Cournot aveva sottolineato che i problemi della scelta economica risultavano estremamente semplificati quando non c'erano altri soggetti coinvolti oppure quando ce n'era un gran numero. Solo sulla sua isola, Robinson Crusoe non deve preoccuparsi di altri che con le loro azioni potrebbero influenzarlo. Né, d'altra parte, devono preoccuparsi i macellai e i panettieri di Adam Smith: essi vivono in un mondo con così tanti attori che le loro azioni, in effetti, si cancellano a vicenda. Ma quando non c'è solo un soggetto agente e neppure così tanti che la loro influenza possa essere ignorata senza problemi, il comportamento strategico solleva un problema apparentemente insolubile: «Io penso che lui pensi che io pensi che lui pensi» e così via.

Von Neumann riuscì a fornire una soluzione convincente a questo problema di ragionamento circolare nel caso di giochi a due partecipanti e a somma zero, giochi in cui il guadagno di una persona equivale alla perdita dell'altra. Ma i giochi a somma zero sono quelli meno applicabili all'economia (come ha scritto qualcuno, il gioco a somma zero è per la teoria dei giochi «ciò che il blues di dodici battute è per il jazz: un caso speciale e un punto storico di partenza»). Per situazioni con molti attori e la possibilità di un guadagno reciproco - lo scenario economico standard — l'istinto superlativo di von Neumann non lo aiutò. Era convinto che i giocatori dovessero formare coalizioni, stipulare accordi espliciti, e rimettersi a un'autorità superiore, centralizzata, per rafforzare tali accordi.

È assai probabile che le sue convinzioni riflettessero la sfiducia della sua generazione nell'individualismo sfrenato, sulla scia della depressione e nel mezzo di una guerra mondiale. Benché von Neumann non condividesse affatto le opinioni liberali di Einstein, Bertrand Russell e dell'economista inglese John Maynard Keynes, condivideva in parte con loro l'idea secondo cui le azioni che possono essere ragionevoli dal punto di vista dell'individuo, potrebbero produrre il caos sociale. Come loro, abbracciò una soluzione ai conflitti politici che godeva di grande popolarità nell'era della guerra nucleare: il governo mondiale.

Il giovane Nash aveva istinti completamente differenti. Laddove l'attenzione di von Neumann era sul gruppo, Nash si concentrava sull'individuo e, in tal modo, rendeva la teoria dei giochi importante per la moderna scienza dell'economia. Nelle ventisette paginette della sua tesi di dottorato, scritte quando aveva ventun anni, Nash creò una teoria dei giochi in cui c'era la possibilità di un guadagno reciproco, inventando un concetto che permetteva di interrompere la catena infinita di «io penso che tu pensi che io penso...»

Così, un giovanotto apparentemente distaccato dalle emozioni altrui, per non parlare delle proprie, era in grado di vedere con chiarezza che le motivazioni e i comportamenti più umani sono tanto misteriosi quanto la matematica stessa, quanto quel mondo di forme ideali platoniche inventate dalla specie umana apparentemente per pura introspezione (e tuttavia legate in qualche modo agli aspetti più grossolani e terreni della natura). Ma Nash era cresciuto in una cittadina in rapida espansione ai piedi delle colline pedemontane nella regione degli Appalachi, dove si costruivano fortune con attività commerciali dure e lucrative legate alle ferrovie, al carbone, ai rottami metallici e all'energia elettrica. La razionalità dell'individuo e gli interessi dell'individuo, non un accordo comune su un qualche bene collettivo, sembravano sufficienti a creare un ordine tollerabile. Per passare dalle osservazioni fatte nella sua città natale all'attenzione sulla strategia logica necessaria all'individuo per massimizzare il proprio vantaggio e minimizzare gli svantaggi, il salto era breve. L'equilibrio di Nash, una volta che lo si sia spiegato, sembra ovvio, ma formulando il problema della competizione economica nel modo in cui fece, Nash mostrò che un processo decisionale decentrato poteva, in effetti, essere coerente, offrendo alle scienze economiche una versione aggiornata, assai più sofisticata, della grande metafora della Mano Invisibile di Adam Smith.

Prima che compisse trent'anni, le intuizioni e le scoperte di Nash gli avevano fatto guadagnare riconoscimenti, rispetto e autonomia. Si era costruito una carriera brillante giungendo all'apice della professione matematica, viaggiava, teneva conferenze, insegnava, si incontrava con i matematici più famosi del tempo, e divenne egli stesso famoso. Il suo genio gli portò anche l'amore. Aveva sposato una studentessa di fisica giovane e bellissima che lo adorava, ed era diventato padre. Era una strategia brillante: questo genio, questa vita. Un adattamento apparentemente perfetto.

Molti grandi scienziati e filosofi, tra cui Rene Descartes, Ludwig Wittgenstein, Immanuel Kant, ThorsteinVeblen, Isaac Newton e Albert Einstein, avevano personalità del genere, solitàrie ed eccentriche. Un carattere introverso e distaccato può essere particolarmente incline alla creatività scientifica, come hanno constatato da tempo psichiatri e biografi, esattamente come vistosi mutamenti d'umore non di rado sono collegati all'espressione artistica. In The Dynamics of Creation, lo psichiatra inglese Anthony Storr sostiene che un individuo che «teme l'amore almeno quanto teme l'odio» può dedicarsi all'attività creativa non solo in seguito alla pulsione a sperimentare il piacere estetico o il godimento di esercitare una mente attiva, ma anche per proteggersi da un'angoscia suscitata da esigenze in conflitto come il distacco e il contatto umano. Alla stessa stregua, il filosofo e scrittore francese Jean-Paul Sartre definiva la genialità come «la brillante invenzione di qualcuno che cerca una via di fuga».

Certo, pochissime persone che manifestano «una costante modalità di isolamento sociale» e di «indifferenza agli atteggiamenti e alle sensazioni degli altri» — caratteristiche della personalità cosiddetta schizoide - sono in possesso di un grande talento scientifico o di altri generi di creatività. E quasi mai la stragrande maggioranza delle persone con personalità solitàrie e stravaganti di questo tipo è preda di gravi malattie mentali.

Personalità dotate di genialità scientifica, per quanto eccentriche, raramente diventano davvero folli, il che costituisce la prova più lampante della natura potenzialmente protettiva della creatività. Nash fu una tragica eccezione. Sotto la brillante superficie della sua vita, tutto era caos e contraddizione: il suo coinvolgimento con altri uomini, un'amante segreta e un figlio illegittimo trascurato; una profonda ambivalenza nei confronti della moglie adorante, dell'università che lo aveva allevato, persine del suo paese e, sempre di più, un ossessivo timore di fallire. E alla fine il caos emerse, traboccò e spazzò il fragile edificio della sua vita minuziosamente costruita.

I primi segni visibili del lento passaggio dall'eccentricità alla pazzia apparvero quando Nash aveva trent'anni e stava per diventare professore al MIT. Gli episodi furono così enigmatici e sfuggenti che alcuni dei suoi colleghi più giovani di quell'istituto pensarono che si stesse prendendo gioco di loro. Nash entrò nella sala professori una mattina d'inverno del 1959 con una copia del New York Times e affermò, senza rivolgersi a nessuno in particolare, che la storia raccontata in prima pagina, nell'angolo in alto a sinistra, conteneva un messaggio cifrato inviato dagli abitanti di un'altra galassia che solo lui era in grado di decifrare.

Persino mesi più tardi, dopo che aveva lasciato l'insegnamento, aveva rinunciato rabbiosamente al suo incarico di professore ed era stato rinchiuso in una clinica psichiatrica privata nei sobborghi di Boston, uno degli psichiatri legali più eminenti della nazione, continuò a sostenere che Nash fosse perfettamente sano di mente.

Solo alcuni di coloro che erano stati testimoni di quella metamorfosi misteriosa, Norbert Wiener fu uno di questi, ne compresero il vero significato.

All'età di trent'anni, Nash soffrì del primo, devastante episodio di schizofrenia paranoide-allucinatoria, la più catastrofica, mutevole e misteriosa delle malattie mentali. Nash subì gravi forme di delirio, di allucinazioni, di disturbi del pensiero e dell'emotività, e la sua volontà fu spezzata. Preso nella morsa di questo «cancro della mente», come talvolta è chiamata tale patologia universalmente temuta, Nash abbandonò la matematica per dedicarsi alla numerologia e alle profezie religiose; credeva di essere «una figura messianica di grande ma segreta importanza». Fuggì varie volte in Europa, subì una mezza dozzina di ricoveri coatti per periodi che durarono fino a sei mesi, fu sottoposto a trattamenti farmacologici e a terapie di shock di ogni genere, ebbe brevi periodi di remissione ed episodici momenti di speranza che duravano solo pochi mesi e infine divenne un fantasma triste che si aggirava per il campus della Princeton University, dove un tempo era stato un brillante studente di dottorato, vestito in modo eccentrico, borbottando fra sé e sé, scrivendo misteriosi messaggi sulle lavagne, un anno dopo l'altro.

Le origini della schizofrenia sono misteriose. Il disturbo fu descritto la prima volta nel 1806, ma nessuno sa con certezza se la malattia - o meglio l'insieme dei disturbi — sia esistita prima, ma sia sfuggita all'individuazione oppure sia apparsa, simile al flagello dell'Aids, all'inizio dell'era industriale. Più o meno l'un per cento della popolazione di tutti i paesi vi è soggetta. Non si sa perché colpisca un individuo e non un altro, benché si sospetti che risulti da un processo di predisposizione ereditaria e di tensioni quotidiane. Elementi ambientali come la guerra, la prigionia, le droghe e l'educazione non sembrano essere di per sé correlati all'insorgere della malattia, almeno non ne esistono le prove. Attualmente si è concordi nel pensare che il disturbo tenda a svilupparsi nelle famiglie, ma alla luce dei fatti la sola ereditarietà non è in grado di spiegare come mai un particolare individuo la sviluppi in tutta la sua interezza.

Eugene Bleuler, colui che coniò il termine schizofrenia nel 1908, parla di un «tipo specifico di alterazione del pensiero, dell'emotività e del rapporto con il mondo esterno». Il termine schizofrenia fa riferimento a una spaccatura delle funzioni psichiche, «una distruzione peculiare della coesione interna della personalità psichica». Per la persona che sperimenta i primi sintomi, vi è un'alterazione di ogni facoltà percettiva, del tempo, dello spazio e del corpo. Nessuno dei sintomi — il sentire voci, i deliri bizzarri, l'apatia o l'agitazione estreme, l'indifferenza verso gli altri — è, preso singolarmente, specifico della malattia. Ciascun sintomo varia a tal punto da soggetto a soggetto, e nel tempo per uno stesso soggetto, che il concetto di «caso tipico» è praticamente inesistente. Anche il grado di invalidità — molto più grave, in media, per i soggetti maschi — varia in misura enorme. I sintomi possono essere «leggermente, moderatamente, gravemente o totalmente disabilitanti», secondo Irving Gottesman, un autorevole ricercatore contemporaneo.

Benché Nash sia stato colpito a trent'anni, la malattia può comparire in ogni momento dall'adolescenza fino alla mezz'età avanzata. Il primo episodio può durare poche settimane o mesi o molti anni. La vita di una persona colpita dalla malattia può comprendere solo uno o due episodi. Isaac Newton, che fu sempre una persona eccentrica e solitària, subì un evidente episodio psicotico con deliri di tipo paranoico a cinquantini anni. L'episodio, che potrebbe essere stato provocato da una delusione sentimentale per un uomo più giovane o dal fallimento dei suoi esperimenti d'alchimia, segnò la fine della carriera accademica di Newton. Ma dopo circa un anno Newton si riprese e contìnuo a coprire una serie di cariche pubbliche di prestigio e a ricevere molti onori. Più spesso, come accadde nel caso di Nash, le persone affette dalla malattia subiscono molti episodi che si fanno di volta in volta più gravi e che hanno luogo a intervalli sempre più ravvicinati. Il grado di guarigione, che non è quasi mai completa, copre una gamma che va da un livello tollerabile per la società fino a uno che, anche se non sempre richiede un ricovero ospedaliere permanente, di fatto non permette nemmeno la parvenza di una vita normale.

Più di ogni sintomo, la caratteristica che definisce la schizofrenia è la sensazione profonda di incomprensibilità e di inaccessibilità che le persone affette dalla malattìa provocano negli altri. Gli psichiatri parlano della sensazione di essere divisi da un «abisso che non si può descrivere» da individui che sembrano «totalmente estranei, enigmatici, incredibili, assurdi e incapaci di empatia, al punto da risultare sinistri e terrorizzanti». Per Nash l'inizio della malattia intensificò in maniera drammatica una sensazione preesistente in molti di coloro che lo conoscevano, la sensazione che egli fosse in sostanza distaccato da loro e profondamente impenetrabile.

La schizofrenia contraddice l'opinione popolare ma sbagliata secondo cui la follia è esclusivamente un vortice di stati lunatici o un delirio febbrile. Uno schizofrenico non è confuso e disorientato in permanenza, come può accadere, per esempio, a una persona che soffre di un danno cerebrale o del morbo di Alzheimer. E' possibile che egli abbia, e in effetti di solito ha, una padronanza totale su alcuni aspetti della realtà. Quando era ammalato, Nash viaggiò per l'America e per l'Europa, ottenne assistenza legale e imparò a scrivere programmi sofisticati per computer. Inoltre, la schizofrenia è diversa dalla sindrome maniaco-depressiva (nota oggi col nome di disordine bipolare), la malattia con cui è stata confusa spessissimo nel passato.

Se non altro, la schizofrenia può essere, soprattutto nelle sue fasi iniziali, una malattia raziocinativa. Fin dalla fine del secolo scorso i maggiori studiosi della schizofrenia notarono che fra i malati c'erano persone con menti acute, e che i deliri, che spesso, anche se non sempre, accompagnano la malattia, coinvolgono voli d'immaginazione sottili, sofisticati, complessi. Emil Kraepelin, che per primo diede una definizione della malattia nel 1896, descrisse la «demenza precoce», come la battezzò, non come una frantumazione della ragione ma come «un danno predominante della vita emozionale e della volontà». Louis A. Sass, psicologo della Rutgers University, la definisce «non una fuga dalla ragione ma un'esacerbazione di quel male immaginato con lucidità da Dostoevskij... almeno in alcune delle sue forme... un aumento piuttosto che un indebolimento della consapevolezza cosciente, e un'alienazione non dalla ragione ma dalle emozioni, dagli istinti e dalla volontà».

L'umore di Nash nei primi giorni della sua malattia può essere descritto non come maniacale o melanconico, ma piuttosto come un aumento della consapevolezza, una vigilanza e una circospczione insonni. Nash cominciò a credere che moltissime delle cose che vedeva — un numero di telefono, una cravatta rossa, un cane che trotterellava sul marciapiede, una lettera dell'alfabeto ebraico, un luogo di nascita, una frase sul NewYork Times - avessero un significato nascosto evidente solo a lui. Trovava questi segni sempre più irresistibili, al punto tale che allontanavano dalla sua coscienza gli interessi e le preoccupazioni usuali. Allo stesso tempo, credeva di essere sulla soglia di intuizioni di portata cosmica. Sosteneva di avere trovato una soluzione per il più grande problema irrisolto della matematica pura, la cosiddetta congettura di Riemann. In seguito disse di essere impegnato nello sforzo di «riscrivere le fondamenta della fisica dei quanti».

Ancora più tardi, in una valanga di lettere spedite agli ex colleghi, disse di avere scoperto enormi cospirazioni e il significato segreto dei numeri e dei testi biblici.

È probabile che una predisposizione alla schizofrenia fosse parte integrante dell'insolito stile di pensiero matematico di Nash, ma la malattia nel suo culmine devastò le sue capacità di compiere un lavoro creativo. Le sue visioni un tempo illuminanti divennero sempre più oscure, contraddittorie e piene di significati puramente privati, accessibili solo a lui. La sua convinzione di vecchia data secondo cui l'universo era razionale evolvette in una caricatura di se stessa, trasformandosi in una fede irremovibile nel fatto che tutto avesse un significato, tutto avesse una ragione, nulla fosse casuale o accidentale.

Per gran parte del tempo, i suoi deliri grandiosi lo isolavano dalla realtà dolorosa di tutto ciò che aveva perso. Ma poi giungevano terribili lampi di consapevolezza. Di tanto in tanto si lamentava amaramente della propria incapacità di concentrarsi e di ricordare la matematica, incapacità che attribuiva alle terapie di shock. A volte diceva agli altri che la sua forzata inattività lo faceva vergognare di se stesso, lo faceva sentire senza valore. Più spesso esprimeva la sua sofferenza senza parole. In un'occasione, negli anni Settanta, se ne stava seduto a un tavolo nella sala da pranzo dell'Institute for Advanced Study - il rifugio di uomini dotti in cui un tempo aveva discusso le proprie idee con i pari di Einstein, von Neumann e Robert Oppenheimer — solo come al solito. Quella mattina, ricorda un membro dello staff dell'istituto, Nash si alzò, camminò fino alla parete e restò là per molti minuti, battendo la testa contro il muro, lentamente, ripetutamente, con gli occhi serrati, i pugni stretti, il volto contorto dall'angoscia.

Mentre l'uomo Nash restava congelato in uno stato di sogno, ridotto a un fantasma che vagava per Princeton negli anni Settanta e Ottanta, scribacchiando sulle lavagne e studiando libri religiosi, il suo nome cominciò a comparire ovunque - in testi di economia, articoli di biologia evolutiva, trattati di scienze politiche, riviste matematiche. Appariva più che in citazioni esplicite degli articoli che aveva scritto negli anni Cinquanta nella definizione di concetti che erano accettati troppo universalmente, che erano troppo familiari come componenti fondamentali di molte discipline per richiedere riferimenti specifici: «equilibrio di Nash», «soluzione di Nash della contrattazione», «programma di Nash», «risultato di De Giorgi-Nash», «immersione di Nash», «teorema di Nash-Moser», «blowing-up di Nash».

Quando, nel 1987,comparve una nuova, grande enciclopedia delle scienze economiche, The New Polgrove, i suoi compilatori scrissero che la rivoluzione della teoria dei giochi che aveva travolto le scienze economiche «era prodotta senza il contributo evidente di alcun nuovo teorema matematico fondamentale a parte quelli di von Neumann e di Nash».

Anche mentre le idee di Nash diventavano più influenti — in campi così diversi che quasi nessuno collegava il Nash della teoria dei giochi con quello della geometria o dell'analisi - l'uomo rimaneva celato nell'oscurità. La maggior parte dei giovani matematici ed economisti che facevano uso delle sue idee ipotizzavano semplicemente, considerate le date delle sue pubblicazioni, che fosse morto. I colleghi che sapevano che non era morto, ma che erano a conoscenza della sua tragica malattia, talvolta ne parlavano come se lo fosse. Nel 1989, la proposta di mettere ai voti la sua possibile elezione a membro della Econometrie Society fu considerata dai responsabili della società come un gesto molto romantico ma essenzialmente frivolo - e fu respinta. " Su The New Paigrave, accanto ai profili biografici di una mezza dozzina di pionieri della teoria dei giochi, non apparve alcun profilo di Nash.

Circa in quello stesso periodo, durante i suoi giri quotidiani per Princeton, Nash era solito farsi vedere all'istituto tutte le mattine per colazione. Talvolta scroccava una sigaretta o mendicava qualche spicciolo, ma per lo più se ne stava per conto suo, una figura silenziosa e furtiva, macilenta e grigia, che sedeva sola in un angolo, bevendo caffè, fumando, sparpagliando una pila di carte stracciate che portava sempre con sé.

Seguirono segni di guarigione. Verso il 1990 Nash cominciò a tenere una corrispondenza, per posta elettronica, con Enrico Bombieri,che per molti anni era stato una stella della facoltà di matematica dell'Institute for Advanced Study. Bombieri, un italiano brillante ed erudito, è un vincitore della medaglia Fields, l'equivalente per la matematica del premio Nobel. Bombieri dipinge a olio, raccoglie funghi e lucida pietre preziose. Bombieri è uno specialista della teoria dei numeri che lavora da molto tempo sulla congettura di Riemann. Lo scambio epistolare era incentrato su varie congetture e calcoli che Nash aveva cominciato, in connessione con la cosiddetta congettura ABC. Le lettere dimostravano che Nash era tornato a fare della vera ricerca matematica.

Una guarigione spontanea dalla schizofrenia - che ancora oggi è considerata una malattia degenerativa, che conduce alla demenza — è tanto rara, in particolare dopo un decorso così lungo e grave come nel caso di Nash, che, quando avviene, gli psichiatri mettono sistematicamente in dubbio la correttezza della diagnosi iniziale. Ma persone come Dyson e Bombieri, che avevano osservato Nash a Princeton per anni prima di essere testimoni della sua trasformazione, non avevano dubbi sul fatto che all'inizio degli anni Novanta egli fosse «un miracolo vivente».

È altamente improbabile, tuttavia, che molte persone estranee a quell'olimpo intellettuale sarebbero venute a conoscenza di questi sviluppi, per quanto drammatici apparissero a chi viveva a Princeton, se non fosse stato per un'altra scena, che avvenne anch'essa nello stesso luogo alla fine della prima settimana dell'ottobre 1994.

Un seminario di matematica stava concludendosi. Nash, che ora assisteva regolarmente a questi incontri e a volte poneva persine una domanda o proponeva una congettura, stava per svignarsela. Harold Kuhn, che era professore di matematica dell'università e il miglior amico di Nash, lo raggiunse sulla porta. Quel giorno Kuhn aveva già telefonato a casa di Nash e aveva proposto che andassero a pranzo insieme alla fine del seminario. La giornata era così mite, l'atmosfera all'aperto così invitante, i boschi dell'istituto così luminosi, che i due uomini finirono per sedersi su una panchina di fronte all'edificio di matematica, ai bordi di un vasto prato, davanti a una piccola, graziosa fontana giapponese.

Kuhn e Nash si conoscevano da quasi cinquantanni. Entrambi erano stati studenti di dottorato a Princeton alla fine degli anni Quaranta, avevano avuto gli stessi professori, conosciuto le stesse persone, si erano mossi negli stessi circoli matematici. Da studenti non erano stati amici, ma Kuhn, che ha passato gran parte della sua carriera a Princeton, non aveva mai perso completamente i contatti con Nash e, quando Nash era diventato più avvicinabile, era riuscito a stabilire con lui contatti piuttosto regolari. Kuhn è un uomo brillante, energico, sofisticato, per niente oppresso dalla «personalità matematica». Lontano dalla tipica figura dell'accademico, appassionato d'arte e delle cause politiche liberali, Kuhn è tanto interessato alla vita degli altri quanto Nash ne è indifferente. Erano una strana coppia, non legata dal temperamento o dalle esperienze ma da una grande riserva di memorie e associazioni.

Kuhn, che aveva ripetuto a se stesso con cura le parole che stava per pronunciare, arrivò velocemente al punto. «Ho qualcosa da dirti, John», esordi. Nash, come al solito, da principio rifiutò di guardare Kuhn in faccia, fissando invece un punto lontano. Kuhn continuò. Nash doveva attendersi una telefonata importante a casa la mattina del giorno dopo, probabilmente verso le sei. La chiamata sarebbe arrivata da Stoccolma. Sarebbe stata fatta dal segretario esecutivo dell'Accademia Svedese delle Scienze. Improvvisamente la voce di Kuhn si riempì d'emozione. Ora Nash girò la testa, concentrandosi su ogni singola parola. «Ti dirà, John», concluse Kuhn, «che hai vinto il premio Nobel

Molti matematici hanno attestato l'importanza di mettere da parte per un certo periodo problemi risolti solo parzialmente e di lasciare che a lavorare dietro le quinte sia l'inconscio.

L'estate del 1949, durante la quale superò gli esami generali, si dimostrò inaspettatamente fruttuosa, permettendo a molte sensazioni vaghe risalenti alla primavera di cristallizzarsi e maturare. A ottobre Nash cominciò a essere investito da una sorta di tempesta di idee. Fra di esse c'era la sua intuizione brillante sul comportamento umano: l'equilibrio di Nash.

Nash andò a incontrare von Neumann pochi giorni dopo che aveva passato i suoi generali. Voleva, aveva detto con baldanza alla segretaria, discutere un'idea che avrebbe potuto interessare il Professor von Neumann. Per uno studente di dottorato, quell'azione richiedeva una certa audacia. Von Neumann era una figura pubblica, aveva pochissimi contatti con gli studenti di dottorato di Princeton al di fuori delle occasionali conferenze, e in genere li scoraggiava da venirlo a cercare per i loro problemi di ricerca. Ma era un'azione tipica di Nash, che l'anno prima era andato a incontrare Einstein per esporgli un'idea appena in embrione.

Von Neumann sedeva a un'enorme scrivania. Nel suo abito costoso a tre pezzi, con la cravatta di seta e l'elegante fazzoletto da tasca, aveva più l'aspetto di un presidente di una banca prospera che non di un accademico. L'espressione era quella preoccupata di un dirigente indaffarato. Fece cenno a Nash di sedersi. Naturalmente sapeva chi era Nash, ma sembrava un po' stupito di quella visita. Ascoltò con attenzione, con la testa sollevata leggermente da un lato e le dita che tamburellavano. Nash cominciò a descrivere la dimostrazione che aveva in mente per un equilibrio in giochi con più di due giocatori. Ma prima che fosse riuscito a pronunciare poche frasi sconnesse, von Neumann lo interruppe, saltò alla conclusione del ragionamento di Nash, che non era stata ancora esposta, e disse bruscamente: «Questo è banale, sa. Non è altro che un teorema del punto fisso».

Non è affatto sorprendente che i due geni entrassero in collisione. Arrivavano alla teoria dei giochi da visioni opposte sul modo in cui interagiscono le persone. Von Neumann, che era diventato adulto discutendo nei caffè europei e che collaborava alla costruzione della bomba e dei computer, pensava alle persone come a esseri sociali che comunicano di continuo. Per lui era del tutto naturale porre l'accento sull'importanza centrale nella società delle coalizioni e dell'azione congiunta. Nash tendeva a considerare le persone come isolate l'una dall'altra e a pensare che agissero per conto proprio. A lui sembrava molto più naturale una prospettiva basata sull'idea che le persone reagissero agli incentivi individuali.

Il rifiuto opposto da von Neumann alla sua richiesta di attenzione e approvazione deve aver ferito Nash, e si può immaginare che fu anche più doloroso del precedente rifiuto, molto più gentile, ricevuto da Einstein. Nash non si avvicinò più a von Neumann. In seguito, diede un'interpretazione razionale alla reazione di von Neumann spiegandola come l'atteggiamento naturale di difesa di un pensatore affermato di fronte all'idea di un rivale più giovane, un'interpretazione che probabilmente rivela più cose su ciò che c'era nella mente di Nash quando si avvicinò a von Neumann che non su quest'ultimo. Nash era senza dubbio consapevole del fatto che stava sfidando implicitamente von Neumann. Nel saggio autobiografico scritto per il Nobel, Nash nota che le sue idee «deviavano un po'dalla "linea" (nel senso di "linee politiche del partito") del libro di von Neumann e Morgenstern».

In una lettera allo storico dell'economia Robert Leonard, Nash ha dato un'altra versione: «Stavo giocando un gioco non cooperativo nei confronti di von Neumann invece di cercare semplicemente di unirmi alla sua coalizione. Ed è ovvio che per lui fosse naturale dal punto di vista psicologico non essere completamente soddisfatto di un approccio teorico rivale». Secondo Nash, von Neumann non si comportò mai in modo ingiusto. Nash si paragona a un giovane fisico che sfidò Einstein, notando che all'inizio Einstein fu critico nei confronti della teoria pentadimensionale unificata dei campi gravitazionale ed elettrico di Kaluza, ma in seguito ne appoggiò la pubblicazione. Nash, tanto spesso incurante dei sentimenti e delle motivazioni delle altre persone, si dimostrò pronto, in quel caso, a cogliere certe correnti emotive nascoste, soprattutto l'invidia e la gelosia, in un certo modo, vedeva nel rifiuto un prezzo che il genio deve pagare.

Pochi giorni dopo l'incontro disastroso con von Neumann, Nash abbordò David Gale. «Penso di aver trovato un modo per generalizzare il teorema del minìmax di von Neumann» proruppe. «L'idea fondamentale è che in una soluzione per il caso a due persone e a somma zero, la miglior strategia è... L'intera teoria è costruita su quest'idea. E funziona con un qualsiasi numero di persone, e non c'è bisogno che sia un gioco a somma zero.»" Gale ricorda che Nash disse: «Lo chiamerei un punto d'equilibrio». Il concetto di equilibrio è che ci sia un punto naturale di immobilità che tende a mantenersi. A differenza di von Neumann, Gale colse l'argomento centrale di Nash. «Uhm,» disse «è una bella tesi.» Gale si rese conto del fatto che l'idea di Nash si applicava a una classe di situazioni reali molto più ampia rispetto al concetto di giochi a somma zero di von Neumann. «Il suo concetto si può applicare al disarmo» ha detto in seguito.

Ma più che dalle applicazióni possibili dell'idea di Nash, Gale era affascinato dalla sua eleganza e generalità. «La matematica era così bella. Era così matematicamente corretta... Di certo capii immediatamente che era una tesi. Non sapevo che sarebbe stato un Nobel.»

L'intero edificio della teoria dei giochi poggia su due teoremi: il teorema del minimax di von Neumann del 1928 e il teorema dell'equilibrio di Nash del 1950. Si può pensare al teorema di Nash come a una generalizzazione di quello di von Neumann, come fece Nash stesso, ma anche come un distacco netto da esso. Il teorema di von Neumann era la pietra angolare della sua teoria dei giochi di pura contrapposizione, dei cosiddetti giochi a due partecipanti e a somma zero. Ma questi giochi non hanno praticamente alcuna rilevanza per il mondo reale. Persino in guerra c'è quasi sempre qualcosa da guadagnare dalla cooperazione. Nash introdusse la distinzione fra giochi cooperativi e non cooperativi.

I giochi cooperativi sono giochi in cui i giocatori possono fare accordi validi con altri giocatori. In altre parole, come gruppo essi possono impegnarsi totalmente in strategie specifiche. Al contrario, nei giochi non cooperativi questo impegno collettivo è impossibile. Non ci sono accordi validi. Estendendo la teoria fino a includere giochi che comprendevano un misto di cooperazione e di competizione, Nash riuscì ad aprire la porta per le applicazioni della teoria dei giochi alle scienze economiche, alle scienze politiche, alla sociologia e, infine, alla biologia evolutiva.

Benché Nash usasse la stessa forma strategica che aveva proposto von Neumann, il suo approccio era completamente diverso. Più di metà del libro di von Neumann e Morgenstern si occupa di teoria cooperativa. Inoltre, il concetto di soluzione adottato da von Neumann e Morgenstern - una cosa chiamata insieme stabile - non esiste per tutti i giochi. Al contrario, Nash dimostrò alla pagina sei della sua tesi che un qualsiasi gioco non cooperativo con un qualsiasi numero di giocatori ha almeno un punto di equilibrio.

Per capire la bellezza del risultato di Nash, scrivono Avinash Dixit e Barry Nalebuff in Thinking Strategicolly, si parte dal concetto secondo cui l'interdipendenza è la caratteristica distintiva dei giochi di strategia. L'esito di un gioco per un giocatore dipende da ciò che decidono di fare gli altri giocatori e viceversa. I giochi come il tris o gli scacchi implicano un tipo d'interdipendenza.

I giocatori muovono in successione, e ciascuno è a conoscenza della mossa dell'altro. Il principio su cui si basa la strategia di un giocatore in un gioco di mosse in sequenza è di guardare avanti e ragionare a ritroso. Ciascun giocatore cerca di immaginare come il suo avversario risponderà alla sua mossa attuale, come lui stesso risponderà a sua volta e così via. Il giocatore prevede dove alla fine condurrà la sua decisione iniziale e usa le informazioni per compiere la miglior scelta possibile attuale. In linea di principio, qualsiasi gioco che termina dopo una sequenza finita di mosse può essere risolto completamente. La miglior strategia del giocatore può essere determinata guardando ogni possibile esito futuro. Per gli scacchi, a differenza che per il tris, i calcoli sono troppo complessi per il cervello umanoo anche per programmi di computer scritti dall'uomo. I giocatori prevedono poche mosse e cercano di valutare le posizioni che ne risultano sulla base dell'esperienza.

I giochi come il poker, d'altra parte, coinvolgono mosse simultanee. «Al contrario della catena lineare di ragionamento per i giochi sequenziali, un gioco con mosse simultanee coinvolge un circolo logico» scrivono Dixit e Nalebuff. «Benché i giocatori agiscano contemporaneamente, senza conoscere le azioni attuali degli altri giocatori, ciascuno è costretto a considerare il fatto che ci sono altri giocatori che a loro volta hanno la stessa consapevolezza. Il poker è un esempio di "Io penso che lui pensi che io pensi che lui pensi che io pensi..." Ciascuno deve mettersi metaforicamente nei panni di tutti e cercare di calcolare l'esito. La sua migliore azione è un parte integrante del calcolo.»

Un tale ragionamento circolare parrebbe non avere una conclusione. Nash riuscì a compiere la quadratura del cerchio usando un concetto di equilibrio per mezzo del quale ciascun giocatore sceglie la miglior risposta alle azioni degli altri. I giocatori cercano un insieme di scelte tale che la strategia di ciascuna persona è per lui la migliore quando tutti gli altri stanno attuando la loro miglior strategia.

A volte la miglior scelta di una persona è la stessa indipendentemente da ciò che fanno gli altri. E questa è detta una strategia dominante per quel giocatore. Altre volte un giocatore ha a disposizione una scelta uniformemente negativa — una strategia dominata - nel senso che esiste qualche altra scelta che per lui è migliore indipendentemente da ciò che fanno gli altri. La ricerca dell'equilibrio dovrebbe cominciare dall'individuazione delle strategie dominanti e l'eliminazione di quelle dominate. Ma questi sono casi speciali e relativamente rari. In gran parte dei giochi la miglior scelta per ciascun giocatore dipende effettivamente da ciò che fanno gli altri, ed è necessario ricorrere alla formulazione di Nash.

Nash definì l'equilibrio come una situazione in cui nessun giocatore potrebbe migliorare la sua posizione scegliendo una strategia alternativa disponibile, senza comportare che la miglior scelta fatta privatamente da ciascun individuo conduca a un risultato collettivamente ottimale. Egli dimostrò che per una certa classe molto ampia di giochi con un numero qualsiasi di giocatori, esiste almeno un equilibrio — a patto che siano permesse strategie miste. Ma alcuni giochi possiedono molti equilibri mentre altri, quelli relativamente rari che non rientrano nella classe definita da Nash — possono non averne.

Oggi il concetto d'equilibrio di Nash relativo ai giochi strategici è uno dei paradigmi fondamentali nelle scienze sociali e in biologia. È soprattutto il successo della sua visione che ha portato all'accettazione della teoria dei giochi come, nelle parole di The New Polgrave, «un metodo potente ed elegante per affrontare una materia che era diventata sempre più barocca, in modo molto simile a quello in cui i metodi della meccanica celeste newtoniana avevano sostituito i metodi primitivi e sempre più ad hoc degli antichi».

Come molte altre grandi idee scientifiche, dalla teoria della gravitazione di Newton alla teoria della selezione naturale di Darwin, l'idea di Nash all'inizio apparve troppo semplice per essere davvero interessante, troppo ristretta per trovare un'ampia applicazione e, in seguito, così ovvia che la sua scoperta da parte di qualcuno era considerata pressoché inevitabile. Come ha affermato Reinhard Selten, l'economista tedesco che vinse il premio Nobel nel 1994 insieme a Nash e a John C. Harsanyi, «Nessuno avrebbe previsto il grande impatto che l'equilibrio di Nash ebbe sulle scienze economiche e sociali in generale. Ancor meno ci si sarebbe aspettati che il concetto del punto d'equilibrio dì Nash avrebbe mai avuto una qualsiasi importanza per la teoria biologica». La sua importanza non fu riconosciuta immediatamente, nemmeno dal suo impudente autore ventunenne, e di certo non dal genio che ispirò Nash, John von Neumann.

La pazzia

John Nash subì diversi ricoveri in cliniche per malati mentali.

Il primo fù nel 1959 presso il McLean Hospital, una clinica privata a Belmont nelle vicinanze di Boston e collegata alla Harvard Medical School, dove fu trattato con una terapia a base di Torazina un farmaco neurolettico tipico.

Per le prime due o tre settimane, durante le quali il McLean aveva chiesto al giudice di prolungare il periodo di osservazione di altri quaranta giorni, Nash venne studiato, controllato e analizzato. Fu scritta una biografia. Un giovane psichiatra fu incaricato di ricostruire la vita del paziente, un catalogo completo della sua personalità comprendente non meno di duecentocinque argomenti diversi. Furono presi in considerazione tutti gli elementi che avevano provocato la catastrofe: famiglia, infanzia, istruzione, lavoro, malattie precedenti e così via. Una volta completato, il documento fu presentato a una commissione formata dagli psichiatri più autorevoli del McLean e si giunse a una diagnosi più precisa.

Sin dall'inizio gli specialisti furono d'accordo nell'affermare che, al suo arrivo in clinica, Nash era senza dubbio affetto da psicosi. Si arrivò molto in fretta alla diagnosi di schizofrenia paranoica. «Se John parlava di complotti» dice Kahne, «quella valutazione sarà stata quasi inevitabile». I resoconti sulla passata eccentricità di Nash avranno reso ancora più probabile una simile conclusione. Naturalmente si discusse sull'esattezza del responso. L'età del paziente, i suoi successi, il suo genio avranno spinto i medici a domandarsi se non soffrisse della malattia di Lowell, la psicosi maniaco-depressiva. «Si cercava sempre di essere evasivi. Non si poteva mai essere sicuri» dice Joseph Brenner, che fu nominato amministratore dell'ufficio ricoveri poco dopo l'arrivo di Nash."0 Tuttavia, la natura singolare e complessa delle convinzioni di Nash, che erano grandiose e persecutorie allo stesso tempo, il comportamento agitato, sospettoso, guardingo, la relativa coerenza dei discorsi, l'espressione vuota del suo viso, la voce distaccata, il riserbo che a volte rasentava il mutismo puntavano tutti verso la schizofrenia.

Tutti parlavano degli avvenimenti che, secondo gli psichiatri, avevano determinato il crollo di John. Fagi ricorda che la colpa fu attribuita alla gravidanza di Alicia: «Eravamo al culmine del periodo freudiano... queste cose venivano spiegate con l'invidia verso il feto». Cohen dice: «Gli psicanalisti ritenevano che la malattia fosse stata causata da un'omosessualità latente». È possibile che i medici di Nash sostenessero le opinioni più diffuse. La teoria freudiana, ormai smentita, secondo la quale la schizofrenia è legata a un'omosessualità repressa era così comune al McLean che per molti anni i maschi schizofrenici giunti alla clinica in stato di agitazione erano definiti affetti da «panico omosessuale».

Nash non sapeva nulla di tutto questo. Lo psichiatra non glielo avrebbe rivelato anche se avesse insistito. Andando nella biblioteca dell'ospedale o parlando con gli altri pazienti non sarebbe tuttavia stato difficile scoprire che cosa pensavano i medici.

Erano tutti molto fiduciosi. L'ottimismo faceva parte di quell'epoca «dominata dalla psicanalisi». Gli specialisti dicevano a Elizabeth Hardwick, la moglie di Lowell, che le patologie più gravi, quelle di natura psicotica, le quali portavano ai casi cronici come quello di Bobbie, guarivano ormai «in maniera definitiva».

Nel 19S4 il consiglio di amministrazione aveva incaricato Alfred H. Stanton di ammodernare il McLean. Prima che lui arrivasse nei primi anni Cinquanta, come ricorda Kahne, «le infermiere perdevano tempo a classificare pellicce e scrivere lettere di ringraziamento». I pazienti passavano quasi tutto il giorno a letto, come se soffrissero di disturbi fisici. Stanton assunse numerosi psichiatri e infermiere, allargò il programma riservato agli interni, introdusse un progetto di psicoterapia e organizzò attività sociali, educative e di lavoro.

La filosofia del McLean si condensava nell'idea secondo cui «era impossibile essere pazzi e socievoli allo stesso tempo»." A prescindere dalla diagnosi, il personale incoraggiava tutti i nuovi pazienti a legare tra loro. Insieme con questa terapia «sociale», come veniva definita, il principale strumento di cura era la psicanalisi intensiva, praticata cinque giorni la settimana." Tutti consideravano la Torazina solo come un aiuto iniziale per spianare la strada alla psicoterapia. «Le concezioni di Stanton ripercorrevano le prime fasi del "trattamento morale"» dice Kahne, «che prevedeva di attendersi dei risultati dai pazienti e di creare un legame tra il personale e questi ultimi. L'obiettivo era quello di coinvolgere i malati nelle decisioni e di abolire in parte la gerarchia delle istituzioni mediche».

Stanton era un allievo di Harry Stack Sullivan, uno dei principali discepoli di Freud negli Stati Uniti, e aveva collaborato alla dirczione del Chestnut Lodge, una cllnica privata alla periferia di Washington, D.C., dove si ricorreva alla psicanalisi per curare i disturbi di origine psicotica. Al McLean mise inoltre fine all'uso della lobotomia e dell'elettroshock. «Il freudismo poggiava su basi molto solide in quell'ospedale» osserva Brenner. «Fu il principio della psicofarmacologia. Cercavamo delle cure in perfetta buona fede.»

«Le nostre conoscenze sulla schizofrenia erano minime» ricorda con tristezza Pagi. «Fui una stupida. Gli servivano solo un buono strizzacervelli, un po' di aiuto e tutto sarebbe finito presto. Al MIT tutti fingevano che Nash sarebbe guarito in un baleno. Al McLean lo avrebbero curato con le terapie più avanzate. Norbert fu l'unico a prevedere la tragedia. Espresse un sincero dispiacere. "È molto difficile" disse a Virginia. Lei era scossa, piangeva e cercava di controllarsi. Voleva sapere il più possibile. Gli occhi di Wiener si riempirono di lacrime.»

Dentro di sé Nash era convinto di essere un prigioniero politico ed era deciso a sfuggire ai suoi carcerieri il prima possibile. Con l'aiuto di altri malati capì ben presto le regole del gioco. Se un paziente desiderava uscire, la legge imponeva all'ospedale di dimostrare che il soggetto soffriva ancora di disturbi. Gli psichiatri avrebbero dovuto provare in modo convincente che John avrebbe potuto fare del male a se stesso e agli altri. In altre parole, un paziente che era vittima di allucinazioni o stati di delirio aveva poche possibilità di andarsene (più tardi Nash disse al figlio minore che per un cosiddetto schizofrenico era possibile controllare sia il comportamento sia i deliri).

Il secondo fù nel 1961 presso il Trenton State Hospital, un ospedale statale nel New Jersey.

Per le sei settimane successive, cinque giorni la settimana, Nash fu sottoposto alla terapia insulmica. La mattina presto, un'infermiera lo svegliava e gli faceva un'iniezione d'insulina. Quando il primario in carica, Baumecker arrivava nel reparto alle otto e mezzo, la glicemia di Nash era già calata drasticamente. Rimaneva intorpidito, a malapena consapevole di quello che lo circondava, a volte mezzo delirante, e parlava da solo. Alle nove e mezzo o alle dieci, Nash entrava in coma, sprofondando sempre di più nell'incoscienza fin quando, a un certo punto, il suo corpo diventava rigido come se fosse congelato e le dita gli si rattrappivano. Allora un'infermiera gli metteva una cannula che andava dal naso fin giù nell'esofago e gli somministrava una soluzione di glucosio. A volte, se necessario, gli praticavano un'endovenosa. Quindi si svegliava, lentamente e dolorosamente, con le infermiere attorno al suo letto. Alle undici di mattina, Nash era di nuovo consapevole. E nel tardo pomeriggio, quando tutto il gruppo andava a fare l'ergoterapia, c'era anche lui, mentre le infermiere portavano succo d'arancia nel caso che qualcuno si sentisse svenire.

Molto spesso, durante la fase comatosa, i pazienti la cui glicemia era calata troppo in fretta soffrivano di crisi spontanee, dibattendosi e mordendosi la lingua. Non era insolito che si spezzassero le ossa. A volte i pazienti non uscivano dal coma. «Perdemmo un giovanotto» ha ricordato Baumecker. «Noi tutti ci allarmammo moltissimo. Chiamammo esperti e facemmo il possibile. A volte la temperatura dei pazienti saliva moltissimo e allora li ricoprivamo di ghiaccio.»

È difficile trovare resoconti validi e diretti di queste esperienze, in parte perché la terapia distrugge vaste parti della memoria recente. In seguito Nash avrebbe definito la terapia insulinica una «tortura» e ne risentì per molti anni ancora, a volte mettendo sulle lettere come indirizzo del mittente la dicitura «Insulto Institute»."

Curare i pazienti schizofrenici con il coma iusulinico era stata un'idea di Manfred Sackel, un medico viennese che ci aveva pensato negli armi Venti e l'aveva usato su pazienti psicotici, in particolare quelli affetti anche da schizofrenia, negli anni Trenta. Secondo la sua teoria, se il cervello viene privato di zucchero, che è ciò che lo fa funzionare, le cellule che lavorano solo marginalmente muoiono. È un po' come la terapia irradiante per il cancro. Alcuni medici che lo avevano usato negli anni Cinquanta, quando i primi efficaci farmaci antipsicotici erano già disponibili, sostenevano che lo shock insulinico era più efficace degli antipsicotici, specialmente nei confronti degli stati maniacali.

Nessuno ne ha capito il meccanismo, ma due studi su vasta scala verso la fine degli anni Trenta dimostrarono che i pazienti trattati con insulina manifestavano effetti migliori e più duraturi degli individui non trattati, ma la prova dell'efficacia di questa terapia non è affatto così evidente.

In ogni caso era più rischiosa e molto più pesante dell'elettroshock e, attorno al 1960, lo shock insulinico era stato eliminato dalla maggior parte degli ospedali in quanto troppo pericoloso e costoso in paragone all'elettroshock. La conclusione era che l'insulina non valeva l'investimento in tempo e denaro rispetto ai rischi che presentava.

Dopo sei settimane, Nash, la cui terapia insulinica era stata giudicata efficace dai medici, fu trasferito nel Reparto 6, il cosiddetto reparto di riabilitazione. C'erano terapie di gruppo ogni giorno, alcuni svaghi e l'ergoterapia. «Questa era la crème dell'insieme dei pazienti» ha detto Baumecker. «C'erano solo quindici letti circa. Altri reparti avevano trenta pazienti per ogni stanza. Godevano di attenzioni personali, facevano gite, e avevano il permesso di andare a casa per brevi visite.»

Mentre era al Reparto 6, Nash si mise addirittura a lavorare a un saggio di fluidodinamica. Come ha ricordato Baumecker, «i pazienti lo prendevano in giro perché era sempre con la testa nelle nuvole. "Professore", gli disse una volta uno, "lascia che ti faccia vedere come si usa una scopa"».

Sembrava che stesse meglio e in ogni caso non costituiva più una minaccia per sé e per gli altri. Baumecker consigliò di dimetterlo, sottolineando che, al contrario di quello che si pensava comunemente, «noi dovevamo dimettere la gente il più in fretta possibile per evitare un eccesso di degenze».

Il terzo ricovero fù nel 1963 presso la Carrier Clinic, un ex ricovero per dementi senili e ritardati mentali, era una delle due istituzioni private del New Jersey. Situata nell'ameno villaggio di Belle Meade, tra colline ondulate e campi rigogliosi, la Carrier era a solo otto chilometri a nord di Princeton. La Carrier aveva la pessima reputazione di usare le cosiddette «camicie di forza chimiche», l'elettroshock e tutte le terapie più sbrigative concepite per i tempi limitati di copertura delle polizze assicurative.

Il personale della Carrier, perfettamente consapevole di simili atteggiamenti, si difendeva sostenendo che quell'approccio era più pratico e funzionavi meglio. «La McLean, l'Austin Riggs, la Chestnut Lodge, la Shepherd Pratt e l'Institute for Living erano istituti molto più alla moda» afferma William Otis, psichiatra della Carrier. «Noi eravamo molto pratici. Nessuno di noi aveva ricevuto una preparazione un po' fuori della norma. Nessuno di noi era una primadonna. Ma il buffo era che, se ti ammalavi, stavi molto meglio alla Carrier.» Dice Garber: «Alla Carrier eravamo orgogliosi del fatto di essere considerati come un centro di terapia a breve termine. Ecco perché contavamo tanti successi. Eravamo in grado di curare i pazienti e farli uscire, a differenza della McLean e della Chestnut Lodge, ben note per tenere pazienti schizofrenici anche per quattro, cinque, sette anni».

Gli psicoanalisti della McLean avevano fallito, gli effetti delle terapie d'urto del Trenton State Hospital si erano rivelati di breve durata. Alicia, era disposta a provare qualcosa di nuovo. Capiva che le istituzioni più prestigiose non erano alla loro portata. Alla Carrier, le famiglie dei pazienti pagavano una retta fissa di otto dollari al giorno più le tariffe orarie per le terapie di gruppo e individuali. Virginia poteva permetterselo. Inoltre, per Alicia era importante che Nash fosse vicino, in modo che lei e i suoi vecchi amici di Princeton potessero andare a fargli visita.

Fin dal principio Alicia si oppose all'elettroshock. «Discutemmo della terapia dell'elettroshock» ha ricordato Martha. «Ma non volevamo che gli intaccasse la memoria.»

Alla Carrier, l'elettroshock veniva usato di frequente con pazienti schizofrenici, che subivano quel trattamento tre volte di più dei pazienti affetti da depressione, ovvero venticinque volte contro otto. Sostiene Garber: «Quel che cercavamo di fare era ottenere il controllo del paziente, penetrare nel suo stato di esaltazione, nel panico, nella depressione nel più breve tempo possibile». In genere i pazienti psicotici venivano trattati all'inizio con la Torazina, ma se i disturbi comportamentali non miglioravano rapidamente, venivano sottoposti anche a elettroshock. Alcuni psichiatri della Carrier pensavano che le terapie d'urto fossero efficaci e provocassero meno effetti collaterali dei farmaci neurolettici. In ogni caso, sembra che Nash non sia stato sottoposto a elettroshock, nonostante che a Princeton tutti fossero convinti del contrario.

Nel 1963, Nash trascorse gran parte dei cinque mesi successivi al Kindred One, l'unico reparto chiuso della clinica. In seguito disse di aver tentato di revocare il ricovero coatto, ma se ciò risponde a verità, il risultato fu negativo. Frank L. Scoti ricorda che Nash riuscì a scappare da Carrier almeno una volta — probabilmente dopo aver ottenuto il permesso di scendere in cortile - e che dovette inseguirlo e riportarlo alla clinica.

Tuttavia, in paragone al Trenton, la Carrier era, se non un circolo ricreativo, almeno più simile a un riformatorio che a una prigione. C'erano solo ottanta pazienti, per lo più provenienti da famiglie agiate della classe media, molti da New York e Filadelfia. La maggior parte era in cura per alcolismo, tossicomania e depressione, e i pochi altri soffrivano di disturbi psicotici. Il personale della Carrier contava una dozzina di psichiatri, un personale infermieristico molto più adeguato di quello diTrenton, e un ragionevole numero di medici, psicologi e assistenti sociali.

Probabilmente, la cosa migliore che capitò a Nash alla Carrier fu conoscere uno psichiatra, Howard S. Mele, che avrebbe avuto un ruolo importante e positivo nella sua vita per i due anni successivi. Mele, che per caso era di turno la sera in cui Nash fu portato alla Carrier, gli venne assegnato come medico curante. Piccolo ed elegante, con una voce tranquilla e pacata e modi rassicuranti e gentili, era di origini italiane, si era laureato al Lorig Island College of Medicine e aveva fatto l'internato al Mount Sinai Hospital di New York. Descritto dai suoi ex colleghi come «formale», «prudente», «non certo entusiasmante», Mele era, come poi i fatti si sarebbero incaricati di dimostrare, competente e amorevole.

Era rispettato dal personale infermieristico. Belle Parmet, assistente sociale dell'istituto a quell'epoca, ha detto di Mele e degli altri psichiatri: «Non erano solo gente che t'ingozzava di pillole o scriveva ricette. Erano tutte persone molto umane».

Nash reagì con molta rapidità alla terapia iniziale a base di Torazina. Se si reagisce a quelli che oggi sono chiamati neurolettici «tipici», in capo a una settimana appaiono di solito vistosi mutamenti e gli effetti si verificano in tutta la loro pienezza entro sei settimane.

In questo periodo, Nash s'incontrava con Mele per sedute terapeutiche e partecipava anche alla terapia di gruppo, che lo psichiatra prediligeva. Tuttavia non si prevedeva di dimetterlo rapidamente. Secondo Garber, «gli schizofrenici paranoidi non sono molto reattivi. Una volta posti sotto controllo, puoi ritenerti soddisfatto se hanno raggiunto una certa stabilità. L'ultima cosa che ti auguri è una ricaduta, soprattutto se si tratta di un ricovero coatto, perché allora devi ricominciare tutto daccapo insieme con la famiglia del paziente».

Il quarto ricovero fù nel 1964 ancora presso la Carrier Clinic, la sua degenza questa volta durò sette mesi.

Il quinto ricovero fù nel 1969 presso il DeJarnette State Sanatorium di Stauton in Virginia, a seguito di un lungo periodo di due anni e mezzo vissuti nella sua città natale di Roanoke insieme alla madre Virginia e alla sorella Martha.

Il risveglio

Era il 1990. In retrospettiva, è impossibile dire con esattezza quando si verificò la miracolosa guarigione di Nash, che gli altri cominciarono a notare più o meno all'inizio di questo decennio. Ma, a differenza dell'instaurarsi della malattia, che gli era piombata addosso nel giro di pochi mesi, la guarigione richiese diversi anni. Fu, a quanto sosteneva lo stesso Nash, una lenta evoluzione, «una graduale diminuzione del male negli anni Settanta e Ottanta».

Sostenere che Nash, dopo parecchi anni di grave malattia, fosse ora «nel novero naturale per una "personalità matematica"», pone diversi problemi. Era realmente guarito? Sarebbe più corretto descrivere il recupero di Nash come una «remissione».

La sua remissione non si verificò, come sostennero molti in seguito, grazie a nuove cure. «Emersi dal pensiero irrazionale» ha detto nel 1996, «in ultima analisi senza medicine, se si escludono i naturali cambiamenti ormonali dovuti all'invecchiamento.»

Ha affermato che in questo suo processo era compresa una sempre maggiore consapevolezza della sterilità del suo stato di delirio e una crescente capacità di risospingere indietro i pensieri deliranti.

A torto o a ragione, pensa di aver voluto il suo recupero. In effetti, può essere analogo al ruolo della forza di volontà quando ci si attiene efficacemente a una dieta; se si fa uno sforzo per «razionalizzare» il proprio pensiero, allora si può semplicemente riconoscere e rifiutare le ipotesi irrazionali del pensiero delirante.' «Un passo fondamentale è stato la decisione di non interessarmi alla politica relativa al mio mondo segreto perché era inefficace», ha scritto nella sua autobiografia per il Nobel. «Questo a sua volta mi ha indotto a rinunciare a tutto quello che era relativo ad argomenti religiosi, o insegnando o intendendo insegnare.

Alla fine degli anni Ottanta, il nome di Nash apparve nei titoli di decine di articoli sui principali giornali di scienze economiche. Ma Nash rimase nell'ombra. Ovviamente molti giovani ricercatori avevano pensato semplicemente che fosse morto. Altri pensavano che giacesse in qualche ospedale psichiatrico e avevano sentito dire che era stato sottoposto a lobotomia. Anche i meglio informati lo consideravano per la maggior parte come una specie di fantasma. In particolare, con l'eccezione del premio von Neumann del 1978 — risultato degli sforzi di Lloyd Shapley -, mancarono decisamente i riconoscimenti e gli onori concessi di norma a studiosi della sua levatura.

La festosa scena nella casa di fine Ottocento di fronte alla stazione ferroviaria sarebbe potuta essere quella di un cinquantesimo anniversario di matrimonio: la bella coppia anziana in posa per l'obiettivo con amici e parenti, il cestino di rose giallo pallido, la fotografia degli sposi negli anni Cinquanta rispolverata per l'occasione.

In realtà, John e Alicia Nash erano sul punto di pronunciare il «Sì» per la seconda volta dopo un'interruzione quasi quarantennale nella loro unione. Era l'ennesimo passo («un passo importante» l'ha definito John) compiuto per rimettere insieme i pezzi di vite distrutte senza pietà dalla schizofrenia. «Non avremmo dovuto divorziare» ha detto John. «Questo momento è una sorta di revoca di quella decisione.» Alicia si è limitata a osservare: «Abbiamo pensato che fosse una buona idea. Dopo tutto, abbiamo trascorso insieme gran parte della vita». Dopo che il sindaco Carole Carson li ha dichiarati marito e moglie, John è stato invitato a baciare di nuovo la sposa per la telecamera. «Un secondo ciac?» ha chiesto in tono scherzoso. «Proprio come nei film.»

Qualche minuto prima della cerimonia, il cugino di Alicia mi ha parlato della «sorprendente metamorfosi» osservata nella vita di John dopo il Nobel. Non si tratta solo di tutti i successivi inviti e riconoscimenti giunti da ogni parte del mondo, del pubblico assai più vasto ora in grado di apprezzare tutti gli affascinanti contributi intellettuali che costellano la sua breve ma brillante carriera e nemmeno del prestigio conferito da Hollywood alla sua singolare vicenda.

A settantatré anni, John sembra in forma smagliante. È sempre più sicuro che non avrà una ricaduta. «È un processo continuo, non è come destarsi da un sogno» ha rivelato di recente a un giornalista del New York Times. «Quando sogno... mi capita talvolta di tornare alle vecchie ossessioni. .. poi mi sveglio e sono di nuovo lucido.» La crescente fiducia in se stesso è forse uno dei motivi per cui si sente meno in imbarazzo quando parla del passato e per cui ora si rivolge a gruppi che considerano la sua esperienza «capace di indebolire i pregiudizi contro le persone affette da malattie mentali».

Per la prima volta da quando si dimise dal MIT nel 1959, gode di un minimo di sicurezza per sé e la sua famiglia. Piccole cose che noialtri diamo per scontate, come avere di nuovo la patente o ottenere una carta di credito, significano molto per lui. «So di poter entrare in un bar e spendere qualche dollaro» mi ha detto l'anno scorso mentre lavoravo a un articolo su come i geni dell'economia usano gli assegni dei premi. «Molti altri studiosi hanno la medesima consapevolezza» ha commentato. «Se fossi davvero povero, non potrei permettermelo. Un tempo lo ero.» Dopo aver rischiato di ritrovarsi in mezzo a una strada, John tiene alla sua casa e ai suoi effetti personali come pochi di noi. Rincasando dopo la cerimonia, ha guardato una versione di Hex, il gioco che inventò quando studiava a Princeton, prodotta dalla Parker Brothers nel 1950. Un tempo ne possedeva una copia, ha spiegato. «Quante cose mi ha fatto perdere la malattia.»

È tornato a dedicarsi alla matematica. «Sto lavorando» ha detto al giornalista del Times. Non sogna più di ricominciare da dove aveva smesso, ma è contento di poter lavorare seriamente e dare il suo contributo. È di nuovo una presenza costante alle discussioni matematiche presso l'Istituto per gli studi avanzati e all'ora del tè nella sala professori del Fine Hall. La Fondazione scientifica nazionale gli ha concesso una borsa di studio. L'altro giorno ha tenuto un seminario all'Istituto riguardo alle sue nuove ricerche sulla teoria della contrattazione. «Ai miei tempi non sarebbe stato possibile, perché oggi utilizzo strumenti di calcolo che non esistevano negli anni Cinquanta e Sessanta» ha commentato. «Ora sono pronto a pubblicare uno studio.»

Cosa ancor più importante, la guarigione e il Nobel gli hanno consentito di riallacciare i legami spezzati. Ha ripreso i contatti con vecchi conoscenti di Bluefield, Carnegie, Princeton e del MIT. Dopo la cerimonia di oggi, ha chiacchierato allegramente con un matematico e un ingegnere conosciuti quando aveva poco più di vent'anni. Lui e Alida progettano di trascorrere la seconda luna di miele tra amici in Svizzera, dove John terrà un discorso in occasione della commemorazione di Jùrgen Moser, scomparso lo scorso anno.

Nash è riuscito a condividere la sua fortuna con chi gli sta accanto. Ha ricostruito il rapporto con John David, il figlio maggiore che uria volta non voleva nemmeno sentirlo nominare. Passa molto tempo anche con John Charles, il secondogenito, che, come ha spiegato con orgoglio il giorno delle nozze, sta cercando di pubblicare una dimostrazione matematica. Parla ancora al telefono con la sorella Martha ogni settimana. Infine, come indica la scena odierna, ha riconosciuto il ruolo fondamentale che Alicia svolge nella sua esistenza.

Quanto alla sua biografa, John ha cambiato radicalmente atteggiamento. Durante la stesura del presente volume, ha detto a un giornalista del NewYork Times: «Ho assunto una posizione di neutralità svizzera».

Da quando è stato pubblicato, tuttavia, «molti dei miei amici e parenti mi hanno convinto che è una cosa positiva». L'opera contiene inoltre numerosi particolari che aveva dimenticato o di cui non era mai stato nemmeno a conoscenza. A questo punto della vita, ha tenuto a precisare, recuperare una parte del passato è stato confortante.

Quando ha conosciuto Russell Crowe, l'attore australiano che lo interpreterà nel film ispirato alla sua storia, le prime parole che gli ha rivolto sono state: «Dovrà subire tutte queste trasformazioni!». Nemmeno il grande schermo riuscirà però a riprodurre le singolari trasformazioni verificatesi nella vita di Nash nei tre anni trascorsi dalla comparsa del libro.

L'intervista

Questa è l'intervista di Piergiogio Odifreddi, tenuta il 17 Marzo 2008 al Festival della Matematica presso l’Audiorium di Roma, ai premi Nobel Robert Aumann e John Nash

(Tratto da "Il genio dei numeri - Sylvia Nasar - 1999 Rizzoli)