Matematici

Godfrey Harold Hardy

Apologia di un matematico

 

Godfrey Harold Hardy

Era oggetto di studio sull'eterna giovinezza. E' il genio matematico per eccellenza e ha l'aspetto di un bambino di tre anni. Persino dopo aver superato i trent'anni, Hardy si vedeva spesso rifiutare la birra e spesso, mentre pranzava con altri docenti del Trinity, venne scambiato per uno studente. Aveva gli occhi color ghiaccio, un volto dai tratti delicati e, nel 1913, i capelli lisci e cortissimi. Era bello. Ovviamente lui non la pensava così e a stento riusciva a sopportare di guardare la propria immagine. Le sue stanze al College non avevano specchi, e nelle stanze d'albergo dove andava, li copriva sempre con asciugamani. Persino dopo aver compiuto i cinquant'anni, il suo aspetto era straordinario. Come scrisse un amico di quegli anni, il romanziere Charles P. Snow, la sua pelle aveva preso «una tinta bronzea da pellerossa. Era una bella faccia, con gli zigomi pronunciati, il naso sottile, una faccia dai lineamenti spirituali e austeri... [Cambridge] era piena di volti singolari e distinti». Non era bello secondo tutti i criteri di giudizio, per lo meno non di una bellezza «rude»: aveva i tratti troppo delicati per questo.

Hardy passava la vita a esaminare, soppesare, confrontare. Classificava i matematici, il lavoro che facevano, i libri e gli articoli che scrivevano. Aveva salde opinioni su tutto, e le esprimeva. Quando un club di Cambridge, del quale era membro propose di cambiare i suoi colori ufficiali, Hardy riempì sei pagine di attacchi contro il progetto. Criticò una sacrosanta tradizione accademica che durava da quasi due secoli e la condannò accanitamente per oltre vent'anni. Tutti i suoi entusiasmi, le sue irritazioni e idiosincrasie erano così: netti, incrollabili, impetuosi. Odiava la guerra, i politici come categoria, e il clima inglese. Amava il sole. Amava i gatti e odiava i cani. Odiava gli orologi e le penne stilografiche e amava i cruciverba del Times di Londra.

Hardy era un appassionato di cricket di proporzioni quasi patologiche. Ci giocava, lo seguiva, lo studiava, lo viveva. Ne analizzava le tattiche e faceva una classifica dei campioni. Includeva nei suoi articoli di matematica metafore tratte dal cricket. «Il problema può essere compreso più facilmente usando il linguaggio del cricket» scrisse in una rivista di matematica svedese: gli stranieri non riuscirono neanche lontanamente a comprenderlo. Hardy continuò a giocare anche dopo i sessant'anni. Quando morì, sua sorella gli stava leggendo notizie di cricket.

Hardy giudicava Dio e lo trovava assente. Non era soltanto un ateo: era un ateo fervente. Quand'era studente all'università, gli era stato detto che per essere esonerato dalla cappella avrebbe dovuto informare i suoi devoti genitori: non sapere cosa fare lo tormentava, ma alla fine scrisse loro la terribile notizia. Si diceva che Dio fosse il suo nemico personale. Eppure tra gli amici annoverava ecclesiastici, il che faceva parte della sua posa miscredente: un altro dei giochi innocui cui non si stancò mai di giocare.

Timido e impacciato, non poteva sopportare le conversazioni frivole: parlare di cricket, ovviamente, non era conversazione frivola. Detestava le presentazioni formali, non stringeva mani, camminava per strada a viso chino, ignorando coloro che avrebbero potuto aspettarsi di scambiare un saluto con lui. Le sue stravaganze si sarebbero rafforzate con l'età, diventando caricature di se stesse, l'essenza della storia.

Nel 1913, all'età di trentacinque anni, Hardy era già un matematico famoso. Era sulla scena della letteratura matematica già da quindici anni, e aveva al suo attivo più di cento articoli e tre libri. Era fellow del Trinity College, la Mecca della matematica di Cambridge, e di conseguenza della matematica inglese. Nel 1910 era stato eletto alla Royal Society, il gruppo di scienziati più elitario della Gran Bretagna. In effetti, più che fare il cecchino con Dio o dilettarsi di cricket o avviare maliziose conversazioni durante la cena, a Hardy importava scoprire la verità matematica. Oltre a essere un brillante matematico, influiva anche notevolmente su altri matematici. Intorno a lui aveva iniziato a formarsi un'intera scuola. Aveva prestato servizio per tre anni nel Council of the London Mathematica Society, il consiglio dell'associazione matematica londinese, e in seguito avrebbe ricoperto numerosi altri incarichi nell'ambito della comunità matematica. «La mia devozione alla matematica è davvero del genere più stravagante e fanatico» scrisse. «Ci credo, e la amo, e sarei assolutamente infelice senza di lei.» Le sue ricerche matematiche, diceva, erano «l'unica grande felicità eterna della mia vita».

Hardy parlava molto bene. Faceva battute di spirito, era di un'onestà scrupolosa, meticoloso nel dare agli altri il dovuto, tanto che una volta arrivò persino ad ammettere che in una discussione l'argomentazione in favore dell'esistenza di Dio era stata sostenuta meglio. Con lui si viveva un divertimento continuo, ma era tutto come il diafano bagliore di seta dell'abito di una donna, mirato più a distrarre e a nascondere che a rivelare. Come disse uno dei suoi studenti di ricerca, la conversazione era per lui «uno dei giochi che gli piaceva fare e non era sempre facile capire quali fossero le sue vere opinioni».

C. P. Snow raccontò una volta che più tempo si passava in compagnia di Einstein, più lui appariva una persona straordinaria. Snow riteneva, invece, che più tempo si passava con Hardy, più lui sembrava diventare una figura familiare, più come la maggior parte della gente, solo «più delicata, meno corazzata, più sensibile», e che il suo formidabile muro di fascino e ingegno proteggeva un ego immensamente fragile che racchiudeva un essere semplice, premuroso e gentile.

Esiste una fotografia di Hardy ormai nella mezza età che lo mostra sprofondato di traverso in una poltrona di vimini imbottita, con le gambe accavallate, la mano destra drizzata all'altezza del polso che stringe lievemente una sigaretta, e il braccio sinistro sospeso inverosimilmente ad angolo attraverso lo schienale. Sulla fronte gli scivola una ciocca di capelli. Non ha un'aria rilassata: in nessuna fotografia ha mai un'aria rilassata. I suoi occhi hanno sempre uno sguardo inquieto, come «un cerbiatto leggermente allarmato» come disse una volta di lui Leonard Woolf. Se ne sta seduto, con le sopracciglia aggrottate, le labbra increspate, a sbirciare da sopra gli occhiali da lettura, severo e autoritario. Nel vedere questa foto, una volta qualcuno disse: «Per stare seduto in quel modo bisogna aver frequentato una scuola pubblica», che per gli americani — e gli italiani — corrisponde a un collegio privato.

Hardy era il prodotto della più raffinata educazione impartita dalla scuola pubblica britannica, ma non l'aveva ottenuta nel modo solito. Non c'erano visconti nella linea di discendenza degli Hardy, né gentiluomini di campagna. La sua famiglia non era né ricca né di nobili origini, Hardy proveniva da una stirpe di insegnanti. In effetti, Hardy sarebbe stato proposto in seguito come «esempio della capacità del sistema scolastico inglese di portare alla luce le facoltà e le abilità personali di un uomo». Aveva un intelletto così brillante da essere notato fin dall'inizio. Il suo successo comportò una confusione all'interno del tradizionale sistema britannico delle classi, un'estensione delle opportunità alle classi medie un tempo largamente limitata ad un esile strato della società ai massimi livelli.

Snow scrisse che Hardy aveva vissuto un'infanzia felice, «illuminata, molto colta... Sapeva quel che significa il privilegio e ammetteva il proprio». In effetti, in famiglia, era cresciuto con un'enfasi sull'intelletto e sull'erudiziene di cui, nelle epoche passate, aveva goduto solo l'aristocrazia. Ma a scuola la maggior parte dei suoi insegnanti non aveva frequentato le scuole pubbliche e tutti erano coscienti di non provenire né da Eton né da Harrow né da Winchester. E così, se di «privilegio» si trattava, era di un genere raro e forse ideale, in circostanze allo stesso tempo economicamente modeste e culturalmente ricche, come quelle, per esempio, degli immigrati ebrei di due generazioni fa o degli immigrati asiatici di oggi. Hardy crebbe, insistendo sulla superiorità intellettuale, mostrando sensibilità nei confronti di chi era socialmente disprezzato o economicamente sfortunato.

Nel dicembre del 1919, Hardy scrisse a J. J. Thomson, rettore del Trinity College, per comunicargli che aveva accettato la Cattedra Savilian a Oxford. Uno dei motivi del trasferimento era il crescente carico di responsabilità amministrative che doveva sopportare a Cambridge. «Se intendo mantenere piena opportunità per le ricerche, che sono la principale e costante fonte di felicità della mia vita» aveva affermato, avrebbe avuto bisogno di un'incarico che offrisse «più tempo libero e meno responsabilità.

Pur pesando probabilmente su di lui più dell'ingrato lavoro amministrativo, nella lettera passarono sotto silenzio le dure sensazioni che la guerra si era lasciata alle spalle, la lotta che aveva circondato l'affare Russell e la partenza di Ramanujan. «Se non ci fosse stata la collaborazione con Ramanujan, il periodo della guerra del 1914-18 sarebbe stato più buio per Hardy» scrisse Snow. «Era il lavoro di Ramanujan a dare sollievo a Hardy durante le aspre lotte all'interno del college.» Adesso Ramanujan non c'era più. Il Trinity, che era stato la sua casa per trent'anni, gli appariva sempre più sgradevole. A stento parlava con alcuni suoi colleghi.

Oxford era l'altra grande università inglese, a meno di 160 chilometri di distanza. Il Camford Observed, Jasper Rose e John Ziman cercarono di riunire entrambe le università nell'ambito di un unico resoconto: «Oxford è una città di grandi e nobili viali, la High, la Broad, St. Giles; a Cambridge tutte le strade si disperdono. I grandi edifici di Oxford si affacciano sulle strade, alti e imponenti, e formano una serie di vedute mozzafiato. I grandi edifici di Cambridge sono più isolati, meno enfatici, più riservati, affacciati su corti e giardini. Oxford è più compatta, Cambridge più estesa. Oxford travolge, Cambridge incanta». Da un punto di vista accademico, Cambridge propendeva leggermente di più verso le scienze, Oxford verso i classici.

Il New College era uno dei circa venticinque eminenti college di Oxford. Era come una cittadella circondata da mura, con bastioni medievali dalle lunghe e sottili feritoie attraverso le quali gli arcieri scagliavano le frecce con i loro archi. Ormai soltanto due angoli del college erano racchiusi in quello che era diventato un fondale per gli arbusti, gli alberi e i cespugli del Giardino del College. Nel trasferirsi al New College, Hardy tornava alle origini. Il college era stato fondato da Guglielmo di Wykeham nel 1379, otto anni prima di creare Winchester come sua fonte di risorse. Era stato la destinazione di molti dei migliori compagni di scuola di Hardy a Winchester venticinque anni prima e forse sarebbe stata anche la sua se non avesse, invece, scelto il Trinity dopo che il libro di St. Aubyn gli aveva fatto cambiare idea.

Hardy era a Oxford da pochi mesi appena quando ricevette la notizia da Madras:

Per incarico del Consorzio [Universitario] vi scrivo per comunicarvi, con sentimenti di profondo rammarico, la triste notizia della morte di Mr. S. Ramanujan, F.R.S., avvenuta la mattina del 26 aprile.

«Rimasi profondamente sconvolto e sorpreso nell'apprendere della morte di Ramanujan» rispose Hardy in una lettera a Dewsbury. Quando lasciò l'Inghilterra, l'opinione generate era che, pur essendo ancora molto malato, avesse comunque imboccato la strada verso la guarigione: aveva persino messo su intorno ai sei chili di peso (c'era stato un periodo che si era ridotto a nulla). E l'ultima lettera che avevo ricevuto da lui (circa due mesi fa) era assolutamente allegra e piena di formule matematiche.

Dopo tutto, Ramanujan era stato affidato alle cure di Hardy. Forse che adesso Hardy, con una reazione insolita alla morte di una persona cara, stava cercando di rassicurarsi sul fatto che il decline finale di Ramanujan era sopraggiunto solo dopo che era stato messo al sicuro a bordo di una nave per l'India? Non ci possono essere dubbi in merito all'effetto che la morte di Ramanujan ebbe su Hardy: Per quel che mi riguarda, mi è difficile dire quanto io debba a Ramanujan: la sua originalità è stata per me fonte costante di idee fin da quando lo conobbi, e la sua morte è uno dei colpi peggiori che abbia mai ricevuto.

A Oxford, lo spettro della Grande Guerra incombeva ancora pesantemente su Hardy, come su tutta l'Europa. I sentimenti di ostilità nei confronti della Germania si facevano profondi. «Sforziamoci di credere>> aveva scritto uno scienziato inglese a Nature nei mesi conclusivi della guerra ache per i prossimi vent'anni almeno tutti i tedeschi vengano relegati nella categoria di persone con cui la gente onesta rifiuterà di avere a che fare.» I matematci non erano immuni dall'amarezza: molti, in Inghilterra e in Francia, ritenevano che i matematici dell'Europa centrale dovessero essere esclusi dai congressi internazionali di matematica.

Hardy era rimasto disgustato dalle stupide barbarie della guerra, odiava l'idea stessa che uomini anziani mandassero ragazzi a morire e si sentiva crudelmente tagliato fuori dai suoi amici matematici sul Continente. Adesso che la guerra era finita, cercò di curare le ferite. Scrisse al Times di Londra protestando contro la divulgazione di alcune vendicative imbecillità. Cooperò con gli sforzi finalizzati alla firma di un accordo di pace condotti da Gosta Mittag-Leffler, da lungo tempo editore degli Acta Mathematical, una rivista di matematica svedese fondata nei 1882 in mezzo a tensioni dello stesso tipo che si erano diffuse tra i matematici in seguito alla guerra franco-prussiana. Scrisse le sue opinioni sulla guerra al grande matematico tedesco Edmund Landau: aveva coltivato le stesse opinioni, rispose Landau con un tocco matematico, con l'unica differenza di «banali cambiamenti di segno».

Mentre visitava la Germania nei 1921, Hardy scrisse a Mittag-Leffler: «Per quel che mi riguarda, non ho minimamente modificato le mie opinioni precedenti, e in nessun caso sono pronto a prendere parte o a dare sostegno o assistenza, nè direttamente nè indirettamente, ad alcun congresso dai quale siano esclusi i matematici di determinati paesi, che sia per motivi validi o meno». Nel 1920, a Strasburgo, aveva boicottato un congresso del genere, dal quale erano stati esclusi tedeschi, austriaci e ungheresi, e ne avrebbe boicottato un altro a Toronto quattro anni dopo.

L'armistizio, la partenza, il suo stesso trasferimento a Oxford e la morte di Ramanujan erano avvenuti tutti nel giro di diciotto mesi. Secondo tutti i resoconti, però, Hardy si era adattato facilmente al New College, si sentiva a casa, come non era mai accaduto a Cambridge. Fù, come ci dice Snow, il «periodo più felice della sua vita». Era stato accettato. I suoi nuovi amici di Oxford erano anche troppo premurosi verso di lui. La sua conversazione brillante trovò nuove orecchie sensibili in ascolto.

Nel frattempo, la sua collaborazione con Littlewood, condotta per lo più per corrispondenza, continuava. Era all'apice delle sue capacità matematiche, allo zenit della sua fama. Mary Cartwright avrebbe ricordato che anche solo menzionare «la classe del professor Hardy» al portiere di un college suscitava una reazione che rivelava «un rispetto nei confronti di Hardy di gran lunga superiore all'abituale deferenza, in quell'epoca, di qualsiasi portiere di college per qualsiasi docente».

Per l'anno accademico 1928-29, Hardy fece uno scambio di incarico con Oswald Veblen dell'Università di Princeton e trascorse quell'anno negli Stati Uniti, principalmente a Princeton. Mentre si trovava in America, tenne un programma di lezioni molto denso: per esempio, fù all'Universitità di Lehigh l'11 gennaio, all'Università Statale dell'Ohio il 18 e all'Università di Chicago il 21. In febbraio e in marzo, fu professore residente al California Institute of Technology. alla fine dell'anno, il rettore di Princeton gli chiese di trattenersi ancora un pò. Hardy gli scrisse che, per quanto avesse trascorso «un periodo delizioso», i suoi doveri a Oxford esigevano il suo rientro.

Pur essendo felice a Oxford, nel 1931 Hardy era già tornato a Cambridge, come titolare della Cattedra Sadleiriana, in seguito alla morte di E. W. Hobson: dopo tutto, Cambridge era ancora, molto più di Oxford, il centro della matematica inglese, e adesso gli veniva offerta la sua cattedra di matematica più importante. Secondo Snow, un altro motivo del suo ritorno fù il fatto che le due università avevano un regolamento diverso in merito al pensionamento: mentre Oxford lo avrebbe mandato via dalle sue stanze a sessantacinque anni, al Trinity avrebbe potuto, invece, occuparle fino alla sua morte.

Le opinioni pacifiste di Hardy, un tempo così impopolari, venivano adesso dimenticate, se non addirittura approvate. Snow riferisce che i giovani matematici di Cambridge «erano entusiasti di averlo di nuovo fra loro: lui sì era un vero matematico, dicevano, non come quei Dirac e Bohr di cui parlavano sempre i flsici. Era il più puro fra i puri». Era, come lo definì Laurence Young in seguito, un'età d'oro della matematica di Cambridge. «Spiritualmente e intellettualmente, Cambridge fu improvvisamente almeno alla pari di Parigi, Copenhagen, Princeton, Harvard e di Varsavia, Leningrado e Mosca.» Adesso che ebrei e altri cercavano riparo dalla Germania di Hitler, il rivolo di visitatori a Cambridge si era trasformato in un torrente.

A cominciare all'incirca dal 1933, Hardy, in collaborazione con l'associazione per la Protezione della Scienza e del Sapere, si servì della sua influenza perchè ebrei e altri venissero condotti per lavoro in Inghilterra e verso altri porti sicuri. Tra coloro che fuggirono ci furono matematici del calibro di Riesz, Bohr e Landau. «Hardy era per molti versi un asceta,» scrisse A, V. Hill «ma nella sua profonda sollecitudine per i pericoli e le difficoltà dei colleghi mostrava non soltanto un grande senso di umanità, ma anche una sottile e risoluta lealtà verso l'integrità e la fratellanza di apprendimento universali.»

Hardy diede le dimissioni da almeno una delle organizzazioni tedesche di cui era stato membro: non perchè fosse tedesca, ma per quello che faceva. «Il mio atteggiamento verso le conoscenze tedesche di questo genere» scrisse a Mordell nel primo periodo del nazismo «è quello di non fare nulla a meno che non sia assolutamente costretto a farlo. Ma se l'antisemitismo diventa parte apparente del programma di un qualunque periodico o di una qualunque istituzione, allora non posso continuare a farne parte.»

Nel 1934, Hardy scrisse a Nature per rispondere a un professore dell'Università di Berlino che mirava a dimostrare l'influsso del sangue e della razza sullo stile creativo nella matematica. C'erano, a quanto pare, matematici di «tipo J» e matematici di «tipo S», i primi dei quali appartenevano a un'ottima razza ariana e i secondi erano francesi e ebrei. Hardy esaminò gelido le asserzioni del professor Bieberbach, finse di cercare motivazioni che le giustificassero, e si ritrovò infine «condotto alla durissima conclusione che egli le ritiene effettivamente vere».

Le simpatie di Hardy erano invariabilmenre dalla parte del derelitto, e le sue opinioni politiche erano decisamente dalla parte della sinistra. Fin verso il 1927, fù membro attivo della National Union of Scientific Workers, il Sindacato nazionale dei Lavoratori in campo scientifico, e tenne addirittura discorsi a suo nome per reclutare nuovi membri. In uno di questi discorsi, come parafraso J. B. S. Haldane in seguito, disse al suo pubblico di scienziati «che, sebbene il nostro lavoro fosse molto diverso da quello di un minatore, eravamo molto più vicini ai minatori di quanto lo fossero i capitalisti. Per lo meno, sia noi che i minatori eravamo operai specializzati, non sfruttatori del lavoro altrui, e se avesse dovuto esserci uno schieramento, lui sarebbe stato dalla parte dei minatori». Gli ospiti che si recavano nelle stanze di Hardy notavano spesso che sulla mensola del caminetto, insieme alle fotografie di Einstein e del giocatore di cricket Jack Hobbs, teneva quella di Lenin.

Ma nell'ambito della comunità matematica, lui, Littlewood e quelli che lavoravano nel loro stesso campo erano inseriti con lealtà nell'establishment. Come scrisse Hardy nel 1934, i matematici inglesi non lavoravano più con «la superstizione che riteneva impossibile essere "rigorosi" senza essere noiosi, e che esiste una sorta di misterioso terrore nel pensiero esatto». La rivoluzione che aveva contribuito a inaugurare venticinque anni prima aveva vinto. Infatti, qualcuno in seguito avrebbe brontolato che in realta aveva impedito il progresso in campi come l'algebra, la topologia, l'analisi funzionale e altri argomenti nell'ambito della matematica pura. In ogni caso, già nella terza decade del Novecento Hardy veniva considerato un rappresentante della vecchia generazione.

In quegli anni arrivarono riconoscimenti grandi e piccoli. Il 6 marzo del 1929, centesimo anniversario della morte del grande matematico norvegese Abel, Hardy, alla presenza del re di Norvegia, ricevette una laurea ad honorem dall'Università di Oslo.

Il 27 dicembre 1932, con il suo «An Introduction to the Theory of Numbers>> (Introduzione alla teoria dei numeri) ottenne il Premio Chauvenet, assegnato ogni tre anni per un articolo di matematica pubblicato in inglese. Il 29 febbraio 1934, ricevette, su carta recante a rilievo il simbolo di falce e martello dell'Unione Sovietica, una lettera di Ivan Maisky, l'ambasciatore sovietico in Gran Bretagna, gli porgeva le sue congratulazioni per l'elezione a membro onorario dell'Accademia delle Scienze di Leningrado. Gli assegnarono premi le Università di Atene, Harvard, Manchester, Sofia, Birmingham ed Edirnburgo. Ricevette due medaglie dalla Royal Society, la Royal Medal nel 1920 e la Sylvester Medal nel 1940. Fù nominato membro onorario di molte delle principali accademie scientifiche straniere. Senza dubbio, era il matematico più eminente della Gran Bretagna. A questo periodo, che fù la sua primavera, si deve gran parte del sapere firmato Hardy.

Una volta, i propositi per il Nuovo Anno di Hardy furono i seguenti:

1. Dimostrare l'ipotesi di Riemann.
2. Fare 211 no out nel quarto turno di battuta nell'ultimo test match all'Oval [che era come realizzare un giro completo del campo nel Grande Slam quando si e indietro di tre punti al nono turno di battuta della partita finale delle World Series.
3. Trovare un'argomentazione contro l'esistenza di Dio che possa convincere il vasto pubblico.
4. Essere il primo uomo a raggiungere la cima del monte Everest.
5. Essere nominate primo presidente dell'U.R.S.S. di Gran Bretagna e Germania.
6. Uccidere Mussolini.

Grazie alle lunghe conversazioni con Hardy iniziate nel 1931 e continuate per i successivi quindici anni circa, C. P. Snow si ritrovò immerso nella sensibilità da «vecchio brandy» di Hardy. Per «vecchio brandy>> Hardy intendeva tutti i «gusti eccentrici, esoterici, ma ancora nei limiti della ragionevolezza». Per esempio, una volta scrisse a Snow che «gli 800 metri che vanno dalla St. George's Square all'Oval [a Londra] ottengono la mia nomination da vecchio brandy come percorso più straordinario del mondo».

E questo è effettivamente ciò che accadde a Hardy. In qualche modo era diventato anziano. Addirittura, già nell'autunno del 1931, all'età di cinquantaquattro anni, se ne potevano scorgere i segni. Tornato a Cambridge in quell'anno, Norbert Wiener notò che «ormai Hardy é diventato una riproduzione anziana e avvizzita del giovanotto che avevo conosciuto nelle stanze di Russell» vent'anni prima. Anche Hardy lo sapeva. Al suo ritorno a Cambridge, restò infastidito da tutti i nuovi giovani che vedeva tra i matematici. «C'è» scrisse «in quella giovanile sveltezza e capacità qualcosa che intimidisce molto un uomo anziano. »

Un giorno, nel 1939, mentre spolverava la libreria, Hardy ebbe il suo primo attacco cardiaco. All'epoca aveva sessantadue anni. Successivamente non potè più giocare a tennis o a squash o a cricket. La sua creatività entrò in fase di declino. Un elenco dei suoi articoli più importanti, compresi tutti quelli ai quali aveva lavorato insieme a Ramanujan, non ne includeva nessuno a partire dal 1935. La sua produzione calò in misura notevole: da una mezza dozzina di articoli circa che vanno verso la fine degli anni Trenta a uno o due l'anno. Il calo nelle capacità matematiche lo fece cadere in depressione. E così la nuova guerra contro la Germania. Ma intorno al 1941, quando il giovane Freeman Dyson arrivò a Cambridge appena sfornato dalla vecchia scuola di Hardy, Winchester, e frequento per due anni le sue lezioni, non riuscì a percepirlo. Per lui Hardy era ancora un dio. Lui e altri tre studenti si sedevano tutti intorno a un tavolo in una stanzetta della vecchia Arts School, e ascoltavano e osservavano Hardy alla distanza di circa un metro.

Quando faceva lezione, sembrava Wanda Landowska che suonava Bach, preciso e assolutamente lucido, ma esibiva il suo appassionato piacere a tutti coloro che riuscivano a vedere sotto la superficie... Ogni lezione veniva preparata con cura, come un'opera d'arte, con la comparsa quasi spontanea dell'esito intellettuale negli ultimi cinque minuti dell'ora. Per me quelle lezioni costituivano una gioia inebriante, e a volte provavo l'impulso di abbracciare quell'anziano ometto con la maglia da cricket bianca a poco più di mezzo metro da me, per dimostrargli in qualche modo quanto disperacamente grati gli fossimo per la sua disponibilità a continuare a parlare.

Hardy lasciò la Cattedra Sadleirlana, per andare in pensione, nel 1942.

Nel 1946 era ormai praticamente invalido. Snow lo descrisse «fisicamente indebolito, senza fiato già dopo una passeggiata di pochi metri». Sua sorella andò a prendersi cura di lui, anche se il regolamento del Trinity era talmente rigido che la sera doveva lasciare le stanze del fratello. Agli inizi del 1947, tentò di uccidersi ingerendo barbiturici, ma ne prese così tanti che li vornitò, sbattè la testa contro la tazza del gabinetto e si ritrovò con un brutto occhio nero per il disturbo.

Successivamente, quello stesso anno, la Royal Society gli comunicò che stava per ricevere la sua più alta onorificenza, la Medaglia Copley. «Adesso so che devo essere piùttosto vicino alla fine» disse a Snow. «Quando la gente si affretta a darti onorificenze c'e solo una conclusione da trarre.»

Il 24 novembre, Snow scrisse a suo fratello Philip: «Hardy sta morendo (quanto ci vorrà non lo sa nessuno, ma lui spera che accada presto), e devo trascorrere la maggior parte del mio tempo libero al suo capezzale».

Accadde presto. Hardy morì il 1° dicembre 1947, il giorno in cui avrebbero dovuto consegnargli la Medaglia Copley. Dopo aver provveduto a sua sorella, lascio i suoi consistenti risparmi e i diritti d'autore sui suoi libri alla London Mathematical Society. «La sua perdita» scrisse Norbert Wiener «ci ha portato il senso della fine di una grande epoca.»

L'attacco catdiaco del 1939 aveva dato inizio al lungo decline fisico ed emotivo che aveva condotto al tentato suicidio. Ed era stato in conseguenza di cio che, un mese dopo che la Francia si era innamorata dei nazisti, aveva dato i tocchi finali all'Apologia di un matematico, il suo peana alla matematica. Snow considerava l'Apologia «un libro di una tristezza ossessionante», l'opera di un uomo che da lungo tempo si era lasciato alle spalle l'apice della sua creatività. E lo sapeva. «Per un matematico di professione e un'esperienza malinconica mettersi a scrivere sulla matematica» scrisse Hardy. I pittori disprezzavano i critici d'arte? Ebbene, era lo stesso per qualunque altro creative, incluso il matematico. Ma scrivere a proposito di matematica, piuttosto che crearla, era tutto ciò che gli era rimasto.

Ancor oggi nei momenti di depressione, quando sono costretto ad ascoltare della gente pedante e presuntuosa, mi dico: «Be', io ho fatto qualcosa che voi non sareste mai stati capaci di fare: ho collaborate con Littlewood e Ramanujan, su un piano quasi di parità.

Ramanujan. Ancora a distanza di vent'anni, Ramanujan era rimasto parte di lui, un faro splendente, luminoso nella sua memoria. «Hardy» disse Mary Cartwright, sua studentessa nella seconda decade del Novecento, che Hardy avrebbe definito il miglior matematico donna dell'Inghilterra «non parlò praticamente mai di cose che gli suscitavano sentimenti forti.» A un passo di distanza dall'ascoltatore, però, sulla pagina stampata, diventava un pò più spigliato. E li rivelò la presa che Ramanujan aveva avuto su di lui: «Devo più a lui» scrisse «che a chiunque altro al mondo con una sola eccezione [Littlewood?] e la mia collaborazione con lui è l'unica vicenda romantica della mia vita».

Negli anni successivi alla morte di Ramanujan, Hardy iniziò a frugare tra le sue carte e i suoi quaderni. Questo, come avrebbero sperimentato molti altri matematici, poteva essere un compito ingrato. Dopo il suo arrivo a Oxford, Hardy scrisse a Mittag-Leffler di aver preparato un breve articolo basato sui manoscritti di Ramanujan, «ma non era abbastanza sostanzioso per gli Acta [la rivista pubblicata da Mittag-Leffler]. Adesso stò cercando di scriverne uno più importante, ma non è possibile farlo con grande rapidità, perche tutto il lavoro di Ramanujan esige di essere curato al meglio». Nel 1921 aveva già selezionato abbastanza materiale da preparare un seguito al lavoro di Ramanujan sulle proprietà di congruenza delle partizioni.

Hardy riconosceva il debito che aveva nei confronti di Ramanujan e di Littlewood: «Tutto il mio miglior lavoro da allora» scrisse «è stato legato al loro, ed è innegabile che la collaborazione con loro sia stato l'avvenimento decisivo della mia vita». Hardy aveva trentasette anni quando incontrò Ramanujan, e stava realizzando il sogno della sua infanzia come fellow del Trinity che aveva già conquistato l'F.R.S. Ma la sua collaborazione con Littlewood era appena iniziata, e sarebbe arrivato a ritenere niente di eccezionale quei suoi precedenti contributi alla matematica che per gli standard altrui erano formidabili. Poi, improvvisamente, Ramanujan era entrato nella sua vita.

Ramanujan era quanto meno un biasimo vivente e palpitante al sistema del Tripos che Hardy disprezzava. La semplice vivacità intuitiva accoppiata a lunghe e dure ore di lavoro alla lavagnetta compensavano gran parte delle sue lacune scolastiche. Ed era talmente devoto alla matematica che non riusciva a prendersi il fastidio di studiare altre materie che gli erano necessarie per ottenere il diploma al college. Questo «povero e solitario indù che contrapponeva il suo ingegno alla tradizione della saggezza europea», come Hardy lo chiamava, aveva riscoperto un secolo di matematica e aveva fatto nuove scoperte che avrebbero affascinato i matematici nel corso del secolo successive. E tutto questo senza uno degli insegnanti privati del Tripos.

C'è forse da meravigliarsi se Hardy era rimasto incantato? Da quel momento in poi, per i successivi trentacinque anni, Hardy aveva fatto tutto ciò che poteva per sostenere Ramanujan e promuovere la sua eredità matematica. Aveva incoraggiato Ramanujan, aveva riconosciuto il suo genio, lo aveva portato in Inghilterra, gli aveva insegnato l'analisi moderna, e, sia mentre Ramanujan era in vita sia dopo, aveva posto le sue formidabili abilità letterarie al suo servizio.

«Hardy scriveva in un inglese squisito» avrebbe detto di lui il Manchester Guardian, citando in particolare il suo necrologio per Ramanujan come «tra i più notevoli nella letteratura sulla matematica>>. Per il matematico W. N. Bailey, era «uno dei necrologi più affascinanti ch'io abbia mai letto». E fù il libro di Hardy su Ramanujan, più di qualunque altra cosa conoscesse di lui, a convincere Ashis Nandy a fare di Ramanujan l'argomento principale del suo stesso libro. La penna di Hardy accendeva l'immaginazione, così da dare forma all'accoglienza riservata a Ramanujan dal mondo matematico.

La cosa era iniziata nel 1916, quando Hardy aveva inviato alle autorità di Madras un resoconto sul lavoro svolto da Ramanujan in Inghilterra: era bastata un'occhiata perchè chiedessero che venisse preparato per la pubblicazione. In quella lettera Hardy aveva scritto a proposito delle «formule curiose e interessanti» che Ramanujan aveva in suo possesso, del fatto che Ramanujan possedeva «capacità a loro modo rimarchevoli quanto quelle di qualunque matematico vivente», che le sue doti erano «così diverse da quelle di un matematico europeo istruito secondo la scuola ortodossa», che il suo lavoro evidenziava «sorprendente individualità e capacità» e che in Ramanujan «l'India possedeva adesso un esperto di matematica pura di prim'ordine». Difficilmente questo era il genere di linguaggio che poteva passare inosservato tra i matematid, tanto indiani quanto britannici, abituati al genere di prosa grigia e monotona che caratterizzava le loro riviste. Una volta qualcuno disse di Hardy che «era pensabile che sarebbe potuto diventare un genio della pubblicità o un addetto alle pubbliche relazioni». Questa ne era la prova.

Il lungo necrologio di Hardy per Ramanujan venne pubblicato la prima volta nei Proceedings of the London Mathematical Society nel 1921, poco tempo dopo venne ripubblicato nei Proceedings of the Royal Society e poi ancora nei Collected Papers di Ramanujan nel 1927. Nel necrologio raccontò la storia di Ramanujan. La investì di sentimento. Il suo linguaggio permaneva nella memoria. «[Il lavoro di Ramanujan] possiede un dono che nessuno può negare» concludeva: «una profonda e insuperabile originalità».

Forse sarebbe stato un matematico anche più importante se fosse stato afferrato e domato un po' durante la gioventù: avrebbe scoperto più cose nuove e senza dubbio di maggiore importanza. D'altro canto, però, sarebbe stato meno Ramanujan e più un professore europeo, e la perdita avrebbe potuto essere maggiore del guadagno.

Snow, che incontrò per la prima volta Hardy nel 1931, rivelò che, nonostante tutta la sua timidezza, «sulla scoperta di Ramanujan non faceva misteri». Mary Cartwright ricordò che «Hardy era terribilmente orgoglioso, e a ragione, di aver scoperto Ramanujan», Quell'indiano gli aveva arricchito la vita. Non voleva dimenticare Ramanujan, e non lo fece.

Il 19 febbraio 1936, Hardy aveva scritto a S. Chandrasekhar da Cambridge: «Ho intenzione di tenere alcune lezioni, qui e a Harvard, su Ramanujan durante l'estate». Sarebbero diventate il fondamento di Ramanujan: Twelve Lectures on Subjects Suggested By His Life and Work (Ramanujan: dodici lezloni su argornenti suggeriti dalla sua vita e dalla sua opera). «Una fatica d'amore» come la definì un recensore.

La lezione a Harvard faceva parte della celebrazione per il terzo centenario della fondazione di quella grande università. I festeggiamenti culminarono nei tre grandi Giorni del Terzo Centenario, dal 16 al 18 settembre. L'Harvard Yard, il «cortile» di Harvard, oggi trasformato in un grande teatro all'aperto con diciassettemila posti a sedere, era inondato da cappelli di seta, stamigna color cremisi e colorati costumi accademici. La seconda sera, alle nove, oltre mezzo milione di persone si allineò lungo le rive del fiume Charles per assistere a due ore di fuochi d'artificio. Il mattino seguente, sotto una pioggerella costante e una coltre di nuvole tristi e cupe, foriere di un uragano proveniente dalla costa atlantica, sessantadue tra i blologi, i chimici, gli antropologi e gli altri studiosi tra i più eminenti del mondo ricevettero le lauree ad honorern. Marciarono in corteo dalla Widener Library e presero posto sui palchi eretti di fronte ai pilastri della Memorial Church, la chiesa della Commemorazione, all'estremita nord del cortile. Tra loro c'era lo psicanalista Carl Jung, c'era Jean Piaget, il pionere dello studio sullo sviluppo infantile, c'era l'astrofisico inglese Sir Arthur Eddington. E c'era Hardy. L'encomio in suo onore, inserito nel libro di presentazione in pelle rossa marchiato con il sigillo Veritas di Harvard, lo defniva «un matematico britannico che ha guidato l'avanzata verso vette ritenute inaccessibili dalle generazioni precedente.

Nelle settimane precedenti al gran finale, una Conferenza sulle Arti e le Scienze del Terzo Centenario attirò a Harvard oltre duemilacinquecento studiosi per conferenze su vasti settori del sapere tipo «The Place and Function of Authority>> (Luogo e funzione dell'autorità) e «The Application of Physical Chemistry to Biology» (Applicazione della chimica fisica alla biologia). Per via della malattia della moglie, Einstein aveva comunicato che non avrebbe potuto partecipare. Nè pote "Werner Heisenberg, autore del principio di indeterminazione, cui all'ultimo minuto era stato comunicato che era richiesto per otto settimane di servizio nell'esercito di Hitler. Nonostante la loro assenza, si compose un gruppo di tutto rispetto, che includeva non meno di undici vincitori di Premi Nobel. «Intellettuali a Harvard»: così Time aveva intitolato il suo resoconto dell'evento, mentre il New York Times pubblicò la cronaca di alcune conferenze pubbliche, inclusa quella di Hardy.

Intorno alle nove di sera del primo giorno di conferenze, Hardy, ormai grigio, avvizzito e prossimo ai sessant'anni, si alzò di fronte al suo pubblico nella New Lecture Hall, la nuova sala conferenze. «Per queste conferenze mi sono assunto un compito che è sinceramente difficile,» disse ai presenti, con le misurate cadenze che costituivano il marchio della sua oratoria e della sua prosa e che, se fossi deciso a cominciare scusandomi per l'insuccesso, potrei definire quasi impossible. Devo formulare per me stesso, dato che non l'ho mai fatto veramente prima, e cercare di aiutare voi a formulare, una sorta di ragionata valutazione della figura più romantica della storia recente della matematica, un uomo la cui camera sembra piena di paradossi e contraddizioni, che sfida quasi tutti i canoni secondo i quali siamo abituati a giudicarci l'un l'altro e sul quale tutti probabilmente concorderemo in un unico giudizio: che fù per certi versi un grandissimo matematico. Poi Hardy, con il ricordo ancora vivo di quel giorno di venticinque anni prima, quando una busta zeppa di formule era arrivata con la posta dall'India, iniziò a parlare del suo amico, Srinivasa Ramanujan.

(Tratto da "L'uomo che vide l'infinito - Robert Kanigel - 2003 Rizzoli)

Apologia di un matematico

Per un matematico di professione è un'esperienza melanconica mettersi a scrivere sulla matematica. La funzione del matematico è quella di fare qualcosa, di dimostrare nuovi teoremi e non di parlare di ciò che è stato fatto da altri matematici o da lui stesso. Gli uomini politici disprezzano i giornalisti, i pittori disprezzano i critici d'arte, i fisiologi, i fisici e i matematici hanno, in genere, un sentimento analogo. Non c'è disprezzo più profondo né, tutto sommato, più giustificato di quello che gli uomini "che fanno" provano verso gli uomini "che spiegano". Esposizione, critica, valutazione sono attività per cervelli mediocri.

Nessun matematico può permettersi di dimenticare che la matematica, più di qualsiasi altra arte o di qualsiasi altra scienza, è un'attività per giovani. Newton, ad esempio, abbandonò la matematica a cinquant'anni, ma aveva perso l'entusiasmo già molto prima; si era sicuramente reso conto già a quarant'anni che il suo periodo di grande creatività era finito. Le sue idee più grandi, le flussioni e la legge della gravitazione universale, sono del 1666, quando aveva solo ventiquattr'anni. Newton fece delle scoperte importanti fino quasi a quarant'anni (l'orbita ellittica a trentasette), ma in seguito non fece altro che ripulire e perfezionare le sue scoperte. Galois è morto a ventun anni, Abel a ventisette, Ramanujan a trentatré, Riemann a quaranta. Ci sono stati altri uomini che hanno compiuto grandi cose ad un'età più avanzata. La celebre memoria di Gauss sulla geometria differenziale è stata pubblicata quando aveva cinquant'anni (anche se ne aveva concepito le idee principali 10 anni prima), ma non conosco un solo esempio di una grande scoperta matematica che sia dovuta a un uomo di più di cinquantanni. Se un uomo di età matura si stanca della matematica e l'abbandona, è molto probabile che non sarà una grave perdita, né per la matematica né per lui.

La matematica è davvero "inutile"? In un certo senso è chiaro che non lo è, poiché, per esempio, procura un grande piacere a moltissime persone. Tuttavia usavo la parola "utilità" in un senso più ristretto. La matematica è "utile", direttamente utile, al pari di altre scienze come la chimica e la fisiologia? La domanda è tutt'altro che semplice e si presta a controversie. La mia risposta definitiva sarà NO. anche se alcuni matematici, e la maggior parte dei profani, non esiterebbero a rispondere SI. E la matematica è davvero "innocua"? Anche questa non è una risposta ovvia e per certi aspetti avrei preferito evitare la domanda, perché solleva tutto il problema delle conseguenze che la scienza ha sulla guerra. Si può dire che la matematica è innocua nel senso in cui la chimica, per esempio, non lo è? Dovrò ritornare su queste questioni.

I Greci sono stati i primi matematici di quella categoria che oggi consideriamo dei "veri" matematici. Mentre la matematica orientale può essere una curiosità interessante, la matematica greca è vera matematica. I Greci sono stati i primi a usare un linguaggio che i matematici moderni capiscono. Come mi disse Littlewood una volta, i Greci non sono dei bravi studenti o dei "candidati borsisti", ma dei "colleghi di un'altra università". Perciò la matematica greca è "perenne", ancora più della letteratura greca. Archimede sarà ricordato quando Eschilo sarà dimenticato, perché le lingue muoiono ma le idee matematiche no. "Immortalità" forse è una parola ingenua, ma un matematico ha più probabilità di chiunque altro di raggiungere quello che questa parola designa.

Le forme create dal matematico, come quelle create dal pittore o dal poeta, devono essere belle; le idee, come i colori o le parole, devono legarsi armoniosamence. La bellezza è il requisito fondamentale: al mondo non c'è un posto perenne per la matematica brutta. E' senza dubbio molto difficile definire la bellezza matematica, ma questo è altrettanto vero per qualsiasi genere di bellezza. Possiamo anche non sapere che cosa intendiamo per "bella poesia", ma questo non ci impedisce di riconoscerne una quando la leggiamo.

Un problema di scacchi è matematica autentica, ma in un certo senso, è matematica "banale". Per quanto complicato e ingegnoso sia, per quanto originali e sorprendenti siano le mosse, gli manca qualcosa di essenziale. I problemi di scacchi non sono importanti. La migliore matematica non solo è bella ma è anche seria, importante, se preferite, ma il termine è molto ambiguo, mentre seria esprime meglio quello che voglio dire. Non mi riferisco alle applicazioni "pratiche" della matematica.

È innegabile che una buona parte della matematica elementare (uso il termine "elementare" nel senso in cui lo usano i matematici professionisti, e che comprende, per esempio, una buona conoscenza del calcolo differenziale e integrale) ha una considerevole utilità pratica. Questa parte della matematica in complesso è piuttosto noiosa ed è proprio quella che ha minore valore estetico. La "vera" matematica dei "veri" matematici, quella di Fermat, di Eulero, di Gauss, di Abel e di Riemann, è quasi totalmente "inutile" (e questo vale sia per la matematica "applicata" sia per la matematica "pura"). Non è possibile giustificare la vita di nessun vero matematico professionista sulla base dell'utilità" del suo lavoro.

Quali sono le parti utili della matematica? Tanto per cominciare la maggior parte della matematica scolastica: l'aritmetica, l'algebra elementare, la geometria euclidea, il calcolo differenziale elementare e integrale. Si può escludere una buona parte di quello che si insegna agli "specialisti", per esempio la geometria proiettiva. Nel campo della matematica applicata, le basi della meccanica (l'elettricità, come si insegna a scuola, deve essere classificata nella fisica). Dunque la nostra conclusione generale è che all'interno della matematica i campi utili sono quelli necessari a un ingegnere specializzato o a un fisico medio, cioè proprio quella matematica che non ha un valore estetico particolare. La geometria euclidea, per esempio, è utile solo nella misura in cui è noiosa; non abbiamo bisogno dell'assiomatica delle parallele, della teoria delle proporzioni o della costruzione del pentagono regolare. La conclusione piuttosto curiosa che emerge è che la matematica pura, nel suo insieme, è nettamente più utile di quella applicata. Il matematico puro sembra essere in vantaggio sia sul piano pratico che su quello estetico. Perché ciò che è soprattutto utile è la tecnica, e la tecnica matematica si insegna principalmente attraverso la matematica pura. Gli universi "immaginari" sono molto più belli di un mondo stupidamente costruito come il nostro mondo "reale"; e i più bei prodotti dell'immaginazione di un matematico applicato devono in gran parte essere respinti appena creati per la ragione, brutale ma sufficiente, che non si adattano ai fatti.

La conclusione generale è abbastanza evidente. Se, come abbiamo convenuto provvisoriamente, l'utilità del sapere consiste nella sua capacità di contribuire, ora o in un futuro relativamente vicino, al benessere materiale dell'umanità, per cui la soddisfazione puramente intellettuale risulta irrilevante, allora la maggior parte della matematica superiore è inutile. La geometria moderna e l'algebra, la teoria dei numeri, la teoria degli insiemi e delle funzioni, la teoria della relatività, la meccanica quantlstica, non ce n'è una che superi la prova meglio delle altre e non è su questo terreno che si può giustificare la vita di nessun vero matematico. Se questo è il criterio di giudizio, Abel, Riemann e Poincaré hanno sprecato la loro vita; il loro contributo al benessere dell'umanità è stato insignificante, e il mondo sarebbe stato un luogo altrettanto felice anche senza di loro.

Il momento decisivo della mia camera arrivò nel 1911, quando iniziai la mia lunga collaborazione con Littlewood, e nel 1913, quando scoprii Ramanujan. Tutto il mio miglior lavoro da allora è stato legato al loro, ed è innegabile che la collaborazione con loro sia stato l'avvenimento decisivo della mia vita. Ancor oggi nei momenti di depressione, quando sono costretto ad ascoltare della gente pedante e presuntuosa, mi dico: «Beh, io ho fatto qualcosa che voi non sareste mai stati capaci di fare: ho collaboraco con Littlewood e Ramanujan, su un piano quasi di parità». E a loro che devo una maturità insolitamente tardiva: ho dato il meglio di me un po' dopo la quarantina, quand'ero professore a Oxford. Da allora ho subito un regolare declino, che è il destino comune degli uomini che invecchiano, e in particolare dei matematici che invecchiano. Un matematico può essere abbastanza efficiente a sessant'anni, ma è inutile aspettarsi da lui delle idee originali.

Non ho mai fatto niente di "utile". Nessuna mia scoperta ha aggiunto qualcosa, né verosimilmente aggiungerà qualcosa, direttamente o indirettamente, nel bene e nel male, alle attrattive del mondo. Ho aiutato a formare altri matematici, ma erano matematici della mia stessa specie e il loro lavoro, quello che hanno compiuto col mio aiuto, è stato altrettanto inutile del mio. Giudicato secondo tutti i parametri pratici, il valore della mia vita matematica è nullo; e al di fuori della matematica è assolutamente insignificante. Ho un'unica possibilità di sfuggire a un verdetto di irrilevanza totale, se si giudica che ho creato qualcosa che valeva la pena creare. Che ho creato qualcosa è innegabile: la questione riguarda il suo valore. La sola difesa della mia vita, allora, o di chiunque sia stato matematico nello stesso mio senso, è dunque questa: ho aggiunto qualcosa al sapere e ho aiutato altri ad aumentarlo ancora; il valore dei miei contributi si differenzia soltanto in grado, e non in natura, dalle creazioni dei grandi matematici, o di tutti gli altri artisti, grandi e piccoli, che hanno lasciato qualche traccia dietro dì loro.

(Tratto da "Apologia di un matematico - G.H. Hardy - 1989 Garzanti)