Galileo Galilei nacque a Pisa il 15 febbraio 1564. Suo padre Vincenzo era un musicista e sua madre, Giulia Ammannati, era una donna brillante ma piuttosto astiosa che non tollerava la stupidità.
Nel 1581 Galileo seguì il consiglio di suo padre e si iscrisse alla facoltà delle Arti dell'Università di Pisa per studiare Medicina. Il suo interesse per le scienze mediche si affievolì però quasi subito per lasciar posto a quello per la matematica. Così, durante le vacanze estive del 1583, convinse il matematico della corte dei granduchi di Toscana, Ostilio Ricci (1540-1603), a incontrare suo padre e a convincerlo che lui, Galileo, era destinato a diventare un matematico.
La questione fu sistemata dì lì a poco, poiché quel giovane entusiasta rimase letteralmente stregato dalle opere di Archimede. A quel tempo Galileo non sapeva di essere lui stesso il possessore di una delle poche menti non inferiori a quella del maestro greco. Ispirato dalla storia leggendaria di Archimede e della ghirlanda del re, nel 1586 Galileo scrisse un libriccino intitolato La bilancerà, su una bilancia idraulica che luì stesso aveva inventato.
Nel 1589 a Galileo fu affidata la cattedra dì Matematica presso l'Università di Pisa, in parte grazie alla forte raccomandazione di Cristoforo Clavìo (1538-1612), uno stimato matematico e astronomo cui Galileo aveva fatto visita nel 1587 a Roma. L'astro del giovane matematico era ormai in decisa ascesa.
Nei tre anni successivi Galileo espose i suoi primi pensieri sulla teoria del movimento. Questi saggi, che sono chiaramente influenzati dall'opera dì Archimede, contengono un'affascinante miscela di idee interessanti e asserzioni false. Per esempio, insieme all'inedita scoperta del fatto che è possibile verificare le teorie sulla caduta dei gravi usando piani inclinati per rallentare il movimento verso il basso, Galileo vi sostiene erroneamente che quando si lasciano cadere dei corpi da una torre, «il legno si muove più veloce del piombo all'inizio del movimento».
Le propensioni e il modo di ragionare di Galileo in questa fase della sua vita sono stati travisati in certa misura dal suo primo biografo, Vincenzo Vìviani (1622-1703). Viviani creò l'immagine popolare di uno sperimentatore meticoloso e concreto che riusciva a comprendere cose nuove esclusivamente per mezzo di osservazioni attente dei fenomeni naturali. In realtà, fino a quando non si trasferì a Padova nel 1592, l'orientamento e la metodologia di Galileo furono soprattutto matematici. Egli si affidava per lo più agli esperimenti concettuali e a una descrizione archimedea del mondo in termini di figure geometriche che obbedivano a leggi matematiche.
La sua critica ad Aristotele era che il grande filosofo «ignorava le profonde e più oscure scoperte della geometria, ma anche i più elementari princìpi della scienza». Inoltre, Galileo riteneva che Aristotele si fosse basato troppo sulle esperienze sensoriali, «poiché esse offrono a prima vista una certa parvenza di verità». Galileo proponeva al contrario «di impiegare sempre il ragionamento invece che gli esempi [poiché noi cerchiamo le cause e gli effetti, ed essi non vengono rivelati dall'esperienza]».
Il padre di Galileo morì nel 1591, e ciò indusse il giovane, che ora doveva mantenere la sua famiglia, ad accettare un incarico a Padova, dove il suo stipendio sarebbe stato triplicato. I diciotto anni successivi furono i più felici della vita di Galileo. A Padova ebbe inizio la sua lunga relazione con Marina Gamba, che non sposò mai ma che gli diede tre figli: Virginia, Livia e Vincenzo.
Il 4 agosto 1597 Galileo scrisse una lettera personale al grande astronomo tedesco Giovanni Keplero in cui ammetteva dì aver adottato «da molti anni» la dottrina di Copernico, aggiungendo di aver trovato nel modello eliocentrico copernicano le spiegazioni di svariati fenomeni naturali che con la dottrina geocentrica non si potevano raggiungere. Lamentava però il fatto che Copernico rimanesse «oggetto di ridicolo e derisione». Quella lettera segnava una spaccatura sempre più profonda tra Galileo e la cosmologia aristotelica. Cominciava a prendere forma l'astrofisica moderna.
La sera del 9 ottobre 1604, alcuni astronomi a Verona, Roma e Padova osservarono con sbigottimento una nuova stella che divenne rapidamente più luminosa di tutti gli altri astri del firmamento. Anche il meteorologo Jan Brunowski, funzionario imperiale a Praga, la notò il 10 ottobre e, in preda a una forte agitazione, informò immediatamente Keplero. Le nuvole impedirono a Keplero di vedere la stella fino al 17 ottobre, ma, una volta riuscitoci, egli continuò a registrare le sue osservazioni per circa un anno e alla fine pubblicò un libro sulla «stella nova» nel 1606. Quell'evento, che oggi noi definiamo «supernova di Keplero», provocò grande sensazione a Padova. Galileo riuscì a vedere la nuova stella con i propri occhi verso la fine di ottobre e, in seguito, nei mesi di dicembre e di gennaio, tenne due lezioni pubbliche davanti a grandi platee.
Appellandosi alla conoscenza invece che alla superstizione, Galileo fece notare che l'assenza di uno spostamento apparente («parallasse») nella posizione della nuova stella (rispetto allo sfondo delle stelle fisse) dimostrava che essa doveva trovarsi al di là della regione lunare. La portata di quell'osservazione era enorme. Nel mondo aristotelico tutti i mutamenti per così dire celesti avvenivano esclusivamente al di qua della Luna, mentre la sfera molto più lontana delle stelle fisse era ritenuta inviolabile e immune al cambiamento.
Il superamento del concetto di sfera immutabile era cominciato già nel 1572, quando l'astronomo danese Tycho Brahe (1546-1601) aveva osservato un'altra esplosìone stellare oggi nota come «supernova di Tycho». L'evento del 1604 fu un altro duro colpo per la cosmologia aristotelica. Ma la vera rivoluzione nella comprensione del cosmo non derivò né dal regno della speculazione teorica né dalle osservazioni a occhio nudo. Fu invece la conseguenza di semplici esperimenti compiuti con lenti di vetro convesse e concave: se se ne scelgono due appropriate e le si dispone a una distanza di trentatré centimetri circa l'una dall'altra, si ottiene uno strumento che fa apparire come per magìa gli oggetti lontani più vicini.
Nel 1608 questi cannocchiali cominciarono a fare la loro comparsa in tutta Europa, tanto che un fabbricante di specchi olandese e due fiamminghi ne chiesero il brevetto. Notizie di quel miracoloso strumento giunsero al teologo veneziano Paolo Sarpi, che nel maggio del 1609 ne informò Galileo. Ansioso di avere una conferma di quelle voci, Sarpi scrisse anche a un amico parigino, Jacques Badovere, per chiedergli se le informazioni che circolavano fossero vere. Stando alla sua stessa testimonianza, Galileo fu «preso dal desiderio di quel bellissimo oggetto».
Una volta saputo che era possibile costruire un telescopio, non gli ci volle molto per scoprire come poteva fabbricarsene uno lui stesso. Ma c'è dell'altro: tra l'agosto 1609 e il marzo 1610, Galileo si servì della sua inventiva per migliorare il telescopio portandone il potere d'ingrandimento da otto a venti. Era una grande conquista tecnica di per sé, ma la vera grandezza di Galileo stava per rivelarsi non nella sua abilità tecnica, quanto nell'uso che fece del suo tubo per migliorare la visione (che egli chiamò «perspicillum»).
Invece di spiare le navi al largo del porto dì Venezia o esaminare i tetti di Padova, Galileo puntò il suo telescopio sul cielo. Ciò che seguì fu qualcosa che non aveva precedenti nella storia della scienza. «In circa due mesi» scrive lo storico della scienza Noel Swerdlow, «dicembre e gennaio [del 1609 e del 1610 rispettivamente], egli fece più scoperte che cambiarono il mondo di chiunque altro prima o dopo di lui.» In effetti il 2009 è stato scelto come Anno internazionale dell'astronomìa per celebrare il Quattrocentesimo anniversario delle prime osservazioni dì Galileo. Ma che cosa fece Galileo per diventare un eroe della scienza di queste dimensioni? Quelli che seguono sono solo alcuni dei risultati sorprendenti che egli ottenne con il suo telescopio.
Puntando lo strumento verso la Luna ed esaminando in particolare il termìnatore - la linea che divìde la parte illuminata del disco lunare da quella oscura —, Galileo scopri che quel corpo celeste aveva una superficie irregolare, con montagne, crateri e grandi pianure. Osservò che nella parte della Luna velata dall'oscurità apparivano dei punti luminosi e che quei puntini si allargavano e si estendevano come accade con le cime delle montagne sulla Terra al sorgere del Sole. Usò persine la geometria dì luci e ombre per determinare l'altezza di una montagna, che risultò superiore a 7000 metri. Ma non era tutto. Galileo notò che anche la parte oscura della Luna (nella fase crescente) era debolmente illuminata, e ne concluse che ciò era dovuto alla luce del Sole riflessa dalla Terra. Così come la Terra è illuminata dalla Luna piena, affermò Galileo, la superficie lunare è circonfusa di luce riflessa dalla Terra.
Alcune dì queste scoperte non erano del tutto nuove, ma la forza delle prove fornite da Galileo elevava il dibattito a un livello completamente inedito. Fino all'epoca dì Galileo, c'era stata una netta distinzione tra «terrestre» e «celeste», «mondano» e «divino». La differenza non era soltanto scientifica o filosofìca. Attorno a questa separazione tra Cielo e Terra era stato ìntessuto un ricco arazzo di mitologia, religione, poesia romantica e sensibilità estetica. In contrapposizione alla dottrina aristotelica, Galileo pose la Terra e un corpo celeste (la Luna) su un piano molto simile: ambedue avevano superfìci accidentate e riflettevano la luce del Sole.
Spingendosi oltre la Luna, Galileo si mise a osservare i pianeti, termine coniato dagli antichi greci per indicare gli astri «vagabondi» del ciclo notturno. Dirigendo il suo telescopio su Giove il 7 gennaio 1610, scoprì con grande stupore tre nuove stelle disposte lungo una linea che attraversava il pianeta, due a oriente e una a occidente. Nelle notti seguenti, le nuove stelle cambiarono posizione rispetto a Giove. Il 13 gennaio Galileo vide comparire una quarta stella. Dopo circa una settimana dalla prima osservazione, Galileo giunse a una conclusione stupefacente: le nuove stelle erano in realtà satelliti che orbitavano attorno a Giove, esattamente come la Luna orbita attorno alla Terra.
Una peculiarità che accomuna le personalità che hanno avuto un impatto significativo sulla storia della scienza è la loro capacità dì comprendere al volo quali sono le scoperte che davvero possono fare la differenza. Un altro tratto che contraddistingue molti scienziati influenti è il modo in cui riescono a rendere comprensibili agli altri le loro scoperte. Galileo era un maestro in tutti e due questi ambiti. Preoccupato che qualcun altro potesse individuare i satelliti gioviani, Galileo si affrettò a rendere noti Ì risultati ottenuti: già nella primavera del 1610 il suo trattato Sidereus Nuncim veniva pubblicato a Venezia. Galileo, che in quel momento della sua vita era ancora politicamente accorto, dedicò il libro al granduca dì Toscana Cosimo II de' Medici, e chiamò i satelliti di Giove «stelle medicee». Due anni più tardi, dopo quella che egli definì una «fatica atlantica», Galileo fu in grado di determinare i periodi orbitali, il tempo necessario a ciascuno dei quattro satelliti per compiere una rivoluzione attorno a Giove, con uno scarto di pochi minuti. Sìdereus Nuncius ebbe un successo immediato: le sue cinquecento copie iniziali andarono rapidamente esaurite, rendendo Galileo famoso in tutto il continente.
La scoperta dei satelliti gioviani fu di vasta portata. Non erano solo i primi corpi celesti a essere aggiunti al sistema solare dai tempi delle osservazioni degli antichi greci, ma la loro mera esistenza eliminava in un sol colpo una delle più serie obiezioni alla teoria copernicana. Gli aristotelici sostenevano che era impossibile che la Terra orbitasse intorno al Sole, dato che la stessa Terra aveva la Luna che orbitava intorno a sé. Com'era possibile che l'universo avesse due distinti centri di rotazione, il Sole e la Terra? La scoperta dì Galileo dimostrava inequivocabilmente che un pianeta poteva avere satelliti che gli orbitavano intorno pur seguendo la propria traiettoria attorno al Sole.
Un'altra scoperta di fondamentale importanza che Galileo fece nel 1610 fu quella delle fasi del pianeta Venere. Secondo la dottrina geocentrica, Venere si sarebbe dovuto muovere lungo un pìccolo cerchio («epiciclo») sovrapposto alla sua orbita intorno alla Terra. Il centro dell'epiciclo avrebbe dovuto trovarsi sempre sulla linea che congiunge la Terra al Sole. In questo caso ci si aspetterebbe che Venere, osservata dalla Terra, appaia sempre come una falce di ampiezza variabile. Nel sistema copernicano, d'altra parte, l'aspetto di Venere dovrebbe cambiare passando da un piccolo disco luminoso quando il pianeta si trova dal lato opposto del Sole rispetto alla Terra, a un disco grande e quasi completamente oscuro quando Venere si trova dallo stesso lato della Terra. Nelle posizioni intermedie tra questi due punti, Venere dovrebbe passare attraverso una sequenza completa di fasi simili a quelle della Luna.
Su questa differenza tra le predizioni dei due modelli cosmologici, Galileo tenne una corrispondenza con un suo ex studente, Benedetto Castelli (1577-1644), e tra l'ottobre e il dicembre del 1610 compì le osservazioni decisive, il cui verdetto era chiaro: esse confermavano in maniera inequivocabile le predizioni del modello copernicano, dimostrando che Venere orbitava attorno al Sole.
Galileo fece anche due scoperte relative alle stelle, corpi celesti che brillano di luce propria, come il Sole. Nella visione aristotelica del mondo, il Sole avrebbe dovuto simboleggiare la perfezione e l'immutabilità ultraterrene. Immaginatevi quale sbigottimento produsse lo scoprire che la superfìcie solare è tutt'altro che perfetta, che presenta macchie e punti oscuri che compaiono e scompaiono mentre il Sole ruota attorno al proprio asse.
In realtà Galileo non fu il primo a vedere le macchie solari e nemmeno il primo a scriverne. Un trattatello in particolare, Tres epistolae de maculis solaribus, scritto dallo scienziato gesuita Cristoph Scheiner (1573-1650), irritò a tal punto Galileo che egli si sentì obbligato a pubblicare una risposta articolata. Secondo Scheiner, non era possibile che le macchie si trovassero sulla superficie del Sole. La sua tesi si basava in parte sul fatto che, a suo modo di vedere, le macchie erano troppo scure (pensava che fossero più scure delle parti in ombra della Luna) e in parte sul fatto che non sempre sembravano ricomparire nelle stesse posizioni. Di conseguenza Scheiner riteneva che fossero piccoli pianeti in orbita attorno al Sole.
Nella sua Historia e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, Galileo confutò sistematicamente le argomentazioni di Scheiner a una a una. Con una meticolosità, un'arguzia e un sarcasmo che avrebbero fatto balzare in piedi ad applaudire Oscar Wilde, Galileo dimostrò che le macchie non erano affatto oscure, ma che apparivano tali rispetto alla luminosa superfìcie del Sole. Inoltre, l'opera di Galileo dimostrava incontrovertibilmente che le macchie si trovavano proprio sulla superfìcie solare.
Le osservazioni di altre stelle compiute da Galileo rappresentarono a tutti gli effetti la prima escursione dell'uomo nel cosmo al di fuori dei confini del sistema solare. Galileo scoprì che, a differenza di quanto accadeva con la Luna e i pianeti, il suo telescopio non ingrandiva le immagini delle stelle. Le implicazioni erano chiare: le stelle erano molto più lontane dei pianeti. Già questa era una deduzione stupefacente, ma il dato davvero sbalorditivo era il mero numero delle nuove, deboli stelle che il telescopio aveva rivelato. Soltanto in una piccola regione della costellazione di Orione, Galileo scoprì non meno di 500 nuove stelle. Quando il pisano rivolse il suo telescopio sulla Via Lattea - il nastro irregolare di debole luce che attraversa il ciclo notturno - andò incontro alla sorpresa più grande. Persino quella macchia luminosa d'aspetto omogeneo si frantumava in una quantità innumerevole di stelle che nessun uomo aveva mai visto prima. L'universo diventava di colpo molto più grande.
La reazione di alcuni contemporanei di Galileo fu entusiastica. Le sue scoperte accesero l'immaginazione di scienziati e non, in tutta Europa.
Sir Henry Wotton, ambasciatore inglese a Venezia, riuscì a entrare in possesso di una copia del Sidereus Nuncius il giorno stesso in cui comparve. Lo spedì immediatamente a re Giacomo I d'Inghilterra
Si potrebbero scrivere interi volumi (e infatti sono stati scritti!) su tutto quello che scoprì Galileo, ma ciò esula dagli scopi di questo libro. Qui intendo limitarmi a esaminare l'effetto che alcune di queste scoperte sbalorditive ebbero sulle idee di Galileo riguardo all'universo. In particolare, quale relazione colse Galileo, se ne colse, tra la matematica e il cosmo smisurato che gli si dispiegava davanti.
Il filosofo della scienza Alexandre Koyré (1892-1964) osservò una volta che la rivoluzione del pensiero scientifico si può ridurre a un elemento essenziale: la scoperta che la matematica è la grammatica della scienza. Mentre gli aristotelici si accontentavano di una descrizione qualitativa della natura e, anche per quella, si appellavano all'autorità di Aristotele, Galileo affermava che gli scienziati avrebbero dovuto ascoltare la natura stessa e che le chiavi per decifrare il linguaggio dell'universo erano le relazioni matematiche e i modelli geometrici.
Un semplice esempio del modo in cui questi diversi atteggiamenti nei riguardi dei risultati osservativi potevano alterare completamente l'mterpretazione dei fenomeni naturali è dato dalla scoperta delle macchie solari. L'astronomo gesuita Christoph Scheiner osservò le macchie con competenza e attenzione. Fece però l'errore di lasciare che i suoi pregiudizi aristotelici sulla perfezione dei cieli condizionassero le sue conclusioni. Quindi, quando scoprì che le macchie non facevano ritorno nella stessa posizione e nello stesso ordine, si affrettò ad annunciare che era in grado di «liberare il Sole dalla ferita delle macchie». La premessa di un'immutabilità celeste pose un limite alla sua immaginazione e gli impedì di considerare la possibilità che le macchie potessero modificarsi fino a diventare irriconoscibili. Perciò dedusse che le macchie dovevano essere astri in orbita attorno al Sole.
Il percorso seguito da Galileo per affrontare la questione della distanza delle macchie dalla superfìcie del Sole era completamente diverso. Egli individuò tre osservazioni che necessitavano di una spiegazione. Primo, le macchie apparivano più sottili quando erano vicine al bordo del disco rispetto a quando si trovavano al suo centro. Secondo, la distanza tra esse sembrava aumentare quando si avvicinavano al centro del disco. Infine, le macchie sembravano muoversi più rapidamente in prossimità del centro che vicino al bordo. Con una sola costruzione geometrica, Galileo riuscì a dimostrare che la sua ipotesi, e cioè che le macchie fossero adiacenti alla superfìcie del Sole e sì muovessero insieme a essa, era in accordo con tutti i fatti osservati. La sua dettagliata spiegazione sì basava sul fenomeno visivo dello «scorcio» su una superficie sferica, ovvero sul fatto che delle sagome disegnate su una sfera appaiono più sottili e meno distanti quando sono vicine al bordo.
La dimostrazione di Galileo per la costruzione del procedimento scientifico era di enorme portata. Le stesse osservazioni potevano portare a interpretazioni dubbie, a meno che non le si interpretasse in un più ampio contesto teorico.
Galileo non si tirava mai indietro di fronte all'opportunità di un'accesa contesa. L'esposizione più articolata delle sue idee sulla natura della matematica e sul suo ruolo nella scienza compare in un'altra pubblicazione di carattere polemico, il Saggiatore. Questo brillante trattato, scritto magistralmente, raggiunse una tale popolarità che il papa Urbano VIII se ne faceva leggere delle pagine mentre consumava i suoi pasti. Ciò che stupisce è che la tesi centrale esposta da Galileo nel Saggiatore era completamente sbagliata. Galileo cercava di sostenere che le comete erano fenomeni causati da qualche scherzo della rifrazione ottica nel mondo sublunare.
Secoli prima che ci si ponesse la questione del perché la matematica fosse uno strumento così efficace per spiegare la natura, Galileo pensava di conoscere già la risposta! Per lui, la matematica altro non era che il linguaggio dell'universo. Per comprendere l'universo, sosteneva, era necessario parlare quella lingua. Dio altro non era che un matematico.
L'intera gamma delle idee che Galileo espone nei suoi scritti dipinge un quadro ancora più dettagliato delle sue opinioni sulla matematica. Innanzitutto, dobbiamo tener presente che per Galileo essa significava fondamentalmente geometria. Di rado era interessato a misurare valori in numeri assoluti. Descrìveva i fenomeni soprattutto per mezzo di rapporti tra quantità e in termini relativi. Anche in questo Galileo era un autentico discepolo di Archimede, del cui principio della leva e del cui metodo della geometria comparativa si servì efficacemente e ampiamente. Un'altra questione degna di nota, che si manifesta soprattutto nell'ultima opera di Galileo, è la distinzione che l'autore fa tra i ruoli della geometria e quelli della logica.
L'opera, "Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze" è scritta nella forma di vivaci discussioni tra tre interlocutori, Salviati, Sagredo e Simplicio, personaggi le cui partì sono definite in modo chiaro. Salviatì è a tutti gli effetti il portavoce dì Galileo. Sagredo, l'aristocratico appassionato di filosofìa, è un uomo la cui mente si è già sottratta alle illusioni del senso comune aristotelico e che dunque può essere convinto dalla forza delle argomentazioni della nuova scienza matematica. Simplicio, che nell'opera precedente di Galileo era ritratto come un personaggio succube dell'autorità di Aristotele, qui appare come un erudito di ampie vedute.
Secondo Galileo, nel progettare la natura, Dio parlava il linguaggio della matematica. Secondo la Chiesa cattolica, Dio era l'«autore» della Bibbia. Come giudicare dunque quei casi in cui le spiegazioni scientifiche fondate sulla matematica sembravano contrapporsi alle Scritture? Nel 1546, i teologi del Concilio di Trento risposero senza mezzi termini, la cosmologia eliocentrica era «formalmente eretica, per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura». In altre parole, l'elemento davvero centrale delle obiezioni mosse dalla Chiesa al copernicanesimo dì Galileo non era tanto la rimozione della Terra dalla sua posizione al centro dell'universo, quanto piuttosto il fatto che sfidasse l'autorità della Chiesa nell'interpretazione delle Scritture.
In un clima in cui la Chiesa cattolica romana si sentiva già in pericolo a causa delle controversie con i teologi della Riforma, Galileo e la Chiesa erano chiaramente in rotta di collisione.
Gli eventi cominciarono a evolversi rapidamente verso la fine del 1613. Benedetto Castelli, ex allievo di Galileo, presentò le nuove scoperte astronomiche al granduca dì Toscana e alla sua corte. Come era prevedibile, fu sollecitato a spiegare le evidenti discrepanze tra la cosmologia copernicana e alcuni racconti biblici, per esempio quello in cui Dìo ferma il Sole e la Luna nel loro tragitto per permettere a Giosuè e agli israeliti di portare a termine la vittoria sugli amorei nella valle di Aialon. Anche se Castelli difese con energia la teoria copernicana - «Mi diportai da paladino», riferì -, Galileo rimase piuttosto turbato dalla notizia di quello scontro e si senti obbligato a esprimere le proprie opinioni sulle contraddizioni tra la scienza e le Sacre Scritture in una lunga lettera a Castelli datata 21 dicembre 1613.
Una copia della lettera di Galileo arrivò alla Congregazione del Sant'Uffizio a Roma, dove si giudicavano le questioni relative alla fede, e in particolare nelle mani dell'influente cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621). La prima reazione dì Bellarmino alla teoria copernicana era stata abbastanza moderata: egli considerava l'intero modello eliocentrico come un modo «per salvar l'apparenze, o simil cose, alla guisa di quelli che hanno introdotto gli epicicli e poi non gli credono». Come altri prima di lui, anche Bellarmino trattava i modelli matematici proposti dagli astronomi come semplici stratagemmi ideati per descrivere ciò che gli uomini osservavano, ma non ancorati in alcun modo alla realtà fisica. Questi accorgimenti «per salvar le apparenze», sosteneva il cardinale, non dimostrano che la Terra si muova veramente. Di conseguenza Bellarminq non vedeva alcuna minaccia immediata nel libro di Copernico (il De revolutionibus), anche se si affrettava ad aggiungere che sostenere che la Terra si muovesse non avrebbe soltanto rischiato «d'irritare tutti i filosofi e theologì scholastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante».
La Congregazione dell'Indice mise al bando il libro di Copernico nel 1616. Gli ulteriori tentativi di Galileo di appoggiarsi a numerosi passi tratti dall'opera del più rispettato tra i primi teologi — sant'Agostino — per la sua interpretazione del rapporto tra le scienze naturali e le Scritture non gli guadagnarono molte simpatie. A dispetto delle sue articolate lettere incentrate sulla tesi secondo cui non c'era disaccordo (se non superficiale) tra la teoria copernicana e i testi biblici, i teologi dell'epoca consideravano le argomentazioni di Galileo un'intrusione non gradita nella loro sfera di competenze. Con cinismo, quegli stessi teologi non esitavano a esprimere opinioni su questioni scientifiche.
Mentre all'orizzonte si addensavano nubi minacciose, Galileo continuava a credere che la ragione avrebbe prevalso: un gravissimo errore quando si sollevano dubbi su materie di fede religiosa. Galileo pubblicò il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo nel febbraio del 1632.
Quest'opera polemica è la più minuziosa esposizione delle idee copernicane di Galileo. Oltretutto, nel libro Galileo sosteneva che se gli uomini praticano la scienza usando il linguaggio dell'equilibrio meccanico e della matematica, possono comprendere la mente di Dio. In altre parole, quando una persona trova la soluzione di un problema usando la geometria proporzionale, le intuizioni e la comprensione che ne ricava sono di natura divina. La reazione della Chiesa fu rapida e risoluta. La circolazione del Dialogo fu vietata già nell'agosto dell'anno della pubblicazione. Il mese successivo Galileo fu convocato a Roma per difendersi dall'accusa di eresia.
Il processo ebbe inizio il 12 aprile 1633 e Galileo fu giudicato «veementemente sospetto di eresia» il 22 giugno 1633. I giudici dichiararono Galileo colpevole «d'aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e Divine Scritture, ch'il sole sia centro della terra e che non si muova da oriente a occidente, e che la terra si muova e non sia centro del mondo». La sentenza fu dura:
Ti condaniamo al carcere formale in questo S.o Off.o ad arbitrio nostro; e per penitenze salutari t'imponiamo che per tre anni a venire dichi una volta la settimana li sette Salmi penitenziali: riservando a noi facoltà di moderare, mutare o levar in tutto o parte, le sodette pene e penitenze.
Distrutto, il settantenne Galileo cedette alla pressione. Con l'animo a pezzi presentò una lettera di abiura in cui si impegnava a «lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia il centro del mondo e che sì muova». E concludeva:
Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d'ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non fìnta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l'avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione.
L'ultima opera di Galileo, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, fu data alle stampe nel luglio del 1638. Il manoscritto fu portato clandestinamente fuori dall'Italia e pubblicato a Leida, in Olanda. Il contenuto del libro esprimeva appieno e con forza il sentimento simboleggiato dalle famosissime parole «Eppur si muove». Questa frase di sfida, che in genere viene messa in bocca a Galileo alla conclusione del processo, probabilmente non fu mai pronunciata.
Il 31 ottobre 1992, la Chiesa cattolica ha infine deciso di «riabilitare» Galileo. Ammettendo che lo scienziato aveva sempre avuto ragione, ma astenendosi ancora dal muovere critiche dirette all'Inquisizione, papa Giovanni Paolo II dichiarò:
Paradossalmente, Galileo, sincero credente, si mostrò su questo punto [le evidenti discrepanze tra la scienza e le scritture] più perspicace dei suoi avversari teologi [...]. La maggioranza dei teologi non percepiva la distinzione formale tra la Sacra Scrittura e la sua interpretazione, che li indusse a trasporre indebitamente nel campo della dottrina della fede una questione di fatto appartenente alla ricerca scientifica.
I giornali dì tutto il mondo festeggiarono l'evento. «E ufficiale: la Terra gira attorno al Sole, anche per il Vaticano» proclamò il «Los Angeles Tìmes».
Ma molti non trovarono la cosa tanto divertente. Qualcuno considerava questo mea culpa della Chiesa davvero troppo modesto, eccessivamente tardivo. Lo studioso di Galileo Antonio Beltran Mari osservò:
Il fatto che il Papa continui a sentirsi un'autorità legittimata a dire qualcosa di importante su Galileo e la sua scienza dimostra che, da parte sua, nulla è cambiato. Il papa si sta comportando esattamente come i giudici di Galileo, il cui errore adesso riconosce. Va precisato, per esser giusti, che il papa si trovava in una situazione senza via d'uscita. Qualsìasi decisione avesse preso, tanto quella di ignorare il problema e lasciare la condanna di Galileo in giudicato, quanto quella di riconoscere finalmente l'errore della Chiesa, è probabile che avrebbe comunque subito delle critiche.
Eppure, in un'epoca in cui si tenta di presentare il creazionismo biblico come teoria «scientifica» alternativa (sotto il velo sottile della definizione di «disegno intelligente») è bene ricordare che Galileo ha già combattuto questa battaglia quasi quattro secoli fa. E che l'ha vinta.
(Tratto da "Dio è un matematico" di Mario Livio - 2009 Rizzoli)