Matematici

Rene' Descartes

Discorso sul Metodo

Il problema di Delo

Alla corte svedese

Il taccuino segreto

 

Rene' Descartes (Cartesio)

Con «Cogito, ergo sum» ha inaugurato la filosofia moderna, laica e razionalista. Con l'invenzione del sistema di coordinate cartesiane ha permesso la comprensione matematica della geometria e dello spazio fisico. Ma Cartesio (1596-1650) aveva anche un lato misterioso, ed era affascinato dalle dottrine esoteriche, È quasi certo, infatti, che fece parte della società segreta di studiosi e riformatori più famosa dei suoi tempi, la confraternita dei Rosacroce.

Per tutta la vita tenne un taccuino di lavoro su cui scriveva con un codice cifrato, che è andato completamente perduto. Dopo la morte di Cartesio, Gottfried Leibniz, l'inventore del calcolo infinitesimale e uno dei massimi matematici e filosofi della sua epoca, si trasferì a Parigi alla ricerca di quel taccuino, riuscendo a rintracciarlo nella casa di un vecchio amico di Cartesio, Claude Clerselier. Ma Clerselier permise a Leibniz di copiare solo alcune pagine, che oggi sono tutto ciò che rimane del misterioso taccuino segreto. Quali sono le ricerche che il grande Cartesio non ha mai avuto il coraggio di rendere pubbliche? Quale scoperta rivoluzionaria è rimasta nascosta per quasi tre secoli sotto una cifratura esoterica?

Cartesio, nacque il 31 marzo 1596, nella cittadina di La Haye, nella Francia centro-occidentale.

In un secolo che conobbe violente tensioni, e anche guerre, tra cattolici e protestanti, Cartesio fu allevato da una fervente istitutrice cattolica, mentre molti degli amici e dei conoscenti della sua famiglia nel Poitou erano protestanti. Questo contribuì alla sua naturale riservatezza e fece anche sì che, da adulto, si preoccupasse più del necessario dell'Inquisizione cattolica, e non abbastanza delle persecuzioni che avrebbe potuto subire da parte dei protestanti. Così Cartesio si sarebbe astenuto dal pubblicare parte dei suoi risultati scientifici e filosofici per timore dell'Inquisizione, e nondimeno si sarebbe stabilito volentieri in paesi protestanti, in cui gli accademici e i teologi avrebbero attaccato rabbiosamente la sua opera anche perché era cattolico.

A un anno dalla nascita di Rene, poco dopo aver dato alla luce il suo quarto bambino, la madre, Jeanne Brochard morì. Il nuovo nato sopravvisse per altri tre giorni e poi a sua volta morì. Alcuni biografi di Cartesio hanno scritto che la personalità di Rene fu profondamente segnata dalla perdita della madre e hanno anche congetturato che da ragazzino si sia dato la colpa della sua morte perché non aveva compreso a pieno - poiché il decesso era avvenuto a così poca distanza dalla sua stessa nascita - che la madre era morta dopo aver partorito suo fratello.

Dopo la morte di Jeanne, il padre, Joachim si risposò, prendendo in moglie una donna bretone di nome Anne Morin, da cui ebbe un altro figlio e un'altra figlia (oltre a due bambini che morirono in tenera età). Comprarono una casa a Rennes, dove la sorella maggiore di Rene li raggiunse nel 1610, per poi sposare nel 1613 un uomo del posto. Fino ad allora Rene, suo fratello maggiore e sua sorella furono allevati da un'istitutrice. Cartesio era molto affezionato a questa donna, che era una fervente cattolica. L'istitutrice visse fino a tarda età e il filosofo dispose nel suo testamento che le fosse versato un congrue vitalizio.

Da bambino Rene si guadagnò la fama di piccolo filosofo della famiglia per la grande curiosità che lo portava a chiedersi sempre il perché delle cose del mondo. Crebbe a contatto con la natura, tra agricoltura, caccia e passeggiate nei boschi. Per tutta la vita avrebbe poi fatto riferimento all'ambiente bucolico dove era nato e ai suoi ritmi naturali.

La famiglia Descartes era ricca, e Rene avrebbe ereditalo beni ancora più consistenti dai nonni sia materni sia patermi, che erano stati entrambi medici di successo. In età adulta Rene avrebbe dedicato molto tempo alla gestione del suo patrimonio. I suoi beni, che comprendevano cospicue proprietà terriere nel Poitou, gli avrebbero consentito di coltivare i propri interessi senza la preoccupazione di doversi guadagnare da vivere. Gli avrebbero consentito di seguire il capriccio di partecipare a diverse campagne militari come soldato gentiluomo senza compenso, per il semplice brivido dell'avventura. Per tutta la vita avrebbe potuto permettersi lussuose sistemazioni dovunque andasse in viaggio, nonché servitori e un valletto. Il suo denaro gli avrebbe consentito di occuparsi anche dell'istruzione dei suoi dipendenti, così dividendo con loro parte del privilegio che gli derivava dalla ricchezza della sua famiglia. Da adulto, Cartesio sarebbe stato un datore di lavoro e un amico molto generoso.

La sua devota istitutrice si prese così bene cura di lui che quando ebbe undici anni era abbastanza in salute da poter essere mandato a studiare al prestigioso collegio gesuiti della Flèche.

Nel 1603 il re Enrico IV, che era stato allevato nella fede protestante ma si era convertito al cattolicesimo, donò ai gesuiti, come segno della sua benevolenza verso questo potente ordine religioso, il suo castello e vasti terreni nella città della Flèche, perché ne facessero la sede di un nuovo collegio. I gesuiti ampliarono il castello e ne ricavarono una serie di grandi edifici rinascimentali interconnessi, con spaziosi cortili interni quadrati e simmetrici. Entrando nel complesso, si rimane colpiti dall'ordine e dalla simmetria perfetti dei grandi cortili a scacchiera e dai giardini ben curati. È stato uno dei più imponenti collegi al mondo; oggi è sede di un'accademia militare, il Prytanée National Militaire.

Il collegio fu inaugurato da re Enrico IV e aprì i battenti nel 1604. I più brillanti studenti di Francia, provenienti dalle migliori famiglie, furono incoraggiati a fare richiesta di ammissione. Del primo corso entrato in questo nuovo istituto di élite faceva parte Marin Mersenne (1588-1648), che sarebbe diventato l'amico più devoto e leale di Cartesio.

Poiché era ancora gracile, la famiglia chiese alla direzione del collegio di avere una cura particolare della sua salute. Il rettore, padre Charlet, che era un parente dei Descartes, e che Rene più tardi avrebbe definito «quasi un padre», accolse volentieri la richiesta e accordò al ragazzo privilegi senza precedenti in modo da evitargli qualsiasi sforzo, nella speranza che la sua salute migliorasse. Così a Rene fu consentito di dormire fino a tardi la mattina e di restare a letto finché non si sentisse abbastanza bene per raggiungere gli altri in classe. Questa misura eccezionale fu all'origine dell'abitudine, che Cartesio non avrebbe più abbandonato, di svegliarsi tardi la mattina e di rimanere a letto, a pensare e a lavorare, finché non era pronto ad alzarsi e affrontare la giornata. Per gran parte della sua vita, fino agli ultimi mesi trascorsi in Svezia, con l'eccezione dei periodi in cui faceva parte di un esercito impegnato in aspri combattimenti, Cartesio non ebbe mai un risveglio obbligato, ma si alzò sempre soltanto quando il suo corpo era sufficientemente riposato.

A La Flèche si studiava grammatica, che significava latino e greco. Si studiavano anche le discipline umanistiche, la retorica e la filosofia. Sia le discipline umanistiche che la retorica si concentravano sui classici. Le prime comprendevano le opere dei poeti romani Virgilio, Grazio e Ovidio, mentre la seconda era prevalentemente uno studio di Cicerone e del metodo argomentativo platonico. La filosofia che si insegnava nel collegio consisteva nelle opere di Aristotele, secondo la tradizione scolastica medievale, e in generale nella logica, nella fisica e nella metafisica. I gesuiti insegnavano ai loro studenti il compendio della matematica greca: le opere di Euclide, Pitagora e Archimede. I greci, con la loro concezione chiara e astratta della natura e dei suoi elementi costitutivi, riducevano la costruzione geometrica alle figure che potevano essere tracciate con due soli strumenti, i più semplici che riuscivano a concepire e che ritenevano sufficienti a costruire qualunque figura geometrica utile e immaginabile. Questi due strumenti elementari erano una riga non graduata e un compasso.

La riga serviva per tracciare angoli e linee rette, mentre il compasso serviva per tracciare circonferenze e riportare di distanze. Combinando le operazioni di entrambi gli strumenti, si poteva disegnare tutto ciò che era importante per i matematici greci.

Cartesio era affascinato dalla semplicità di pensiero e dalla capacità di astrazione di cui i greci avevano dato prova con la loro geometria, interamente basata sull'uso di due soli strumenti. I preti insegnavano l'intero edificio della geometria euclidea e spiegavano agli studenti come dimostrare un gran numero di teoremi geometrici. I corsi di matematica a La Flèche comprendevano anche l'aritmetica, con le relative regole di calcolo, e l'algebra, con i metodi di soluzione delle equazioni, nei limiti in cui le equazioni erano comprese a quell'epoca. È degno di nota che gli edifici e gli spazi aperti del collegio della Flèche, di forma perfettamente simmetrica e quadrata, sembrassero costruiti con riga e compasso.

Dopo aver conseguito la licenza nel 1615, Cartesio andò a Poitiers per studiare legge all'università. Passò lì un anno destinato a non lasciare traccia, dal momento che non aveva interesse per il diritto. Buona parte del suo tempo libero era dedicato a coltivare le doti di spadaccino acquisite a La Flèche. Ottenne il titolo di dottore in legge nel 1616, e dopo si trasferì a Parigi.

La sua famiglia non fu molto contenta quando Rene espresse il desiderio di trasferirsi a Parigi dopo la laurea. Sebbene la salute del giovane fosse ora molto meno precaria che nell'infanzia, i genitori guardavano con preoccupazione all'idea che vivesse da solo così lontano. Joachim Descartes era p articolarmente inquieto di fronte alla prospettiva che suo figlio andasse a vivere nella grande città, ma Rene lo convinse che questo era ciò che voleva fare e che si trattava di un passo importante per il suo futuro. A vent'anni, dichiarò, era abbastanza grande per vivere da solo e trovare la sua strada nel mondo. Alla fine il padre acconsentì a lasciarlo partire, ma soltanto a condizione che si trasferisse a Parigi con dei servitori e un valletto per assisterlo. Per tutta la vita Cartesio non rimase mai senza un cameriere personale. E li sceglieva bene: i suoi valletti gli furono sempre fedeli e avrebbero letteralmente rischiato la vita per la sua sicurezza e il suo benessere.

Cartesio visse al tempo di d'Artagnan e delle spavalde avventure descritte nei Tre moschettieri di Alexandre Dumas. Guardando i dipinti e le incisioni francesi del Seicento ci si fa un'idea della moda di quel tempo: ampi e morbidi abiti di seta riccamente colorati con pieghe voluttuose, cappelli di velluto ornati di piume, scarpe con elaborate fibbie d'argento. Cartesio amava vestirsi con eleganza e portava con sé la sua spada lucente dovunque andasse, come molti giovani gentiluomini del tempo. Era deciso a imparare tutto ciò che poteva dal «grande libro del mondo», come lo chiamava. Era alla ricerca della verità sulla vita e l'esperienza umana. E quale posto migliore della ritta di Parigi per esplorare la vita?

Dopo circa un anno di gioco e divertimento, Rene avvertì l'esigenza di maggiore serietà. A Parigi era entrato in contatto con nuove idee. Gli intellettuali francesi stavano studiando la geometria greca, cercando di proseguire l'opera degli antichi. Gli Elementi di Euclide a quell'epoca erano stati arricchiti di altri tre volumi, oltre gli originari tredici. Anche la fisica era in pieno sviluppo, dacché gli scienziati stavano studiando la natura dei gravi in caduta e l'enigma della gravita. Cartesio era impaziente di apprendere queste nuove idee e cominciò ad avvertire la sua febbrile vita sociale come un ostacolo. Per concentrarsi sul lavoro, il giovane ora sentiva di dover prendere le distante dai suoi molti amici, ma questi non gli rendevano le cose facili. Ogni volta che Rene restava a casa a leggere e a lavorare, gli amici arrivavano nel suo appartamento e lo supplicavano di raggiungerli nelle strade e nei ritrovi notturni della città.

Disperato, Cartesio prese una misura drastica: traslocò e non diede il nuovo indirizzo agli amici. Aveva bisogno di vivere in una zona dove la gente non lo riconoscesse quando usciva a fare una passeggiata e non riconoscesse i suoi servitori o il suo valletto quando andavano a fare acquisti o commissioni per lui.

Due anni dopo essere giunto nella capitale francese, Cartesio era pronto a rimettersi in movimento. Aveva sempre apprezzato uno stile di vita gaudente e gli piaceva tirar di scherma e andare a cavallo; ora aveva una gran voglia di una vita d'azione. Gli era giunta voce che in Olanda Maurizio di Nassau, il nuovo principe di Grange e campione protestante nelle guerre di religione, stava reclutando uomini di diversi paesi - tra cui due reggimenti francesi - e li stava addestrando nei suoi accampamenti per la guerra contro le forze cattoliche che Spagna e Austria stavano a loro volta raccogliendo. Pur essendo cattolico, Cartesio era intenzionato ad arruolarsi nell'esercito del principe Maurizio. Pensava che avrebbe potuto imparare molto sull'arte della guerra dal principe e dai suoi generali, e la religione non aveva peso nella sua decisione, forse perché si sarebbe arruolato come volontario e non sarebbe stato costretto a combattere se avesse scelto di non farlo. Rimandò i servitori al padre e, tenendo con sé soltanto il valletto, raggiunse la sponda nell'Olanda meridionale per offrire i suoi servigi. Avrebbe appreso l'arte della guerra, ma non sarebbe stato pagato per il servizio militare se non con un simbolico doblone d'oro. Non essendo retribuito, avrebbe mantenuto molte libertà, e tali diritti gli avrebbero consentito di proseguire la sua ricerca nell'ambito della matematica e della scienza e di tentare di scoprirne i significati occulti. Cartesio si sarebbe servito dell'esercito come di un mezzo per viaggiare e andare incontro all'avventura. Per dirla con Baillet, Cartesio avrebbe usato l'esercito come «un passaporto per il mondo».

Il Seicento vedeva una rinascita della geometria classica dell'antica Grecia, le persone istruite di tutta Europa erano alla ricerca di sfide intellettuali e dei significati occulti della matematica. Gli antichi testi greci venivano ripubblicati in latino, a cominciare dai classici volumi degli Elementi di Euclide, scritti ad Alessandria intorno al 300 avanti Cristo. L'opera di Euclide fu, in effetti, il più importante testo pubblicato grazie alle nuove macchine da stampa inventate meno di un secolo e mezzo prima. Anche altri testi antichi, come l'Aritmetica di Diofanto, scritta intorno al 250 dopo Cristo, furono stampati nell'Europa del Seicento. Fu in margine a una copia di questo libro che Pierre de Fermat (1601-1665) scrisse l'enunciato del suo famoso Ultimo Teorema, che avrebbe ossessionato i matematici e gli appassionati fino alla sua definitiva e spettacolare dimostrazione ottenuta alla fine del XX secolo.

I testi matematici da poco ripubblicati favorivano un rifiorire degli studi di geometria nelle scuole e nelle università d'Europa; nacque così un'intera classe di intellettuali che ricercavano appassionatamente nuove soluzioni ad antichi problemi, sfidandosi l'un l'altro a risolvere enigmi che essi proponevano e pubblicizzavano su manifesti affissi in luoghi pubblici. Sfide analoghe lanciate un secolo prima da matematici che vivevano nell'Italia settentrionale avevano condotto a grandi sviluppi nell'area dell'algebra, sviluppi che erano approdati alla soluzione di complicate equazioni, cui non erano riusciti ad arrivare gli antichi greci e i matematici medievali arabi che ne avevano seguito le orme.

All'epoca di Cartesio, le due aree della geometria e dell'algebra erano considerate parti distinte di una disciplina più vasta, e un po' indefinita, chiamata matematica. La geometria aveva per oggetto linee rette, triangoli e cerchi, ossia immagini visive idealizzate degli clementi del mondo fisico. L'algebra, per contro, era lo studio delle equazioni, espressioni formate da simboli e numeri posti dalle due parti di un segno di uguaglianza, che andavano risolte per ricavarne qualche grandezza significativa. Nessuno aveva mai immaginato che questi due settori potessero essere unificati in una disciplina più iimpia. Ma nel giro di vent'anni Cartesio avrebbe fatto precisamente questo.

La risoluzione dell'enigma olandese riempì Cartesio di entusiasmo per la matematica. Gli aveva rivelato di avere un dono speciale. Cominciò a credere che la matematica racchiudesse il segreto che da accesso alla comprensione dell'universo. La maggior parte delle mattine al campo rimaneva a letto a scrivere e a leggere di matematica e a esplorarne le applicazioni. Risolveva antichi problemi geometrici greci, ma presto giunse alla conclusione che la potenza della geometria trascende la matematica pura: nella geometria risiedeva il segreto di tutto il creato.

Quando, nel 1517, Martin Luterò (1483-1546) affisse le sue novantacinque tesi sulla porta della chiesa di Wittenberg, dando inizio al ramo luterano della cristianità e quindi al protestantesimo, i conflitti religiosi esplosero in rutta Europa. L'atto di Luterò è generalmente considerato il punto di avvio della Riforma, un movimento che si proponeva di rinnovare le dottrine e le pratiche della Chiesa cattolica romana. La controversia tra cattolici e protestanti ebbe anche una forte valenza polìtica, dal momento che religione e motivazioni nazionali tendevano a intrecciarsi in ogni parte del continente. Prima del 1530 i prìncipi degli stati tedeschi di Sassonia, Assia, Brandeburgo e Brunswick erano stati conquistati al credo riformato, così come i re di Svezia e Danimarca. Di conseguenza questi sovrani ruppero ogni rapporto con il cattolicesimo e resero le chiese nei loro regni conformi ai principi protestanti.

Il calvinismo, basato sugli insegnamenti di Giovanni Calvino (1509-1564), in cui è centrale il concetto di predestinazione, fu fondato nel 1536 e prese piede in parti della Francia, della Germania occidentale, dell'Olanda, della Svizzera e della Scozia. Poiché il resto dell'Europa rimase cattolico e fedele al papa, il continente era profondamente diviso. In Francia le guerre di religione tra cattolici e ugonotti - i protestanti francesi - si svolsero tra la metà e la fine del XVI secolo, complicate dagli interventi della Spagna, della Savoia e di Roma dalla parte dei cattolici, e dell'Inghilterra, dell'Olanda e di diversi principati tedeschi dalla parte degli ugonotti. Negli anni della prima giovinezza di Cartesio ci fu una relativa pace. Ma la pace non era destinata a durare a lungo.

Nel 1613 un giovane principe tedesco, Federico del Palatinato - una regione della Germania meridionale che comprendeva parte del corso del Reno e la città di Heidelberg -, giunse a Londra per sposare Elisabetta Stuart, figlia di re Giacomo I d'Inghilterra e di Anna di Danimarca, e nipote di Maria, regina di Scozia. Molti in Europa videro in questo matrimonio reale la formazione di un'importante alleanza tra l'Inghilterra e le forze protestanti sul continente. Ma in realtà Giacomo I aveva tutte le intenzioni di rimanere neutrale nel conflitto religioso che si stava preparando sul continente e sperava di controbilanciare il favore per la Germania cui il matrimonio della figlia poteva far pensare stringendo un analogo accordo con la cattolica Spagna.

Federico portò la sua sposa a Heidelberg, navigando lungo il Reno, e la coppia stabilì la propria residenza nel castello della città, dove visse felicemente e in pace per cinque anni. Poi le cose presero una piega diversa. Si formò sul continente un forte movimento che vedeva in Federico un potenziale leader in grado dì unire le forze protestanti europee contro quelle cattoliche dell'impero degli Asburgo d'Austria, la cui capitale era Praga.

L'imperatore Rodolfo II d'Asburgo, un sovrano benevolo e tollerante che aveva trasferito il centro del suo impero da Vienna a Praga, era morto nel 1612, e di conseguenza si era scatenata una lotta di potere per la successione. Praga sotto Rodolfo era stata una città fiorente in cui si elaboravano nuove idee e si promuoveva la cultura. L'imperatore aveva un forte interesse per la magia e la cabala, e durante il suo regno Praga era diventata un centro di studi alchemici, astrologici e magico-scientifici di ogni sorta; gli ebrei praticavano la cabala ed erano trattati equamente senza iliscriminazioni; molti altri si dedicavano a studiare magia e occultismo.

Il re di Boemia, Ferdinando II d'Asburgo, fu eletto imperatore il 28 agosto e incoronato due giorni dopo. Cartesio era presente a questa sontuosa cerimonia. Al sacro romano imperatore furono consegnati il globo, lo scettro e la spada di Carlo Magno, ed egli sollevò la spada in modo che tutti la vedessero. La Boemia non aveva più un re, e i ribelli protestanti - sfidando apertamente i loro sovrani austriaci -, invece di sottomettersi al dominio degli Asburgo, decisero di eleggersene uno. A quell'epoca tutta l'Europa protestante guardava a Federico, Elettore palatino del Reno (uno dei prìncipi tedeschi che avevano il privilegio di eleggere il sacro romano imperatore), come al capo dei principi tedeschi riformati. Era naturale che la scelta dei boemi cadesse su Federico.

Il principe di Grange, zio materno di Federico, lo incoraggiò ad accettare la corona. Viceversa, Giacomo I d'Inghilterra, suocero di Federico, cercò di dissuaderlo ritenendolo troppo giovane e privo di esperienza per assumere la corona di una nazione che stava per subire un massiccio attacco militare. Ma la figlia di Giacomo, moglie di Federico, ansiosa di diventare regina, insistette con il marito perché accettasse il trono. Federico avrebbe dovuto ascoltare il consiglio del suocero, perché per rimanere re avrebbe avuto un gran bisogno dell'appoggio dell'Inghilterra, e Giacomo I chiaramente non aveva intenzione di aiutarlo. Andò a finire che Federico diede ascolto alla moglie e allo zio, e accettò di diventare Federico V di Boemia. Tre giorni dopo l'incoronazione del marito, la principessa Elisabetta di Inghilterra fu consacrata regina Elisabetta di Boemia.

Com'era prevedibile, gli Asburgo si sentirono oltraggiati da quella che consideravano una ribellione di una provincia. Il duca Massimiliano di Baviera decise di entrare in guerra per aiutare gli austriaci a rovesciare il nuovo re. «Durante tutti questi avvenimenti, Cartesio godette della tranquillità che gli derivava dalla sua completa indifferenza a tutti questi affari stranieri» ci dice Baillet.14 Cartesio rimase nella regione a lavorare su problemi matematici, poi decise di attraversare la Boemia per osservare i combattimenti tra gli eserciti imperiale e boemo. Vide città passare da una mano all'altra a seconda che un esercito o l'altro prevalesse in battaglia.

Infine prese la sua decisione: si sarebbe arruolato nell'esercito di Massimiliano, duca di Baviera. Di nuovo sarebbe stato un volontario e non avrebbe portato il moschetto, ma soltanto la sua spada.15 Avrebbe goduto di tutti i privilegi di cui aveva goduto nell'esercito del principe Maurizio, compreso quello di conservare il suo valletto e di disporre di tutto il tempo libero possibile. Definite le condizioni, Cartesio si diresse a sud, e nell'ottobre del 1619 raggiunse la cittadina di Neuburg an der Donau, sulle sponde del Danubio nella Germania meridionale, più o meno a metà strada tra Monaco e Norimberga, quartiere d'inverno del duca Massimiliano. Le nubi che si addensavano sull'Europa in quell'autunno del 1619 avrebbero segnato l'inizio della guerra dei Trent'anni, che sarebbe terminata soltanto nel 1648, con la firma della pace di Westfalia.

Cartesio cominciò a scavare in profondità nell'antica geometria greca. Trascorreva gran parte del tempo da solo, impegnato a risolvere problemi e a elaborare idee. Il cuore della conoscenza era la matematica, ma qual era l'essenza della geometria greca che Cartesio considerava la parte più importante della matematica? Riesaminò l'antico principio greco secondo il quale tutti i problemi dovevano essere risolti mediante riga e compasso. Poi si rammentò di una storia che aveva sentito raccontare dai suoi insegnanti di matematica a La Flèche, la storia di un problema che aveva assillato per secoli i matematici greci.

L'isola di Delo si trova più o meno al centro dell'arcipelago delle Cicladi nel mar Egeo. Abitata fin dalla seconda metà del III millennio a.C., secondo la leggenda era il luogo natale di Apollo e Artemide; centro del culto di Apollo, divenne un santuario del dio fin dal VII secolo a.C. Le città-stato greche dell'Egeo facevano a gara nella costruzione dei più grandiosi monumenti dedicati ad Apollo. Nel VII secolo a.C. gli abitanti di Nasso costruirono un terrapieno ornato di leoni di pietra accanto all'ingresso del porto di Delo. I leoni si possono vedere ancora oggi, benché siano ormai consunti da secoli di esposizione al vento marino. L'isola è disseminata di innumerevoli rovine di antichi templi e santuari. Ogni città-stato del mar Egeo aveva un proprio tempio di Apollo sull'isola. Gli ateniesi cominciarono a stabilire la propria influenza su Delo nel 540 a.C. e, dopo la vittoria greca contro i persiani del 479, fondarono la lega delio-attica fra le città-stato greche, ufficialmente per la difesa contro future invasioni persiane, ma in realtà per dominare quest'isola così ambita.

Nel 427 un'epidemia devastò Atene, uccidendo un quarto della sua popolazione, compreso il grande Pericle. Disperati, gli ateniesi si rivolsero all'oracolo di Delo. Apollo rispose attraverso l'oracolo che per liberarsi dalla peste dovevano costruire per lui un tempio doppio di quello esistente. Gli ateniesi si misero subito al lavoro. Raddoppiarono il tempio in lunghezza, larghezza e altezza; lo decorarono riccamente e vi profusero doni, così che il tempio ateniese di Delo divenne il più sontuoso dell'isola, e forse di ogni altro luogo. Ma la peste continuò. Così si rivolsero di nuovo all'oracolo che rispose: «Non avete raddoppiato il tempio, come Apollo vi aveva richiesto. Fate quello che vi era stato ordinato!».

Di nuovo gli ateniesi si misero al lavoro. Si resero conto dell'errore commesso: avevano raddoppiato le tre dimensioni del vecchio tempio - la lunghezza, la larghezza e l'altezza - ottenendo un volume maggiore dì otto volte (2x2x2-8). Nell'antica Grecia il disegno e la geometria utilizzavano sempre soltanto una riga e un compasso, e quindi gli architetti ateniesi fecero del loro meglio con questi due strumenti. Ma fallirono. Per quanto tenacemente si sforzassero, non riuscivano a raddoppiare il volume della struttura cubica del tempio di Apollo, né a duplicare il volume di qualunque cubo.

Conosciamo questa storia attraverso Teone di Smirne (II secolo d.C), che la trae dal Platonicus di Eratostene di Cirene (275-195 a.C), andato perduto. Gli architetti ateniesi si rivolsero a Fiatone (427-347 a.C.) per ottenerne l'aiuto, ed egli rispose che il dio aveva messo alla prova i greci e ora li puniva per la loro ignoranza. Sul problema della duplicazione del cubo si cimentarono molti grandi matematici. Eratostene era riuscito a calcolare con ottima approssimazione la circonferenza della Terra misurando l'angolo formato dai raggi di luce del Sole in due diverse località separate da una distanza nota.1 Eudosso di Cnido (400-347 a.C.), era riuscito a calcolare aree e volumi servendosi di metodi che anticipavano il calcolo infinitesimale, che soltanto più di duemila anni dopo sarebbe stato scoperto congiuntamente da Leibniz e Newton. Ma né Eratostene né Eudosso riuscirono a risolvere il problema di duplicare il cubo con riga e compasso. E non ci riuscì nessun altro.2 Fiatone, che non era un matematico ma era chiamato il «creatore di matematici» perché accoglieva le menti più brillanti in questa disciplina nella sua Accademia, aveva un interesse così grande per il cubo e altri oggetti tridimensionali dotati di perfetta simmetria che tali oggetti avrebbero finito per essere chiamati solidi platonici.

Perché era impossibile duplicare il volume del tempio di Apollo? Se il volume del tempio originario era, per esempio, di 1000 metri cubi (cioè, se aveva lunghezza, larghezza e altezza di 10 metri ciascuna), allora il nuovo volume avrebbe dovuto essere di 2 x 1000 = 2000 metri cubi (e non di 8000 metri cubi, come era accaduto al primo tentativo, quando lunghezza, larghezza e altezza erano state raddoppiate portandole a 20 metri ciascuna). Quindi per duplicare il cubo - in questo caso, per ottenere una struttura con un volume 2000 partendo da un volume 1000 - sarebbe stato necessario aumentare lunghezza, larghezza e altezza di un fattore pari alla radice cubica di 2. Questo perché la radice cubica di 2, quando viene elevata al cubo, da 2, il fattore che occorre per raddoppiare il volume, Pertanto, ciascuna dimensione avrebbe dovuto essere aumentata da 10 metri a 10 x (radice cubica di 2), ossia approssimativamente a 12,6 metri. Nessuna successione finita di operazioni con riga e compasso può trasformare una lunghezza data in una lunghezza che sia il prodotto della prima per la radice cubica di 2 (o anche per la radice cubica di cjualsiasi numero che non sia un cubo perfetto). Il problema che l'oracolo di Apollo aveva proposto agli ateniesi era impossibile da risolvere. È importante sottolineare che il nuovo tempio doveva conservare la forma di un cubo: altrimenti sarebbe bastato raddoppiare una delle sue dimensioni, per esempio la lunghezza, per ottenere il risultato voluto.

Gli antichi greci non sapevano che il problema di Delo, come ha finito per essere chiamato, è matematicamente impossibile, con gli strumenti dati. Una comprensione della questione sarebbe venuta solo molti secoli dopo. Nel frattempo essi scoprirono altri due problemi che non erano in grado di risolvere, e oggi sappiamo che anche questi due problemi sono matematicamente impossibili da risolvere con riga e compasso. Uno era la quadratura del cerchio, cioè la creazione mediante riga e compasso di un quadrato con la stessa area di un cerchio dato. L'altro era la trisezione di un angolo: dato un angolo, suddividerlo in tre angoli uguali, sempre mediante riga e compasso. Quest'ultimo problema è risolubile in casi particolari, ma un metodo generale -che funzioni cioè con qualsiasi angolo dato - non esiste.

Gli antichi greci - Pitagora, Euclide e gli altri grandi matematici dell'antichità - erano eccellenti geometri. Ma non avevano ancora sviluppato a sufficienza l'algebra. E l'algebra è necessaria per comprendere e affrontare in modo appropriato problemi complessi di geometria come la duplicazione del cubo, la quadratura del cerchio e la trisezione dell'angolo, collettivamente chiamati i tre problemi classici dell'antichità. Duemila anni dopo la peste di Atene, Cartesio si ritrovava a rimuginare sul problema di Delo. Contemplava il cubo: quali erano le sue proprietà? qual era il suo segreto? perché non poteva essere duplicato usando riga e compasso?

Cartesio si pose la domanda che stava al cuore della geometria greca: una domanda che alla fine lo avrebbe condotto a comprendere il problema della duplicazione del cubo, e anche alla sua grande scoperta matematica: che cosa significa costruire qualcosa con riga e compasso? Sapeva che cosa erano in grado di fare i due strumenti: la riga tracciava linee rette e angoli retti perfetti; il compasso tracciava circonferenze e riportava le distanze. Si chiese: come si costruisce qualcosa?

Dati due punti sul piano, Cartesio (e gli antichi greci) potevano costruire una retta passante per questi punti. In questo caso si usava la riga. Dati due punti, Cartesio sapeva anche costruire una circonferenza con centro in un punto e passante per l'altro. In questo caso si usava il compasso.

Operazioni molto semplici. Ma si potevano fare anche cose più complicate. Cartesio sapeva come utilizzare questi due antichi strumenti per costruire una retta perpendicolare a una retta data e passante per un punto assegnato. Ecco come si fa. Si usa la riga per tracciare la retta e il compasso per tracciare due cerchi; poi, di nuovo con la riga, si traccia una retta che passa per le intersezioni dei cerchi.

Cartesio e i suoi lontani predecessori dell'antica Grecia sapevano anche come costruire una retta parallela a una retta data e passante per un punto assegnato.

Il giovane matematico si soffermò a lungo a osservare quest'ultima figura e a riflettere. Le lìnee che si intersecavano usate nella costruzione davano da pensare. Se in qualche modo si fosse riusciti a contrassegnarne la lunghezza numericamente, si sarebbe potuto introdurre un sistema per connettere i numeri con le costruzioni geometriche, consentendo di costruire molte più figure di quelle che erano riusciti a creare gli antichi greci. L'uso di numeri e figure in questo modo avrebbe potuto davvero liberare la potenza nascosta della matematica. Doveva continuare a pensarci.

Alla fine Cartesio avrebbe unificato la geometria con l'algebra, consentendo di comprendere la natura dei tre classici problemi dell'antichità. Avrebbe risolto parecchi problemi matematici famosi dell'antica Grecia e avrebbe anche indicato il modo per risolverne molti altri. L'opera di Cartesio avrebbe fatto luce su tutta la matematica, restituendo la sapienza dell'antica Grecia al nostro mondo moderno e avrebbe preparato il terreno per lo sviluppo ilella matematica fino al XXI secolo. Ma nel frattempo C'artesio cominciò a interessarsi anche agli aspetti esoterici della matematica, e questo interesse avrebbe avuto rilevanti conseguenze personali per lui.

Mentre Cartesio girava per la Germania e la Boemia, l'Europa colta non parlava d'altro che della comparsa in Germania di una società segreta di dotti nota come confraternita dei Rosacroce. E già da qualche anno circolavano libri attribuiti a adepti della confraternita. Gli amici di Cartesio, che sapevano come fosse assorbito nella scienza e impegnato nella ricerca della verità, lo vedevano come un affiliato ideale.

La confraternita dei Rosacroce era una società segreta di studiosi e riformatori fondata in Germania nei primi anni del Seicento. Il simbolo della società era una croce sormontata da una rosa.

I Rosacroce avversavano il potere ecclesiastico e sostenevano una riforma del sistema religioso sul continente. Erano preoccupati dell'opposizione della Chiesa cattolica alle idee scientifiche e chiedevano un cambiamento. Questa era una delle ragioni principali per cui la confraternita era una società segreta. Se non avessero mantenuto la segretezza, sarebbero stati perseguitati e severamente puniti dall'Inquisizione.

I Rosacroce pretendevano di avere origini remote in virtù dei legami tra le loro concezioni e quelle delle antiche tradizioni gnostiche ed ermetiche. Le idee mistiche che connotavano gli scritti rosacrociani affondavano le radici nei testi alchemici, occulti e mistici dell'Egitto del III secolo a.C., le cui origini si facevano risalire alle opere molto più antiche di Ermete Trismegisto, ritenuto un contemporaneo di Mosè. Gli «scritti ermetici» prendono nome appunto da Ermete Trismegisto, ma secondo gli studiosi moderni risalgono a un periodo successivo, forse al II secolo a.C., e derivano dai testi magici egiziani, dal misticismo ebraico e dal platonismo. Questi elementi si diffusero nell'Europa del Seicento mediante gli scritti rosacrociani.

Poco tempo dopo il suo ritorno nella capitale francese, Cartesio andò nel Marais a far visita all'amico dei tempi del collegio, Marin Mersenne. Dopo aver insegnato per due anni, Mersenne era stato eletto correcteur (o superiore) del suo convento. I confratelli avevano presto compreso che i suoi talenti erano di gran lunga maggiori di quanto occorresse per quell'incarico. Di conseguenza gli veniva lasciato molto tempo libero per studiare e scrivere. Era assai dotato per la matematica e la scienza, e l'ordine dei Minimi lo incoraggiava ad approfondire i suoi studi in queste discipline, non percependo alcun potenziale conflitto tra scienza e fede: cosa che, forse, non sarebbe potuta accadere in nessun altro ordine, essendo i Minimi umili, tolleranti e lungimiranti. Marin Mersenne vedeva la sua nuova occupazione come una sorta di canale di comunicazione delle idee tra scienziati e teologi. Avrebbe favorito la comprensione fra tutti i principali scienziati d'Europa, e li avrebbe messi in contatto con le autorità religiose.

Finché Mersenne si risvegliò bruscamente dalle illusioni e si rese conto che un dialogo tra la radicata filosofia scolastica della Chiesa e la rivoluzione scientifica che stava iniziando era molto difficile da mantenere, e che spesso la comunicazione tra i due campi assumeva la forma di attacchi reciproci. Mersenne stesso cominciò il suo dialogo con i due gruppi assumendo un atteggiamento polemico, e cioè attaccando gli alchimisti e gli astrologi. Ma in breve passò a metodi di comunicazione più positivi e produttivi.

Uno degli ex studenti di Mersenne, padre Jean-Francois Niceron, si trasferì a Roma per insegnare al centro studi dei Minimi presso la chiesa di Trinità dei Monti. Mentre era a Roma, Niceron prese contatto con il più autorevole scienziato italiano, Galileo Galilei (1564-1642). I contatti stabiliti da Niceron in Italia si rivelarono assai utili per Mersenne. Il suo impegno per un dialogo tra scienza e fede si estese fino a proporsi come una stanza di compensazione internazionale delle idee scientifiche. Presto avrebbe inaugurato quella che sarebbe stata chiamata «la repubblica delle lettere». Mediante le lettere che avrebbe scritto a rutti i maggiori scienziati d'Europa e ricevuto da loro, Mersenne avrebbe istituito il modello di un'accademia internazionale delle scienze. Uno degli attori principali di questo progetto sarebbe stato Cartesio. Padre Rapin, un ecclesiastico dell'epoca, definì Mersenne «l'ambasciatore di Cartesio a Parigi».

Il libro di Mersenne Quaestiones celeberrimae in Genesim (Parigi, 1623) mostra in quale posizione egli si collocasse tra scienza e religione. In questo libro, Mersenne discuteva argomenti religiosi, ma al tempo stesso riservava quaranta colonne a una descrizione delle leggi dell'ottica. Dopo la sua pubblicazione destinò sempre meno tempo alla religione e dedicò la maggior parte delle sue energie alla scienza e alla matematica pura. Mersenne apprese le tecniche della stampa e divenne un attivo editore. In venticinque anni pubblicò altrettanti libri, per un totale di oltre ottomila pagine. Alcuni erano suoi, mentre altri erano scritti dai suoi corrispondenti scientifici. Lesse le principali opere scientifiche dei suoi contemporanei: Cartesio, Fermat, Desargues, Roberval, Torricelli, Galileo e altri. Ma il suo massimo contributo alla scienza furono le connessioni che stabilì come intermediario fra tutti i maggiori scienziati dell'epoca.

Cartesio condivise con l'amico Mersenne i suoi progressi nell'ambito della matematica, che erano deduzioni di nuovi risultati basate sulla geometria greca antica. Quando Cartesio venne per la prima volta a trovarlo, padre Mersenne era turbato dalle recenti voci che circolavano su di lui. Non vedeva con favore la confraternita dei Rosacroce, forse perché non considerava cristiani i suoi membri. Ed era preoccupato delle conseguenze cui Cartesio sarebbe potuto andare incontro se la gente avesse concluso che era effettivamente un Rosacroce.

Cartesio era perfettamente al corrente della genesi dell'algebra e della scoperta delle soluzioni delle equazioni di terzo e quarto grado. Dedicò diverso tempo alla ricerca su tali problemi, e ben presto ottenne un risultato dimostrando che se un'equazione quartica ha una forma particolare (se è priva del termine cubico) e può essere scomposta in due equazioni quadratiche

x4 + px2 + qx + r = (x2 + ax + b)(x2 + cx+ d)

allora il numero a2 è la radice di un'equazione cubica; e inoltre b, c e d sono in tal caso numeri razionali (cioè frazioni o interi) che dipendono da a. Era un buon inizio, con cui Cartesio continuava l'opera compiuta un secolo prima dagli italiani.

I matematici italiani, i primi algebristi, erano chiamati cossisti, dalla parola cosa, con cui veniva indicata l'incognita di un'equazione (la nostra x). Il taccuino perduto di Cartesio conteneva un simbolo originariamente alchemico e astrologico, il segno di Giove Ma conteneva anche la notazione dei primi cossisti.

Cartesio imparò a usare questo segno dai cossisti italiani, la cui algebra aveva studiato. Egli stesso in seguito avrebbe inventato la notazione moderna che si usa oggi in algebra: quella nella quale x e y indicano le variabili da ricavare, mentre a, b, c, e così via, indicano le grandezze note. Ma stranamente il suo taccuino segreto usava una notazione diversa: la notazione ispirata dall'alchimia, dall'astrologia, dalle idee rosacrociane e dalla vecchia notazione cossista. Il taccuino segreto conteneva anche un terzo segno, che nessuno è riuscito a far risalire ad alcuna fonte precedente.

Per inciso, Cartesio non usò mai il segno di uguale (=), che pure era stato introdotto da Robert Recorde nel 1557. Per denotare l'uguaglianza continuò a usare una sorta di lettera alfa rivolta all'indietro . Circostanza interessante, sarebbe stato Leibniz, decenni dopo la morte di Cartesio, a riportare in auge il segno di uguale che usiamo oggi.

Discorso sul Metodo

Cartesio è considerato il padre della filosofia moderna principalmente per la pubblicazione, nel 1637, del suo libro Discorso sul metodo per ben condurre la propria ragione e ricercare la verità nelle scienze. Più la Diottrica, le Meteore e la Geometria che sono saggi di questo metodo.

Il Discorso era concepito come una sorta di introduzione ai saggi del metodo, cioè ai trattati applicativi, rispettivamente di ottica, sui fenomeni naturali che avvengono nell'atmosfera e sulla geometria nel suo rapporto con l'algebra. Scelse di scrivere il libro in francese per favorirne la diffusione più ampia possibile tra il pubblico che parlava quella lingua, così seguendo l'esempio di Galileo che aveva scritto in italiano per un'analoga ragione. Le loro opere erano tra le prime di carattere intellettuale a essere pubblicate in lingua volgare, invece che nel latino della Chiesa e delle università.

Ma il Discorso non fu pubblicato in Francia. Apparve per la prima volta a stampa l'8 giugno 1637, presso l'editore Jean Maire di Leida, in Olanda. La prima edizione del libro fu pubblicata anonima.

La filosofia di Cartesio, che era esposta nel Discorso (oltre che nelle sue opere successive), costituì la base del razionalismo seicentesco, una filosofia che pone l'accento sulla ragione e l'intelletto piuttosto che sul sentimento e l'immaginazione. Il razionalismo viene generalmente contrapposto all'empirismo, la filosofia secondo la quale la principale fonte di conoscenza sostanziale è l'esperienza. Il pensiero di Cartesio si basa sul principio di verità essenziali, non derivate dall'esperienza, e sulla ricerca di un sistema di riflessione speculativa basato su queste verità a priori, e al tempo stesso provvisto di un metodo di ragionamento che Cartesio chiamava «dubbio metodico». Cartesio considerava la mente, Dio e la materia come idee innate, non desunte dalla nostra esperienza sensoriale del mondo.

Lo scopo della filosofia di Cartesio è di usare tale metodo per raggiungere la verità. Non si tratta di scoprire una molteplicità di verità isolate, ma piuttosto di sviluppare un sistema di proposizioni vere in cui non si presuppone nulla che non sia di per sé evidente. Ci sarà allora una connessione organica fra tutte le parti del sistema conoscitivo, e l'edificio risulterà al riparo dallo scetticismo.

Per Cartesio filosofia significa studio della ragione. E la ragione si identifica per lui con una conoscenza perfetta di tutte le cose che gli esseri umani possono sapere o comprendere. Perciò include nella sua filosofia anche la metafisica, la fisica e la scienza naturale. E vi comprende perfino l'anatomia, la medicina e i principi morali. Inoltre insiste sul valore pratico della filosofia, sostenendo che uno stato non può avere bene maggiore del possesso della vera filosofia. Cartesio rompe deliberatamente con il passato, ed è deciso a iniziare da capo la ricerca della verità, senza mai fidarsi dell'autorità di qualsiasi filosofia precedente.2 A suo parere, tutte le scienze sono interconnesse e devono essere studiate come un'entità unica servendosi di un metodo volto a scoprire la verità. Sotto questo aspetto, il suo pensiero era in contrasto con la scolastica medievale, che era la filosofia cristiana ancora dominante e che in linea con i principi aristotelici sosteneva che le varie aree della conoscenza sono distìnte l'una dall'altra.

Il Discorso fu il primo libro pubblicato da Cartesio. Aveva quarantun anni quando apparve il Discorso, che divenne il più importante, il più letto e il più controverso libro di quel periodo. Presto l'identità dell'autore di quest'opera decisiva divenne di dominio pubblico. Pur non avendo pubblicato nulla fino a quest'età relativamente avanzata, Cartesio aveva già prodotto molto. Aveva scritto II mondo (il cui titolo completo era Le Monde ou Traile de la lumière) e le Regole (Règles pour la directìon de l'esprit en la recherete de la vérité), che si ritiene risalgano al 1628. Le ragioni della tardiva pubblicazione del Discorso e della mancata pubblicazione delle Regole sono rimaste un mistero ampiamente dibattuto dagli studiosi. Siamo di fronte a un uomo assai riservato, addirittura «mascherato», riluttante a rivelare al mondo le sue teorie e i suoi pensieri più profondi. Sappiamo che il processo a Galileo del 1633 aveva causato il ritiro del Mondo, ma perché rifiutarsi di pubblicare cinque o più anni prima di quel processo? La paura dell'Inquisizione condizionava Cartesio fin da allora? O c'erano altre ragioni?

Galileo era stato già ammonito una prima volta dalla Chiesa nel 1616 per il suo sostegno alle tesi copernicane. E in un decreto promulgato in quello stesso anno, l'Inquisizione aveva proibito la pubblicazione di qualsiasi libro che sostenesse la teoria copernicana, in tutti i paesi che ricadevano sotto l'influenza della Chiesa cattolica. Cartesio sapeva di queste vicende e forse si era già preoccupato della Chiesa e della sua potenziale reazione ai propri scritti, nel caso li avesse pubblicati. Per questo potrebbe aver deciso, ben prima del processo a Galileo, di astenersi dal rendere pubbliche le sue opere. La notizia del processo a Galileo, tuttavia, confermò definitivamente Cartesio nell'idea di aver preso la decisione giusta.

Il Discorso sul metodo e i suoi saggi riflettono il penoso dilemma in cui si dibatteva Cartesio. Da una parte, non poteva permettersi di pubblicare liberamente le proprie idee sulla fisica, dato che i concetti che stavano alla base delle sue teorie erano tutti concordi con quelli di Galileo e Copernico, e lui si era solennemente impegnato a non contraddire le opinioni della Chiesa. Dall'altra parte, nel 1637 Cartesio avvertiva una forte esigenza di pubblicare e aveva già subito le pressioni di molti amici e corrispondenti che gli chiedevano di poter leggere le sue posizioni filosofiche e le sue idee sulla natura.

Il Discorso e i suoi saggi erano quindi un compendio delle idee di Cartesio, nel quale però parti essenziali della fisica erano state soppresse per evitare la tesi eliocentrica proibita. L'universo di Cartesio, quale appare dai suoi scritti pubblicati, non ha centro e ha dimensioni infinite.4 Questi presupposti consentivano a Cartesio di nascondere le sue vere opinioni e deduzioni di carattere cosmologico e di evitare la controversia copernicana. Ma tali concezioni erano comunque contrarie alla tradizione scolastica, secondo la quale l'universo è finito e l'infinità appartiene soltanto a Dio.

Secondo recenti ricerche sulla cronologia degli scritti di Cartesio e lo sviluppo delle sue idee, i tre saggi, la Diottrica, le Meteore e la Geometrìa erano stati elaborati nel contesto del Mondo. Quindi erano stati scritti qualche anno prima. Negli anni intercorsi Cartesio aveva rimaneggiato accuratamente il suo lavoro, mettendo da parte II mondo e riformulando le sue vedute scientifiche in modo tale che non contenessero più tracce della fisica proibita. Poi aveva scritto una prefazione ai tre trattati scientifici depurati, e aveva pubblicato il tutto. In realtà, come si evince dalla sesta parte del Discorso, nonché da varie lettere scritte da Cartesio tra il 1633 e il 1634, anche il mondo era un semplice ampliamento di un'opera precedente intitolata Les Météores, che trattava una varietà di argomenti di scienza naturale ed era pronta per la pubblicazione nel 1633. Inoltre, un trattato intitolato La Dioptrique era pronto per l'invio in tipografia fin dal 1629, quando ne era stata revocata la pubblicazione. Questi primi scritti erano stati diligentemente riveduti e apparvero con la prefazione oggi famosa, intitolata Discorso sul metodo. La complessa storia delle pubblicazioni di Cartesio dimostra come fosse disposto a fare ogni sforzo pur di non esporsi a rischi.

Il suo fu con ogni probabilità il più complicato tentativo di tagliare un testo controverso della storia dell'editoria.

Il Discorso sul metodo, progettato come una prefazione, divenne la parte più importante dell'opera, in quanto conteneva i principi della filosofia di Cartesio. E così questo scritto viene spesso pubblicato come trattato a sé stante. Il Discorso è unico anche nella sua struttura, in quanto costituisce un resoconto biografico dello sviluppo di una filosofia: la storia del percorso di scoperta del filosofo.

L'opera è formata da sei parti. Nella prima, Cartesio introduce le sue concezioni e spiega come si sono formate. Parla della sua istruzione al collegio della Flèche e delle idee con cui era entrato in contatto. Cartesio spiega come fosse giunto a credere di potersi servire della dimostrazione matematica in filosofia e come di qui fosse pervenuto al concetto di dubbio e alla decisione di dubitare di tutto ciò di cui non poteva accertare la verità. Qui il pensiero cartesiano nascente diverge dalla filosofia scolastica medievale allora prevalente, la quale sosteneva che c'erano tre possibili livelli per ogni proposizione: falsa, probabile e vera.

Adottando metodi puramente matematici per acquisire conoscenza, Cartesio mette da parte il probabile e ammette la falsità di tutto ciò che non è in grado di provare con un'efficacia logica analoga a quella che interviene nella dimostrazione di un teorema di geometria. «Nutrivo sempre un immenso desiderio» scrive «di imparare a distinguere il vero dal falso, per vedere chiaro nelle mie azioni e procedere con sicurezza nella vita.» Cartesio fa riferimento agli anni di viaggi che erano seguiti al periodo della sua istruzione, anni dedicati «a studiare così nel libro del mondo», e conclude enunciando la sua decisione di continuare la ricerca della verità mediante lo studio introspettivo, allontanandosi dal suo paese e dai suoi libri.

Cartesio comincia la seconda parte del Discorso dicendoci che, dopo aver assistito all'incoronazione del Sacro romano imperatore e aver raggiunto l'esercito in Germania, aveva passato l'inverno da solo nella sua camera, dedicando il suo tempo alla riflessione. Tra le sue prime idee c'era quella che le opere di un unico artefice siano più belle, e per certi versi più fedeli alla realtà, di quelle che sono state realizzate da diverse persone. Muovendo da questo concetto, conclude che il suo primo dovere è di rinunciare a tutta la conoscenza che è stata ottenuta come risultato del lavoro di molte persone diverse; in altre parole, intende respingere la filosofia prevalente - di certo opera di molte menti nel corso di generazioni - e avviare la costruzione di un sistema conoscitivo che sia opera di un solo uomo: e cioè Cartesio stesso. Della conoscenza precedente conserverebbe solamente la logica, la geometria e l'algebra. Quindi passa a enunciare quattro principi che dovrebbero guidarlo in questo tentativo:

  • Non accogliere nulla come vero che non conoscessi con evidenza.
  • Suddividere ciascuna difficoltà da esaminare in tutte le parti in cui era possibile e necessario dividerla per meglio risolverla.
  • Condurre con ordine i miei pensieri iniziando dagli oggetti più semplici a quelli più complessi.
  • Fare ovunque enumerazioni così complete da essere certo di non aver tralasciato nulla.

    Cartesio poi discute come si possano risolvere i problemi di matematica usando il suo sistema, che è un'estensione dell'antico metodo greco consistente nel dimostrare i teoremi per mezzo di principi primi e di concetti logici. E dichiara il suo desiderio di riuscire a dedurre conoscenza filosofica mediante la medesima metodologia matematica adottata in geometria.

    La terza parte del Discorso sul metodo è dedicata alle questioni della morale. Cartesio ci dice di aver deciso di seguire le leggi e i costumi del paese in cui vive. Desidera essere fermo e risoluto in tutte le sue azioni; e vuole dedicare la vita a coltivare la sua ragione e la razionalità applicandole in tutte le sue azioni. Il filosofo ci racconta come si rimettesse in viaggio e passasse i nove anni successivi «a vagare qua e là per il mondo», e descrive il suo trasferimento in Olanda, lontano dai luoghi in cui era conosciuto.

    Nella quarta parte, Cartesio ritorna al punto principale della sua riflessione filosofica. Prende le mosse dal suo dubbio metodico: io metto in dubbio, o nego, tutto ciò che non può essere dimostrato in modo matematico, dice. Ma allora che cosa resta se pensa che tutto sia falso? Resta Cartesio, la persona che sta avanzando tutti questi dubbi. Quindi c'è una cosa la cui verità può essere dedotta: che Cartesio esiste. Altrimenti non potrebbe dubitare. Così, dalla negazione di tutto, si ricava una dimostrazione dell'esistenza della persona che dubita. Questa è la deduzione più brillante della storia del pensiero occidentale. La dimostrazione è assolutamente splendida, e segue criteri dimostrativi matematici. Si potrebbe considerare questa deduzione come una dimostrazione per assurdo, un procedimento di prova molto usato in matematica. Ammettiamo che io non esista. Ma se non esisto, non posso dubitare, o ammettere la falsità di tutto quanto c'è nell'universo. Dunque devo esistere. Da questa deduzione deriva il famoso Cogito, ergo sum di Cartesio: penso, dunque sono.

    Il pensiero che ho è il dubbio originario che da inizio alla catena deduttiva. Dubito di tutto; ma questo dubbio è un pensiero; e il pensiero dimostra che esisto. Non posso mettere in dubbio il fatto che sto dubitando; quindi io, almeno, devo esistere.

    Cartesio poi continua il suo procedimento logico di deduzione di verità. Il dubbio implica l'incertezza. E l'incertezza implica l'imperfezione. Gli esseri umani e ogni cosa nel loro ambiente sono imperfetti. Ma l'idea dell'imperfezione implica l'esistenza di qualcosa che non è imperfetto. Ciò che non è imperfetto è, per definizione, perfetto. E la perfezione appartiene a Dio. Così Cartesio deduce l'esistenza di Dio dal fatto che la perfezione deve esistere. Triangoli e cerchi perfetti sono figure geometriche che non esistono nel nostro imperfetto mondo quotidiano; ma esistono in quanto idee, in quanto modelli cui i triangoli e i cerchi imperfetti del mondo reale si approssimano. La perfezione ideale implica un essere perfetto, Dio. Poi Cartesio passa al concetto di spazio geometrico. A suo giudizio, lo spazio è infinito: si estende indefinitamente in tutte le direzioni. L'idea di uno spazio che è illimitato in estensione lo porta all'idea di infinito, e alla conclusione che l'infinito è Dio. Quindi la nozione che lo spazio è infinito da a Cartesio un'altra conferma dell'esistenza di Dio.

    Nella quinta parte del Discorso, Cartesio si volge ai problemi della fisica e della filosofia naturale, e afferma di non poter divulgare tutte le sue convinzioni in merito al mondo fisico: un'allusione al ritiro del Mondo. Parla della gravita, della Luna e delle maree e ciò che scrive dimostra che ha una profonda comprensione della fisica. Poi passa alla biologia e all'anatomia, come ulteriore esempio dell'applicazione del suo metodo di ragionamento. Descrive la funzione del cuore, ma in modo erroneo: suppone infatti che la temperatura del cuore sia più alta di quella del resto del corpo, e che sia la differenza di temperatura a far affluire il sangue verso il cuore e a farlo defluire. Una discussione delle funzioni di altre parti del corpo, di nuovo inesatta (non comprende la funzione dei polmoni e ritiene che servano a raffreddare il sangue), lo conduce alla differenza tra animali ed esseri umani. Cartesio crede che il linguaggio implichi l'esistenza della ragione e dell'intelligenza, e che quindi gli animali siano privi di entrambe. Gli animali sono automi, conclude, e non hanno intelligenza né anima. Corpo e anima sono separati, secondo Cartesio, e qui ancora una volta la sua filosofia è in contrasto con la scolastica, secondo la quale l'anima è parte del corpo.

    Nella sesta e ultima parte del Discorso sul metodo, Cartesio espone le ragioni per cui ha scritto il libro. Il suo scopo principale era di contribuire al bene generale: scriveva per migliorare le condizioni dell'esistenza umana. E ritorna ancora una volta sui pericoli inerenti allo scrivere e sul fatto che non poteva dire tutto ciò che pensava e deduceva in merito al mondo fisico. Per il suo lavoro, ci dice, non avrebbe accettato alcun patronato né una pensione di stato. L'intenzione era quella di applicare il suo metodo alla ricerca di una profonda comprensione della natura con lo scopo di trovare un modo per prolungare la vita. Questa aspirazione era in armonia con lo spirito del tempo, il Seicento, in cui la gente sperava di vivere fino all'età dei pa-triarchi. Infine spiega perché ha scritto il libro in francese invece che in latino.

    Ma Cartesio si rende conto del fatto che la sua filosofia può suscitare controversie. È ben consapevole che contraddice l'opinione prevalente del suo tempo. Acutamente predice che dovrà affrontare una massiccia opposizione per le sue idee, ma come un soldato è pronto a difenderle. In effetti sarebbe poi stato costretto a farlo.

    La pubblicazione del Discorso sul metodo rese Cartesio immensamente famoso. 11 libro ricevette immediatamente recensioni sia positive che negative da parte degli studiosi, e Cartesio avrebbe speso molto tempo negli anni successivi per rispondere alle lettere di numerosi intellettuali. Il suo trattato fu un grande successo editoriale in tutta Europa, ma le polemiche suscitate da quest'opera lo indussero ad allontanarsi ancora di più dalla gente e a interagire con il mondo esterno quasi esclusivamente per lettera.

    Nel loro Fama fraternitatis del 1614 i Rosacroce invocavano «la correzione dei difetti della Chiesa e il miglioramento della filosofia morale». Cartesio, che nel 1637 era ancora preoccupato delle voci secondo le quali faceva parte della confraternita, continuò a contrastarle. Nel Discorso scrisse: «si potrebbero trovare tanti riformatori quante sono le teste pensanti al mondo»,11 implicitamente pronunciandosi contro la riforma, per prendere ulteriormente le distanze dai Rosacroce. Fece anche delle affermazioni sull'essere «sospettato di questa follia», alludendo implicitamente al collegamento con la confraternita.

    Così, quasi vent'anni dopo aver lasciato la Germania, Cartesio era ancora molto preoccupato delle voci che lo collegavano con i Rosacroce. Eppure qualche dubbio rimane quando si leggono i suoi scritti. Nel Discorso aveva affermato: «avevo dato una scorsa a tutti i libri capitatimi tra le mani che trattavano delle scienze considerate più rare e curiose».1* Secondo alcuni studiosi, nel Seicento venivano chiamate «scienze curiose» quelle che oggi si chiamano scienze occulte: magia, astrologia, alchimia ecc. Le espressioni «scienza curiosa» e «libri curiosi» ricorrono sovente nel Discorso.

    Nella sua opera più famosa, Cartesio inserì degli accenni al suo taccuino segreto. Parla dell'«analisi degli antichi e dell'algebra dei moderni». Allude all'uso di caratteri simbolici segreti, «certe cifre» che rendono la seconda «un'arte confusa e oscura». Tre pagine più avanti si riferisce alla soluzione di problemi difficilissimi che aveva trovato dopo un periodo di intenso lavoro, seguendo il suo metodo. Si è fatta la congettura che qui Cartesio si riferisca a un problema risolto nel suo taccuino segreto.

    Le ricerche geometriche di Cartesio erano descritte nella sua Geometria. Questo trattato è il più importante saggio applicativo della storia, perché conteneva il lavoro pionieristico di Cartesio nell'ambito della geometria e presentava la connessione da lui stabilita tra geometria e algebra: il suo massimo lascito in campo matematico. Era la «summa di tutta la scienza della matematica pura», e avrebbe svolto un ruolo cruciale nello sviluppo della matematica moderna. Cartesio sapeva che questo saggio era di gran lunga il più difficile da capire, e lo faceva notare nel testo, avvertendo il lettore che poteva essere necessario un alto livello di conoscenze geometriche. Il saggio conteneva ampie discussioni delle equazioni e dei grafici. I grafici che rappresentavano le equazioni non avrebbero potuto essere creati senza il sistema di coordinate cartesiane, che permetteva di rappresentare con assoluta precisione ciascuna equazione come una curva tracciata sulla carta. Quest'invenzione era un'estensione della geometria greca.

    Il problema di Delo

    Cartesio era estremamente interessato al problema della duplicazione del cubo, il problema di Delo che gli antichi greci non erano riusciti a risolvere. Ma per affrontarlo aveva bisogno di fare altri progressi nella comprensione di come funzionino di preciso le costruzioni con riga e compasso. Gli occorreva uno strumento che gli permettesse di studiare tali costruzioni, e il suo sistema di coordinate era lo strumento giusto. Servendosi del sistema di coordinate cartesiane, stabiliva una connessione tra numeri e forme, tra geometria e aritmetica. Gli antichi greci ci erano andati vicino: per esempio i pitagorici si rendevano conto che i lati di un quadrato o di un rettangolo potevano essere rappresentati da numeri. Ecco in cosa consisteva il teorema di Pitagora: se si definivano le dimensioni di un quadrato in modo che fossero 1 unità per 1 unità, allora, per il teorema di Pitagora, l'ipotenusa era pari alla radice quadrata di 2.

    In questo senso, allora, si poteva intendere la distanza che si estendeva a destra del vertice inferiore sinistro come 1, e la distanza che si estendeva da quel vertice verso l'alto anch'essa come 1, misurato nella dirczione perpendicolare. Ciò diede a Cartesio l'idea di formalizzare l'osservazione degli antichi greci creando un sistema di coordinate. Il matematico francese si rese conto che qualsiasi punto del piano poteva ora essere individuato mediante la sua coordinata x e la sua coordinata y.

    Questa svolta aprì un nuovo mondo per Cartesio, e avrebbe creato un nuovo mondo per la scienza. Ma in particolare Cartesio ora sapeva che cosa fosse costruibile con gli antichi strumenti - riga e compasso - e come costruirlo.

    Cartesio osservò che un numero, a, è costruibile se si possono costruire due punti che siano separati da una distanza di a unità. Nel suo nuovo sistema di coordinate, un numero a è costruibile se si è in grado di costruire o il punto (a, 0) o il punto (O, a). Osservò poi che se a e b sono numeri costruibili, lo sono anche i numeri a 4- b, a - b, ab e a/b. Queste proprietà sono illustrate nelle figure che seguono.

    Fu un progresso decisivo. La creazione del sistema di coordinate cartesiane chiarì immediatamente agli occhi del suo autore molte cose sui numeri che potevano essere costruiti con riga e compasso. Ma, come vedremo, con questi strumenti si poteva fare di più: i numeri che si possono costruire vanno al di là delle semplici somme, differenze, prodotti e rapporti di numeri costruibili.

    Dopo aver usato il suo nuovo sistema di coordinate per ricavarne risultati così fruttuosi, Cartesio compì un grosso passo in avanti. Riuscì a dimostrare che è possibile costruire mediante riga e compasso la radice quadrata di un numero. La ragione per cui questo è un risultato così importante, e magari inatteso, ha a che fare con i campi di numeri che si stanno considerando.

    I numeri razionali formano un campo. Ciò significa che se si hanno inizialmente dei numeri razionali, si rimane con numeri razionali: effettuando somme, prodotti e passaggi all'inverso, si resta nell'ambito dello stesso sistema, dello stesso campo. Ogni numero razionale - che sia, cioè, o un intero o un rapporto di due interi - ha un inverso che è anch'esso un numero razionale. Esempi semplici sono 7, il cui inverso è 1/7; oppure -15, il cui inverso è -1/15; oppure ancora 3/19, il cui inverso è 19/3. Ma in generale le rodici quadrate sono fuori del campo dei numeri razionali (salvo che nei casi banali: per esempio, la radice quadrata di 4 è un intero, 2. La radice quadrata di 2, ad esempio, è esterna al campo dei numeri razionali, perché nessuna operazione aritmetica semplice su numeri razionali (frazioni i cui numeratori e denominatori sono interi) produce tale radice quadrata.

    Ma Cartesio riuscì a dimostrare che la costruzione con riga e compasso può ugualmente portare alle radici quadrate dei numeri. Questo fu uno dei suoi massimi risultati in campo matematico, e la relativa dimostrazione compare sulla seconda pagina della sua Geometria.1 Nel fornire questa prova sorprendente, che avrebbe sbalordito gli antichi greci che erano in grado di costruire cose molto più semplici, Cartesio dimostrò che il campo di tutti i numeri che possono essere costruiti con riga e compasso è più grande del campo dei numeri razionali, dato che ora comprende anche le radici quadrate.

    Cartesio non riuscì però a dimostrare che questo campo comprende le radici cubiche dei numeri, o radici di un qualsiasi ordine più elevato. In effetti, sarebbe stato dimostrato due secoli dopo Cartesio, grazie al genio tormentato di Evariste Galois, un matematico francese che perse la vita in duello all'età di vent'anni, che le radici cubiche non sono costruibili e che non lo sono neppure le radici di un qualsiasi ordine superiore.

    Cartesio comprese che era questa proprietà - e cioè che riga e compasso possono arrivare fino alle radici quadrate, ma non fino alle radici cubiche - a rendere insolubile il problema della duplicazione del cubo. È importante notare ancora che Cartesio compì un grande passo in avanti dimostrando che le radici quadrate sono costruibili, ma che non dimostrò che le radici cubiche non lo sono. «Comprese» che doveva essere così, ma la prova effettiva avrebbe dovuto attendere la teoria di Galois.

    In un certo senso questo risultato potrebbe essere considerato intuitivo: poiché riga e compasso sono strumenti che operano sul piano, ci consentono di eseguire radici quadrate (si rammenti che la radice quadrata di un quadrato -figura che giace nel piano - è il lato del quadrato, che giace anch'esso nel piano), ma non le radici cubiche. Un cubo esiste naturalmente nello spazio tridimensionale, e la radice cubica del cubo è il suo spigolo.

    Ed ecco come Cartesio dimostrò che le radici quadrate sono costruibili con riga e compasso: costruì con gli strumenti dei greci la figura che segue. Quindi utilizzò il teorema di Pitagora tre volte. Osservando i tre triangoli rettangoli della figura, ottenne:

    c2 = a2 + b2

    d2 = 12 + b2

    (a + 1 )2 = c2 + d2

    Eliminando le parentesi e sostituendo la seconda equazione nella terza, ricavò

    a2 + 2a + 1 =c2 + 12 + b2

    Ora sostituì c2 con a2 + b2 usando la prima equazione, e ottenne

    a2 + 2a + 1 =a2 + b2 + 12 + b2

    Il che gli diede

    2a = 2b2

    Ossia b = sqrt(a). Quindi usando riga e compasso, si possono costruire le radici quadrate. Voilà!

    Cartesio si rese conto di quanto segue: la duplicazione del cubo era un'operazione nello spazio tridimensionale, e pertanto riga e compasso - strumenti intrinsecamente piani, o bidimensionali - non potevano fornire una soluzione. Analogamente, servendosi dell'algebra, osservò che duplicare il cubo era equivalente a costruire la radice cubica di 2.

    Aveva dimostrato che la radice quadrata dì 2 era costruibile, ma comprendeva (sebbene la sua dimostrazione fosse inadeguata, e quella corretta dovesse venire due secoli più tardi) che la radice cubica non lo era. Cartesio cominciò a pensare a dimensionalità più elevate: era affascinato dalle proprietà matematiche del cubo, e dalle connotazioni mistiche che i greci attribuivano a questo oggetto tridimensionale perfetto.

    Alla corte svedese

    Cristina di Svezia era nata l'8 dicembre 1626 a Stoccolma, da re Gustavo II Adolfo e da Maria Eleonora di Brandeburgo. All'età di quindici anni conosceva a fondo il latino, il francese e il tedesco, oltre al nativo svedese; alla fine avrebbe parlato correntemente dieci lingue. Leggeva Fiatone e gli stoici, così come altri testi filosofici e letterari. Alla morte del padre, Cristina, che aveva sei anni, divenne regina designata. Cinque reggenti, con alla testa il primo ministro, Axel Oxenstierna, governavano il paese. Quando Cristina compì diciotto anni, nel 1644, assunse il potere.

    La regina si interessava di arte, musica, letteratura e scienza, e invitava alla sua corte molti personaggi di rilievo. Proteggeva artisti e musicisti e finanziava centinaia di rappresentazioni teatrali e operistiche. Per molti anni persone colte, specialisti in tutti i rami della conoscenza, conversero su Stoccolma unendosi alla sua «corte del sapere». Per questa ragione Stoccolma ricevette l'appellativo di «Atene del nord». Dopo aver letto i suoi Principia philosophiae durante una visita a dorso di cavallo a una miniera di ferro, Cristina decise che voleva che Cartesio si unisse al suo dotto consesso.

    Cartesio era ancora angustiato per gli scontri con i teologi e i filosofi olandesi, e il suo cuore avvertiva ancora l'ostilità rivolta contro di lui nel suo paese di adozione. La Svezia gli avrebbe offerto una nuova opportunità di ricominciare da capo.

    A seguito dei lisinghieri inviti della regina, Cartesio arrivò a Stoccolma il 4 ottobre 1649 e fu ricevuto dalla regina Cristina con una cerimonia nella quale la sovrana gli tributò onori tali da suscitare a corte la gelosia generale verso il nuovo arrivato. Cristina andò anche oltre: propose a Cartesio di concedergli la cittadinanza svedese e disse che voleva conferirgli un titolo nobiliare.

    Il 3 febbraio 1650, cinque mesi dopo il suo arrivo a Stoccolma, Cartesio si ammalò. La maggior parte dei suoi biografi ha ritenuto che la malattia fu causata dalla necessità di alzarsi presto per dare lezioni di filosofia alla Regina Cristina assetata di sapere e dal freddo pungente della Svezia. In effetti, quel particolare inverno fu il più rigido da sessant'anni a quella parte.

    Il miglior dottore della regina Cristina, il suo «protomedico», era di nazionalità francese. Si chiamava du Ryer, ed era amico di Cartesio, di cui ammirava le opere, ma il caso volle che, quando Cartesio cadde malato, il dottor du Ryer fosse lontano da Stoccolma in missione per conto della regina, e il suo ritorno non era previsto a breve scadenza. La regina perciò inviò al filosofo il suo «secondo dottore», un medico olandese di nome Weulles. Secondo Baillet, Weulles era «nemico giurato di Cartesio fin dai tempi dell'offensiva sferrata contro di lui dai pastori e dai teologi di Utrecht e di Leida». Weulles era stato alleato dei membri anticartesiani dell'ambiente accademico olandese, e per di più, stando sempre a Baillet, voleva «vedere Cartesio morto».

    Appena giunto al capezzale di Cartesio, Weulles decise di praticare un salasso al suo paziente. Il filosofo, che nei decenni precedenti aveva dedicato molto tempo allo studio dell'anatomia, sapeva una cosa di cui la maggior parte dei suoi contemporanei non era consapevole: che il salasso in nessun caso era di alcuna utilità. Poteva solo causare infezione. In effetti, due anni prima, il buon amico di Cartesio Marin Mersenne era morto di un'infezione al braccio, contratta in seguito a un salasso praticategli come rimedio per un disturbo secondario. Cartesio rifiutò il trattamento e nei giorni successivi le sue condizioni migliorarono, fintanto che ci fù un brusco peggioramento e l'11 febbraio 1650 morì. Aveva quasi cinquantaquattro anni.

    Anche il primo biografo importante di Cartesio, Adrien Baillet, menziona la voce che cominciò a circolare subito dopo il decesso del filosofo: che fosse stato avvelenato da Weulles d'intesa con altri personaggi della corte della regina. Molte delle persone che circondavano Cartesio erano gelose del suo posto nel cuore della regina; altri odiavano la sua filosofia e lo consideravano un ateo; e c'erano anche coloro che lo avversavano perché temevano la sua potenziale influenza sulla loro regina. Cartesio era un cattolico e la regina, come la maggior parte dei suoi sudditi, era luterana. Molti temevano l'influenza di un cattolico sulla sovrana. E il fatto che il filosofo francese fosse curato da un medico che si era augurato di vederlo morto rende la tesi di un avvelenamento ancora più credibile.

    E in effetti, i sospetti che i grammatici nutrivano contro Cartesio e la sua influenza sulla regina divennero realtà quattro anni dopo la morte del filosofo: nel 1654 Cristina abdicò e si convertì al cattolicesimo.

    La regina, che era inconsolabile per la scomparsa del suo più caro consigliere e amico, voleva conferire a Cartesio un titolo nobiliare svedese postumo e farlo seppellire con i re di Svezia. Progettava anche la costruzione di un grande mausoleo marmoreo per l'uomo che chiamava «il mio illustre maestro».

    Ma inaspettatamente l'ambasciatore francese si oppose al progetto e Cartesio ebbe una semplice ed anonima sepoltura.

    Anni dopo la morte di Cartesio, il 2 ottobre 1666, il suo corpo fu riesumato, e i resti - privi del cranio - furono rimpatriati. Giunsero in Francia nel gennaio 1667 e furono posti nella cappella della chiesa di Saint-Paul. Di là le ossa furono traslate in una cripta della chiesa di Sainte-Geneviève-du-Mont a Parigi, una chiesa che sarebbe stata distrutta durante la Rivoluzione francese. Nel paese sorse la richiesta di dare nuova sepoltura ai resti del grande filosofo nel Pantheon con i cittadini più illustri di Francia, e la Convenzione votò in favore della nuova sistemazione, ma poi il Direttorio revocò la decisione, e il corpo fu invece trasferito al Museo dei monumenti francesi. Infine, nel 1819, Cartesio trovò il suo luogo di riposo definitivo nell'antica chiesa di Saint-Germain-des-Prés.

    Il famoso chimico svedese barone Jons Jakob Berzelius (1779-1848), scopritore degli elementi cerio, selenio e torio, era a Parigi in quel momento e presente alla nuova inumazione dei resti di Cartesio. Apprese con stupore che non c'era il teschio con le ossa del filosofo. Destino volle che, proprio al ritorno di Berzelius in Svezia, a Stoccolma si tenesse un'asta nella quale uno dei pezzi in vendita era un cranio che si garantiva fosse quello di Cartesio. Berzelius lo acquistò.

    Il barone svedese scrisse poi una lettera a un barone francese, Georges Cuvier, segretario perpetuo dell'Accademia francese delle scienze. Nella sua lettera disse a Cuvier che donava alla nazione francese il cranio di Cartesio, che aveva appena acquistato, in modo che «fosse ricomposto con gli altri resti del filosofo», intendendo chiaramente che voleva che il cranio di Cartesio fosse seppellito con il resto delle sue ossa nella chiesa di Saint-Germain-des-Prés.

    Ma il barone francese la pensava diversamente. Per ragioni che non sono mai state chiarite, una volta che Cuvier ricevette il cranio, lo mise in mostra in un museo. Il cranio di Cartesio, privo della mandibola e di tutti i denti, e con una serie di scritte a inchiostro che vanno dalla volta fino alla fronte, ha trovato una fine ignominiosa al Musée de l'Homme a Parigi.

    Il taccuino segreto

    L'anno in cui Cartesio morì a Stoccolma, il 1650, un bambino di quattro anni di Lipsia, in Germania, guardava le truppe svedesi evacuare la sua città, come stabilito dalla pace di Westfalia, che due anni prima aveva posto fine alla guerra dei Trent'anrti. La Francia e la Svezia, potenze alleate vincitrici del conflitto, dovevano lasciare il suolo tedesco. Ma con la fine dell'occupazione e della guerra, per la Germania ebbe inizio un lungo periodo di declino intellettuale e culturale, conseguenza della devastazione prodotta dagli interminabili anni di combattimenti.

    Il bambino, Gottfried Wilhelm Leibniz, era un fanciullo fuori del comune. Già quando aveva quattro anni, coloro che lo conoscevano bene lo trovavano incredibilmente brillante. Suo padre, che era professore all'Università di Lipsia, sapeva che il figlio era un genio, ma purtroppo non ebbe il piacere di assistere ai suoi grandi successi nella vita perché mori all'età di settant'anni, quando il ragazzo ne aveva soltanto sei. Gottfried leggeva i classici greci e latini, che trovava nella biblioteca del padre, e nel giro di pochi anni aveva divorato numerosissimi libri di storia, arte, politica e logica. Ma, pur avendo interessi molto vasti, era particolarmente abile in matematica. E nell'ambito della matematica, il giovane Leibniz aveva un dono molto speciale: sapeva decifrare i codici.

    Nella primavera del 1676, quando era a Parigi da più di tre anni, Christiaan Huygens gli parlò dei manoscritti inediti di Cartesio e gli diede il nome di Claude Clerselier. Così il 1° giugno 1676 Leibniz giunse in visita da Clerselier. Gli raccontò la sua storia e lo implorò di permettergli di vedere i manoscritti segreti di Cartesio. Il vecchio acconsentì con riluttanza e Leibniz si sedette e cominciò a lavorare.

    La filosofia di Cartesio era un tentativo di fondare la conoscenza umana su una base razionale che aveva il suo modello nella geometria. Cartesio voleva che la gente ragionasse nella vita quotidiana nel modo in cui si ragionava per risolvere un problema di matematica. In questo contesto, il taccuino segreto rappresentava la sua gloria suprema, perché conteneva il livello successivo della geometria, un livello che racchiudeva il mistero dell'universo quale Cartesio lo concepiva.

    Leibniz aprì il taccuino segreto di Cartesio, De solidorum elementis, ed esaminò minuziosamente gli scritti che aveva davanti. Non disponeva di molto tempo. C'erano sedici pagine in questo taccuino. O Clerselier gli aveva detto di non volere che lui copiasse il taccuino, oppure gli aveva imposto limitazioni molto rigide nella copiatura.

    Leibniz dovette far appello a tutte le capacità matematiche di cui disponeva. Ma aveva gli strumenti necessari per decifrare i codici: era un esperto di combinazioni e di decodifica. Se c'era qualcuno che poteva decifrare il codice di Cartesio, quello era Leibniz. Il filosofo tedesco osservò una pagina del taccuino segreto di Cartesio. Su una facciata c'erano delle figure che Cartesio aveva schizzato molto vicine le une alle altre. Era difficile capire che cosa fossero di preciso. Sull'altra facciata della pagina c'erano formule e simboli che Leibniz non fu in grado di decifrare immediatamente.

    Rivolse di nuovo lo sguardo alle figure e allora comprese che cosa dovevano rappresentare: un cubo, un tetraedro (piramide a base triangolare) e un ottaedro (formato da due piramidi a base quadrata unite per le basi).

    Il cubo ha sei facce, sapeva Leibniz. Sapeva anche, senza doverli contare perché aveva una mente straordinariamente rapida, che il tetraedro ha sei spigoli e l'ottaedro ha sei vertici. Cartesio stava cercando la bestia dell'Apocalisse. Ciascuna delle tre figure gli forniva un 6, e le tre figure insieme formavano il numero 666. Quindi questa era la ricerca che il grande filosofo francese stava conducendo in segreto: la via rosacrociana al potere occulto. Poi Leibniz voltò la pagina.

    Cartesio aveva studiato il cubo, quell'oggetto tridimensionale simmetrico che gli antichi matematici greci avevano invano tentato di duplicare con riga e compasso. Dai suoi contatti con Faulhaber, Cartesio aveva saputo che la piramide era associata con i poteri occulti. Ma voleva saperne di più di questi oggetti misteriosi. Gli Elementi di Euclide, tradotti in latino, gliene fornirono l'opportunità.

    Euclide aveva scritto gli Elementi in tredici volumi e vi aveva riportato gli importanti risultati di Pitagora, compreso il suo famoso teorema sui triangoli rettangoli, ricerche sui numeri primi e teoremi di geometria piana, oltre alle proprietà dei triangoli e dei cerchi. Ma nel tredicesimo volume, Euclide aveva dedicato una parte importante del testo ai poliedri regolari, chiamati anche solidi platonici, in omaggio a Plafone che li conosceva.

    Questi solidi sono detti poliedri regolari perché hanno facce poligonali identiche piane e angoli uguali. Platone sapeva che ci sono soltanto cinque poliedri di questo tipo. Questa circostanza indusse gli antichi greci ad attribuire loro poteri soprannaturali. I poliedri regolari si presentano in natura. Molti cristalli naturali sono poliedri regolari perfetti (o quasi perfetti). Euclide nel tredicesimo volume degli Elementi dimostrò numerosi teoremi sui poliedri regolari inscritti nelle sfere. Per esempio, un cubo può essere inserito esattamente in una sfera, in modo che i suoi otto vertici ne tocchino la superficie interna. Lo stesso si può fare con gli altri poliedri regolari. Questo fatto si rivelò molto importante per le ricerche di Keplero verso la fine del XVI secolo.

    Platone identificava i cinque poliedri regolari con i quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco, cui ne andava aggiunto un quinto: l'universo nel suo insieme. Questa concezione esprime l'aura magica che gli antichi matematici e filosofi greci ascrivevano ai concerti e alle entità della matematica e la convinzione che Dio e l'universo fossero matematici.

    Cartesio aveva studiato i teoremi euclidei sui poliedri regolari. Ma si sforzava di andare molto oltre Euclide e gli antichi greci. L'uomo che aveva sposato la geometria con l'algebra era alla ricerca di una formula che unificasse tutti i solidi platonici, consentendogli così di estrarne una verità divina relativa alla matematica, e forse alla natura. Una simile conquista matematica suprema avrebbe potuto rendere più efficace e cementare la sua filosofia. Quando voltò la pagina, Leibniz trovò i rimanenti solidi platonici: il taccuino segreto di Cartesio li conteneva tutti e cinque. L'obiettivo dell'autore, dunque, non era il numero 666. Ma allora che cosa cercava Cartesio nei solidi platonici? Sappiamo che Leibniz copiò il manoscritto in gran fretta. Per una pagina e mezzo di copiatura, non colse il senso generale. Poi d'improvviso comprese tutto: aveva trovato la chiave.

    Quasi ottant'anni dopo, nel 1966, un nuovo tentativo di decifrare il taccuino fu compiuto da un gruppo di ricerca che lo analizzò tenendo presente l'informazione tratta da una raccolta delle opere di Cartesio compilata da Charles Adam e Paul Tannery nel 1912. Ma ancora una volta il taccuino rifiutò di restituire i suoi segreti. Il vero significato degli strani simboli, delle sequenze di numeri e dei singolari disegni rimase un enigma.

    Nel 1987 Pierre Costabel pubblicò la sua analisi definitiva della copia di Leibniz del taccuino di Cartesio. Questa volta il taccuino svelò i suoi segreti. Costabel aveva studiato attentamente le annotazioni che Leibniz aveva riportato a margine della sua copia del taccuino, e aveva compreso che il filosofo tedesco aveva scoperto la chiave segreta di Cartesio, la quale a sua volta rivelava il vero significato dei suoi scritti. La chiave del mistero era la rego- la adottata da Cartesio per trattare le sequenze di numeri presenti nel suo taccuino. Questa regola era lo gnomone, un antico termine greco che in origine indicava un'asta usata per proiettare un'ombra sul terreno, la cui lunghezza e direzione era usata per stimare l'ora del giorno. Ma nella matematica greca il termine «gnomone» era venuto a indicare una regola che specificava come si dovevano disporre determinate sequenze di numeri.

    Cartesio aveva analizzato i misteriosi solidi di Platone e tra questi oggetti geometrici tridimensionali aveva scoperto la regola che governa la loro struttura. Era il Santo Graal della matematica greca, qualcosa che i greci avevano agognato di possedere. Ma Cartesio non aveva rivelato a nessuno la sua scoperta. Certe conoscenze dovevano essere mantenute segrete. Ma perché tenere così segreto un risultato di geometria?

    Giovanni Keplero sapeva che la Terra ruota sul proprio asse e orbita intorno al Sole. Tutte le sue ricerche astronomi-che erano orientate nel senso della concezione copernicana dell'universo, la teoria che anche Cartesio aveva abbracciato, sebbene non in modo pubblico. Keplero, che qualche anno più tardi avrebbe dedotto le leggi del moto planetario - ancora oggi utilizzate in astronomia così come nei voli spaziali -, voleva scoprire la causa della regolarità che osservava nelle orbite dei pianeti del sistema solare. In questo tentativo, nel 1595, quando ancora insegnava in una scuola superiore, ipotizzò che vi fosse una connessione tra la scoperta greca dell'esistenza dei cinque poliedri regolari e le orbite regolari dei sei pianeti noti a quell'epoca (Urano, Nettuno e Plutone dovevano ancora essere scoperti).

    Avendo studiato i notevoli teoremi compresi nel tredicesimo libro degli Elementi di Euclide, Keplero sapeva che ciascuno dei cinque poliedri regolari poteva essere inscritto perfettamente in una sfera. Motivato dalla sua ricerca dell'armonia nella struttura del sistema solare, ipotizzò l'esistenza di poliedri regolari celesti, le cui sfere erano inserite l'una nell'altra. Ciascun poliedro regolare era inscritto in una sfera più grande che conteneva tutti i precedenti poliedri e le sfere a essi circoscritte. I cinque solidi platonici risultavano inframmezzati a una sequenza di sfere inserite l'una nell'altra.

    Keplero credeva che le orbite della Terra e degli altri cinque pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno) potessero essere concepite come cerchi sulle superfici di queste sfere concentriche, e sapeva dalla geometria greca che i cinque poliedri regolari potevano essere inscritti esattamente in ciascuna di queste sfere. L'astronomo tedesco pubblicò questo modello del sistema solare nel suo libro Mysterium cosmographicum del 1596, e lo considerò uno dei suoi massimi successi, nonché una conferma divina, a mezzo della geometria pura, della teoria copernicana. Ognuna delle sfere conteneva sulla sua superficie l'orbita di un singolo pianeta e racchiudeva al proprio interno un solido regolare. L'ordine dei pianeti e dei solidi era il seguente: Mercurio, l'ottaedro, Venere, l'icosaedro, la Terra, il dodecaedro, Marte, il tetraedro, Giove, il cubo, Saturno.

    La figura tratta dal Mysterium cosmographicum, mostra il modello cosmologico di Keplero con i cinque solidi platonici inseriti nelle sfere dei pianeti e il Sole al centro.

    Alla ricerca di una formula cosmica che governasse i solidi platonici usati da Keplero per spiegare l'universo e dare sostegno alla teoria copernicana, Cartesio cominciò a studiare le proprietà matematiche di questi antichi oggetti geometrici tridimensionali dotati di significato magico. La sua ricerca puramente matematica avrebbe potuto così fornire sostegno teorico alla proibita teoria copernicana dell'universo. Uno dei primi punti trattati nel taccuino segreto di Cartesio era un teorema sulla disposizione dei poliedri regolari all'interno delle sfere, cioè su una proprietà nota agli antichi greci. Ma Cartesio si spingeva molto oltre.

    Il filosofo cercava una verità trascendente che descrivesse tutti i poliedri regolari. Più tardi avrebbe scoperto che la formula cui aspirava descriveva non soltanto i cinque poliedri regolari ma qualunque poliedro, regolare o no. Cartesio si proponeva di individuare le proprietà numeriche di questi solidi. Avrebbe poi applicato la sua teoria universale della geometria analitica per ricavarne un legame tra le proprietà algebriche e la struttura geometrica di questi solidi. Ma si rendeva conto che la connessione diretta tra i poliedri regolari della geometria greca antica e il modello di Keplero dell'universo avrebbe potuto far considerare la sua ricerca un argomento a favore della teoria copernicana proibita. Doveva quindi nascondere il suo lavoro per timore dell'Inquisizione.

    Leibniz osservò le misteriose sequenze di numeri: 4 6 8 12 20 e 4 8 6 20 12

    Qual era il significato di queste sequenze? Leibniz lo individuò.

    Cartesio aveva cominciato a contare il numero delle facce dei cinque poliedri regolari, e aveva ottenuto la seguente successione di numeri: 4 (tetraedro), 6 (cubo), 8 (ottaedro), 12 (dodecaedro), 20 (icosaedro)

    Poi, per ciascuno dei cinque poliedri, aveva contato il numero dei vertici. Ciò gli aveva fornito, nell'ordine:

    4 (tetraedro), 8 (cubo), 6 (ottaedro), 20 (dodecaedro), 12 (icosaedro)

    Un semplice sguardo alle figure dei poliedri regolari consente di verificare questi numeri. E in effetti Leibniz comprese che le figure indistinte sull'altra facciata della pagina che stava guardando rappresentavano i cinque poliedri regolari.

    Si trattava ora di scoprire come utilizzare le due sequenze. La regola era celata nel modo in cui Cartesio trasformava e mascherava altre sequenze di numeri nel suo testo. Leibniz scoprì lo gnomone e lo annotò sul margine della copia che stava facendo. La regola gli suggerì di disporre le due sequenze di numeri in una tabella, con la seconda sequenza sotto la prima:

    4 6 8 12 20

    4 8 6 20 12

    Ma ecco dove entrava in scena la grande scoperta di Cartesio. Il matematico francese era passato a contare gli spigoli di ciascuno dei cinque poliedri regolari. Aggiungendo questi numeri come terza riga della tabella, si ottiene:

    Tetraedro Cubo Ottaedro Dodecaedro Icosaedro
    Facce 4 6 8 12 20
    Vertici 4 8 6 20 12
    Spigoli 6 12 12 30 30

    Una volta composta questa tabella, Cartesio aveva fatto la sua scoperta. Aveva notato qualcosa di molto interessante in questi numeri: qualcosa che aveva a che fare con la somma delle prime due righe a confronto con la terza. (Avete visto di che cosa si tratta?) Quello di cui Cartesio si era accorto è che, per ognuno dei poliedri regolari, la somma del numero delle facce e di quello dei vertici diminuita del numero degli spigoli è pari a due. Ovvero, in una formula:

    F+V-S=2

    Poi Cartesio aveva scoperto che questa formula valeva per qualunque poliedro, regolare o no. Verifichiamola per una piramide a base quadrata (che non è uno dei cinque poliedri regolari, dal momento che ha una faccia quadrata e quattro triangolari).

    La formula di Cartesio non gli fu mai attribuita. La sua analisi dei corpi tridimensionali avrebbe dato grande impulso alla geometria, se l'avesse pubblicata. Ma poiché temeva l'Inquisizione, questa importante scoperta rimase segreta.

    La formula di Cartesio F + V - S = 2 rappresenta il primo invariante topologico che sia stato scoperto. Il fatto che il numero delle facce più il numero dei vertici, meno il numero degli spigoli, sia uguale a 2 è una proprietà dello spazio stesso. Nel dedurre questa formula, Cartesio aveva quindi inaugurato la topologia, che è oggi uno dei più rilevanti settori di ricerca della matematica e ha significative applicazioni in fisica e in altri campi. Ma siccome Cartesio mantenne segreta la sua scoperta, gli viene riconosciuto il merito di avere fondato la geometria analitica, coniugando l'algebra con la geometria, di avere inventato le coordinate cartesiane e di avere compiuto altri importanti progressi in matematica, ma non quello di aver fondato la topologia, lo studio delle proprietà dello spazio. Ad altri sarebbero toccati i riconoscimenti per la fondazione di questa disciplina.

    Leonhard Euler (detto Eulero, 1707-1783), nato a Basilea, fu uno dei massimi matematici nel suo secolo. Eulero diede molti contributi alla matematica moderna nelle aree più disparate di questa scienza. Qualche tempo dopo essersi trasferito in Russia per lavorare all'Accademia di San Pietroburgo, scoprì la formula magica che governa la struttura di tutti i solidi tridimensionali: F + V - S = 2, nota come formula di Eulero, anche se, come oggi sappiamo, avrebbe potuto senz'altro essere la formula di Cartesio.

    Cartesio non perse soltanto la priorità in una grande scoperta matematica che segnò la fondazione di un'intera area di studio. Nonostante la cura meticolosa con cui per tutta la vita evitò qualsiasi controversia con la Chiesa, tredici anni dopo la sua morte, nel 1663, i suoi scritti furono posti nell'Index Librorum prohibitorum. E nel 1685 Luigi XIV bandì l'insegnamento della filosofia cartesiana in Francia.3 All'epoca di Eulero, nel Settecento, la filosofia di Cartesio quasi scomparve. Nel 1724 i Libraires Associés pubblicarono l'ultima delle edizioni antiche delle opere di Cartesio. Per un secolo in Francia non se ne pubblicò nessuna nuova edizione, e il filosofo fu quasi completamente dimenticato, mentre nuove idee si affacciavano e la filosofia conosceva ulteriori sviluppi. Soltanto nel 1824, esattamente un secolo più tardi, le sue opere furono ristampate, e fu di nuovo riconosciuto come grande filosofo, scienziato e matematico. E l'analisi definitiva di Pierre Costabel, nel 1987, del suo taccuino segreto, ha finalmente restituito a Cartesio il merito di aver fondato lo studio della topologia.

    (Tratto da "Il taccuino segreto di Cartesio - Amir D. Aczel - 2005 Mondadori)