Storia della fisica

Il principio antropico

La centralita' dell'osservatore

Il ruolo dell'osservatore

Il Principio Antropico

Conclusioni

 
 

Il principio antropico

Il Principio Antropico e l'emergere della centralità dell'osservatore in alcuni recenti sviluppi delle scienze fisiche.

Il Principio Antropico costituisce una nuova formulazione del rapporto tra l’essere umano e l’universo così come questo è inteso nella visione scientifica. Esso è stato introdotto in anni molto recenti, parliamo degli anni settanta, nell’ambito della Cosmologia per opera di un variegato gruppo di scienziati appartenenti a diverse nazionalità e scuole.

Il significato, la validità e le capacità euristiche del Principio Antropico hanno immediatamente causato accesi dibattiti tra gli specialisti. Ma la discussione ha ben presto superato la ristretta cerchia degli addetti ai lavori e ha ormai coinvolto altre categorie di intellettuali, quali i filosofi e i politici, mentre i suoi echi stanno raggiungendo il pubblico colto.

Tanto interesse e tante controversie si debbono probabilmente al fatto che sono state colte le implicazioni di questo principio in campi anche molto lontani dalla Cosmologia. Il principio, per lo meno in alcune delle sue formulazioni cosiddette "forti", costituisce infatti il superamento o addirittura il rovesciamento della visione tradizionale del rapporto tra essere umano e cosmo che la scienza ha elaborato negli ultimi secoli, visione che è entrata a far parte del sistema di credenze fondamentali dell’Occidente. Avendo la scienza raggiunto, in quest’area culturale, la funzione di "fabbrica della verità" che prima, e con altre modalità, era detenuta dalla religione, non sorprende che un cambiamento dei principi fondamentali che reggono la sua visione del mondo e la sua Cosmologia, abbia serie ripercussioni in altri ambiti del sapere.

Nella Cosmologia scientifica tradizionale, di impronta positivista, l’essere umano, inteso come un essere puramente naturale, come un fenomeno zoologico, rappresenta una sorta di prodotto secondario ed innecessario dell’evoluzione della materia. La coscienza, in questa visione, è considerata come il risultato di un’organizzazione materiale complessa, come il prodotto di particolari arrangiamenti molecolari, che si sono andati costituendo, nel corso di milioni di anni, per mutazioni casuali e per la selezione operata dall’ambiente. Il processo evolutivo della materia, dal Big-Bang all’essere umano, è inteso come un processo puramente casuale, che non implica alcuna finalità, essendo retto dal caso e dalla necessità ferrea delle leggi fisiche. In questo contesto, il Secondo Principio della Termodinamica, che costituisce tuttora uno degli assi portanti della visione scientifica, individua una direzione irreversibile nell’evoluzione dell’universo, quando questo venga inteso come un sistema termodinamicamente chiuso: tale evoluzione porterà necessariamente, anche se in un periodo indefinito di tempo, alla cosiddetta "morte entropica" cioè all’azzeramento di ogni ordine, di ogni struttura organizzata, ad una situazione indifferenziata in cui tutte le particelle costitutive della materia si troveranno nella stessa condizione energetica.

Il Principio Antropico, in alcune formulazioni "forti", al contrario, sembra implicare che la coscienza non sia il risultato casuale di un’evoluzione della materia, ma il punto di arrivo di una storia cosmica che tendeva proprio verso questo fine. L’universo, cioè, si è andato costituendo nel modo in cui attualmente lo conosciamo proprio perché ciò ha permesso il sorgere della coscienza. Anzi, per alcuni, l'universo si riduce ad essere nient'altro che una sorta di rudere, di residuo, a testimonianza di un processo evolutivo che oggi trova la sua massima espressione proprio nell'essere umano (o in qualsiasi altra forma di vita cosciente ed intenzionale che eventualmente esista nell'universo).

Per il suo carattere di novità e per certe sue formulazioni estreme, il Principio Antropico tende a produrre grande irritazione tra gli scienziati ancorati alla tradizione positivista che vedono in esso una sorta di salto all’indietro, improvviso e imprevedibile, nello sviluppo lineare e ben ordinato della scienza. A ben vedere, però, il Principio Antropico costituisce, nel campo della Cosmologia, uno dei punti di arrivo della crisi del paradigma della fisica classica, e della formulazione della meccanica quantistica negli anni trenta di questo secolo.

Come è noto, con l’apparizione della meccanica quantistica si assiste ad una radicale trasformazione del significato delle leggi fisiche, che da deterministiche, come erano nella fisica classica, diventano probabilistiche, mentre - ed è questo l’aspetto che qui interessa maggiormente - l’osservatore, cioè la coscienza umana, acquista una funzione attiva rispetto al fenomeno, anzi determinante per l’esistenza stessa di esso. Al contrario, nella fisica classica, l’osservatore si riduce ad una sorta di figura impersonale, ad un concentrato di "attenzione pura", che ha la sola funzione di rilevare, senza interferenze, il fenomeno in esame.

Detto in un altro modo, con la formulazione della meccanica quantistica (o per lo meno con l’interpretazione che ne è stata data dalla Scuola di Copenhagen), si scontrano, all’interno della scienza, due visioni del rapporto tra coscienza umana e mondo naturale e della funzione della coscienza nella pratica scientifica. Da un alto, la coscienza è riconducibile ad un fenomeno naturale, seppur complesso, che nella pratica scientifica ha la funzione di riflettere passivamente gli altri fenomeni naturali, le cui leggi sono date a priori, esistono da sempre, sono, per così dire iscritte nell’universo. Nell’ottica della meccanica quantistica, invece, la coscienza costituisce attivamente le leggi fisiche, che vanno intese pertanto come il risultato di un legame inscindibile, di una interazione tra coscienza e mondo.

Il Principio Antropico postulando, già nella sua forma "debole", un legame indissolubile tra il cosmo e la coscienza che lo osserva, traslada questo aspetto centrale della meccanica quantistica al campo della Cosmologia. Ma nelle sue forme "forti", ammettendo che l’apparizione della coscienza umana costituisca una sorta di culminazione nell’evoluzione dell’universo, supera questo rapporto ed introduce nella visione scientifica dei caratteri che in senso lato potremmo definire "umanistici".

Per comprendere meglio tutto questo, è necessario, pur senza entrare nei dettagli, tracciare una breve storia di come si è andata modificando la visione scientifica e la funzione dell’osservatore all’interno di essa, con l’avanzare delle frontiere della fisica nel mondo atomico e subatomico. Al termine di questo rapido excursus, analizzeremo con maggiore profondità le diverse formulazioni del Principio Antropico. Faremo sempre uso di un linguaggio non tecnico, che per primi riconosciamo come non completamente adeguato, ma che risulta l’unico possibile in un’esposizione divulgativa.

Il ruolo determinante dell’osservatore nella meccanica quantistica

Alla fine dell'800, quando l'entusiasmo positivista era ai massimi livelli, le basi teorico-sperimentali a cui veniva ricondotta ogni conoscenza del mondo, erano costituite dalla meccanica di Newton e dalle equazioni di Maxwell del campo elettromagnetico. Eppure, si riteneva di essere sul punto di poter dare risposta ad ogni quesito, di essere quasi arrivati alla conoscenza dei fondamenti! Ma una tale ambizione venne ben presto ridimensionata e dagli inizi del 900 in poi si è assistito ad un accavallarsi di piccole e grandi rivoluzioni.

La teoria della relatività ristretta di Einstein (1905) portò a ridefinire completamente i concetti di spazio e di tempo. E’ proprio in questa teoria, e precisamente nella discussione sull’idea di contemporaneità, che si assiste alla ricomparsa dell’osservatore, inteso come uno dei temi ineludibili della riflessione su dei concetti fisici fondamentali, quali lo spazio ed il tempo. Einstein osserva che due eventi possono dirsi contemporanei non in senso assoluto, come se si dessero in una sorta di tempo oggettivo che ne marca l’accadere, ma solo relativamente ad un osservatore collocato in una determinato sistema di riferimento spaziale. Gli stessi eventi risulterebbero non contemporanei per un altro osservatore collocato in un altro sistema di riferimento.

Ma è soprattutto con la meccanica quantistica che viene meno l'idea di un osservatore indipendente dal fenomeno osservato. La meccanica quantistica è la teoria che descrive il comportamento dei sistemi fisici a partire dal mondo atomico e subatomico. Essa funziona bene, è ben verificata, ed è ormai entrata nelle nostre case con i transistors, i circuiti integrati, i laser. Tuttavia, i suoi fondamenti sono estremamente lontani, non solo dal senso comune, ma anche dalla tradizione del pensiero scientifico; anzi, alcuni di essi presentano delle implicazioni che sollevano tuttora molte perplessità e necessitano di essere ulteriormente chiariti.

Per quanto ne sappiamo oggi, i fenomeni naturali sono governati da quattro interazioni (forze) fondamentali: quella gravitazionale descritta dalle equazioni della Teoria della relatività generale di Einstein, quella elettromagnetica che descrive ad esempio tutte le reazioni e i legami chimici, quella nucleare forte responsabile delle forze a breve raggio che legano i componenti dei nuclei atomici, quella nucleare debole di origine subatomica e responsabile, ad esempio, del decadimento del neutrone libero. Le ultime tre interazioni seguono le leggi della meccanica quantistica.

In meccanica quantistica, i concetti tradizionali di posizione, velocità, traiettoria, tempo ed energia perdono il loro significato ordinario e si trasformano completamente acquistando una valenza probabilistica; l'insieme di tali concetti definisce lo stato fisico di un qualsiasi sistema (un protone, un atomo, un albero, un gatto, una stella, l'intero universo, ecc.). Il sistema fisico nella sua globalità è rappresentato da una funzione matematica, chiamata funzione d'onda, che descrive tutti i possibili stati in cui il sistema si trova potenzialmente fintanto che un osservatore non esegua una misura. In quel momento avviene quella che in gergo si chiama la "riduzione del pacchetto di onde": il sistema assume un solo stato tra i possibili, quello che l'osservatore rileva. Riprendendo un'analogia suggerita da Einstein è un po' come tirare una coppia di dadi. Prima di lanciarli c'è una probabilità su 36 di ottenere il numero due, una probabilità su 6 di ottenere il numero sette, e così via per i numeri dal due al dodici. Quando avrò lanciato i dadi, tra tutti i valori potenzialmente possibili, ne avrò uno soltanto, quello che rilevo. All'osservatore non rimane che misurare la probabilità di ottenere un certo risultato e la meccanica quantistica fornisce le equazioni per calcolare teoricamente tali probabilità; ma soltanto al momento dell'osservazione il sistema si troverà in uno stato determinato. Si tratta quindi di una concezione indeterministica, probabilistica, nella quale l'osservatore gioca un ruolo decisivo al momento di eseguire la misura. "Non c'è fenomeno se non c'è osservatore", diceva uno dei padri della meccanica quantistica, il fisico danese N. Bohr, e ancora oggi uno dei più rinomati fisici contemporanei, J. A. Wheeler, ha affermato che la lezione più profonda della meccanica quantistica è che la realtà risulta definita proprio dalle domande che le poniamo.

Sin dalla sua proposizione, la meccanica quantistica ha determinato un continuo e profondo dibattito; ciò nonostante, la maggioranza dei fisici ha preferito sviluppare un atteggiamento nel quale si sorvola sui problemi concettuali, ed ha finito per usare la meccanica quantistica semplicemente come un più che soddisfacente strumento per eseguire delle previsioni teoriche, come una specie di "scatola magica". E questo nonostante sia andata emergendo una serie di apparenti paradossi, tra i quali, degno di essere menzionato è il celebre Paradosso di Einstein, Rosen, Podonsky.

Immaginiamo un qualsiasi processo fisico nel quale vengano generate due particelle identiche che si allontanano l'una rispetto all'altra alla stessa velocità ma in direzioni opposte. E' stato osservato sperimentalmente che quando una delle due arriva ad un rivelatore di particelle, non solo si ha la "riduzione" della sua funzione d'onda, ma "istantaneamente" anche l'altra particella subisce analoga sorte nonostante si possa trovare ad anni luce di distanza. In altri termini, finché non viene condotta l'osservazione, un'unica funzione d'onda descrive il sistema costituito dalle due particelle. Quando una delle due viene osservata, si ha la "riduzione" dell'intera funzione d'onda con il risultato che anche l'altra particella, per quanto distante, verrà a trovarsi, "istantaneamente", in uno stato ben determinato e complementare alla prima particella. La domanda che immediatamente sorge è allora: che cosa permette alle due particelle di mantenere, indipendentemente dallo spazio percorso, un ricordo della comune origine? Nell'universo che ci circonda c'è un continuo aggregarsi e disgregarsi di materia: dobbiamo forse presumere che ogni cosa nell'universo sia in qualche modo connessa con tutto il resto? E che cosa ha di tanto speciale l'osservazione cosciente di un essere umano per influire su un tale legame che opera su scala cosmica?

"Non lo sappiamo, e non ci interessa saperlo perché, in ogni caso, la meccanica quantistica consente di calcolare esattamente lo stato di un qualsiasi sistema fisico".

Questa è la sconcertante, e per noi insoddisfacente, risposta che viene fornita da molti fisici. Quello che ci sembra evidente, in ogni caso, è che non si possa fare a meno di sottolineare il ruolo fondamentale dell'osservatore nella meccanica quantistica e che ogni tentativo di elaborare una teoria sub-quantistica difficilmente possa evitare di includere, in maniera esplicita, l'atto intenzionale dell'osservazione.

Il Principio Antropico

Negli anni 30 il famoso fisico P. Dirac scoprì che esisteva un singolare legame matematico, una "strana coincidenza" tra grandezze fisiche molto diverse tra loro. Egli notò che la radice quadrata del numero stimato di particelle presenti nell’universo osservabile è uguale al rapporto tra la forza elettromagnetica e quella gravitazionale tra due protoni. Questa relazione è sorprendente perché si dà tra due quantità molto diverse tra loro; mentre il rapporto tra forza elettromagnetica e gravitazionale è una costante universale che non muta nel tempo, al contrario, il numero di particelle nell’universo osservabile varia in funzione dell’evoluzione dell’universo stesso, del momento in cui si esegue l’osservazione. La conseguenza più immediata che Dirac trasse era che il rapporto tra forza elettromagnetica e gravitazionale non fosse affatto una costante, ma che avesse dovuto cambiare su tempi cosmologici e che pertanto alcune leggi fondamentali della fisica dovevano essere riviste.

Alla fine degli anni 50 R. H. Dicke mostrò che le conclusioni alle quali era giunto Dirac non erano corrette. La sorprendente coincidenza rilevata da Dirac non era vera in assoluto ma si verificava solo in una precisa fase dell’evoluzione delle stelle e della storia dell’universo e che questa fase corrisponde ad una ben precisa abbondanza di alcuni elementi atomici, tra cui soprattutto il carbonio, che rappresentano i costituenti fondamentali degli organismi viventi. Dirac, come qualunque altro fisico, non poteva che constatare questa apparente coincidenza in quanto essa è indissolubilmente associata ai processi evolutivi che avevano portato all’apparizione di forme viventi basati sulla chimica del carbonio.

Quella di Dicke era la prima enunciazione del Principio Antropico debole, anche se con tale denominazione esso è noto a partire dalla definizione fornita nel 1986 da J. D. Barrow e F. J. Tipler

I valori osservati di tutte le grandezze fisiche e cosmologiche non sono ugualmente probabili; tali grandezze, invece, assumono valori specifici per soddisfare al requisito che esistano luoghi dove possa svilupparsi la vita basata sul carbonio e al requisito che l’universo sia abbastanza vecchio perché questo sia già accaduto.

Non si tratta, in questa formulazione, di un principio conoscitivo ma semplicemente di un principio metodologico, che ci può essere utile per evitare erronee interpretazioni e generalizzazioni delle nostre osservazioni, e quindi per definire chiaramente la portata ed il contesto delle stesse. Esso ci dice che qualsiasi teoria cosmologica non potrà ignorare il processo che l'universo ha compiuto fino ad arrivare a noi; noi siamo parte di questo processo e il nostro stesso modo di vedere le cose è condizionato da quanto è avvenuto in tempi cosmologici. Noi osserviamo l'universo da una ben delimitata finestra temporale nella storia dell’universo stesso, e questa finestra semplicemente non poteva esistere prima che si fossero realizzate le condizioni per la nostra esistenza.

Diciamolo in un altro modo, utilizzando un altro punto di vista: nell’indagine del mondo fisico e del cosmo, l’uomo ha potenziato la propria capacità percettiva esplorando, per esempio, altre lunghezze d'onda oltre quelle corrispondenti alla luce visibile; ha cominciato a svolgere osservazioni nell'infrarosso, nell'ultravioletto, dai raggi X alle radioonde, ha inviato telescopi in orbita oltre i limiti dell'atmosfera. Ha cercato cioè di ottenere delle risposte che non fossero dipendenti dalle percezioni parziali dell'uomo stesso. Ma in questo tentativo di eliminare ogni influenza dell'osservatore è arrivato ad un limite, individuato dal Principio Antropico debole, limite che risiede nel fatto che la vita dell'uomo si fonda sulla chimica del carbonio. Il carbonio, così come l'ossigeno ed il fosforo, ugualmente fondamentali per la vita, sono atomi relativamente pesanti per la cui formazione sono stati necessari processi che si sono svolti su scala cosmologica.

Secondo le teorie attualmente più accettate, l'universo ha avuto origine circa 17 miliardi di anni fa dal così detto Big Bang, l'esplosione primordiale, una singolarità, una fluttuazione quantistica dello spazio-tempo, come viene chiamata, avvenuta quando tutta la materia era concentrata in un punto. Le temperature e le densità erano altissime. Inizialmente si formarono solo atomi di idrogeno ed elio. Gli effetti dell'esplosione, secondo questa teoria, sono visibili ancora oggi e l'universo sta continuando ad espandersi; nel frattempo, a mano a mano che la temperatura diminuiva, la materia si addensava, si formarono nubi di gas sempre più dense sotto l'azione crescente della forza di gravità fino a raggiungere densità tali da innescare la fusione dei nuclei atomici. Si formarono così le prime stelle, attraverso un sorprendente equilibrio tra forza di gravità, implodente, ed energia prodotta dalla fusione nucleare, esplosiva. Oltre all'energia, la fusione portò alla costituzione di tutti gli altri nuclei atomici più pesanti tra cui anche quelli di carbonio. Il ciclo di queste stelle delle prime generazioni ebbe termine quando tutto il combustibile nucleare fu consumato e la forza di gravità ebbe la meglio facendo collassare la stella e provocandone l'esplosione finale. Con l'esplosione tutti gli atomi che erano stati prodotti in queste fucine stellari furono dispersi nello spazio ed ebbe inizio un nuovo ciclo, con altre stelle, tra cui il nostro sole, ed intorno alle stelle pianeti, e tra questi la nostra Terra.

La nascita e l'evoluzione dell'universo secondo la teoria standard del Big-Bang alla quale si è sommariamente accennato, possono essere più rigorosamente descritte facendo ricorso alle equazioni fondamentali della fisica. Tentativi di formulare teorie quantistiche anche dell'interazione gravitazionale sono ancora in corso; una delle loro principali applicazioni potrebbe essere proprio quella di spiegare i primi istanti del Big-Bang.

Le quattro forze fondamentali che governano la natura (a cui accennavamo in precedenza) dipendono da alcune costanti fondamentali e precisamente: la velocità della luce, la costante di gravitazione universale, la costante di Planck, la costante di Hubble, la carica elettrica dell'elettrone, la massa dell'elettrone, ecc. Il valore numerico di tutte queste costanti è determinato empiricamente, cioè è il risultato di misure sperimentali; quindi non è derivato da teorie formali, da leggi universali, come il numero p, il rapporto tra la circonferenza e il diametro di un cerchio, che è una quantità astratta definita in termini puramente matematici.

Sino ad oggi non esiste una teoria soddisfacente dalla quale derivare i valori delle costanti fondamentali. Il Principio Antropico debole ci fornisce, però, delle indicazioni che vincolano i valori che tali costanti possono assumere, nel senso che questi debbono essere compatibili con la nostra esistenza, con la vita basata sul carbonio.

A questo punto possiamo chiederci che cosa accadrebbe, o sarebbe accaduto, se le costanti fondamentali avessero dei valori differenti da quelli che conosciamo. Se si assegnano a tali costanti valori anche lievemente diversi rispetto a quelli misurati si può prevedere che tipo di universo ne deriverebbe. Ma i risultati di questi calcoli mostrano come l'evoluzione dell'universo verrebbe completamente alterata, e in pratica non si realizzerebbero più le condizioni che hanno portato alla vita sulla Terra. Una minore densità di materia, per esempio, non avrebbe permesso la formazione delle stelle; una maggiore densità, viceversa, avrebbe portato alla formazione massiva di buchi neri e non di stelle. E se anche le stelle si fossero formate, una diversa intensità delle forze gravitazionali o nucleari avrebbe alterato in modo catastrofico, sino ad impedirlo, quel delicato equilibrio tra gravità e forza nucleare che consente alla stella di sopravvivere a lungo per produrre quella materia di cui noi siamo fatti o per fornire energia ad un pianeta come la Terra affinché su di esso si sviluppi la vita.

Rimanendo solo in ambito cosmologico, la lista delle proprietà antropiche senza le quali la vita non sarebbe potuta esistere, è lunga ed impressionante. Vediamo ancora qualche esempio.

Consideriamo i protoni, gli elettroni e i neutroni. Se la massa totale del protone e dell'elettrone diventasse improvvisamente appena un po' maggiore della massa del neutrone, l'effetto sarebbe devastante: l'atomo di idrogeno diventerebbe instabile, tutti gli atomi di idrogeno si dissocerebbero immediatamente sotto forma di neutroni e neutrini; privo di carburante nucleare, il sole collasserebbe; analoga sorte seguirebbero tutte le altre stelle.

Un altro esempio è quello che riguarda gli atomi di ossigeno e di carbonio. Essi sono presenti quasi in uguale misura nella materia vivente, proprio come lo sono, su vasta scala, nell'universo. E mentre è possibile immaginare la vita in un universo con un moderato squilibrio fra ossigeno e carbonio, uno squilibrio veramente grande ne impedirebbe l'esistenza. Rocce e terreni con un grande eccesso di ossigeno semplicemente brucerebbero qualsiasi sostanza biochimica fatta di carbonio che si trovasse accanto a loro.

Nel 1974 B. Carter ha sostenuto che dietro a questa notevole serie di coincidenze antropiche doveva esserci un qualche principio, ed introdusse il Principio Antropico forte che, secondo Barrow e Tipler , è definito nel seguente modo:

L’universo deve possedere quelle proprietà che permettono alla vita di svilupparsi in qualche stadio della sua storia.

Mentre il Principio Antropico debole fornisce una regola di selezione per le nostre osservazioni (il nostro modo di percepire l’universo dipende anche dal fatto che la nostra vita è basata sul carbonio e che quest’ultimo si deve essere formato nell’universo), il Principio Antropico forte afferma, in più, che le leggi fondamentali e l’universo stesso debbano essere proprio così come sono perché si sviluppi la vita. Tra tanti universi possibili viviamo proprio in quello che ci consente di esserci. E se non fosse stato così non saremmo qui a raccontarlo; non si tratta di una tautologia ma della testimonianza di un evento che, a livello teorico, è estremamente improbabile: è stato stimato che la probabilità che l'universo abbia l'attuale configurazione, considerando soltanto le possibili condizioni iniziali, al momento del Big-Bang, è di una 1 su 10 exp (10) exp (123). Questo è un numero talmente grande che avremmo problemi anche a scriverlo: 1 seguito da un numero incredibile di zeri. Se associassimo uno zero a ciascun protone dell'universo e a ciascun elettrone e a qualsiasi altra particella, queste sarebbero ancora largamente insufficienti; insufficienti anche semplicemente per scrivere un tale numero.

Di fronte a tali cifre c'è chi dà a questo fatto un significato non casuale e vede nel Principio Antropico forte l’espressione di un disegno, di una teleologia (cioè di un finalismo) nella storia dell’universo: tutta l’evoluzione cosmica sarebbe diretta, fin dal suo inizio, proprio verso l’apparizione della vita e della coscienza.

Andando ancora oltre, alcuni hanno visto nel Principio Antropico forte una conferma "scientifica" di idee e credenze religiose tradizionali. Si è arrivati al punto di utilizzare tale principio in trattati di teologia per giustificare antiche cosmologie in una miscela di religione e scienza, nella quale quest’ultima risulta subordinata alla prima; implicitamente (ed in alcuni casi esplicitamente) si sostiene che i modelli elaborati in fisica, soprattutto se riguardano la genesi dell’universo, devono essere compatibili con gli schemi teologici.

Questa linea interpretativa non è però l’unica; estendendo i principi della meccanica quantistica a livello cosmologico, J.A. Wheeler formulò una versione del Principio Antropico detta "partecipatoria" secondo la quale l’universo stesso non esiste indipendentemente dall’osservatore. In altri termini: non esistono leggi della fisica senza osservatore. Questa affermazione deriva evidentemente dall’interpretazione della meccanica quantistica secondo la Scuola di Copenhagen. Wheeler era assolutamente convinto che qualsiasi teoria fisica futura non avrebbe potuto fare a meno di includere il ruolo attivo dell’osservatore, anzi, secondo le sue parole, il fisico non è semplicemente un osservatore ma è un "partecipante" che nella sua esplorazione dell’universo pone in essere ciò che osserva.

C’è anche da dire che il Principio Antropico è da molti criticato in quanto - si afferma - finisce con il dare troppa importanza all'essere umano. Ma tali critici non sembrano rendersi conto che altrimenti si arriva a dare un ingiustificato privilegio al caso - ed è proprio quanto essi alla fine fanno.

In ogni modo, non si può non tenere presente che anche il caso segue delle regole ben precise, come la stessa riflessione sulla meccanica quantistica ha mostrato. E allora viene da chiedersi perché il caso debba procedere secondo certe leggi e non secondo altre. Se si ricorre al caso per evitare le implicazioni del Principio Antropico forte non si fa altro che trasferire i medesimi interrogativi nell'ambito del calcolo delle probabilità senza, in definitiva, risolvere nulla.

Vale la pena, per chiarire questo punto, aprire una breve parentesi sul concetto di probabilità, così importante, come abbiamo visto, nella meccanica quantistica ma presente in tutti settori della scienza, dai sistemi complessi alle teorie dell'evoluzione delle specie biologiche.

Le interpretazioni correnti del concetto di probabilità evidenziano che non ha senso parlare di una probabilità oggettiva, che la probabilità non è semplicemente un'astrazione matematica o qualche cosa di riducibile all'osservazione e al dato empirico; si sta affermando una concezione soggettivistica della probabilità che può essere esemplificata dalla seguente affermazione del matematico B. De Finetti: "Non ha senso parlare della probabilità di un evento se non in relazione all'insieme di conoscenze di cui una persona dispone". Se proprio vogliamo definire una probabilità oggettiva, questa non potrà che essere '0' se l'evento non si è verificato e '1' se questo ha avuto luogo. Ma dal momento che non possiamo sapere se l'evento si verificherà, non possiamo fare altro che "stimare" tale probabilità utilizzando tutte le nostre conoscenze, le nostre aspettative, il nostro patrimonio culturale, storico, sociale e biologico.

Conclusioni

E cosa ci riserva il futuro? Quale sarà l’evoluzione dell’universo secondo le teorie cosmologiche? E che cosa possiamo aspettarci da tali teorie?

Secondo il modello standard del Big-Bang sono possibili due evoluzioni a seconda della quantità totale di materia presente nell'universo: o l'espansione si fermerà e il processo si invertirà sino ad un catastrofico Big-Crunch oppure l'espansione continuerà indefinitamente sino alla "morte entropica". A questo punto nessuna vita di tipo biologico potrà più esistere. Ma la fantasia dei fisici ci viene ancora incontro: si ipotizza che l'uomo riuscirà ad adattarsi anche a questa condizione estrema ed, eventualmente, a trasferirsi in forme di vita non biologiche prodotte dalla tecnologia. Barrow e Tipler hanno generalizzato questa idea nel Principio Antropico finale:

Sistemi intelligenti che elaborano informazione devono apparire nell’universo e, una volta che lo abbiano fatto, non moriranno più.

In questi ultimi anni la teoria del Big-Bang gode di sempre minore popolarità, e c’è chi sostiene che non arriverà alla fine del secolo. Sono numerosi i fatti che essa non riesce a spiegare: dall’età dell’universo alla notevole omogeneità della radiazione di fondo, dal problema della "massa mancante" alla presenza dei quasar, ecc.

La risposta dei teorici del Big-Bang è stata quella di introdurre tutta una serie di ipotesi ad hoc per adattare il modello ai dati sperimentali che si sono andati accumulando dagli anni 60 in poi. A questo si aggiunga che molte di tali ipotesi supplementari sono difficili, se non impossibili, da verificare sperimentalmente. A questo proposito, non bisogna mai dimenticare - e si tratta di un punto fondamentale - che il criterio della verifica sperimentale galileiana non è applicabile all’universo nella sua globalità. Vista dall’esterno, questa situazione ha forti analogie con quella che si è verificata nel Rinascimento per la teoria tolemaica: a quel tempo, per giustificare le anomalie nel movimento dei pianeti, i modelli teorici delle orbite di questi ultimi intorno alla Terra venivano ridotti a cicli ed epicicli determinati ad hoc fino ad ottenere moti composti compatibili con quelli osservati. E questo finché Copernico propose un modello completamente nuovo anche se, inizialmente, non altrettanto preciso di quello tolemaico in termini di previsione. Infatti, aggiustando opportunamente gli epicicli si sarebbe potuto riprodurre dettagliatamente ogni moto mentre la semplice teoria di Copernico si basava solo su orbite circolari aventi il Sole come loro centro. Ma proprio questa semplicità era la forza della nuova teoria che, una volta introdotte orbite ellittiche da parte di Keplero e grazie alle conferme sperimentali derivate dalle osservazioni al cannocchiale di Galileo, finì per soppiantare la vecchia.

Non meraviglia, a questo punto, vista l’attuale impasse, che negli ultimi tempi siano state riproposte teorie alternative a quella standard. In particolare sono stati ripresi e riadattati, in diverse varianti, modelli di universo stazionario ed infinito che si propongono come pretendenti a rimpiazzare la teoria più tradizionale.

Molte delle numerose coincidenze antropiche, cui si è fatto cenno in precedenza, anche in questi altri modelli continuerebbero a sussistere (per esempio, quelle legate all’evoluzione stellare ed alla formazione del carbonio), mentre in un universo infinito il concetto di "morte entropica" non potrebbe necessariamente applicarsi. A dire il vero, anche nel modello standard del Big-Bang parlare di "morte entropica" sembra, secondo molti, non esatto. Quando si parla di "morte entropica" ci si riferisce ad una visione ottocentesca dell’entropia, legata alla termodinamica classica degli stati di equilibrio. Il suo modello di riferimento è il reticolo cristallino con il suo ordine, la sua regolarità, il suo equilibrio ma anche con la sua fissità. Ma l’emergere della vita nell’universo, così come è stato chiaramente evidenziato da I. Prigogine, è la dimostrazione tangibile del manifestarsi dell’ordine in strutture "dissipative", caotiche, lontane dall’equilibrio termodinamico quali appunto sono gli organismi viventi.

C’è chi pensa, però, che in una futura teoria del tutto forse potremo spiegare le coincidenze antropiche o semplicemente ridimensionarle e reinterpretarle smorzandone la carica di eccezionalità. E’ infatti speranza di molti fisici, soprattutto di quelli più legati alla tradizione positivista, che si arrivi un giorno a formulare una teoria che fornirà in modo astratto ed univoco i valori delle costanti fondamentali, anzi che si arrivi all'equazione finale, possibilmente indipendente dalle condizioni iniziali, e appunto alla tanto a lungo desiderata teoria del tutto. C’è da considerare, però, che un'equazione universale non implica che le soluzioni siano univoche; ed in ogni caso, risulterebbe assai difficile (e agli effetti pratici impossibile) discendere dall'universale al particolare. Le moderne Teorie del caos hanno infatti mostrato l'estrema sensibilità dalle condizioni iniziali, intrinsecamente indeterminate, di qualsiasi sistema fisico complesso. Oggi sappiamo che nessun calcolatore, per quanto potente, e nessuna rete di stazioni meteorologiche, per quanto fitta, consentiranno mai di formulare delle previsioni del tempo valide a lungo termine. Lo stesso nostro sistema solare, che in tempi passati era assunto a metafora della regolarità, della stabilità e dell'eternità dell'universo (ricordiamo l’immagine, da esso derivata, del "Dio orologiaio" del razionalismo), è oggi considerato un sistema instabile, destinato ad evaporare, a dissolversi, con i pianeti che abbandoneranno le loro "eterne" orbite. La complessità matematica di questo sistema è tale che la previsione temporale di tale evento è al di là di ogni possibilità e di ogni attendibile stima.

In ogni caso, un'equazione universale sarebbe una teoria matematica e quindi una teoria del "come" e non del "perché". In quanto teoria matematica dell'universo intero, formulata da un essere che di questo universo fa parte, sarebbe anche una teoria dell'uomo stesso suo ideatore. Una tale teoria, per quanto esteticamente affascinante possa risultare, essendo però priva di un contesto esterno in cui inserirla, di un meta-universo dal quale sottoporla ad una qualche verifica, potrebbe produrre in noi nient’altro che un atteggiamento di muta ed interrogata contemplazione. Non sarebbe però neutro, come è stato osservato, l’effetto psicologico e culturale di una tale teoria alla cui base ci sarebbe il trionfo del caso, e l’idea secondo la quale tutto nasce dal nulla e nel nulla finirà, e dove l’essere umano, bizzarro risultato di caso e necessità, non potrebbe che avere una posizione irrilevante rispetto alla maestosità dell'universo.

A questo proposito merita ricordare le critiche che da vari storici e studiosi dei fenomeni culturali furono rivolte alle generalizzazioni cosmologiche del Secondo Principio della Termodinamica effettuate nel secolo scorso e in parte ancora vigenti. L’idea di "morte entropica" sorge se si ammette che l’universo sia un sistema termodinamicamente chiuso. Ora questa ammissione non era (né è) facilmente giustificabile in termini teorici e neppure era supportata da un qualche indizio sperimentale. Nondimeno, la nozione di "morte entropica" divenne estremamente popolare e si trasformò quasi in un dogma che dalle cosmologie "scientifiche" del positivismo è giunto fino ai nostri tempi. Di fronte ad estrapolazioni che non hanno nulla di scientifico (se con questo termine si intende la definizione galileiana di verificabilità sperimentale), sembra importante chiedersi, a questo punto, da quali basi pre-scientifiche sorgano delle teorie come quelle della "morte entropica" o simili, che vengono continuamente proposte dalla fantasia dei cosmologi. Vale la pena di ricordare qui l’interpretazione che O. Spengler in Tramonto dell’Occidente dette della formulazione della "morte entropica" proposta da von Clausius e da altri eminenti chimici tedeschi della seconda metà dell’Ottocento. Per Spengler, tale teoria non era altro che la riproposizione nell’ambito della Scienza dell’antica cosmologia germanica della Caduta degli Dei (Goetterdaemmerung) e dell’incendio del Walhalla, con i quali tragicamente si concludeva la vita dell’universo, cosmologia allora riportata di moda dalle opere di Wagner. Una base mitologica così antica ed "irrazionale" era dunque passata surrettiziamente all’interno di una teoria scientifica.

Forse qualcosa di simile potrebbe essere detto delle attuali Cosmologie. C’è chi fa notare come anche alla base della teoria del Big-Bang ci sia un modello mitico quanto mai evidente, la Genesi biblica, e che l’accanimento con il quale essa viene difesa al di là delle prove sperimentali può essere considerato un chiaro indizio del fatto che ci troviamo di fronte a una credenza di natura pre-scientifica. In ogni modo, la discussione teorica sulle attuali Cosmologie, per la difficoltà di riscontri sperimentali, rischia di trasformarsi in qualcosa di simile alle dispute teologiche medioevali.

Quello che invece il Principio Antropico, in tutte le sue varianti, suggerisce è che ogni futura teoria fisica non potrà fare a meno di tenere conto in maniera esplicita del ruolo dell’osservatore. Come abbiamo ripetutamente notato in questa breve rassegna, il riemergere della presenza dell’osservatore, cioè della coscienza umana, sembra costituire una costante in vari campi delle scienze fisiche.