Luciano Bianciardi "Il convitato
di vetro" ExCogita Editore
Recensione di
Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it)
La televisione non è più
un oggetto raro, apparso anni prima in qualche bar dove ci si riuniva per
assistere al nuovo spettacolo. Sta entrando nelle case e ha mutato anche
il gergo quotidiano: "L'ha detto la radio" è sempre più spesso
sostituito da "L'ha detto la televisione". Il rettangolo di vetro luminoso
parla, racconta, intrattiene, riempie il vuoto di dialogo delle famiglie
che riescono, così, a mascherare e a rendere sopportabili i loro
silenzi. La televisione detta modelli, riesuma dal passato termini ritenuti
obsoleti, muove i suoi primi passi con la lentezza di un vecchio decrepito:
dietro alla programmazione ci sono vecchie logiche, vecchie politiche,
vecchi politici, divieti e ipocrisie che trasudano da ogni programma. Luciano
Bianciardi, con la serietà e la profondità che ha contraddistinto
tutto il suo lavoro, vuole conoscerla, capirla, viverla prima di parlarne,
prima di dare un giudizio. E quando finalmente ritiene di essere entrato
abbastanza profondamente in quello schermo di vetro, la racconta, su giornali
come "Le Ore", "ABC" e "Playmen", sui quali giornalisti originali e liberi
trovarono lo spazio per lanciare campagne su temi "scomodi" e disertati
dai grandi giornali, dalla politica e dalla televisione, i temi più
cari a "uno scrittore così attento alla diversità e alla
dignità degli esclusi, che non demonizza la televisione, ma reclama
piuttosto una maggiore originalità dei programmi, e anche l'apertura
a idee e punti di vista differenti" come scrive Paolo Pasi nella prefazione
al libro.
È una televisione diversa
da quella di oggi: ce n'è soltanto una in casa ed è in cucina,
non c'è ancora il colore e ha soltanto due canali ma sono molte
le critiche lanciate allora (gli articoli raccolti nel libro vanno dal
1964 al 1971) che sono attuali ancora oggi, dimostrando la capacità
di analisi e la lungimiranza di Bianciardi e la lentezza della televisione
a mettersi al passo con la società che si evolve, che pone problemi
e temi che non riescono ad arrivare al piccolo schermo.
La televisione per mettersi in luce
e tentare un successo basato su fragili presupposti (si chiami Zecchino
d'oro o Grande fratello), una solennità nel presentarsi che spesso
è contraddetta da scivoloni grammaticali o nella dizione, temi importanti
di politica italiana o estera trascurati di fronte a banalità, un
notevole paternalismo, una commissione di vigilanza preoccupata più
a proibire che a proporre, manifestazioni di protesta ignorate, trasmissioni
per gli studenti fatte in orari scolastici ("chi ha tempo libero oppure
l'influenza può guardarle con profitto"), una programmazione confusa
nonostante la folta schiera degli addetti ai palinsesti: non sembra che
sia cambiato molto in questi anni. Neanche nei suoi protagonisti: fa sorridere
leggere che "Mike Buongiorno è da tempo in licenza, forse in congedo
definitivo" (ABC, 17 marzo 1968).
Rimane il discorso di fondo, anche
se ormai la televisione è anche in bagno: "la famiglia italiana
media ha sempre, a cena, un ospite, e magari non lo sa. Un ospite che non
mangia [...], che non è fatto di 'carne e sangue' ma che pure domina
le mense. [...] Non mangia ma parla e canta: non uccide, certo, ma può
fare di peggio. Può imbottire teste, formare opinioni, indurre ai
consumi". Rileggiamo Bianciardi dopo decine di anni e sembra che abbia
scritto oggi: proviamo a cominciare a meditare sui suoi scritti. Non è
mai troppo tardi.
gabriella bona
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