BIBBIA E
SOFFERENZA
LA ROCCIA DA SCALARE
di GIANFRANCO
RAVASI
(biblista)
«Perché soffro? È questa la roccia dellateismo». La famosa
battuta del dramma La morte di Danton (1835) di George Buchner, uno dei più intensi
scrittori dellOttocento tedesco, riassume in modo folgorante uno dei due approdi
antitetici a cui conduce lesperienza del dolore, in particolare del dolore
innocente. Chi non ricorda quel passo dei Fratelli Karamazov ove Dostoevskij sinterroga:
«Se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza larmonia eterna, che centrano
i bambini? È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e
perché tocchi pure a loro comprare larmonia con la sofferenza?».
Per millenni lumanità ha cercato di scalare o spianare quella roccia. Già lantica
sapienza egizia registra la sconfitta della ragione con le emozionanti righe del
"Papiro di Berlino 3024" (2200 a.C.), significativamente intitolato dagli
studiosi Dialogo di un suicida con la sua anima, dialogo che ha come approdo solo la morte
vista come liberazione, guarigione, profumo di mirra, brezza dolce della sera, fior di
loto che sboccia. Laccanimento della teodicea, cioè del tentativo di difendere Dio
dallattacco dell"ateismo" che fa leva sul proprio dolore, ha dovuto
sempre confrontarsi con le alternative lapidarie del filosofo greco Epicuro, così come ce
le ha trasmesse lo scrittore cristiano Lattanzio nella sua opera De ira Dei (capitolo 13):
«Se Dio vuol togliere il male e non può, allora è impotente. Se può e non vuole,
allora è ostile nei nostri confronti. Se vuole e può, perché allora esiste il male e
non viene eliminato da lui?».
È proprio attorno a questi dilemmi e soprattutto quando si entra nella ragione
tenebrosa della sofferenza personale che si celebrano le apostasie, come affermava il
pensatore agnostico francese Jean Cotureau: «Non credo in Dio. Se Dio esistesse, sarebbe
il male in persona. Preferisco negarlo piuttosto che addossargli la responsabilità del
male». E proprio per difendere Dio da questa accusa infamante, si è fatto di tutto nella
storia dellumanità, ricorrendo appunto a quella teodicea a cui sopra si accennava,
percorrendo le strade più disparate, talvolta quasi impraticabili. Si è, così, ricorso
al dualismo, introducendo accanto al Dio buono e giusto unaltra
divinità negativa e ostile, un Dio del male (pensiamo, a titolo esemplificativo, al
manicheismo e a tante forme apocalittiche estremiste). Si è appellato alla cosiddetta
"teoria della retribuzione", per altro ben attestata anche nella Bibbia, come
vedremo: il binomio delitto-castigo ci invita a scoprire in ogni dolore unespiazione
di colpa, se non personale, almeno altrui (e così si cercherebbe di giustificare anche la
sofferenza dellinnocente).
Per altri sarebbe, invece, da imboccare la via pessimistica radicale: la realtà è
strutturalmente negativa proprio per il suo limite creaturale (da spiegare sarebbe
eventualmente la felicità o il bene quando si presentano nella vita!). Nel Mito di Sisifo
(1942) lo scrittore francese Albert Camus osservava: «Cè un solo problema
importante per la filosofia, il suicidio. Decidere, cioè, se metta conto di vivere o
no». Per contrasto, non è mancata anche una lettura ottimistica altrettanto radicale
della realtà per cui il male è solo un non-essere, un dato concettuale, unapparenza
da superare scoprendo la serenità profonda dellessere. In questa luce si pongono le
visioni panteistiche come lo stoicismo greco-romano o il brahmanesimo indiano per il quale
il male è solo maya, cioè "illusione". In questa linea si collocano anche
certe concezioni evoluzionistiche che considerano il dolore come il residuato di un mondo
ancora imperfetto e in costruzione. Le energie cosmiche e il progresso umano sono la via
da percorrere per la graduale eliminazione di ogni negatività.
La cittadella fortificata del dolore, comunque, rimane non del tutto valicabile dalla
ragione umana, anche se in essa possono aprirsi brecce e varchi. Il suo centro ultimo,
come insegna la Bibbia che ora interrogheremo su questo tema, può essere chiuso e non
necessariamente nellassurdo, ma anche nel "mistero" di un progetto
metarazionale e trascendente del quale possiamo al massimo intuirne una coerenza generale.
Cè, però, un dato preliminare rilevante: unampia porzione del male diffuso
nel mondo è riconducibile alla libertà e quindi al peccato delluomo. È, allora,
necessario partire con lesame di coscienza ideale che è proposto da Genesi 2-3 ove
è protagonista appunto ha-adam, in ebraico "luomo" di tutti i tempi e di
tutte le regioni del mondo. Al progetto di armonia con Dio, con la natura e con il suo
simile, descritto come desiderio del Creatore nel capitolo 2, egli, nella sua libertà,
decide di opporre un progetto alternativo di alienazione, violenza, sopraffazione,
imperialismo (si vedano il capitolo 3 e la storia successiva di Caino, del diluvio e di
Babele).
Il dolore dellumanità, allora, in molti casi, prima di appellare al mistero dellagire
divino, deve trasformarsi in un atto di accusa che luomo lancia contro il proprio
agire immorale. Prima di gridare a Dio protestando perché lascia morire di fame o senza
cure molti bambini o ne fa nascere altri deformi, luomo deve interrogare il suo
egoismo, le sue prevaricazioni, la sua politica, le sue oppressioni e ingiustizie, la sua
scienza distruttrice.
Detto questo, bisogna però riconoscere che cè per usare unespressione
del commento a "Giobbe" del filosofo francese Philippe Nemo un
"eccesso di male" che deborda dallazione e dalla responsabilità umana. È
appunto il "libro di Giobbe" a porre sul tappeto questa interrogazione per
ragioni strettamente teologiche, cioè per scoprire il vero volto di Dio. Infatti, il
testo di Giobbe equivocato come simbolo di pazienza (cfr. Gc 5,11) è una
ricerca lacerante della genuina realtà divina che nel dolore appare in modo
scandalosamente sconcertante: «La rabbia di Dio mi perseguita per dilaniarmi, contro di
me digrigna i denti, contro di me il mio nemico affila gli occhi. Ero sereno e lui mi ha
stritolato, mi ha afferrato per la nuca e mi ha sfondato il cranio, ha fatto di me il suo
bersaglio. I suoi arcieri prendono la mira su di me, senza pietà trafigge i reni, per
terra versa il mio fiele, infierisce su di me come un generale trionfatore» (Gb
16,9.12-14). Dio, quando si ha la pelle torturata dal dolore, non è visto come un padre,
ma come un imperatore trionfatore, come un arciere sadico che trafigge luomo senza
pietà. In quei momenti lunica preghiera è solo una domanda di tregua: «Quando la
finirai di spiarmi e mi lascerai inghiottire la saliva?» (7,19). «Inghiottire la
saliva» è un curioso modo orientale per indicare un istante di respiro e di tregua.
Per luomo tormentato dalla sofferenza lunico spiraglio liberatore sembra
essere la morte: «Se devo sperare, è solo lAde la mia casa, nelle tenebre
stenderò il mio giaciglio. Al sepolcro io grido: Padre mio sei tu! Ai vermi: Madre mia,
sorelle mie!» (17,13-14). Giobbe nel dolore si spoglia di qualsiasi appoggio umano e
spirituale. Il suo itinerario è quello della fede pura e nuda, priva di facili appoggi,
lontana dagli schemi freddi che gli amici teologi gli oppongono per spiegare il mistero
del male. Ed è proprio attraverso la povertà assoluta del soffrire che Giobbe giunge al
vero Dio. Verso di lui luomo apre unoffensiva processuale per farlo deporre in
unideale assise giudiziaria perché giustifichi il suo strano infierire sulluomo:
«Ecco qui la mia firma. LOnnipotente mi risponda! Il mio Rivale scriva il suo
protocollo! Sono pronto a rendergli conto di tutti i miei passi; come un principe, mi
presento davanti a lui» (31,35.37).
E sorprendentemente Dio accetta di fare la sua deposizione, imboccando la via del
dialogo. Il Signore pronunzia due discorsi monumentali, che sono anche le pagine
poeticamente più alte del libro. Da quelle strofe grandiose emerge il mondo delle
meraviglie cosmiche (terra, mare, astri, costellazioni, aurore, leoni, ibis, gazzelle,
struzzi, bufali, cavalli, camosci), ma anche tutta la sfera delle energie caotiche e
negative che attentano allo splendore della creazione, energie personificate nei due
mostri simbolici Behemot e Leviatan (capitoli 38-41). Giobbe è un pellegrino stupito tra
questi misteri, di cui egli non sa sondare che qualche particella microscopica mentre Dio
li percorre totalmente con la sua onniscienza e onnipotenza.
Giobbe, allora, comprende che, accanto alla piccola logica delluomo che riesce
solo a comprendere e a sistemare piccoli frammenti della realtà e che quindi ha ragione
di trovarsi a disagio di fronte al male, esiste un grande e superiore "progetto"
di Dio, infinitamente più completo e invalicabile ai nostri piccoli schemi. Questo
progetto divino è capace di collocare al suo interno anche gli aspetti che a noi
risultano debordanti o inutili o dannosi. Gli amici di Giobbe si illudevano, come molti
"consolatori", di conoscere questo progetto identificandolo con le loro facili
spiegazioni teologiche, soprattutto con la già menzionata teoria della retribuzione per
cui ogni dolore è generato da una colpa. Ma la realtà li smentiva, come smentiva anche
Giobbe, quando credeva che non esistesse nessuna via per sistemare la sofferenza nellarco
della storia della salvezza. Il dolore non è, quindi, spiegato a Giobbe ma, incontrando
il vero Dio, Giobbe comprende che il Dio infinito e sapiente potrà inquadrarlo nel suo
supremo disegno di salvezza. Solo così Giobbe si abbandona alla mano divina.
Con Giobbe, dunque, si passa da unantropologia della sofferenza a una vera e
propria teologia. Egli è fermamente convinto che, proprio perché "mistero"
terribile e supremo, la realtà del dolore non può essere "razionalizzata",
addomesticata attraverso un facile teorema teologico. Il male e il dolore urlano con tutta
la loro forza contro la mente delluomo. Ma il poeta biblico è altrettanto
fermamente convinto che esiste una esah, una "razionalità" da mistero,
cioè superiore e totalizzante, quella di Dio: essa riesce a collocare in un progetto ciò
che per luomo sembra invece debordare da ogni progetto. E Giobbe, allora, resta
contemporaneamente teso verso la disperazione e la bestemmia a cui lo conduce
"logicamente" la sua intelligenza e verso la speranza e linno di lode a
cui lo conduce la sua autentica fede.
In questa stessa linea nettamente teologica che corre accanto a quella più
"filosofica" della retribuzione, della sofferenza come catarsi e pedagogia delluomo
(così lultimo amico di Giobbe, Elihu), del limite creaturale (Qohelet) si
colloca la figura del Servo sofferente del Signore cantato da Isaia in quattro carmi
(capitoli 42; 49; 50; 53), figura riletta in chiave messianica dal cristianesimo. Noi
seguiremo ora il fondamentale quarto canto del Servo del Signore (Is 52,13-53,12). Egli
nasce come un virgulto in un deserto solitario, ma cresce e si configura come un essere
«disprezzato, reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire». Ma
quella sofferenza non è frutto della punizione di una colpa, come insegnava la citata
tesi della retribuzione legata al binomio "delitto-castigo". È il peccato degli
altri che viene espiato da quel giusto. Il suo dolore è salutare per noi tutti, dà
salvezza e pace, genera in noi pentimento e perdono.
«Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri
dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto
per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che dà salvezza si
è abbattuto su di lui; per le sue piaghe siamo stati guariti» (versetti 4-5). La sua
donazione è totale e docile come quella dellagnello sacrificale che vede irrompere
su di sé la spada del sacerdote. E ciò che attende il Servo è ormai la morte e la
sepoltura, sigillo di una vita di dolore e di disprezzo. Anche se il suo cadavere è
buttato nella fossa dei perversi, una lapide ideale è posta sulla sua tomba: «Non ha
commesso violenza, non ci fu inganno nelle sue parole» (versetto 9). Ma la morte non è
la foce definitiva verso cui corre la vita del Servo. Anzi, la morte fa fiorire il mistero
di fecondità che quel virgulto conteneva. Ora il Servo giusto contempla la luce, si sazia
nella dolcezza della gloria che è il vedere Dio. «Il giusto mio servo giustificherà
molti, si addosserà la loro iniquità» (versetto 11). La cornice conclusiva del carme
ribalta la vicenda e presenta linnocenza del Servo, la cui sofferenza espiatrice ha
liberato gli uomini peccatori.
La sua vita, passione e morte sono state sacrificio espiatorio per noi, il suo silenzio
è stato orazione esaudita, il suo dolore è stato la nostra giustificazione e
riconciliazione con Dio. Per questa pagina del Secondo Isaia, allora, il dolore ha in sé
una forza insospettata, una fecondità straordinaria che aiuta il compiersi della storia
della salvezza. Per vie misteriose il soffrire unisce intimamente a Dio e produce al tempo
stesso solidarietà salvifica coi fratelli. Apparentemente la sofferenza sembra una
maledizione, in realtà essa diventa un principio di vita, come avviene per i dolori del
parto (cfr. Gv 16,21).
Una delle grandi figure della letteratura spirituale e filosofica del 900 è
stata certamente Simone Weil, una donna di straordinaria intensità umana, di origine
israelitica, impegnata nel mondo sociale e politico, vissuta lungamente in contatto con lesperienza
cristiana e autrice di opere folgoranti. In uno di questi suoi scritti la Weil osserva:
«La sola fonte di chiarezza abbastanza luminosa per illuminare il dolore è la croce di
Cristo. Non importa, in quale epoca, non importa in quale Paese, dovunque ci sia un
dolore, la croce di Cristo non è che la verità». Queste parole ci invitano a portare il
nostro viaggio allinterno del pianeta oscuro del dolore "secondo le
Scritture", fino allultima tappa della Bibbia, quella del Nuovo Testamento.
Durante la sua vita terrena Cristo ha messo al centro della sua attenzione proprio il
mistero del dolore. Il vangelo di Marco è quasi per metà un racconto di Cristo in
compagnia di malati. Cè stato un teologo, René Latourelle, che ha scritto:
«Eliminare i miracoli di Gesù dai vangeli sarebbe come immaginare lAmleto di
Shakespeare senza Amleto». E i miracoli di Gesù non sono gesti spettacolari
autopromozionali, destinati a sollecitare applausi e successi (quante volte Gesù impone
il silenzio al malato guarito!), ma piuttosto orientati a liberare luomo dal male e
dal dolore.
Emblematico di questa vicinanza del Cristo ai sofferenti è il suo atteggiamento nei
confronti dei lebbrosi. Essi erano non solo dei malati ma degli scomunicati. Secondo le
prescrizioni ufficiali della legge biblica dovevano vivere ai margini delle città,
isolati dal loro passato e da ogni affetto; dovevano segnalare la loro presenza qualora
sulla loro strada si fosse presentata una persona sana (Lv 14). La lebbra, infatti, era
considerata secondo la teologia "retribuzionistica" dellAntico
Testamento frutto di una colpa gravissima di cui diventava punizione ed espiazione.
Gesù, invece, spazzando via tutte queste remore, non solo si avvia sulla strada di questi
"appestati", ma... Ascoltiamo la narrazione di Marco (1,41-42): «Gesù, mosso a
compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: "Lo voglio, guarisci!".
Subito la lebbra scomparve ed egli guarì».
Di fronte a un morbo, che oggi potremmo comparare al grande incubo dellAids,
Gesù non si lascia coinvolgere in sofismi religiosi, non si fa tentare da preoccupazioni
artificiose di autodifesa come fanno certi cristiani benpensanti, ma è pronto subito a
condividere, a curare, ad amare. E, così, davanti a Gesù sfilano poveri, malati,
angosciati, persone colpite da mali morali, fisici, sociali e psichici. Per tutti egli ha
una parola e un gesto di speranza, proponendo così alla sua Chiesa di essere sempre
accanto a chi soffre, anzi di considerare questi «fratelli più piccoli» la realtà più
preziosa del Regno di Dio.
Possiamo, allora, dire che in Gesù è Dio stesso che viene incontro allumanità
sofferente per liberarla dalla tirannia del male. Una liberazione lenta e progressiva,
destinata ad approdare a quella città perfetta in cui dolore e morte non saranno più i
cittadini privilegiati, ma da essa saranno espulsi. Nel ritratto della Gerusalemme
celeste, simbolo del mondo che Cristo ha inaugurato e che noi dobbiamo collaborare a
costruire, lApocalisse ci offre questo profilo: «Ecco la dimora di Dio con gli
uomini! Egli dimorerà tra di loro e tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà
più la morte, né lutto, né lamento, né affanno» (21,3-4).
Cristo, però, sperimenta non solo allesterno, ma anche in se stesso la forza
tenebrosa del dolore. Egli piange davanti alla tomba dellamico Lazzaro; egli sa che
«deve molto soffrire ed essere respinto e poi venire ucciso» (Mc 8,31). E soprattutto
egli entra nella passione che è un itinerario continuo di sofferenze, è la "via
dolorosa", la "via crucis" per eccellenza. È unesperienza condotta
nella solitudine, anche degli amici più cari («Non siete stati capaci di vegliare una
sola ora?»), nel silenzio di Dio («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»),
nella lotta fisica dellagonia (il sudore di sangue), nelle torture (flagellazione e
incoronazione di spine), nella crocifissione, nella catastrofe finale della morte.
Un personaggio di un film di Bergman, il sagrestano di Luci dinverno, al pastore
in crisi di fede ricorda la scena della sofferenza di Cristo: «Pensi al Getsemani, signor
pastore. Tutti i discepoli si erano addormentati. Non avevano capito nulla. Ma non era
ancora il peggio. Quando il Cristo fu inchiodato sulla croce e vi rimase, tormentato dalle
sofferenze, esclamò: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Il Cristo
fu preso da un grande dubbio nei momenti che precedettero la sua morte. Dovette essere
quella la più crudele delle sue sofferenze. Voglio dire il silenzio di Dio». Eppure era
proprio passando attraverso il dolore e la morte, qualità "impossibili" a Dio,
che Cristo diventava veramente uno di noi e poteva liberare e salvare attraverso la sua
divinità la nostra miseria, il nostro limite, il nostro male.
In questa luce il dolore diventa il segno supremo damore e di fraternità del
Cristo nei confronti delluomo. Non per nulla egli aveva ripetuto durante la sua vita
terrena: «Il Figlio delluomo non è venuto per essere servito, ma per servire e
dare la sua vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). È illuminante, al riguardo, quanto
scriveva il teologo Dietrich Bonhoeffer il 16 luglio 1944 nel lager di Flossenburg ove
sarebbe stato, di lì a poco, impiccato: «Dio è impotente e debole nel mondo e così e
soltanto così rimane con noi e ci aiuta... Cristo non ci aiuta in virtù della sua
onnipotenza ma in virtù della sua sofferenza». La frase è certamente paradossale, ma
coglie una dimensione fondamentale dellIncarnazione: Cristo ci aiuta, capisce il
nostro dolore, lo può fare perché lha incontrato e lha vissuto come noi. E
questa solidarietà del Figlio di Dio è efficace e liberatrice.
In tale luce è comprensibile la dichiarazione di Paolo: «A voi è stata concessa la
grazia non solo di credere in lui, ma anche di patire per lui» (Fil 1,29). Anzi, lapostolo
può scrivere questa frase sorprendente: «Io gioisco nelle sofferenze che sopporto per
voi e completo nel mio corpo ciò che manca dei patimenti di Cristo per il suo corpo che
è la Chiesa» (Col 1,24). Questa dichiarazione non va intesa, ovviamente, nel senso che
la passione di Cristo sia incompleta o che possa mancare qualcosa alla sua croce: la morte
e la risurrezione di Gesù sono, infatti, levento definitivo della salvezza. Il
credente soffre in comunione con Cristo, nel suo Corpo che è la Chiesa, e anche il suo
dolore acquista valore redentivo: la redenzione, infatti, pur compiuta nella morte e nella
gloria di Cristo, si distende nel tempo e nello spazio dellumanità.
Al termine di questo lungo viaggio nella galleria oscura della sofferenza, facciamo
risuonare le Beatitudini di Cristo. Esse sembrano una voce lontana dal groviglio della
vita, delle paure e delle sofferenze: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati...
Beati voi che ora piangete, perché riderete» (Mt 5,4; Lc 6,21). Queste parole, però,
non vogliono essere una facile e illusoria consolazione. Come diceva il poeta francese
Paul Claudel: «Dio non è venuto a spiegare la sofferenza: è venuto a riempirla della
sua presenza». Le spiegazioni filosofiche della realtà del dolore sono spesso sterili.
Cristo non è venuto a giustificare lo scandalo del male inquadrandolo in un sistema di
pensiero convincente. Egli è venuto a condividere il nostro limite, assumendolo in sé.
Ma, proprio perché egli è il Figlio di Dio, attraverso il dolore e la morte, ha
lasciato in essi un seme di divinità, di eternità. Lamore di Dio non ci protegge
da ogni sofferenza ma ci sostiene in ogni sofferenza. Lesperienza del dolore può
essere disperante e angosciante, anche perché è come essere in una prigione che ci
costringe e ci soffoca.
Lingresso del Figlio di Dio in quel carcere segna una svolta: egli non elimina la
nostra condizione di creature fragili e limitate, ma apre la porta e ci prende per mano
per condurci oltre quel carcere, cioè oltre la sofferenza e la morte. La fede ha il
compito di svelarci ciò che attende il nostro soffrire e morire: non è il gorgo oscuro
del nulla e del non-senso, ma la liberazione definitiva del male, come ci ricorda lApocalisse
(21,4). Ora, durante il cammino della storia, il Signore «raccoglie nellotre suo le
lacrime: non sono forse scritte nel suo libro?» (Sal 56,9). Ci è, quindi, solidale e
compagno di strada, in attesa di condurci verso la nuova creazione che redime ogni male.
Noi non dobbiamo «avere speranza in Cristo soltanto in questa vita», perché, come
osserva Paolo, «saremmo da compiangere più di tutti gli uomini»; dobbiamo, invece,
sperare nella meta della storia, segnata già dalla Pasqua di Cristo: là «Dio sarà
tutto in tutti» (1 Cor 15,19.28).
Tutti coloro che, durante litinerario della storia, curano i malati e sono vicini
a chi soffre non fanno che anticipare la meta del Regno di Dio, la costruiscono con le
loro mani, accanto alle mani decisive di Dio. Sostenere il sofferente, anche senza
cancellare pienamente il dolore, è una continuazione dellopera di Cristo ed è unanticipazione
della liberazione offerta dal Regno. Tergere le lacrime dagli occhi dei sofferenti è
compiere lo stesso gesto che Dio riserverà alla fine del tempo (Is 25,8; Ap 21,4). È in
questa luce che a tutti costoro è riservata la citata benedizione di Cristo re: «Venite,
benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla
fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete
e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito,
malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,34-36).
Da Famiglia Oggi - Ottobre 1999