VICINI A
CHI SOFFRE
Approccio comportamentale
nella relazione con i malati
Bianca Gibelli
certamente difficile entrare in relazione con un malato terminale o,
ancor più, con un malato destinato a una lunga e lenta progressione (sclerosi multipla,
Aids, psicosi, dialisi, ecc.). Eppure un buon "approccio comportamentale" può
ridurre sensibilmente la presenza di ansia e depressione o di sintomi specifici, come
dolore diffuso o nausea e vomito anticipatori (il vomito in previsione della chemioterapia
o della medicazione di decubiti); questo indipendentemente dalla posizione della fede del
paziente e di chi lo assiste: il rispetto del malato come persona e il rispetto della
sacralità della vita possono certamente migliorare la qualità di vita anche di un
paziente non cristiano.
Per un ammalato cambia la percezione del tempo, che viene scandito non
più da eventi naturali come le stagioni, le giornate, ma dagli eventi della malattia
(dopo il secondo intervento, prima della radioterapia, ecc.); tutto viene avvolto in
un'attesa costante e angosciata, descritta come sindrome di Damocle. Dobbiamo imparare a
utilizzare questo calendario "biologico" e a riconoscere i tempi buoni e non
buoni. Tra tutte le malattie, forse il cancro è quella che viene vissuta con maggiore
angoscia di morte e con atteggiamento di attesa, mentre per altre (come l'Aids) è più
frequente un atteggiamento di negazione, che può rendere molto difficile
l'accompagnamento, ma sensibilmente ai tempi del paziente ci deve comunque servire da
guida.
Nessuno è da considerarsi inadatto per stare accanto a chi soffre: chi
si autodefinisce troppo sensibile è solo troppo egoista per prendere in considerazione la
possibilità di essere aiutato a prezzo di un coinvolgimento o di una sofferenza
personale: inavvertitamente mettiamo ogni volta sulla bilancia il peso del fratello e
quello della nostra serenità. t sicuramente normale scegliere la serenità o il nirvana,
ma è cristiano scegliere il fratello e il peso di questa scelta: "Cercate di entrare
dalla porta stretta" (cfr. Le 13,24). Nessuno èda considerarsi insufficiente per
stare vicino a chi soffre: siamo solo dei canali per portare acqua ai fratelli; l'acqua è
la vita, non il canale. Lasciamo che l'acqua agisca attraverso di noi senza sostituirci a
essa, ricordando sempre di essere servi inutili. Succederà a chiunque di noi di usare
fiumi di parole e vagonate di filosofia (frustrati dall'assenza di risultati tangibili) e
vedere poi, magari per caso, un poveretto analfabeta, vicino di letto, sconvolgere con due
parole chi non aveva ascoltato tutta la nostra saggezza ("lo ti rendo lode, Padre,
perché hai nascosto queste cose ai sapienti ... ", cfr. Le 11,21). Sono poche le
cose da ricordare per iniziare un percorso vicino a chi soffre, ma prevedono per chiunque
un coinvolgimento importante, superabile solo nella fede certa e nella coscienza che la
salvezza non è la salute, ed è per noi il bene prioritario.
Vediamo, in sintesi, i punti importanti da affrontare.
CONFRONTARSI CON IL MALATO
E Significa confrontarsi con sé e con tutte le proprie paure irrisolte
(malattia, morte, decadimento, inutilità, abbandono, dolore fisico, ecc.), significa
realizzare che la compassione è molto differente dall'identificazione: significa saper
accettare (non subire) la malattia e la morte come terapista; come fratello, parente,
amico; come paziente, come cristiano. Troppe volte il nostro approccio all'ammalato
risente della nostra incapacità di affrontare l'idea della sofferenza, incapacità nata
nel nostro fondo pagano e alimentata da ferite reali o immaginarie, che dobbiamo guarire
per affrontare
anche le sofferenze degli altri. Esempio tipico di questa incapacità
è in ogni reparto d'ospedale la stanza di chi muore, dove nessuno entra più se non in
silenzio, per cambiare i flaconi di perfusione. Da questa incapacità di affrontare la
verità nascono le discrepanze del comportamento di medici, infermieri, familiari
(comportamento verbale positivo e comportamento non verbale non positivo), che inducono il
malato a percepire un clima di menzogna o a sentirsi abbandonato o respinto. Il malato
può allora reagire esagerando nella sua mentalità la negazione della situazione o
nascondendola, e ciò peggiorerà il suo isolamento e la sua sofferenza.
DARE SENSO ALLA SOFFERENZA E ALLA
MORTE
Sofferenza e morte possono avere senso solo per chi è
cristiano; per tutti gli altri sono atrocità ingiustificabili o giustificate da una
"colpa".
Come medici sappiamo che il senso di colpa è molto forte in chi sa di
morire ("ho il cancro perché ho fumato, sono colpevole perché faccio soffrire la
mia mamma, mio marito") e contribuisce in larga parte ad accentuare la sofferenza
degli ammalati, soprattutto dei più piccoli che non conoscono la paura e l'angoscia della
morte, ma conoscono la paura e l'angoscia dell'abbandono ("la mamma piange, sono
cattivo perché faccio piangere la mamma, non mi vorrà più").
Come cristiani sappiamo che la nostra sofferenza non è il riscatto di
una colpa personale, perché già siamo stati riscattati dalla croce di Cristo, e questo
è uno dei messaggi che possiamo portare a chi muore, messaggio di perdono, pace,
decolpevolizzazione non per merito, ma per amore.
Come cristiani sappiamo che un infinito amore ci attende, tanto da
rendere trascurabile ogni sofferenza presente. In quest'ottica anche la sofferenza assume
un significato e una direzione, come un sentiero da percorrere per raggiungere una cima:
è la vetta il nostro scopo, non la fatica del salire.
Come cristiani sappiamo di contribuire, finalizzando all'amore la
nostra sofferenza, a una salvezza non solo nostra e la sofferenza accolta, donata anche a
chi amiamo o non amiamo, si libera dal vestito di angoscia.
Sono questi i messaggi difficili da portare a un non cristiano, a meno
che non ci sia la possibilità di fare insieme a lui un cammino indispensabile prima di
versargli addosso le nostre certezze ("soffri perché Dio ti ama", "offri
la tua sofferenza" sono atrocità assurde se buttate lì a chi non è profondamente
maturo per accoglierle e rileggere tutta la sua vita e la sua morte alla luce di Cristo).
Sappiamo bene com'è difficile che noi adoriamo un Cristo crocifisso, un Dio che ha scelto
di morire d'amore per noi, ma è in forte relazione con questa nostra incrollabile
certezza la possibilità di essere d'appoggio ai fratelli nel momento della sofferenza,
senza invadere oppure offendere il loro credo, qualunque esso sia, e senza vacillare o
sottrarci al loro sguardo.
La sofferenza è un "rischio": un muro che ci nasconde o ci
svela Dio: Dio corre questo rischio nei nostri confronti, e dobbiamo credere che il
rischio è calcolato sulle nostre forze, mai superiore.
Senza questa barriera forse non cercheremmo mai di vedere ciò che solo
merita di essere visto. Siamo liberi di fermare per sempre il nostro sguardo sull'ostacolo
o di spingerlo oltre. La sofferenza è un mistero e va creduta, non interpretata, come la
risurrezione. Anche in questo arrendersi si gioca la nostra fede: "Signore, so che
comunque tu mi ami". Questa è la testimonianza da portare ai fratelli sulla nostra
pelle, con o senza parole, e siamo tutti chiamati a essere testimoni ("Siamo chiamati
a dare ragione della speranza che è in noi"). Tante volte i fratelli sono per noi
testimoni formidabili, strumento di crescita e conversione; in questo modo la loro
malattia diventa un dono per chi li assiste, diventa salvezza: in quest'ottica veramente
il fratello che muore oggi muore anche per me, perché io viva.
Tratto dalla rivista "Rinnovamento nello Spirito
Santo" Luglio 1999