Può essere utile riassumere in uno specchietto le caratteristiche generali della zoofilia, del protezionismo e del liberazionismo. Il confronto diretto delle modalità con cui essa si pone in rapporto alla questione animale aiuta a comprendere l’enorme variabilità di quel fenomeno che dall’esterno, frullato e omogeneizzato, viene chiamato genericamente “animalismo”.
Lo zoofilo... |
Il protezionista... |
Il liberazionista... |
Esprime una generica benevolenza verso gli animali e proclama la necessità di una umana attenzione alle sorti dell’animale
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Esprime un forte desiderio di protezione degli animali e afferma che l’uomo deve avere obblighi verso gli animali |
Stabilisce che gli animali posseggono dei diritti naturali non negoziabili |
Desidera la presenza animale nella società perché la ritiene uno scandaglio che permette di rilevare la crescita morale della società stessa
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Non problematizza la presenza degli animali nella società umana |
Rifiuta con energia la presenza dell’animale non umano nella società visto che perdendo ogni funzione per l’uomo, cade la necessità di disporne |
Tende ormai a confondersi in iniziative equivoche di natura più o meno commerciale |
Si esprime in strutture associazionistiche nazionali o locali e collabora a iniziative pubbliche |
Si esprime in gruppi non strutturati o strutturati in modo non permanente con finalità centrate su obiettivi specifici
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Non sviluppa iniziative pubbliche limitandosi a manifestare un ideale generico di amore in relazioni prossemiche
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Esprime atteggiamenti collaborativi con le istituzioni e aperto verso la società alla quale tenta di portare il suo messaggio
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Esprime atteggiamenti antagonisti verso le istituzioni che giudica responsabili prime delle violenze sugli animali |
Non segue scelte alimentari particolari |
Si percepisce incoerente se non fa almeno la scelta vegetariana
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E’ rigidamente vegan |
La tabella illustra tre tipi ideali. Il tipo ideale è qualcosa che non esiste nella sua forma pura. E’ un modello a cui spesso il tipo reale tende a somigliare. Se effettuassimo una ricognizione sul popolo degli animalisti rileveremmo tipologie umane i cui profili si adattano abbastanza bene alle descrizioni ideali. Gli scarti tra “ideale” e “reale” sono, in tali casi, molto sottili e le descrizioni ideali si rivelano piuttosto rappresentative di soggetti concreti. Se i tipi ideali presentano confini netti e sono spesso descrizioni abbastanza precise di buona parte degli attivisti, non mancano tuttavia zone grigie occupate da altri volontari e attivisti che riassumono in sé i caratteri ora di un tipo, ora dell’altro. Non è difficile trovare personaggi talmente strabici che riescono a guardare sia alla zoofilia che al protezionismo. Come pure non mancano – spesso tra i teorici, ma non solo – liberazionisti che ritengono che si possano adottare soltanto quelle pratiche protezioniste ritenute le uniche capaci di consolidare qualche risultato sia pure in tempi indefiniti. Le zone grigie costituite da zoofili-protezionisti e da protezionisti-liberazionisti rendono ancora più problematica un’azione incisiva che ponga all’ordine del giorno la questione animale. Il caos concettuale e soprattutto pratico – comportamentale dissolve in sé stesso, prima ancora che per responsabilità dell’avversario umano, la possibilità di impostare azioni di qualche rilevanza. Di fatto l’animalismo può essere immaginato come un piccolo quartiere periferico di una grande città la cui popolazione, costituita da persone con mentalità alternativa, è sudddivisa in gruppi alquanto diversi tra loro che operano in mercatini e si scambiano le proprie merci materiali e ideali. Uno scambio intenso tra certi gruppi, rarefatto tra altri, ma che rimane quasi interamente circoscritto al loro minuscolo mondo, mentre all’esterno poco o nulla trapela dell’attività svolta.
Questa presenza quasi catacombale, frantumata al punto da rendere problematica l’espressione “movimento animalista” si traduce in una efficacia assai ridotta. I protezionisti si misurano nell’offrire riparo e sostegno a una certa frazione di animali di affezione abbandonati fuori dal quartiere e recuperata con santa dedizione. I liberazionisti fanno molto di più, se non altro per il rischio e la responsabilità che decidono di assumersi. Ogni tanto aspettano la notte e compiono incursioni nella società dei civili liberando animali da un destino angoscioso, ma prima che spunti l’alba, come il conte Dracula, sono costretti dall’oggettiva natura degli interventi a rientrare nella loro angusta sede lasciando alle vittime del blitz la possibilità di scegliere tra un silenzio che quasi annulla i loro atti e una descrizione unilaterale dell’accaduto a media prezzolati che battono la grancassa dell’attentato all’attività e alle proprietà di “onesti lavoratori”. Nel primo caso l’azione rimane a priori deprivata del suo significato simbolico; nel secondo caso i danneggiati hanno di nuovo la meglio potendo manipolare senza contradittorio l’opinione pubblica. In entrambi i casi la sostituzione delle vittime non consente neppure di registrare con certezza vantaggi per gli animali[1].
A ben vedere c’è un sottile legame che unifica il fronte protezionista-liberazionista: l’assunzione implicita (e pessimistica) secondo cui la società specista non offre altre possibilità che agire per mettere al riparo alcuni individui dalla violenza dell’umano. Alla fine i liberazionisti, pur attrezzati con categorie politiche che escludono la possibilità di risolvere la questione animale senza una radicale trasformazione della società[2], spesso si limitano a consigliare e praticare quello l’agire dei protezionisti. Una (parziale) differenza può essere questa. Mentre i protezionisti agiscono alla luce del sole recuperando gli scarti degli animali di affezione dispersi nel territorio perché consumati e non più utili, i liberazionisti agiscono anche di notte per liberare animali da reddito. L’assoluta ignoranza dei protezionisti dell’impossibilità di abbattere la discriminazione verso gli animali senza toccare le fondamenta della civiltà attuale e la consapevolezza dei liberazionisti di questa necessità comportano un’essenziale differenza di vision. Tuttavia protezionisti e liberazionisti non riescono a affrancarsi da una condizione di sostanziale impotenza, cosicché spesso li troviamo impegnati su attività talmente simili – banchetti informativi, conferenze, manifestazioni – che solo un occhio allenato può distinguere gli uni dagli altri. Siamo dunque di fronte a una concordanza pragmatica?[3]
A questo punto dovrebbe essere chiaro perché non si può pretendere, come molti auspicano, che il movimento animalista sia unito nel presentarsi all’interlocutore istituzionale facendo azione di lobby. Le due autentiche componenti sono lontane come l’inverno dall’estate e, inoltre, la presenza di forti presenze zoofile contribuisce a complicare le cose. Il diagramma che segue aiuta a comprendere meglio le connessioni tra le tre componenti.
La relazione tra zoofili e protezionisti è neutra, nel senso che, pur avendo natura diversa possono convivere senza difficoltà. La relazione tra gli zoofili e i liberazionisti è conflittuale. I primi concepiscono i secondi come degli estremisti da isolare, mentre i secondi hanno chiara la percezione del danno prodotto dai primi. Torneremo dopo su questo aspetto, là dove si parlerà della percezione sociale dell’animalismo.
Più problematica appare la relazione esistente tra protezionisti e liberazionisti. L’intransigenza dei liberazionisti circa l’interpretazione della questione animale attribuisce ai protezionisti colpevoli collusioni con le istituzioni e perfino con le iniziative zoofile. E’ vero che il liberazionista saprà anche apprezzare il lavoro quotidiano di molte associazioni che attenuano il danno raccogliendo e dando ricovero a molti animali di affezione abbandonati, tuttavia si terrà alla larga da convegni in cui per combattere, poniamo, il randagismo canino, anziché sostenere una drastica riduzione delle detenzioni e del commercio degli animali, si alimentano ambigui interessi pubblici e privati in convegni in cui si parla di valenza “economica e occupazionale della “filiera” dei cani””. Oppure, l’animalista radicale troverà inaccettabili strane collaborazioni tra protezionisti e aziende produttrici di cibo per animali che praticano la sperimentazione animale. Nella relazione inversa si snobberanno i discorsi teorici ritenuti paccottiglia utopistica o, al più, perdita di tempo, e, inoltre, alla prima liberazione di qualche animale non si mancherà di protestare contro iniziative che fanno andare indietro di decenni il “prezioso lavoro riformista delle associazioni”. Ma non sarà una posizione generalizzata: certi protezionisti potranno anche vedere di buon occhio le azioni più eclatanti dell’ALF e mantenere un pudico riserbo per non inimicarsi i rapporti con il proprio entourage.
Vale la pena di considerare che i forum su internet, oltre a evidenziare quei conflitti intraprotezionisti di cui si è già parlato, mettono spesso a confronto – aumentando il livello delle tensioni – protezionisti e liberazionisti. I primi, nella loro ansia di donarsi agli animali a prescindere da altre considerazioni, alcune volte alimentano relazioni deformate tra uomo e animale. I secondi rilevano come questo atteggiamento sia spesso imposto dalle situazioni (per esempio dal randagismo, che impone la ricerca di adozioni per gli ospiti dei canili), ma debba essere limitato ai casi in cui non generi effetti secondari dannosi e debba essere invece evitato quando, a fronte di vantaggi momentanei, finisce per stabilizzare relazioni deleterie che si vorrebbero estinguere[4]. Infatti, secondo i liberazionisti, le lotte di certi animalisti si basano su una cultura pericolosa che facendo leva sulle propensioni zoofile esistenti nella società, contribuiscono a alimentarla rendendo più arduo il lavoro importante di domani in cambio di qualche vantaggio piccolo e instabile ottenuto oggi. Naturalmente i protezionisti rimproverano sempre i liberazionisti di non essere concreti e di non avere i piedi per terra poiché rifiutano quella logica dei piccoli passi che, a loro dire, è l’unica che può portare a veri risultati. Scontata la risposta: a tutt’oggi, la logica riformista non è stata in grado di comportare il minimo avanzamento; inoltre genera pesanti sospetti sui motivi che spesso la supportano.
***
Ora dovrebbe essere chiaro come la parola “animalista” sia, proprio per la sua natura polisemica, un freno alla comprensione di quel mondo che dice di occuparsi di animali e della sua collocazione nella società umana. Una parola che ingenera confusioni e spesso, a arte, giochi linguistici di ambiguità sconcertante. Dunque, il lavoro di chiarificazione proposto dovrebbe aver portato a alcuni punti fermi:
1.
la funzione multiuso della parola “animalismo” con
conseguente invito all’uso più moderato possibile e, in
ogni caso, accompagnato da attribuzioni specifiche;
2.
la cancellazione definitiva della zoofilia, intesa come corpo
estraneo, dal campo animalista e la conseguente riconduzione del
campo animalista alle sole polarità
protezionismo-liberazionismo.
Ci sono motivi per credere che mentre il protezionismo, per sua natura, non può aggiungere nulla a sé stesso, il liberazionismo possa ancora esplorare strade nuove. Infatti la natura rivoluzionaria della liberazione degli animali da un giogo millenario rende problematico l’adattamento di tutta una serie di aspetti della prassi liberazionista alla civiltà attuale. Appare perciò evidente il carattere potenzialmente conflittuale e perturbativo di questo movimento anche se a tutt’oggi non è facile comprendere le strade che dovrà percorrere. Il protezionismo, invece, si esaurisce in sé stesso. Forse in futuro, in un clima condizionato da un liberazionismo più dinamico e efficace, potrebbe migliorare molto il ruolo di interlocutore delle istituzioni per le politiche di protezione.
Il lavoro di chiarificazione presentato è importante per più ragioni. Abbiamo suggerito che la relazione
Animalismo ___________ Società
è una relazione distorta in cui chi abita il secondo termine non riesce a identificare con chiarezza la natura di chi abita nel primo. Se ciò accade la responsabilità è in parte degli stessi animalisti incapaci di presentarsi presso la società con la chiarezza necessaria, cosicché non possono lamentarsi di essere sovente confusi con ambientalisti e zoofili. La distinzione nelle due diverse componenti – liberazionista e protezionista – è addirittura inimmaginabile.
Analizziamo un tipico duello che si sviluppa in un forum non animalista. L’esempio tratta un caso specifico, ma rappresenta un paradigma che si ripete quasi senza eccezioni. Una donna posta un pezzo del libro “Gabbie vuote” di Tom Regan rilevandone la pregnanza. Evidenti le sue simpatie. Risponde un signore che di certo non vede di buon occhio gli animalisti e che solleva alcuni problemi classici.
a)
Perché permettere ai gatti di sterminare topi e a noi
no? Chi tiene gatti – sostiene – mica è obbligato
e, adottandoli, si assume la responsabilità della morte del
topo per via indiretta. E poi insiste sottolineando che lo stesso
discorso vale per il cibo: “caro animalista, sei vegan, ma
assumendo un gatto al tuo servizio, essendo lui carnivoro, ti rendi
corresponsabile dell’esistenza dei macelli!”.
b)
Gli animalisti sostengono che non ha senso sperimentare sui
topi in quanto, essendo geneticamente così diversi dall’uomo,
non costituiscono un modello valido per la sperimentazione? Ma
allora, se questo è il loro cavallo di battaglia, perché
si dicono contrari alla sperimentazione sulle scimmie, assai simili
all’uomo per buona parte del patrimonio genetico?
c)
Infine conclude avanzando il sospetto che gli animalisti siano
persone moralmente insensibili che odiano il loro prossimo e
pretendono di imporre la loro visione delle cose.
Subito si avvia un dibattito alimentato da alcuni interventi che prendono di mira tale persona. Dibattito inconsistente, ma significativo perché evidenzia il permanere di una serie di disturbi di comunicazione e di equivoci che non consentono né al pubblico di comprendere concetti essenziali, né agli animalisti di acquisire un profilo riconoscibile. Intanto occorre registrare che gli animalisti (o quelli che si ritengono tali) non riescono a dare al critico risposte coerenti. Essi, palesemente infastiditi, spostano la questione su un piano di attacco personale e/o invocano elementi estranei al discorso. Certo si tratta di individui che si trovano a passare per quel forum per caso e dunque poco documentati, ma la natura delle risposte non è poi così diversa da quella rilevabile in analoghe discussioni sui forum protezionisti. La strategia è sempre la stessa: spostare la questione e aggredire l’interlocutore evitando le risposte sulle cose. Ne consegue che i forum frequentati dai protezionisti sono, dal punto di vista della produzione di idee, semplicemente insignificanti. Anzi, riescono persino a aumentare la confusione. Fatto che non sorprende se si considera che il loro ruolo è privo di prospettive.
Senza seguire il confronto nelle sue defatiganti pieghe è però interessante rilevare le obiezioni di una donna per il loro carattere paradigmatico.
1.
La signora fa subito confusione interpretando l’osservazione
(a) del critico come attribuibile agli zoofili e non agli animalisti
e certamente non dispone di coordinate concettuali abbastanza chiare.
Infatti è strano che non si avveda che il signore chiama in
causa proprio i vegan, ovvero la parte più intransigente del
movimento animalista.
2.
Su (b) sorvola; forse non sa cosa dire perché la
questione sollevata è complessa, e non è ancora
risolta a causa di posizioni che ancora oscillano tra protezionismo e
liberazionismo.
3.
Su (c) respinge l’accusa di fanatismo e prevaricazione e
apre a concezioni buoniste sostenendo che non è vero
che gli animalisti vogliono imporre le loro posizioni. Come spesso
accade, sembra ammiccare al suo interlocutore e finisce per accusare
chi dovrebbe difendere concludendo, che sì, qualche
intollerante esiste, “ma l’intolleranza non ha mai
portato a nulla”.
Questo semplice caso scelto tra mille dimostra il grado di superficialità dell’interpretazione del pubblico che non si documenta, ma evidenzia anche come la condizione catacombale dell’animalismo vero – il liberazionismo – lasci spazio a persone che appannano l’immagine sociale del movimento di liberazione degli animali con affermazioni che non fanno altro che alimentare deleteri luoghi comuni. Un liberazionista avrebbe sostenuto:
1.
Noi non vogliamo animali, ma ci facciamo carico di quelli che la
vostra colpevole distrazione sparpaglia per le strade imponendoci una
tanto pietosa quanto parziale opera di recupero. La loro
alimentazione avviene con gli scarti di quegli animali che voi
continuate a far nascere per poi massacrarli. Quindi noi interveniamo
su due errori vostri – di quella società specista
che difendete con tanto ardore – per tentare di rimediarne
uno.
2.
Per quanto riguarda il secondo punto, le scimmie più
adatte dei topi nella sperimentazione scientifica, la questione della
similitudine o della diversità del patrimonio genetico
dell’animale rispetto a quello dell’uomo è per noi
priva di interesse; diciamo no per motivi di rispetto di diritti che
riteniamo inalienabili e giudichiamo che le vostre pratiche siano
atti criminali puri e semplici a cui le vostre leggi forniscono solo
lo schermo per oscurare la Giustizia.
3.
Infine ammettiamo di avere maturato un certo tasso di
intolleranza verso chi non riconosce criteri elementari di giustizia;
occorre però notare che la nostra intolleranza è
simmetrica alla vostra e deriva dalla non condivisione di valori
fondanti comuni.
Questo avrebbe sostenuto un liberazionista. Si comprende dunque come la confusione di alcuni, i timori e le preoccupazioni tattiche di altri, le infiltrazioni dei protezionisti, sovrapponendosi al marcato disinteresse sociale per i diritti degli animali impediscono all’opinione pubblica di avere chiara percezione della natura rivoluzionaria dell’animalismo liberazionista.
Anzi. Ci sono motivi per credere che persino le istituzioni nuotino nello stesso oceano di ignoranza. Talvolta persone influenti e rappresentative danno vita a svarioni così singolari da accrescere la confusione nell’immaginario collettivo. In una trasmissione di un certo spessore culturale[5], il ministro Pecoraro Scanio, in galante tenzone con un personaggio femminile (che non siamo riusciti a identificare) dello schieramento di Centro-Destra, dopo aver affermato che si doleva che l’interlocutrice appartenesse all’opposizione, si è consolato con fare sornione esclamando “però è animalista!”. Così ha implicitamente suggerito: “lo sono anch’io, dunque abbiamo qualcosa di importante in comune”. Cosa c’è di più caldo e rassicurante per uno spettatore medio che rilevare momenti di pacifica convivialità di persone appartenenti a schieramenti politici diversi? Cosa può, più di una affermazione del genere, far colare un barattolo di miele nel cuore di tanti possessori di gatti e di cani (che spesso non esitano a avvelenare i topi della cantina)? Non è edificante che per tramite degli animali scompaiano le tensioni tra i politici? Almeno per un attimo? Peccato che il clima di relax sia costruito sulla pelle degli animali. Infatti, considerando la disposizione al massimo zoofila del Ministro, si comprende il danno prodotto da certe affermazioni esaltate da un medium potente come la televisione: assegnare per mezzo dell’autorevolezza di un personaggio il contrassegno dell’animalismo a una generica benevolenza verso gli animali significa dare un ulteriore contributo per ostacolare la corretta visione del movimento per i diritti degli animali, visione che con il Ministro in questione e con il partito dei Verdi ha proprio nulla a che fare[6].
Trasformare gli animalisti, cioè i sostenitori di Regan, Singer, Francione, Best, in allevatori di canarini o in amanti di Fido e Fuffi significa non soltanto stravolgere la realtà, ma anche inibirsi la possibilità di comprendere un fenomeno che per il suo portato rivoluzionario potrebbe avere nel futuro un’importanza cruciale. E’ evidente che il contributo dell’animalismo al perfezionamento della società degli animali umani sarà tanto più ritardato quanto più questa ambiguità sarà mantenuta.
Se dunque un giornalista famoso invita nella sua trasmissione una straordinaria studiosa che ha fornito lavori di ampio interesse nel campo della ricerca dell’animalismo confondendola con una pasionaria per i gatti; se un analista brillante di sinistra confonde gli animalisti con quel Bush figlio che si fa accompagnare sempre dal suo cane; se un cacciatore invita i suoi critici a occuparsi di macelli (evidentemente pensando che i suoi interlocutori non sappiano che esistono); se altrettanto fa uno scrittore di fama mondiale a chi rivolge pesanti critiche alla corrida; se tutto questo accade significa che l’animalismo stesso si presenta verso i propri interlocutori con modalità ambigue se non errate. E allora ardua sarà la salita che le due componenti dell’animalismo dovranno superare per incominciare a darsi i ruoli – moderato uno, avanzato l’altro – che ad esse competono.
Note
[1] La speranza che muove queste azioni non si basa sull’ipotesi di una migliore sorte degli animali liberati (a meno che non siano animali ospitabili), ma nell’auspicio che il sabotaggio scoraggi la prosecuzione dell’attività economica dell’imprenditore colpito.
[2] Come sempre si registrano eccezioni e anche il fronte liberazionista non si presenta omogeneo: i liberazionisti alla Screaming Wolf sostengono l’assoluta irrecuperabilità dell’umano considerato una scimmia pervertita.
[3] E’ chiarificatrice la seguente osservazione: “Non altrettanto chiaramente potrà essere tracciata una linea di demarcazione tra le due [cioè le prassi protezioniste e liberazioniste n.d.r.] per quanto attiene alle azioni concrete delle campagne promosse: di fronte a sistemi di utilizzazione di animali così consolidati e integrati (...) protezionisti e animalisti [qui a “animalista” viene attribuito il significato che nel nostro modello abbiamo chiamato “liberazionista”, n.d.r.] si vengono a trovare nella medesima situazione, allo stesso livello minimo di intervento, con un circoscritto margine d’azione”. Per questo motivo, pur puntando gli uni alla regolamentazione, gli altri all’abolizione delle pratiche sotto accusa, possono trovarsi uniti in una situazione in cui entrambi perseguono comuni obiettivi, che mentre per i primi sono ‘finali’ (nel senso che costituiscono già un risultato rispetto all’obiettivo della riduzione della sofferenza, per gli altri sono ‘intermedi’ (passi avanti verso un risultato finale). – Sabrina Tonutti: cit. pag. 49
[4] Le feste per gli animali, per esempio, presentate in modo sbagliato possono promuovere una cultura zoofila al di là delle intenzioni dei promotori.
[5] “... e io pago”. Sabato 13 gennaio – Canale 5
[6] Ovviamente sorgono analoghi dubbi sulla “natura animalista” di un personaggio della destra...